1

Il Mercurion (MepKoùpiov) raccontato da Wilma Fittipaldi

FONTE: https://orsomarsoblues.it/2016/11/mercurion-mepkoupiov-raccontato-wilma-fittipaldi/

Nel Tema di Lucania la regione monastica posta a metà strada tra la Calabria e la Longobardia (Kalabrias metaxy kaì Lagobardias) fu quella del Mercurion, le cui coordinate storiche e geografiche identificabili all’interno del Pollino subirono modifiche per la temperie storica in cui si trovò coinvolta l’area calabro-lucana nei secoli anteriori all’XI. Uno spostamento ulteriore dei limiti del Mercurion si ebbe in direzione nord nel corso dell’XI secolo, conseguente all’inizio degli sbarchi dei monaci lungo il medio corso del Lao, in fuga dalla Sicilia e dalla Calabria meridionale a causa delle incursioni arabe. Gli spostamenti di questi monaci e la loro discontinua permanenza in loco si ripercossero non solo sull’organizzazione religiosa ma anche sull’amministrazione sociale. Nel 952 i monaci del Mercurion, venendo a conoscenza che l’emiro El-Hassan stava per raggiungere il territorio, lasciarono quei luoghi alla ricerca di zone più sicure: San Saba si spostò verso il Latinianon, San Fantino ed altri confratelli nella regione del monte di Bulgheria, in territorio longobardo.

mercurion-cartina-bis

L’origine del toponimo Mercurion ha fatto molto discutere e potrebbe essere riferita a Mercurio (da mercari, commerciare, e da merx, mercé), dio dei commerci e protettore dei mercanti. Non a caso a Cirella, l’antica Cerillae, nella zona costiera non lontana dalle grotte paleolitiche, sorgeva un tempio dedicato a Mercurio, i cui resti sono stati distrutti negli anni Sessanta del XX secolo. Il termine potrebbe riferirsi anche a San Mercurio (vedi Appendice 2) di Cappadocia, precisamente di Cesarea (patria anche di San Basilio). I primi a diffondere il culto del santo furono i monaci bizantini.

II dibattutto termine Mercurion potrebbe derivare dal nome con cui è designato il fiume Lao nel suo corso superiore: nasce dal monte Pollino, alle falde della Serra Vocolio (Viggianello, in provincia di Potenza) come Mercure; dopo pochi chilometri entra in territorio calabrese presso Laino (Cosenza), riceve le acque dei fiumi Battendiero e Jannello, accoglie anche quelle del Fiumara e del S. Giovanni, con cui si immette come Lao in Calabria. Nei pressi del comune calabrese di Orsomarso accoglie le acque dell’Argentino, suo principale tributario, e dopo le spettacolari gole allargando decisamente il proprio alveo e diramandosi in svariati bràcci secondari sfocia nel mar Tirreno presso Scalea (Cosenza). La connessione topografica tra questi luoghi citati ci giunge nell’XI secolo dal trattato di cartografia araba di Abù Abdallah Moammad-ash-Sharif al-ldrisi as Siqill (1059-1164), II Nuzhat al mushtaq fi ikhiraq alafaq (La delizia per chi brama percorrere le regioni), meglio conosciuto come Kitab Rugiar (Libro di Ruggero) che riferisce quanto segue: «II wadi Laniah (il fiume Laino, il Lao) ha le sorgenti avanti a m.rkurì (Mercurio), di là scende alla regione che è di fronte a.d. sqaliah (Scalea) al mare».

Chiesa della Madonna di Mircuro

Chiesa della Madonna di Mircuro

A parere di alcuni studiosi il fiume avrebbe tratto l’idronomo Mercure da Castello, il Kàstron Merkourìon, identificabile in un antico borgo fortificato medievale; di cui restano solo avanzi di muri che sostenevano terrazzamenti, oggi appena visibili sulla strada dove sorge la chiesa di Santa Maria di Mércurì. La citazione del Kàstron si ritrova anche in due aneddoti relativi alla vita intensa di San Saba: 1) il santo era nel monastero di San Michele fondato da lui e dalla famiglia sull’altura della Serra Bonangelo, insieme a quello di Santo Stefano, ad Oriente del ‘castello di Mercurio’, quando scacciò le locuste che infestavano il territorio del Mercurion; 2} «nel ritorno da Laino a quel di Lagonegro» avrebbe guarito «un figliuolo ch’avea il capo attratto, ed un figlioulo del Castello di Mercurio…”.

