L’Anziano Giuseppe Vatopedinos (II)

dell’Anziano Ephraim, Igumeno del Monastero di Vatopedi

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Sebbene il beato anziano Giuseppe fosse uno straordinario esicasta, considerava la virtù dell’obbedienza il fondamento del monaco. Ecco perché ha disciplinato il suo discepolo in un modo che ad alcuni può sembrare troppo duro, per ottenere lo spirito e i frutti della vera obbedienza. Egli stesso esclamò ed esortava i suoi figli: “O beata obbedienza – e ancora obbedienza – a te appartengono senza dubbio gli scettri. Figlio mio, noi ed il vecchio Arsenio, per gustare questi beni celesti, spargemmo molto sangue nella lotta. Tu solo se sarai diligente nell’obbedienza godrai di uguale grazia con noi. Obbedite figli miei con tutta l’anima. Non c’è altra via più facile e più alta di questa”. Il beato Anziano considerava «veramente grande il mistero dell’obbedienza». Scrive nella sua lettera: “L’obbedienza o la disobbedienza non si fermano all’Anziano, ma attraverso lui egli guarda a Dio… Con altrettanto amore deve guardare all’Anziano come se vedesse un tipo di Cristo”.

Il nostro anziano Giuseppe era molto abile nel lavoro manuale. Costruì la nuova cella del suo Anziano alla piccola Sant’Anna, si impegnò a fare qualsiasi costruzione necessaria per la manutenzione di quel luogo. Una mattina avrebbe costruito una stufa per il grande Anziano, perché ormai il freddo di quell’inverno era diventato insopportabile e l’Anziano era anche molto debole. Ma per qualche inspiegabile motivo tutto andava al contrario, c’era una forte energia demoniaca. Allora il nostro Anziano andò dal grande Anziano per chiedergli cosa stesse succedendo. E gli riferì la cosa: Appena mi ha visto agitato, si è messo a ridere. “Anziano, ho detto, cosa sta succedendo qui? E perché stamattina mi hai detto come una profezia: ‘se finisci? Ma tu sai che per me questo lavoro era un gioco da ragazzi”. “Come hai concluso che fosse”, disse ridacchiando. “tentazione o energia maligna”. “Ecco cos’era”, rispose. E ascolta per conoscere ciò che a te sembra un mistero. La sera, durante la mia preghiera, quando avevo finito e volevo riposare, vidi Satana, che minacciava di portare ostacoli e tentazioni al compimento del lavoro che avevi progettato. Allora dissi al nostro Cristo: “Signore mio, non ostacolarlo, affinché possa dimostrargli che ti amo e che sopporterò il freddo finché lo permetterai”. E questa è stata la ragione, figlio mio, per cui tutto questo è stato fatto, affinché non avessi presto il calore, come Tu avresti voluto preparare per me”.

Il sabato di Lazzaro del 1948, padre Sofronio divenne monaco megaloschema e fu ribattezzato Giuseppe. Ricevette il nome del suo Anziano come onore e benedizione speciale. Il grande Anziano stesso confessò del suo neo-ordinato e omonimo discepolo che era “pieno di Grazia” in quanto “lottatore nell’obbedienza”. Padre Ephraim Katounakiotis celebrò la cerimonia come cappellano. Dopo che il beato anziano Giuseppe l’Esicasta si addormento, il Padre Efraim diventò il nostro gheronda Giuseppe e un amore spirituale inesprimibile univa i due asceti sotto la stessa paternità spirituale.

L’anziano Giuseppe l’Esicasta confidava le sue alte esperienze spirituali al suo discepolo per rafforzarlo spiritualmente e non farsi scoraggiare nella sua lotta. Così gli raccontò della visita ricevuta dalla Santa Theotokos nella cappella di Timios Prodromos nella piccola Sant’Anna, quando era molto depresso a causa di varie tentazioni esterne e calunnie. La Theotokos stessa gli apparve e gli disse: “Non ti avevo detto di porre la tua speranza in me? Perché ti scoraggi? Ecco, prendi Cristo!”. E allora Cristo, il divino Bambino, lo accarezzò tre volte sulla fronte e sul capo e lo riempì di incomparabile fragranza e gioia spirituale. Un’altra volta gli disse di aver visto con la visione della sua anima, come in un televisore, Padre Atanasio che veniva dal Santo Monastero di San Paolo al luogo della loro ascesi. Gli descrisse anche nei dettagli la teoria, le visioni divine rivelategli dalla Grazia di Dio, come la città di Dio, il cielo, il paradiso, ecc.

Diventare sottomessi a un anziano come l’anziano Giuseppe l’Esicasta non era un compito facile. Molti ci hanno provato, hanno fallito e se ne sono andati. Per questo motivo, all’inizio l’anziano non voleva accettare p. Sofronio. Ma una volta accettato, dopo le informazioni divine di cui sopra, fu esigente nei confronti del suo discepolo. E questo, naturalmente, non per motivi egoistici, ma sempre per il beneficio e il progresso spirituale del suo figlio spirituale. Lo educava con severità e con amore, con rimproveri e con ammonizioni. Gli praticava le incisioni necessarie per purificare il suo cuore dalle passioni, affinché potesse iniziare a sperimentare la Grazia di Dio, la santificazione.

Il nostro anziano Giuseppe visse per dodici anni come discepolo dell’esicasta Giuseppe. Nella Piccola Sant’Anna ha vissuto per sei anni. Le condizioni di vita lì erano molto dure e gli orari molto rigidi, nonostante tutti i problemi di salute che erano anche pericolosi per la sua stessa vita, poiché aveva emorragie gastriche ed altre emorragie, tuttavia il giovane monaco mantenne la fede e non si ritirò, lasciando anche la sua salute alla paterna Provvidenza di Dio, seguendo l’esempio del suo Anziano, che vedeva tutto con la fede e non con la ragione. Quando iniziò l’emottisi del nostro Anziano, allora il grande Anziano disse: “Arsenio, è finita. Dobbiamo andarcene. Se anche Giuseppe è malato, cosa faremo qui dentro?”. Charalambos era un sacerdote, il Padre Ephraim era malato, il vecchio Arsenio aveva 70 anni, ora avevano un problema di manutenzione, chi avrebbe svolto i compiti quotidiani, visto che il nostro anziano Giuseppe era quello che li svolgeva?

Nel settembre del 1953, in una notte di luna, presero le loro poche cose e scesero a Nea Skiti in alcune capanne isolate intorno alla torre della chiesa. Lì a Nea Skiti il nostro anziano Giuseppe per un anno, dal maggio 1957 al maggio 1958, servì anche come Dikaios [1]. Già prima della morte del grande Anziano, aveva acquisito una ricchezza spirituale che, per il suo grande amore, diffondeva a chi aveva bisogno di consigli e consolazione. Ci sono lettere di quel periodo che mostrano la grande altezza dell’esperienza spirituale del monaco sottomesso Giuseppe, mentre la sua teologia non derivava da conoscenze accademiche, che peraltro non aveva, ma era la sua esperienza personale.

Quando l’anziano Giuseppe l’Esicasta si ammalò di insufficienza cardiaca nel gennaio 1959, il nostro anziano prese l’iniziativa di curarlo. In una lettera scrive: “Senza consultarlo, perché non me lo permetteva, ho pregato con padre Ephraim e abbiamo portato subito un medico da fuori e, grazie a Dio, sembra che abbiamo vinto la battaglia. Il medico era un bravo scienziato e la diagnosi ha avuto successo. Ora stiamo facendo il trattamento con la prescrizione e i risultati sono buoni. La malattia è del cuore ed è in forma avanzata, ma speriamo di ottenere buoni risultati dove tutto sembrava perduto”.

Infine, l’anziano Giuseppe l’Esicasta si spense il giorno della Dormizione della Vergine Maria, da lui tanto venerata, il 15 agosto 1959, all’età di 62 anni. Dall’ottobre 1959, motivato dai figli spirituali del grande Anziano, il nostro Anziano iniziò a scrivere la sua vita e nel 1963 aveva completato la prima biografia in forma epistolare.

Si stima che più di 1000 monaci e monache discendano direttamente dalla “radice” dell’anziano Giuseppe l’Esicasta. Poiché aveva previsto questo, l’anziano non permise ai suoi seguaci di vivere insieme dopo la sua morte, ma li separò, cosa insolita, ovviamente, nell’ordine athonita. Prevedeva che sarebbero diventati igumeni e gheronda di grandi comunità. Quando si trovava nelle grotte della piccola Sant’Anna, aveva ricevuto la visita di Giovanni Bitsios di Ouranoupolis, nel momento in cui l’anziano aveva acquisito i suoi tre subordinati, l’anziano Giuseppe Vatopedinos, l’anziano Efraim Philotheitis e l’anziano Charalambos Dionysiatis. Il signor Bitsios chiese all’anziano se questi tre giovani monaci facessero parte del suo seguito e l’anziano Giuseppe rispose profeticamente: “Vedi questi ferri di cavallo, Giovanni? Verrà il tempo in cui questi piccoli cavalli riempiranno il Monte Athos di monaci”. Questa profezia si è avverata per Grazia di Dio, nonostante le condizioni e le circostanze logicamente avverse e impossibili. L’anziano Giuseppe l’Esicasta inizialmente era con gli zeloti, ma dopo una visione apocalittica e una voce divina che gli disse che “la Chiesa vivente è nel Patriarcato Ecumenico”, tornò alla comunione con la Chiesa canonica nonostante la guerra e le calunnie ricevute dagli zeloti. Tutto era diretto dalla Divina Provvidenza.

Il fatto che l’obbedienza e il silenzio vadano di pari passo nelle odierne comunità del Monte Athos, che ci sia questo binomio tra obbedienza e silenzio, pensiamo sia dovuto principalmente al beato anziano Giuseppe l’Esicasta e ai suoi seguaci. Il nostro anziano Giuseppe ha ricevuto come autentico sottomesso lo spirito sottomesso e contemplativo del beato anziano Giuseppe l’Esicasta. Anche noi abbiamo ricevuto questo spirito dal nostro defunto anziano Giuseppe e stiamo cercando, con i nostri umili sforzi, di conservarlo e trasmetterlo ai posteri.

NOTA:

[1] Nelle Skiti non c’è la figura dell’Igumeno ma del Dikaios che è un responsabile che è eletto pro tempore dagli altri asceti. Si occupa della Chiesa centrale dove si riuniscono per la Domenica e le grandi feste.




L’Anziano Giuseppe Vatopedinos (I)

dell’Anziano Ephraim, Igumeno del Monastero di Vatopedi

Il venerabile Giuseppe Vatopedinos fece la sua professione all’età di 16 anni, nell’estate del 1937, nel Santo Monastero di Stavrovouni a Cipro. Il motivo del suo ritiro fu il seguente evento. Dopo aver visto un film comico, sentì un grande vuoto esistenziale e una profonda avversione per il mondo. Si trovava da solo su una collina della città di Paphos in quell’ora serale, quando improvvisamente in una luce soprannaturale apparve la figura amorevole e pacifica del Signore.

Cristo stesso gli apparve e gli disse: “È per questo che ho creato l’uomo? L’uomo è immortale”. Dopo questa visione prese la decisione di rinnegare la vita mondana e di farsi monaco. Nella sua cella solitaria prese il nome di Sofronio e visse nel monastero per circa 10 anni. In occasione della questione del calendario che aveva diviso il monastero in due campi, ma essenzialmente guidato dalla provvidenza di Dio e su sollecitazione e benedizione del padre spirituale del monastero, padre Kyprianos, si diresse verso il Monte Athos per una vita spirituale più elevata.

All’inizio del 1947 fu temporaneamente ospitato nel santuario ascetico della Divina Ascensione sotto il Kyriakon della Skete di Agia Anna dal venerabile anziano Nicodemo e dal suo seguito di sei persone. Il gruppo ascetico si impegnava in lavori di falegnameria. La provvidenza di Dio fece in modo che, quando l’anziano Giuseppe l’esicasta ebbe bisogno di una porta di legno per la cappella, che era dedicata al Santo Battista, ne ordinò la costruzione alla squadra dove P. Sofronios alloggiava temporaneamente, ad Agia Anna.

L’anziano Giuseppe l’Esicasta a quel tempo riposava ad Agia Anna Minore con il suo co-praticante Padre Arsenios e Padre Athanasios, suo fratello nella carne, nelle ripide grotte del deserto. Era particolarmente rispettato dai devoti monaci athoniti come maestro di silenzio e di preghiera, come maestro dello stato monastico. Padre Sofronio rimase talmente colpito dalla forma e dalle parole dell’anziano Giuseppe che il giorno dopo chiese all’anziano di prenderlo nel suo seguito, ma l’anziano rifiutò. L’insistenza dell’allora giovane Sofronio convinse il Santo Anziano a promettergli che avrebbe prima pregato e poi sarebbe tornato il giorno dopo per dargli una risposta, che alla fine fu positiva. In seguito si seppe quale rivelazione venne al venerabile Anziano per convincerlo ad accettare il giovane Sofronio come suo primo subordinato. Vide un uccellino che volava e si sedeva sulla sua spalla e, mentre l’anziano lo guardava stupito, questo uccellino aprì la bocca e invece di cantare cominciò a teologizzare. In questo modo Dio gli comunicò che il giovane Sofronio sarebbe maturato spiritualmente sotto la sua guida, sarebbe diventato un vaso della Grazia di Dio e avrebbe ricevuto il dono della teologia.