Secondo lo storico Gaetani, il ‘castello’, menzionato anche nelle Bolle di Urbano II del 1089, di Pasquale III, di Eugenio III e di Alessandro III, è da identificare con la cìvitas Mercuria che l’autore del bios di San Leon-Luca di Corleone cita come collocata presso Orsomarso: sarebbe ad ovest di Castrovillari e presso la località di ‘San Giovanni di Mercurio’.

Gli eventi della provincia monastica del Mercurion sono in rapporto inscindibile con l’antico fiume Lao (Laos, Λαός), presso la cui foce sorgeva l’omonima città distrutta. Fu la prima provincia ad ospitare i monaci in fuga dall’Oriente dove era scoppiata la controversia sulle immagini, presto estesa all’Occidente: dall’Vlll secolo fu inferto un duro colpo alle relazioni tra Roma e Bisanzio, il cui imperatore Leone III Isaurico (717-741) ordinò la confisca dell’intero patrimonio della Chiesa romana in tutti i territori bizantini ed in particolare in quelli del Meridione, decretando poi il passaggio di tutte le diocesi dell’Illirico e di Sicilia dalla giurisdizione romana al patriarcato ecumenico di Costantinopoli.

Ai flussi migratori causati dalla lotta alle immagini, fece seguito l’ondata monastica del X ed XI secolo proveniente dalla Sicilia caduta sotto il dominio arabo, ondata che fece del Mercurion un centro intensissimo di vita ascetica, al pari di quello greco del monte Athos e di Meteora. Molte fonti agiografiche lo paragonano persino all’Olympios, la Sacra Montagna della Bitinia, nonché alla Tebaide. A giusta causa la Calabria fu definita ‘Nuova Tebaide’ dal Barrio e dall’Ughelli, per l’analogia con l’antica regione egizia (con capitale Tebe), dove ebbe origine e fiorì il monachesimo. Fu allora che in questa regione giunsero i nomi più noti dell’agiografia italo-greca come Cristoforo (proveniente da Collesano, insieme ai figli Saba e Macario, e alla moglie Cali, tutti dediti alla vita religiosa), San Vitale di Castronovo, San Leoluca di Corleone, San Luca di Demenna, ai quali si aggiunsero i grandi asceti locali come San Fantino, San Zaccaria, San Luca d’Armento ed altri ancora.

Eremo di San Nilo

Eremo di San Nilo

Su tutti spicca la personalità di San Nilo di Rossano, considerato la figura più rappresentativa della regione calabra, cui fanno corona numerosi discepoli come Bartolomeo, Giorgio e Stefano da Rossano. Le vite di questi santi basiliani relativamente al X secolo ci presentano una regione tutta bizantina. Qui si svilupparono i vari tipi di vita monastica nelle grotte per l’eremitaggio, nelle laure e nei cenobi (la cui realizzazione richiese anni di lavoro). L’asceta Saba di Collesano ne fondò diversi, nei pressi di Santa Domenica Talao, di Papasidero e di Scalea, mantenendo rapporti con altri monasteri indipendenti, come ad esempio quelle dei Marcani  presso Papasidero. I meriti degli asceti calabro-lucani furono molteplici nella trasmissione della cultura greco-bizantina. In tutti i monasteri del Mercurion e del Latinianon si raccolse un notevole patrimonio di manoscritti greci, che purtroppo vennero dispersi, a volte bruciati. Dal bios di San Nilo si apprende che il santo spesso mandava frati a Rossano per rifornirsi di ‘membrane’ (cartapecora per farne pergamene).

Nei monasteri del Mercurion gli studi furono fiorenti. Qui era professata la Regola di San Teodoro lo Studita, pubblicata dal cardinale Angelo Mai (1854): stabiliva che, nei giorni in cui non si lavorava, un segnale del bibliotecario intimava a tutti i monaci di raccogliersi nella biblioteca e prendere un libro da leggere fino al vespro.

San Fantino, particolare della Chiesa di Santo Linardo – Orsomarso

San Fantino, particolare della Chiesa di Santo Linardo - Orsomarso

Simbolo della regione monastica del Mercurion può considerarsi la chiesa di Santa Maria di Mercuri, che sorge non molto distante da Orsomarso tra la fitta vegetazione. La sua scenografica presenza è resa ancora più affascinante per la posizione a strapiombo sulla sinistra del Lao, con muri perimetrali impostati direttamente sulla rupe. La sua sobria linearità sintetizza le tipologie consolidate dalla tradizione bizantina: la navata termina con un’abside semicircolare ad est, dove sorge il sole, metafora della luce divina. Sul lato sinistro di Santa Maria di Mercuri (XI secolo) è presente una dicitura che attesta l’appartenenza di questa chiesa alla diocesi di Temesa (l’antica città citata da Omero, Odissea Libro I, vv. 180 ss.), poi Tempsa. Tra la fitta vegetazione che circonda la chiesa affiorano modesti resti del castello di Mercurio, appena visibili tra la fitta vegetazione sulla sinistra del Lao. Dall’alto della rupe si domina una vasta vallata, il letto del fiume Lao e la confluenza del suo affluente, l’Argentino.

Quanto asserito relativamente al Castello ed alla civitas trova conferma nelle pergamene e nei documenti pontifici che attestano anche la concessione e la conferma di monasteri mercuriensi alla Badia di Cava.

Studiando la storia del territorio descritto ci si imbatte in ipotesi, non accolte, secondo le quali la regione monastica mercuriense sarebbe sorta nella Calabria meridionale, tra Palmi e Seminara (V. Saletta, A. Agresta, fra’ Giovanni da Fiore, N. Leone ed i Bollantisti) o tra Metauria e Tauriana, facendo riferimento ad una costruzione in loco sacra al dio Mercurio o a San Mercurio di Cesarea (tra le contrade di Sidaro e Prato).

L’antico Mercurion corrisponde invece ai comuni attuali del bacino del fiume Mercure e della media e bassa valle del fiume Lao. Ancora oggi le comunità di questo territorio trasmettono una propria spiritualità per la tradizioni di cui sono depositarie, per la vita permeata di fede trasmessa dagli asceti che le hanno abitate.

Copertina del libro della Fittipaldi

Fonte: “LA PRESENZA BIZANTINA NELLA LUCANIA E NEL MERIDIONE D’ITALIA”, di W. Fittipaldi,  Zaccara Editore




BIAGIO CAPPELLI: Quale territorio comprendeva il Mercurion?

Fonte: https://orsomarsoblues.it/2022/08/quale-territorio-comprendeva-il-mercurion/

San Nicola di Donnoso – Orsomarso

La designazione geografica-amministrativa di “valle di Laino” corrisponde a quella di “valle di Mercurio” che appare in alcuni documenti della prima età normanna, tra cui uno del 1065 di Roberto Guiscardo. In quanto ambedue si riferiscono al territorio bagnato dal Mercure-Lao che così veniva a denominarsi una volta dal castello di Laino ed un’altra da quello di Mercurio che rispettivamente lo vigilavano nella parte media ed inferiore. La denominazione, poi di “valle di Mercurio” continuava le altre di “Mercurion” o di “regione di Mercurio” o di “eparchia di Mercurio” date alla illustre cittadella del monachesimo calabro-bizantino che nel secolo X fioriva nella zona. La quale era limitrofa ed in contatto, più o meno intenso e continuo, con gli altri centri ascetici di monte Mula a sudovest, di Aieta, a nord-ovest, di Lagonegro a nord e di Latiniano a nord-est. Da non molto è stata espressa l’idea che il termine “eparchia” applicato al Mercurion non sia stato usato in modo generico, ma significhi che questa regione costituisse una entità militare indipendente, come il governo bizantino usava instituirne nei punti strategicamente importanti, alla quale, inoltre, si assegna una estensione assai ampia. Qualunque, però, possa essere stata questa, l’effettiva area monastica mercuriense appare nel secolo X limitata alla media e bassa valle del Mercure-Lao, ed anzi direi che essa fosse compresa in un triangolo. Isolato, perché a ponente e non toccato da quella arteria di grande comunicazione che fu anche nel medioevo la romana via Popilia, e povero di abitanti anche per la scarsità di terreni coltivabili, ma ricco di memorie bizantine. Triangolo che ha il suo vertice superiore a Laino e gli altri non lontano dalla foce Mercure-Lao, ad Orsomarso ed a Scalea rispettivamente sulla sponda sinistra e destra del fiume.