Si adeguò subito al nuovo stile di vita degli anziani, che era appunto contemplativo. Dalla mattina a mezzogiorno lavoravano per vivere, di regola non potevano prolungare il loro ministero oltre l’ora stabilita di mezzogiorno, poi i vespri con il komboschini – tutti soli – o anche un po’ di lettura. Seguiva il pranzo, o meglio la cena, che terminava alle nove ora bizantina (cioè verso le tre o le quattro del pomeriggio), quindi ricevevano la benedizione dell’anziano e andavano a dormire brevemente. Dopo il riposo si preparavano, se c’era bisogno di qualcosa per il giorno successivo, e poi vegliavano pregando ciascuno nella propria cella fino a mezzanotte. Se avevano la Messa, era dopo mezzanotte; altrimenti facevano un momento di studio spirituale. Poi c’era il momento della comunicazione dei pensieri. Il nostro anziano Giuseppe ci ha raccontato questo: “Così restavamo da soli e dopo la mezzanotte o anche prima andavo dall’anziano, la cui capanna era più lontana da noi, e gli dicevo i miei pensieri e tutto quello che mi succedeva, lui mi rispondeva spiritualmente con tutto quello che era utile per la mia correzione e vita spirituale. Abbiamo mantenuto questa regola e l’hanno mantenuta anche gli altri fratelli quando siamo diventati più numerosi. Ma prima di allora l’anziano non accettava nessuno, e questo, come mi disse, lo mantenne fin dall’inizio”.

Vicino all’anziano Giuseppe, p. Sofronio imparò empiricamente che il monachesimo non è altro che trovare in questa vita un segno del regno dei cieli: l’esperienza della Grazia divina. Egli ha sottolineato di non aver mai dimenticato quei giorni e l’entusiasmo generato da questo stile di vita spirituale che ha rapidamente elevato gli atleti a un alto stato spirituale.

Il desiderio di padre Sofronio era la sua formazione spirituale da un anziano esperto nella vita esicasta, era particolarmente interessato all’acquisizione dell’orazione mentale. «Quando andai, fin dal primo giorno – racconta – l’Anziano mi spiegò dettagliatamente il senso della vita spirituale. In particolare, ha cercato di spiegare il tema della Grazia, che è il fattore principale che deve preoccuparci, perché senza di essa l’uomo non può realizzare nulla. A poco a poco “afferrai” il senso delle sue parole, perché mi avvalevo dell’aiuto di studi e consigli precedenti, ma praticamente ignoravo il modo e il tipo di questo atto. Un pomeriggio, pieno di ilarità e di gioia, l’anziano Giuseppe gli disse: “Vai e stasera ti manderò un “pacchetto” e vedrai quanto è dolce il nostro Gesù”. Dopo essersi riposato, come sempre, iniziò la veglia e si preparò, secondo il suo consiglio, a pregare, concentrando quanto più poteva la mente. Quanto al “pacchetto”, se n’era completamente dimenticato.

Lui stesso scrive di questa esperienza nel libro che scrisse sull’Anziano Giuseppe l’Esicasta: “Non ricordo come cominciò, ma so bene che una volta cominciato non ebbi il tempo di pronunciare il nome del nostro Cristo molte volte che il mio cuore era pieno di amore per Dio. All’improvviso si moltiplicò così tanto che non pregai più, ma mi meravigliai con stupore per questa effusione d’amore. Volevo abbracciare e adorare tutta la gente e tutta la creazione e nello stesso tempo pensavo così umilmente che mi sentivo sotto tutti il creato. Ma la pienezza e la fiamma del mio amore era verso il nostro Cristo, che sentivo presente, ma non potevo vederlo, per correre ai suoi piedi pieni di grazia e chiedergli come fa a infiammare così i cuori e a rimanere nascosto e sconosciuto. Ho avuto, allora, una sottile informazione che questa è la Grazia dello Spirito Santo e questo è il Regno dei Cieli, che Nostro Signore dice essere dentro di noi e ho detto: “lasciami restare, mio ​​Signore, non ho bisogno di nient’altro”. Ciò durò per un bel po’ di tempo e lentamente ritornai al mio primo stato. Aspettavo con ansia, con impazienza, il momento giusto per andare dall’Anziano per chiedergli cosa fosse successo e come fosse successo. Era il 20 agosto e splendeva la luna. Corsi e lo trovai fuori dalla sua cella che camminava nel suo piccolo cortile. Appena mi vide, cominciò a sorridere e prima che mi confidassi con lui, mi disse: “Hai visto quanto è dolce il nostro Cristo? Capisci ora praticamente quello che continui a chiedere? Ora affrettati a fare di questa grazia la tua proprietà e a non lasciartene derubare per negligenza”

L’anziano Giuseppe l’Esicasta aveva raggiunto il livello di essere in possesso della Grazia divina e di poterla trasmettere ai suoi discepoli. L’anziano Ephraim di Katounaki confessò che “non si poteva mai avere abbastanza della Grazia che l’anziano ti dava”. Qualcosa di insolito, impossibile anche per molti anziani contemplativi. Qualcosa che dimostra la massima fierezza davanti a Dio e rivela l’autentica, vera paternità spirituale in tutto il suo splendore. L’anziano che possiede ricchezze spirituali le consegna al discepoli, e quest’ultimo riceve questa eredità divina nel timore di Dio, affinché la conservi e la trasmetta a sua volta ai posteri. Questa è la quintessenza della tradizione athonita.

Dio ha sigillato le parole dell’anziano Giuseppe l’Esicasta nel suo buon subordinato. Il nostro anziano Giuseppe ce ne ha parlato. Inoltre, in quelle cose in cui esitava e tuttavia cedeva, per evitare che sorgesse una lite o una lotta da parte nostra, incontrammo così tanti ostacoli che era impossibile portarle a termine senza eccessivi sforzi e problemi”.

L’anziano Giuseppe si prese sempre cura spiritualmente dei suoi figli, non perse l’occasione di insegnare loro la carità, l’abnegazione, l’umiltà, l’obbedienza, il silenzio, la preghiera mentale e la quiete. In un’occasione mandò padre Sofronio carico di un sacco di grano da Mikra Agia Anna al Santo Monastero di Esfigmenou per macinarlo e riportarlo senza parlare per strada, senza mangiare o restare da nessuna parte. In totale avrebbe camminato almeno 16 ore. I padri lo servirono e insieme alla farina gli donarono un sacchetto di pesce salato per la benedizione dell’Anziano. Quando tornò al loro eremo, l’anziano Giuseppe gli disse: “Ho una lettera per la Lavra. Siediti, mangia e vai subito a prenderla. Il nostro Anziano compì senza riluttanza questo martirio. Altre otto ore di cammino.

Tuttavia, il nostro anziano Giuseppe testimonia i frutti di questa obbedienza e di questa sapienza: “Di notte andavamo a dire la nostra preghiera. Non avevamo il tempo di fare la nostra croce e di dire l’introduzione “Adoriamo” che subito la mente era presa. La mente era presa e così per quasi due ore non c’era più, non sentivamo la legge di gravità. E lentamente questa situazione si è ripresentata. E quello è stato il frutto di questo piccolo amore e prontezza per la fatica, non possiamo mentire. Questa è la realtà. Non ragioniamo… Quanta nostalgia ho di quei giorni, in cui abbiamo sopportato tanto esercizio di obbedienza e di abnegazione e il Signore «ha riversato il torrente della sua misericordia» sulla nostra anima umile! Con quanta ansia aspettavo di sentire il comando dell’Anziano e mi precipitavo avanti con tutta la mia ansia, senza mai alcun giudizio, dubbio, commento, timidezza, il “se” o il “forse”! Non esagero quando dico che per molti giorni e mesi ero costantemente pieno di sudore, senza provare alcun disagio o ansia per questo, poiché molte volte anche la legge di gravità era impercettibile, perché tutto era integrato e alleviato dalla testimonianza della grazia, dell’obbedienza e dell’abnegazione; abbiamo sentito costantemente il profumo della risurrezione e dell’eternità».