La mia idea di localizzare in tale senso il Mercurion ascetico nasce in primo luogo da alcuni passi della vita di S. Leon-Luca di Corleone, che escludono dalla predetta zona e i monti ad ovest di Mormanno e il monastero di Vena, l’odierna Avena, ad essi prossimo; inoltre dai riferimenti contenuti nella vita di S. Nilo di Rossano, confermati da documenti posteriori, che inoltre ne aggiungono altri, portano a dover situare l’eremo di S. Nilo e i monasteri di S. Fantino, S. Zaccaria, S. Giovanni, di Castello, del Castellano, di S. Nicola e qualche altro nei luoghi già dominati dal castello di Mercurio ed ora facenti capo al centro di Orsomarso; ed infine, e principalmente, da numerosi e precisi dati offerti dalle vite di SS. Cristoforo, Saba e Macario di Collesano. L’apporto di queste vite, che si integrano a vicenda, è particolarmente prezioso, perché l’autore, Oreste patriarca di Gerusalemme, conobbe a Roma Saba e Macario e fu per qualche tempo in Calabria assistendo ad alcuni degli avvenimenti narrati.

Per Oreste la regione del Mercurion, folta di boschi densi ed estesi in tutte le direzioni, era sita tra la Calabria e la Longobardiaquasi una terra di nessuno nei riguardi dello spazio politico, ma vivendo solo in virtù degli asceti che vi abitavano. Pare anzi dalla breve, ma incisiva descrizione, che voglia essenzialmente indicarsi come Mercurion la media valle del Mercure-Lao, profonda, precipite ed angusta, e intenderla come un “vallo” non fra i temi bizantini di Longobardia e Calabria, bensì tra questo e i territori del principato longobardo di Salerno, indicati in altri testi agiografici come le “parti superiori” — rispetto al “Mercurion” — oppure la “regione dei principi”.

Il postulato della vita ascetica fiorente nella media valle del fiume riceve consistenza dal ritrovarsi sulla sponda sinistra, poco a ponente di Laino e all’altezza del villaggio di Montagna, i ruderi di una cappella medioevale desinente in una abside semicilindrica. Cappella che può essere stata il centro di riunione degli asceti di un monastero eremitico o di una “laura”, viventi nelle grotte naturali aperte sul fianco dei terrazzamenti incombenti; le quali, però, non hanno conservato tracce che possano riportarsi all’età medioevale, neanche quella detta dell’ “eremita” che pure ha dato con alcuni esemplari dell’industria litica ed ossea una grande lastra di pietra che porta incisa una figura di bovide — bos primigenius — risalente al paleolitico superiore. Il ricordo di questo centro si inserisce nel racconto di Oreste circa la vita eremitica nel Mercurion, ma non si identifica con il monastero di S. Stefano fondato da Cristoforo e Macario accanto ad una chiesetta derelitta in una contrada, presso il fiume, che venne bonificata e in parte messa a coltura in quanto questa zona che ancora ne conserva il nome è sita sulla destra del Mercure-Lao un poco a nord-ovest di Papasidero.

Sulla stessa sponda del fiume, ma ancora più a valle e ad ovest del monastero di S. Nicola de Tremulo, nella località omonima non lontana da Papasidero, era stato fondato in una contrada, anch’essa folta di varia vegetazione, da S. Saba e dai familiari e compagni non appena arrivati al Mercurion, il monastero di S. Michele Arcangelo: una volta ricordato dal patriarca Oreste in un contesto che permette situarlo in una località abbastanza vicina a quella occupata dal monastero dei Siracusani, già esistente alla venuta di S. Saba e che può con sicurezza identificarsi con quello di S. Nicola de Siracusa sito a Scalea e appartenuto alla Badia di Grottaferrata. A convalidare ciò sta anche il paesaggio che il racconto di Oreste ha come sfondo e che rispecchia la natura dei luoghi da me indicati; e cioè che il primo dei due monasteri era prossimo ad una campagna fertile, coltivata e popolata di agricoltori e che dall’altro si scorgeva la regione di Aieta e il mare.

La regione monastica mercuriense arrivava così fino al mare, tra la foce dell’Abatemarco e S. Nicola Arcella, dal quale, come altrove, erano arrivati alla fine del secolo IX, i fondatori dei monasteri dei Siracusani, dei Taorminesi e forse anche quelli dei Marcani, costituiti certo i primi due da massicce migrazioni di monaci fuggiti da Siracusa e da Taormina in seguito all’occupazione mussulmana di queste due città avvenuta, rispettivamente, nell‘878 e nel 902. Cose che fecero altri monaci tra cui quelli guidati da S. Cristoforo e dai familiari, i quali giunti per mare nella Calabria centrale si spinsero in un secondo momento fino alle spiagge del Mercurion sbarcando, forse più che a Scalea, nel piccolo porto naturale sottostante all’attuale abitato di S. Nicola Arcella, dove nel secolo XI incontreremo una chiesetta bizantina, meglio protetta dai venti e dalle burrasche per poi insediarsi in prossimità dei monasteri preesistenti, cioè in luoghi non lontani dalla costa, come del resto anche gli asceti viventi intorno al castello di Mercurio e nella zona adiacente; mentre la boscosa e selvaggia media valle del fiume ospitava, tranne qualche eccezione, maggiormente eremiti. Cosa che risulta dalla testimonianza del patriarca Oreste e dal fatto che alla metà del secolo X, intensificatisi gli sbarchi e le scorrerie dei Musulmani, che naturalmente battevano a preferenza le spiagge e le località adiacenti, la regione ascetica del Mercurion incominciò a spopolarsi cercando i monaci luoghi più interni ed impervi e perciò più sicuri: e tra la folla dei fuggenti sappiamo erano S. Fantino, rifugiatosi in Oriente a Tessalonica, S. Nilo, ritornato tra le montagne della sua Rossano, S. Saba e suoi compagni, trasferitisi nell’eparchia di Latinianon.

Nel secolo XI i confini del Mercurion verso settentrione appariscono ampliati, in quanto alcune fondazioni monastiche ricordate in documenti coevi, per gli stessi titoli che portano o per i particolari topografici che le accompagnano, inducono fondatamente a pensare per esse a delle localizzazioni a nord del territorio di Scalea, e precisamente in quello di Aieta e in altri luoghi ancora più settentrionali. A tale riguardo poco, però, si può ricavare dalle carte della prima metà del secolo XI, provenienti dal monastero di S. Nicola di Donnoso, sito presso il castello di Mercurio, che menzionano, senza specificare se rientrassero nella zona del Mercurion, le fondazioni del Patir, di S. Angelo, dell’Apostolo Andrea, di Kur Macario e di Mavrone. Invece uno spostamento dei limiti mercuriensi nella direttrice prima accennata balza dalla già citata carta del 1065, rilasciata da Roberto Guiscardo, nella quale vengono ricordati nelle “valle di Mercurio” i monasteri di S. Nicola dell’abate Clemente e di S. Pietro de Marcanito e la chiesa di S. Zaccaria e di S. Elia, o, forse meglio, le chiese di S. Zaccaria e di S. Elia, di S. Nicola de Digna e di S. Venere.

Il ricordo dei due predetti monasteri non aggiunge nulla alle cognizioni che fin qui abbiamo sui confini mercuriensi, dato che il primo si identifica con quello di S. Nicola di Donnoso, così denominato dal suo fondatore, e l’altro con il monastero dei Marcani, che doveva far gruppo con quelli dei Taorminesi e dei Siracusani: prossimo questo, come si è detto, a Scalea.

Molto interesse presenta invece per quanto si riferisce alle chiese di S. Nicola de Digna con il “porto” dei SS. Elia e Zaccaria e di S. Venere con il “casale” nel quale essa si trovava.

La chiesa di S. Nicola de Digna, infatti, si può legittimamente ubicare di fronte all’isola di Dino sul piccolo porto naturale sottostante all’odierno abitato di S. Nicola Arcella poco a nord del Capo Scalea. Le altre, se si accetta la mia interpretazione del documento del 1065, e che non compariscono nelle successive conferme di questo, intitolate a S. Elia e a S. Zaccaria, ritengo debbano identificarsi con le due chiese dedicate agli stessi santi, che documenti posteriori indicano situate nei pressi dell’attuale abitato di Praia a Mare. In tale modo la regione denominata Mercurion oltrepassava non solo la media e bassa valle del Mercure-Lao, ma ancora i confini settentrionali del suo bacino. Si dedurrebbe che la regione mercuriense tanto indefinita nel secolo X, come si è detto, nello spazio politico, continuasse anche nel secolo seguente ad essere vista e intesa in una astrazione dalla realtà che le poneva confini vaghi e indeterminati. Sì che, sulla base di questo concetto, non sarebbe inverosimile situare la chiesa di S. Venere nella magica cornice del Capo S. Venere dove erano vestigia di abitazioni, sul mare di Maratea che continua quella di Aieta.