Testo originale in greco




Anziano Iosif l’Esicasta: dalla lettera 23

“La grazia precede sempre la tentazione per informare e dire: “Sta pronto e chiudi le tue porte”. Quando scorgi consolazione nel tuo cuore, illuminazione nella tua mente e contemplazione, sta subito pronto. Non dire: “Mi è stato dato riposo, che possa goderne!”, ma caricando le tue armi – lacrime, digiuno, veglia e preghiera – poni come sentinelle i sensi onde custodire la mente. In che modo avverrà dunque la lotta? Coi demoni? Con gli uomini? O con la natura del tuo stesso io? Non ti assopire fino a quando non suona la tromba della battaglia e, iniziato il combattimento, ti si rivelerà la tua lotta e la vittoria. Devi sicuramente temere quando la grazia opera: in te. Al contrario, quando vedi che ti soffocano da ogni parte le tentazioni e le tribolazioni, allora rallegrati”




Anziano Iosif l’Esicasta: Lettere 18

Lettera 18.

E ANCORA MI RIALZAI E ATTACCAI BATTAGLIA CONTRO TUTTI GLI SPIRITI

Ciò che ti è capitato, figlio mio, mostra che hai molta vanagloria, che hai una grande opinione di te stesso. Per questo non hai uno spirito di condiscendenza e di umiltà. Ma credi di non cadere più, di non fare disobbedienza, di non subire cambiamento, ma di vivere una vita inalterabile, ciò che non è della natura degli uomini.

Ti è stato già detto che soffri di una grande mancanza di conoscenza, la quale genera l’arroganza. Fa’ attenzione dunque, figlio mio, e fuggi l’ignoranza, la madre di ogni male. L’ignoranza del bene è tenebra dell’anima. Se l’uomo non combatte col Cristo, che è la luce, non può essere riscattato dal principe della tenebra, il diavolo.

Ecco, mi è testimonio il Signore che fa perire i mentitori con le (loro) menzogne, sono venticinque anni e più che, in questo mondo, versando sangue lotto furiosamente contro i demoni. Sono disceso nel profondo del mare, spoglio di piacere a me stesso e della mia volontà, per poter trovare la preziosissima perla (Mt 13,46). Ho soggiogato lo stesso satana con tutto il suo esercito, scienza ed arte. E avendolo incatenato per mezzo dell’umiltà gli chiedo: “Perché hai tanto furore contro di noi e ci combatti con tanta ira?”. E mi dice: “Per poter avere molti compagni nell’inferno e per vantarmi di fronte al Nazareno che io non sono l’unico trasgressore, ma ecco molti altri sono assieme a me!”.

Di nuovo poi sono asceso ai cieli tramite la grazia e la contemplazione spirituale e ho visto le bellezze ineffabili del Paradiso, quelle cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano (1 Cor 2,9) .

Dopo tutto ciò la grazia mi fu tolta un po’ e i miei piedi per un poco vacillarono (Sal 72,2). Caddi in una leggera negligenza, il sonno mi fece suo prigioniero e mi privò di molti beni. Ma di nuovo dopo un po’ mi rialzai, attaccai guerra e sanguinosa battaglia e, dopo aver ancora vinto, precipitai nella sonnolenza.

La madre di ogni male, la negligenza, mi mangiava ancora le ossa. Ma mi rialzai un’altra volta e attaccai battaglia contro tutti gli spiriti.

Per otto anni, all’inizio, lottai contro le passioni carnali. Non ho mai dormito (steso) sul fianco ma in piedi o seduto. Mi bastonavo due o tre volte al giorno, gemendo e piangendo, affinché Dio avesse pietà di me, togliendomi la guerra. Fino a quando Colui che è tutto misericordioso ebbe compassione di me e tolse di mezzo il furore di satana. Ed ora ti dipingo in breve i miei innumerevoli patimenti, ne do a te una goccia dal mare.

Durante tutte le notti battaglioni di demoni, con legni, scuri e qualunque altra cosa ci può essere di nocivo, mi tormentarono furiosamente per otto anni interi. Chi (tirava) la mia barbetta allora piccola, chi i capelli, i piedi, le mani, e ogni specie di mali e di tormenti. Tutti gridavano: “Soffocatelo! Omicidio!”. Solamente col nome di Cristo e della nostra Tuttasanta scomparivano e la loro potenza veniva dissolta. Infine il Signore mi usò misericordia e mi estrasse dalle profondità e del pozzo di pena. Ed ora, figlio mio, divengo stolto (2 Cor 12,11) nell’annunciarti queste cose, ma te le ho dette, e continuo a dirti le seguenti, credendo di procurarti utilità.

Adesso dunque, da giovane (qual ero), nel fiore dell’età, mi sono invecchiato cosi da sembrare centenario a causa delle sofferenze per i molti cambiamenti. Prima di tutto tramite il lavoro delle mie mani, come hai visto da ciò che ti ho mandato, guadagno il mio pane con sudore (Gen 3,19; 1 Cor 4,12; 1 Ts 2,9; 2Ts 3,8). Vengono da diversi monasteri o skiti dell'(Aghion) Oros e, per grazia divina, diciamo quelle cose elargite dal Signore. per l’utilità (di tutti).

Lavoro mentalmente[1] e adempio con esattezza i miei doveri monastici. Nel corso delle notti, per diverso tempo, quando la mente si è affaticata nella preghiera, scrivo non poche lettere, con le quali i cristiani in molti modi mi chiedono un beneficio. E dopo tutte queste cose che hai sentito, cado (vittima) dell’abbattimento perché non faccio la volontà del mio Signore. Dico piangendo: Chi conosce se quello che faccio è gradito al mio Signore o se mi inganno, (se) predicando agli altri, io rimango riprovato (1 Cor 9,27)? Non è manifesta a me infatti la divina volontà del mio Signore. Chi ha conosciuto la mente del Signore (Rm 11,14), o chi starà davanti a Lui, se osserva i peccati (Sal 129,3)?

Tu dunque, figlio mio, per una disobbedienza hai gettato via tutte le armi? Per la parola di un demonio abdichi alla lotta? Dove (mai) hai visto tu l’inverno? Dove tempeste di neve? Dove schiere e reggimenti di demoni che ti minacciano? Ti spaventi per la minaccia di un solo demonio? Ma non credere mai a quelle cose che dice! Poiché è mentitore dall’inizio (Gv 8,44) e non ha nessuna forza contro di noi, se non solo quando siamo trovati nella superbia e nell’ignoranza. Costoro (i demoni) minacciano solamente e ci atterriscono, ma non che abbiano potere. Infatti, se non avevano il potere di andare nei porci (Mt 8,31), come ci tenteranno senza il permessso del Signore?