Restando, dunque, a quanto, senza preconcetti, si è esposto, i limiti dell’area monastica mercuriense nel secolo X coincidono esattamente con le parti media e inferiore della valle del Mercure-Lao, per poi slargarsi nel secolo XI verso nord e così includere la zona marittima da Scalea, per S. Nicola Arcella e Aieta, a Maratea.

BIAGIO CAPPELLI

Da “MEDIOEVO BIZANTINO NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA”  – Il Coscile




MERCURION – Le fondazioni monastiche, di Biagio Cappelli

FONTE: https://orsomarsoblues.it/2022/05/mercurion-le-fondazioni-monastiche-di-b-cappelli/

ORSOMARSO -Chiesa di Mircuro

Si è detto e ripetuto che i monaci italo-bizantini quasi per abitudine si rifugiavano in ricoveri assai precari: e perché spesso itineranti per costume di vita e per il continuo timore dei Mussulmani e perché anche in età avanzata preferivano vivere in solitudine. Per queste ragioni fino al consolidamento della dominazione normanna, che pose su nuove basi i cenobi basiliani, i monaci non avrebbero dimostrato alcun interessamento non tanto per decorare, quanto per costruire le loro dimore. Tutto ciò è vero, ma solo in parte; poiché varie notevolissime chiese calabresi e lucane colte ed umili, strettamente connesse con il movimento monastico italo-bizantino, documentano una attività costruttiva e decorativa durante la fase basiliana-bizantina; come, per citare qualche esempio, il gruppo omogeneo delle chiese di S. Luca d’Aspromonte, della Cattolica di Stilo e di S. Marco di Rossano, e poi la basilichetta detta di Sotterra a Paola, le chiese di Sant’Angelo a Monte Raparo in Basilicata e di Pozzolio a S. Severina, nonché varie altre minori.

Ora i grandi monaci che giungevano al Mercurion nella prima metà del secolo decimo trovavano la regione popolata di anacoreti, ma insieme folta di nuove e più progredite forme di vita monastica, cioè le laure e i cenobi che non soltanto sono espressamente menzionati dalla Vita di S. Saba di Collesano quanto devono implicitamente ammettersi e per i paragoni che talvolta vengono istituiti tra la vita eremitica e quella in comune e per il bisogno che spesso alcuni dei monaci più perfetti sentono di isolarsi dai loro fratelli per condurre soli o con qualche compagno un più o meno lungo periodo di intensa meditazione. Abbiamo così, a parte l’elogio di S. Nilo per la vita anacoretica, il ricordo dell’eremo dominante il castello di Mercurio, dove lo stesso si chiudeva, della “fovea” o caverna nei pressi di Avena in cui si ritirava S. Leone-Luca, dall’asceterio montano sul Sinni che serviva agli interiori colloqui di S. Saba nel territorio di Latiniano.

Si che questa stessa coesistenza di vari modi di vita ascetica viene a farci chiaramente conoscere come già nel decimo secolo al più tardi, al Mercurion e nelle vicine zone, oltre le grotte naturali od escavate ed i santuari trogloditici, non dovevano mancare piccole chiese ed abitazioni in muratura per i monaci.

L’abbazia di Sant’Angelo al Monte Raparo

Tutto ciò del resto è anche esplicitamente confermato da varie agiografie, che, per quanto talvolta vaghe, spesso rispecchiano lo stato effettivo delle cose, le quali ci narrano di varie fondazioni monastiche la cui costruzione ha imposto vari anni di lavoro od altri particolari che si riferiscono ad opere murarie: quale, per il primo caso, l’erezione di un monastero ad opera di S. Leone-Luca di Corleone, in un luogo indeterminato della regione mercuriense che costò sette anni di assiduo lavoro e per il secondo altri e più numerosi esempi. Così l’altro cenobio dello stesso S. Leone-Luca nei pressi di Avena che risultò a lavoro compiuto di notevole bellezza o le chiese intitolate a S. Michele ed a S. Stefano, innalzata di pianta la prima e restaurata l’altra dai SS. Saba, Cristoforo e Macario di Collesano sulle rive del Lao, dopo aver prima disboscato e ripulito a fondo i siti prescelti ed intorno ai quali sorsero in un secondo momento le abitazioni dei monaci, oppure il cenobio di S. Lorenzo costruito dallo stesso S. Saba presso un preesistente oratorio nella regione di Latiniano, sulla destra del Sinni nelle vicinanze dell’attuale Episcopia, che fu tutto circondato di mura di protezione così salde che resistettero alla violenza di una di quelle tremende piene che il fiume Sinni suole portare. Ciò senza contare che, non ammettendo costruzioni monastiche nel secolo decimo nel Mercurion e nei tenitori limitrofi, non riusciremo mai a spiegarci esattamente perché S. Fantino, maestro di S. Nilo, nel momento di lasciare la regione mercuriense per il Cilento, nella previsione e nell’orrore delle incursioni mussulmane, piangesse non la sola profanazione, ma anche la distruzione totale e l’incendio delle chiese e dei monasteri e dei libri in questi conservati.