Impara dunque ad avere un pensiero umile e non temere per nulla le parole di un uomo indemoniato. Abbiamo una chiara testimonianza del nostro Signore quando, avendo parlato una volta il demonio e avendo dichiarato “sappiamo, chi sei” (Mc 1,24), sebbene avesse detto la verità, il Signore lo ridusse al silenzio mostrando a noi, con questo esempio, che non dobbiamo ascoltare parole di indemoniati, per quanto possa sembrare dicano la verità. Poiché per mezzo della bocca dell’uomo parla il demonio. E, ora dirà la verità, ma più tardi mentirà, perché è mentitore dall’inizio e non rimane nella verità (Gv 8,44). Se una persona si lascia andare a credere a queste cose, in breve tempo si imbatterà nelle derisioni e nello scherno dei demoni. Ritorna dunque in te stesso e scaccia le loro parole dalla tua mente. L’umile, anche se cade miriadi di volte, di nuovo si rialza e (la sua caduta) gli viene computata a vittoria (Pr 24,16). Il superbo invece, subito dopo essere caduto nel peccato, cade anche nello scoraggiamento; e indurendosi non vuole più rialzarsi. Lo scoraggiamento è peccato mortale; in esso il diavolo si rallegra più di tutto. Ma viene dissolto subito con la confessione.

Allora, figlio mio, fatti violenza per ogni opera buona. Se non possiamo fare il bene e cadiamo, non restiamo tuttavia nella caduta, ma rialziamoci e chiediamo perdono al nostro Salvatore! E Lui, dal momento che ha detto al suo discepolo di perdonare il colpevole settanta volte sette al giorno (Mt 18,22),

(Lui che è) lo stesso legislatore, come non ci perdonerà? Per cui non temere. Ma per quante volte cadi, rialzati, e chiedi il perdono che si conviene. E Lui, buono com’ è, non mantiene il risentimento, non conserva l’ira: “Quanto dista l’oriente dall’occidente, ha allontanato da noi le nostre colpe” (Sal 102,12).


[1] È il lavoro della preghiera del cuore fatta mentalmente.




“Il mio anziano Iosif l’Esicasta” (1)

1.

Nel mondo

I suoi primi anni

La sua famiglia

L’anziano Iosif è nato nel villaggio di Lefkes sull’isola di Paros, la terza isola più grande delle Cicladi[1]. L’isola è nota per la meravigliosa Chiesa dei Cento Archi, costruita nel IV secolo da Sant’Elena. È noto anche per i suoi famosi monasteri di Longovardas e Thapsanon del santo anziano Philotheos Zervakos.

Il nome della madre dell’anziano Joseph era Maria Rangousis. Nacque a Lefkes nel 1871. Quando aveva circa diciassette anni, sposò il suo primo marito, Leonardo Zoumis, i cui genitori erano rifugiati da Odessa, in Russia, che ora fa parte dell’Ucraina meridionale. Leonardo e Maria ebbero due figli: Michele e un neonato che morì prima che fosse battezzato. Leonardo morì quando aveva solo vent’anni e così Maria si risposò nel 1890. Il suo secondo marito fu George Kottis (1867-1907), un contadino analfabeta. Era povero ma molto pio ed estremamente modesto, e trasmise queste virtù ai suoi figli.

George e Maria hanno avuto nove figli. Le prime tre morirono giovanissime: Marouso (la prima) visse fino al 1901 circa, Ergina (la prima) morì prima del 1896 e un’altra ragazza morì prima del battesimo. Gli altri sei erano vissuti e si chiamavano, in ordine di età: Ergina (la seconda), Emmanuel, Francis (l’anziano Giuseppe), Leonardo, Marouso (la seconda) e Nicholas (il futuro p. Atanasio). Francesco nacque il 2 novembre 1897[2].  Nel 1907, appena nato Nicola, il padre morì all’età di quarant’anni.

La loro piccola casa nel villaggio era di fronte al luogo in cui oggi si trova la biblioteca pubblica. Otto piccoli gradini di pietra conducevano all’ingresso di questa casa, che consisteva solo di due piccole stanze, ciascuna di circa cento piedi quadrati (o nove metri quadrati). In queste due stanze vivevano i genitori e i loro sette figli. Qui visse Francesco per circa diciassette anni. È straordinario che così tante persone siano riuscite a vivere in uno spazio così piccolo, anche se è vero che le piccole case spesso portano più calore, unione, amore e gioia in una famiglia. Oggi quella minuscola casa è stata trasformata in un piccolo negozio di souvenir di proprietà della pronipote dell’anziano Iosif.

La madre dell’anziano Iosif, Maria, seduta nell’angolo in basso a destra (con una sciarpa in testa) con i suoi fratelli e parenti

Sua madre

La madre dell’anziano Iosif, Maria, era veramente una persona devota: modesta, con un naturale senso di autocritica e un senso della propria peccaminosità, doti che coltivava nei suoi figli. Aveva semplicità e purezza d’animo e talvolta aveva anche delle visioni quando andava in chiesa, sia durante una funzione religiosa che quando era lì solo per pulire.

Il giorno in cui Francesco è nato, ha avuto una visione mentre giaceva a letto con il suo neonato. Le sembrò che il tetto della casa si aprisse e apparisse un giovane pieno di grazia. Era così brillante che riusciva a malapena a guardarlo. L’angelo si avvicinò al bambino e iniziò a scrivere il suo nome su una tavoletta. Maria si chiese cosa stesse facendo e chiese preoccupata:

“Che stai facendo lì? Perché stai scrivendo il suo nome?

“Il re ha bisogno di lui”, rispose l’angelo.

“No! Non puoi prendere questo bambino. Lui è mio!”

“Te lo dico, è scritto”, rispose l’angelo mentre le mostrava una lista.

Poiché i suoi primi figli erano morti giovani, lei ipotizzò che l’angelo volesse prendere prematuramente anche Francesco. Ogni volta che ricordava l’aspetto dell’angelo, piangeva inconsolabilmente con dolore materno. Tuttavia, mentre il tempo passava e Francesco cresceva senza morire, si rese conto che l’iscrizione significava che il Re del Cielo stava chiamando Francesco nell’esercito dei suoi angeli terreni, al monachesimo.

In un’altra occasione ebbe una spaventosa visione dell’inferno. Appena riprese i sensi, disse al piccolo Francesco:

“Oh! Figlio mio, cosa ho visto!

“Cosa hai visto, mamma?”

“Ho visto che sono andata all’inferno e le persone tormentate bollivano come fagioli che saltano su e giù in una pentola; continuavano a entrare e uscire dal fuoco infernale.

Era una persona semplice. Un giorno, quando Francesco era più grande, la portò in un cinema per mostrarle un film per la prima volta nella sua vita. Quando il film ha raffigurato una stanza in fiamme, ha pensato che fosse reale e ha iniziato a gridare: “Fuoco! Fuoco!”

Il villaggio di Lefkes nel 1896 dove nacque l’anziano Iosif.

La vita da bambino

Sant’Arsenio del Sacro Monte (1800–1877) aveva lasciato una grande influenza sull’isola di Paros quando il piccolo Francesco vi stava crescendo. Sant’Arsenio aveva lavorato con eccezionale zelo come confessore per la formazione spirituale del popolo di Paros. Il popolo pio dell’isola lo amava così tanto da onorarlo come santo anche quando era ancora in vita.

Un altro fulgido esempio di santità che influenzò direttamente Francesco e la sua famiglia fu il sacerdote del loro villaggio, p. Giorgio Aspropulos (1863-1929). Quando p. George ha servito la liturgia, il suo volto è cambiato ed è diventato così radioso che la gente non poteva guardarlo. Ricordando quelle liturgie, il suo cantore disse poi: “Che momenti sublimi! Avevamo la sensazione che stesse vedendo dei santi e che gli angeli lo stessero ministrando. Quando serviva, nessuno osava parlargli perché non volevano interromperlo quando era completamente assorto nella preghiera a Dio”. Quando p. Giorgio si addormentò nel Signore, il suo corpo era profumato “come l’odore di un incenso pregiato non di questo mondo”.[3]

Fu in questo clima strettamente ecclesiastico che crebbe il piccolo Francesco. Ricordò che era giovane e la gente gli diceva: “Figlio, è la Grande Quaresima; non giocare così tanto; non parlare o ridere. Questo è un periodo sacro dell’anno.

La famiglia di Francesco aveva regole ferree e suo padre a volte si arrabbiava con lui per la sua vivacità. Infatti, una volta suo padre decise che gli avrebbe dato una bella sferzata e disse: “Sculaccerò Francesco per quello che ha appena fatto!”

Il piccolo Francesco era sì vivace, ma era anche molto ubbidiente e intelligente. Quando ha sentito quello che aveva detto suo padre, ha pensato tra sé: “Dal momento che vuole sculacciarmi, mi sculaccerà”. Così si avvicinò con calma a suo padre e chinò umilmente il capo in modo che suo padre potesse disciplinarlo, mostrando la sua completa obbedienza. Suo padre, un uomo fedele e di buon cuore, fu così commosso dal gesto del figlioletto che disse: “Dai, vattene di qui! Non posso nemmeno sculacciarti a causa dell’umiltà che hai! Naturalmente Francesco non aspettò che suo padre cambiasse idea e se ne andò immediatamente. Più tardi disse allegramente ai suoi fratelli: “Per umiltà sono riuscito a non essere sculacciato da mio padre!”

Così, fin dalla giovane età comprese la grandezza, la potenza e il valore dell’umiltà cristiana. Questa virtù, come vedremo, pose le basi per i doni spirituali che avrebbe poi acquisito come monaco. Il 16 agosto 1904, quando aveva sette anni, Francesco si iscrisse alla prima della scuola elementare del suo paese. La sua insegnante era Sophia Pempsiadis-Kantiotis, la madre del vescovo Augustinos (1907–2010), il famoso metropolita di Florina. Francesco era eccezionalmente intelligente e imparò le lezioni rapidamente, con poco sforzo. I registri scolastici, tuttora conservati, dimostrano che riceveva sempre ottimi voti. Se avesse proseguito negli studi, è certo che avrebbe fatto molta strada nel mondo accademico. Sfortunatamente, però, quando finì la quarta elementare suo padre morì e lui dovette lasciare la scuola per aiutare sua madre ed i suoi fratelli.

Difficoltà familiari

Sulla piccola e arida isola di Paros, la vita era sempre difficile. Gli industriosi isolani riuscirono a sopravvivere coltivando i loro magri orti principalmente con cereali e verdure, allevando bestiame e pescando. È così che è sopravvissuta anche la numerosa famiglia di Francesco, ma dopo la morte del padre le cose sono diventate molto più difficili. Fu un duro colpo per la famiglia e soprattutto per sua madre Maria. La sua croce era pesante; all’età di trentasei anni aveva già perso due mariti e quattro figli!

Naturalmente, l’improvvisa perdita di suo padre ha causato a Francesco un grande dolore. Tuttavia, con il passare del tempo ebbe un effetto benefico sulla sua giovane anima. Il piccolo Francesco iniziò ad aiutare la mamma quanto più poteva per alleggerire il dolore e le difficoltà della vedovanza. Un ragazzino ordinato e disciplinato, fu coinvolto in vari piccoli compiti per aiutare la sua famiglia. Così, la sua giovane anima era segnata dalla compassione, una caratteristica che lo accompagnò per tutta la vita. In effetti, il futuro anziano Iosif divenne un uomo di grande amore.

Tanta era la povertà della famiglia che nel 1914 Maria decise a malincuore di mandare Francesco, allora diciassettenne, e il fratellino Leonardo, solo dodicenne, ad Atene per lavoro. A Paros non c’era modo per loro di guadagnarsi da vivere, mentre nella capitale c’era speranza che trovassero un lavoro.

Per quanto riguarda il resto dei fratelli di Francesco, si sposarono tutti tranne Nicholas, che in seguito sarebbe diventato monaco accanto a suo fratello. Altre due parenti di Francesco si fecero monache. Una di loro era la figlia di Ergina, il cui nome era Barbara e in seguito divenne badessa a Vryeni. Le voleva molto bene e nelle tante lettere che le inviava la chiamava: “anima della mia anima”. L’altra sua parente che si fece suora fu la moglie di Leonardo, Maria. Alla sua tonsura ricevette il nome di Melanie e visse molti anni fino al suo riposo nel 1997.


[1] L’isola è lunga circa tredici miglia e a quel tempo aveva una popolazione di 9.000 abitanti.

[2] La data precisa di nascita dell’anziano Joseph e dei suoi fratelli è stata trovata scritta sul retro di un’icona cimelio di famiglia di San Giorgio. Questo è un modo antico e tradizionale con cui le famiglie (soprattutto nelle zone rurali) tengono traccia delle date di nascita dei propri figli. Inoltre, in un certo senso, poneva i loro figli sotto la protezione del santo raffigurato nell’icona

[3] Triantafyllou, Protopresbyterou Georgiou, Papa-Georgis Aspropoulos, Santuario delle Sante Donne “Panagia la Mirtidiotissa” di Thapsana Paros, 2009, pp. 56-57.




Anziano Iosif l’Esicasta: Lettera 10

Lettera 10.