PAPASIDERO – Madonna di Costantinopoli

In conseguenza è da presumere che l’aspra regione che vide tante ardue penitenze, macerazioni e preghiere, conservi tra i boschi ed i dirupi delle sue montagne grotte eremitiche e resti degli oratori e dei cenobi sorti nel secolo decimo e nel periodo posteriore, perché la vita religiosa non si spense colà con la partenza di S. Nilo e di S. Saba, ma vi continuò, sebbene rallentata nel suo ritmo.

Questi due grandi santi sembrano inoltre rappresentare i due poli verso cui il Mercurion ad opera del monachesimo italobizantino, che continuò nel medioevo la funzione di mediatore delle correnti orientali ed occidentali già nello stesso luogo venute a contatto nell’antichità classica, si è orientato: sia per il suo rito oscillante tra quello bizantino ed il latino, sia per il diritto romano, longobardo e bizantino che vi fu seguito, sia per il suo dialetto che risente della lingua latina e di quella greca. Si può dire che S. Nilo appartenesse al mondo bizantino, perché tutto il periodo della sua permanenza al Mercurion ha gravitato verso Rossano, dove finalmente è ritornato vivendovi ancora parecchi anni prima di allontanarsene definitivamente e perché anche in terra campana ed in tarda età si proclamava greco. E’ da ritenere che invece S. Saba fosse più imbevuto di idee occidentali e per i vari viaggi compiuti nei territori longobardi dove furono assai richieste ed apprezzate la sua saggezza e la sua esperienza, e per il suo stesso peregrinare per i diversi monasteri bizantini, che a lui facevano capo, siti, o quasi, in terra latina: nella regione di Latiniano, ai margini del Cilento e a Lagonegro.

ROSSANO – Panaghia

I pochi documenti di arte che si notavano o rimangono al Mercurion e nelle zone limitrofe naturalmente risentono di questi diversi influssi. Così le forme architettoniche più antiche, che restano però in scarso numero, si volgono al mondo bizantino cui appartengono anche le denominazioni di alcune chiese, come quella distrutta di S. Lucaio presso Avena, che presenta un titolo tra greco e volgare, o la rifatta parrocchiale di Papasidero dedicata a S. Costantino, che è ignoto alla liturgia latina, o le chiese a Laino dedicate a S. Maria La Greca, che nel nome conserva la sua bizantinità, e a S. Teodoro, probabilmente lo Studita, il cui culto, che è documentato anche a Mormanno, fu importato in Calabria dai monaci bizantini; mentre in tutta la vallata del Lao, da Rotonda a Laino e Papasidero, era diffusa la venerazione per la S. Sofia o meglio la Divina Sapienza.

Già gli stessi titoli di queste fondazioni, ora tutte trasformate o scomparse, palesano un originario impianto di tipo orientale: cosa che viene maggiormente avvalorata dal fatto che qualcuna di esse conservava, come S. Maria La Greca di Laino e S. Sofia di Papasidero, pitture bizantine, e qualche altra cela iconografie e forse anche alzati di gusto bizantino sotto le strutture posteriori. Nella parte più alta di Laino infatti, se oramai rimane solo il ricordo di quella chiesa di S. Sofia in cui i rappresentanti dell’Università del Borgo si riunivano a deliberare quasi per essere ispirati dalla Saggezza Divina, in S. Teodoro, posta sul culmine del monte e battuta senza posa dai venti che urlando salgono dalle circostanti e fresche valli, restano, nella disposizione di alcuni muri esterni interrati, tracce di una primitiva costruzione a croce equilatera.

LAINO CASTELLO – San Teodoro

Ma più di queste forme complesse sono numerose le piccole e semplici chiesette generalmente orientate verso levante, che direttamente si collegano alla tradizione bizantina di Calabria e dell’Italia meridionale in genere secondo un tipo che proviene dall’Asia minore e specialmente dalla Cappadocia. Sono umili e disadorne costruzioni usate come luoghi di riunione e di preghiera dei monaci e dagli eremiti viventi nei cenobi e nelle laure vicine, ma che poi si diffusero numerose e nelle campagne e nei centri abitati a più diretto contatto con la fioritura ascetica.

Qualcuna di esse appare condotta secondo una pianta ed un alzato un po’ fuori dal consueto, come quella di S. Caterina all’estremo limite dell’odierno abitato di Mormanno, composta di una piccola aula quasi quadrata, con ingresso laterale e copertura a travate ad uno spiovente, e di un minuscolo santuario leggermente sopraelevato con volta a botte sotto un tetto a due spioventi, secondo una disposizione cioè che, pur ridotta all’essenziale, ricorda la partizione e l’impianto della tanto più nobile chiesa di S. Marco di Rossano e delle altre affini.

Ma il grappo più numeroso è dato da quelle chiesette ad una navatina rettangolare, porta di ingresso su uno dei lati maggiori e santuario terminante con una o tre absidi. Questo tipo di assai mediocri dimensioni era diffuso per tutto l’istmo di comunicazione dalle marine joniche a quelle tirrene, con i vari esemplari ora tutti scomparsi intorno a Castrovillari, con quelli semidiruti di Cassano e di Morano e gli altri esistenti ed in parte rimaneggiati di Rossano. Se ne ritrovano poi nella regione mercuriense e nelle limitrofe con qualche esempio noto, due ancora inediti nei pressi di Policastrello e di Cipollina e sicuramente altri non ancora segnalati. Quelli studiati si distinguono tra loro per talune particolarità di pianta e copertura e l’impiego di materiale diverso. Così, se una semidiruta chiesetta della vecchia Cirella, le cui rovine sembrano lo scenario immane di una fiaba eroica, era forse in origine coperta con volta a botte e presenta una sola abside e strette finestrelle ad arco a tutto sesto in mattoni a vista, rifacendosi ad un tipo di decorazione prettamente bizantina analoga o simile a quanto si nota nella cattedrale vecchia di S. Severina, nella chiesa di S. Giovanni Vecchio di Stilo, nella ex cattedrale di Umbriatico ed altrove, differenti appariscono quelle di Scalea e di Mercurio.

Quest’ultima, ora dedicata a S. Maria innalzandosi proprio là dove erano il castello di Mercurio ed uno dei tanti monasteri che lo circondavano, è fino ad ora l’unica testimonianza visibile di tutto un passato di eroismo spirituale nel cuore del Mercurion. Essa, che era sforata da una serie di finestrine a feritoia in pietra, ha il tetto a travatura a doppio spiovente ed un’ala con copertura più bassa ad uno spiovente, affiancata alla navatina con santuario absidato e circondato da una banchina continua, sì da apparire, a parte le finestrine e la banchina, propria questa di chiese e cripte siciliane, pugliesi e materane, simile alla chiesa dello Spedale di Scalea. Questa però, come quella di S. Caterina di Mormanno, presenta la piccola navata coperta da uno spiovente più alto e disposto in senso contrario a quello dell’ala parallela  ed è provvista di tre absidi, di cui le laterali ricavate nello spessore del muro perimetrale.

Si potrebbe credere che queste costruzioni a due navate, se non è meglio parlare di un vano aggiunto per le necessità della chiesa con cui comunica per una apertura, costantemente sita presso il santuario, siano proprie del Mercurion e delle zone marginali. Ma anche per questa iconografia ci troviamo innanzi ad un partito architettonico noto al versante calabrese jonico, dato che essa appare in tutto simile a Rossano: e nella bella e colta chiesa della Panaghia, dove anche il vano minore è absidato, e nell’altra di S. Nicola all’Olivo che, per quanto rimaneggiata, serba particolarità iconografiche ed una finestra in pietra con arco a tutto sesto che sembrano riportarla al periodo bizantino.

(Continua)

Da “MEDIOEVO BIZANTINO NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA ”, di Biagio Cappelli – Il Coscile

Foto: Rete