LA GRAZIA PRECEDE SEMPRE LE TENTAZIONI COME PREAVVISO PER TENERSI PRONTI

Si può dire prassi non quando uno prova e poi si ritira. “Prassi” invece si chiama quando uno entra e si batte sul terreno di lotta; quando vince, quando è vinto, guadagna e perde; cade e si rialza; quando solleva tutto e accetta la lotta e la battaglia fino all’ultimo respiro. E che mai dia licenza al suo io finché non abbia esalato l’anima. Ma, quando sale in cielo, deve aspettarsi, il giorno seguente, di scendere nell’Ade. Senza dire che anche nello stesso momento può avvenire la discesa. Per questo non deve meravigliarsi dei cambiamenti, ma avere davanti agli occhi ambedue le situazioni come proprie (al suo stato). Sappi che la grazia precede sempre le tentazioni come preavviso per tenersi pronti. Subito, quando vedi la grazia, cingiti (i fianchi) e di’: “E’ giunto l’annuncio di guerra! Fa’ attenzione, o argilla, da dove il maligno attaccherà battaglia”. Spesso giunge alla svelta e spesso dopo due o tre giorni. Ad ogni modo, verrà, e che le barricate siano solide: confessione ogni sera; obbedienza allo ieronda; umiltà e amore verso tutti. Così facendo alleggerisci la tribolazione.

Ora, in quanto alla questione se la grazia giunge prima della purificazione e altre cose simili, chiedo attenzione e mente pura. La grazia si distingue in tre ordini: purificante, illuminante, perfezionante. Così anche la vita: secondo natura, al di sopra della natura, contro natura. In questi tre ordini sale e scende. Tre sono anche i grandi carismi che riceve: contemplazione, amore, impassibilità. Dunque: nella “prassi” coopera la grazia purificante, la quale aiuta alla purificazione. Per chiunque si è convertito, la grazia è ciò che lo ha spinto a conversione. Qualunque cosa faccia è opera della grazia, anche se colui che la possiede non lo sa; tuttavia, è essa che lo nutre e lo guida. Analogamente al profitto che riceve, sale o scende o rimane nello stesso stato. Se ha zelo e rinnegamento di sé stesso, sale alla contemplazione, che fa posto alla illuminazione nella divina conoscenza e ad una parziale impassibilità. Se lo zelo e lo slancio si raffreddano, si ritira pure l’energia della grazia.

Riguardo a colui che prega con intelligenza, come mi dici, è colui che sa che cosa prega e che cosa chiede a Dio. Colui che prega con intelligenza non parla a vanvera, non chiede cose superflue, ma conosce il luogo, il tempo e il modo, e chiede ciò che è adatto e utile alla sua anima. Comunica spiritualmente col Cristo, lo precede e lo tiene stretto. “Non ti lascerò – dice – in eterno”. Così, colui che prega chiede la remissione dei Peccati, chiede la misericordia del Signore. Se chiede cose grandi prima del tempo, il Signore non gliele dà. Perché Dio le dà con ordine. Se tu lo importuni col chiedere, dà via libera allo spirito dell’inganno, dissimula la grazia e ti inganna mostrandoti cose invece di altre. Perciò non è conveniente chiedere cose al di là della misura. Ma se anche si è ascoltati prima della purificazione, quando (il dono concesso) non è nel giusto ordine, (allora) insorgono serpenti e causano danno. Tu sii puro nel convertirti, pratica l’obbedienza e la grazia verrà da sola senza che la chieda.

L’uomo come un infante balbuziente chiede a Dio che si compia la sua volontà santa. Dio, Padre buono, gli concede la grazia, ma gli concede pure tentazioni. Se sopporta le tentazioni senza mormorare, ottiene un aumento di grazia. Quanta più grazia riceve, tanto aumento anche di tentazione. I demoni, quando si avvicinano per attaccare battaglia, non si dirigono là dove tu li vincerai senza mormorare, ma provano dove hai una debolezza.

Dove tu assolutamente non te l’aspetti, là installano la roccaforte. E, quando trovano un’anima fragile e una zona debole, lo vincono sempre e lo rendono colpevole.

Chiedi grazia a Dio? Invece della grazia ti dà la tentazione. Non resisti alla guerra e cadi? Non ti concede aumento di grazia. Di nuovo chiedi? Di nuovo la tentazione. Ancora sconfitta? Ancora privazione. Fino alla fine della vita. Devi dunque uscirne vincitore. Resisti alla tentazione fino alla morte! Cadi (pure) nella battaglia, ridotto a cadavere, gridando paralizzato a terra: “Non ti lascio, o dolcissimo Gesù! Non ti abbandono! Rimarrò inseparabile da te per sempre, e per amore tuo renderò l’ultimo respiro nello stadio”. E all’ improvviso si presenta nello stadio e fa sentire la sua voce in mezzo alla tempesta: “Sono qui! Cingi come un prode il tuo fianco e seguimi!”. E tu, tutto luce e gi0ia: “Oh, me misero! Ahimé malvagio e inutile! Prima avevo sentito dire di te ma ora i miei occhi ti vedono; mi disprezzo e mi ritengo terra e cenere” (Gb 42,5-6). Allora vieni riempito di amore divino. La tua anima brucia di amore come quella di Cleopa (Lc 24,18). Nel momento della tentazione non abbandoni più il lenzuolo e scappi nudo (Mc 14,52), ma sopporti le tribolazioni dicendo: “Come è passata l’una e l’altra tentazione, così passerà anche questa”.

Quando tuttavia ti scoraggi e mormori e non sopporti le tentazioni, allora, invece di vincere, devi di continuo pentirti: per gli errori del giorno, per l’impazienza della notte. Invece di ricevere un aumento di grazia, rendi più grandi le tue tribolazioni.

Per questo non essere timoroso. Non aver paura delle tentazioni. Anche se cadi a più riprese, alzati. Non perdere il tuo sangue freddo. Non scoraggiarti. Sono nubi e passeranno. Quando poi con la cooperazione della grazia, la quale ti purifica da tutte le passioni, oltrepassi tutte queste cose che sono la “prassi”, allora la mente gusta l’illuminazione ed è spinta alla contemplazione.

La prima contemplazione è quella degli esseri: perché Dio ha fatto tutte le cose per l’uomo, e per di più anche gli stessi angeli al suo servizio. Quale dignità, quale magnificenza, che grande predestinazione ha l’uomo; tale è il soffio di Dio!

Non per vivere qui i pochi giorni del suo esilio, ma per vivere in eterno col suo Creatore. Per vedere i divini angeli. Per ascoltare la loro ineffabile melodia. Che gioia! Che splendore! Appena ha termine questa nostra vita, e si chiudono questi occhi, si aprono gli altri e inizia la nuova vita, la vera gioia che non ha più fine. Pensando a queste cose la mente viene immersa in una pace e tranquillità suprema che si estendono a tutto il corpo, dimenticando del tutto che conduce un’esistenza in questa vita.

Queste contemplazioni si succedono l’una all’altra. Non che fai fantasie nella tua mente, ma lo stato (reale) è questo: operazione della grazia che fa venire pensieri e la mente si delizia nella contemplazione. Non li crea l’uomo; vengono da soli e rapiscono la mente alla contemplazione. Allora la mente si dilata e diventa un’altra, da diversa (che era). È illuminata. Tutto si dischiude ad essa. E’ riempita di sapienza e come un figlio possiede le cose di suo Padre (Mt 11,27; Lc 15,31; Gv 16,15; 17,10). Sa che è un nulla, argilla, ma anche figlio del Re. Non ha nulla, ma possiede tutto. È riempita di teologia. Grida insaziabilmente, con piena coscienza, confessando che il suo essere è nulla. La sua origine è l’argilla; ma la sua forza vitale? Il soffio di Dio, la sua anima.

Subito l’anima vola in cielo! “Sono il soffio, l’alito di Dio! Tutto si è dissolto, è rimasto sulla terra, da cui ero stato preso! Sono figlio di un Re eterno! Sono dio per grazia! Sono immortale ed eterno! Sono, dopo un attimo, vicino al mio Padre celeste!”

Questa è in verità la predestinazione dell’uomo. Per questo è stato plasmato e deve giungere dove è uscito. Queste sono le contemplazioni di cui si delizia l’uomo spirituale. E attende il momento, quando lascerà la polvere e volerà verso le (regioni) celesti. Coraggio dunque, figlio mio, e con questa speranza sopporta ogni sofferenza e tribolazione.

Dal momento che fra poco saremo fatti degni di questi doni. Per tutti noi sono le stesse cose. Tutti siamo figli di Dio. Lui invochiamo giorno e notte, (invochiamo) pure la nostra dolce Mammina, la Signora del mondo, che non abbandona mai chiunque la supplica.




Anziano Iosif l’Esicasta: Lettera 5

Lettera 5

NON RIVESTIRTI SOLO DI FOGLIE

Figlio mio amato nel Signore… creatura dello Spirito divino. Gioisco, quando tu gioisci. Gioiscono i Principati e le Potenze, i Cherubini e i Serafini, le schiere angeliche, i cori dei martiri, dei profeti, dei giusti e dei santi, la Tuttapura Madre nostra, Regina e Signora di tutti. Oggi hai rallegrato la mia anima con ciò che mi hai detto tramite inchiostro e carta. Molto gioisco e mi rallegro grandemente, se fino alla fine rimarrai fedele alle cose che ora scrivi. Perché la guerra del nemico comincia dopo tre-quattro anni. Allora la grazia si ritira per mettere alla prova. La lucerna si spegne. E le cose così belle che ora si manifestano – e sono veramente belle – allora appariranno brutte, nere e tenebrose. Perciò quanto ora ti capita non prenderlo come tentazione. Un altro infatti fa da sentinella per te. E dal momento che, figlio mio amato, chiedi a me misero un consiglio, ascolta: non rivestirti solo di foglie, ma affonda le radici profondamente per poter trovare la sorgente, come fanno i platani. Così da essere irrigato di continuo dall’acqua e di continuo possa germogliare. Quando viene la secca non patirai alcun cambiamento. In quanto hai trovato la sorgente stessa. E allorché si spegnerà la lucerna che ora tieni in mano, ne avrai accesa un’altra per mezzo delle tue opere. Non soffrirai per nulla la tenebra. Il modo per acquisire tali (opere) è questo: anzitutto un’obbedienza perfetta e a tutti, senza distinzione. Da essa viene generata l’umiltà. Il vero segno di riconoscimento dell’umiltà sono le lacrime[1] senza misura, che per tre-quattro anni scorrono a somiglianza di una fonte. Da essa viene generata la preghiera incessante[2], la cosiddetta preghiera del cuore. Per cui, appena dici: “Gesù mio dolcissimo!” scorrono le lacrime. Appena dici: “Vergine mia!” non puoi trattenerle. Allora da esse viene generata in tutto il corpo grande calma e perfetta pace.

Un fratello[3] una volta volle trattenersi poiché si erano messe in movimento le lacrime e qualcuno aveva bussato alla porta – ma non poté, fino a quando passarono. Tanta è la potenza che hanno. Se dunque le ottieni, non hai paura di soffrire nessun cambiamento. Perché diventi un uomo di altra natura. Non che la natura cambi, ma la grazia ne trasforma i caratteri per mezzo delle sante energie di Dio.

I cosiddetti “canoni” devono circondare la sostanza, come le foglie coprono i frutti. Il canto degli inni sia fatto con umiltà. La mente vada dietro al senso del tropario. Il pensiero riceva piacere da ciò che è compreso dalla mente e si elevi a ciò che essa contempla. Allo stesso modo la lettura venga fatta con molta attenzione. Allora, con tutte queste cose, l’anima cresce e si dilata. Si spegne, muore l’uomo vecchio e si rinnova il nuovo; e abbonda nell’amore di Cristo. Allora l’uomo non trova più appagamento in alcun modo nelle cose terrene, ma di continuo brama quelle celesti. Lo stesso riguardo al corpo: deve lottare con tutte le forze, deve essere sempre sotto il dominio dello spirito[4], cosi· che non lo contristi in alcun modo. Poi, sia che tu mangi sia che lavori, la preghiera del cuore non cessi mai.

Ma in tutte le altre preghiere, la mente deve seguire e comprendere che cosa preghi e che cosa dici. Perché, se tu non capisci quello che dici, come ci sarà un’intesa con Dio, si che ti possa donare ciò che chiedi?

Se custodirai queste cose, te ne verrà del bene. Ti salverai per sempre e mi renderai pieno di gioia; ma se per negligenza disobbedirai, diventerai causa di tribolazione per molti.


[1] Lo ieronda Iosìf aveva in grado eminente il dono delle lacrime: ce lo attesta questo epistolario con accenti pervasi di grazia divina e ce lo hanno testimoniato al Monte Athos i suoi discepoli, in particolare il padre Efrèm delle Katunakia. “Piangere è la via che ci hanno trasmesso la Scrittura e i Padri” (Detti, vol. II, p. 132). Isacco di Ninive così commenta: “Beati i puri di cuore (Mt 5,8), perché non v’è istante in cui non si dilettino della soavità delle lacrime: grazie ad esse vedono continuamente nostro Signore perché, quando hanno le lacrime agli occhi, sono degni della visione della sua rivelazione nell’altezza della preghiera, ne v’è per loro preghiera senza lacrime. Questo, infatti, significa il detto del Signore: Beati coloro che piangono, perché saranno consolati (Mt 5,4). Dal pianto, dunque, uno viene alla purezza dell’anima (Discorsi Ascetici, vol. I, p. 286). Piangere è proprio del battezzato che, memore incessantemente del suo essere “cenere e polvere” (cfr. Gen 3,19; 18,27; Gb 30,19) e che ha il tesoro della gloria divina che rifulse sul volto di Cristo in un vaso di creta, brama ritornare ogni giorno, quale figlio prodigo (Cfr. Lc 15,11-32), alla casa del Padre, confessando, con lacrime, il suo peccato e sperando dalla misericordia di Dio il suo abbraccio paterno. I Padri hanno visto nel lavacro purificatore delle lacrime il segno di una particolare attualizzazione del lavacro battesimale e spesso l’hanno chiamato un secondo battesimo. Isacco di Ninive attesta che la fatica delle veglie notturne rende gli occhi “una specie di fonte battesimale per le lacrime” (Discorsi Ascetici, p. 180). E Giovanni Climaco: “La sorgente delle lacrime che (scaturisce) dopo il battesimo, è superiore al battesimo stesso, anche se è un po’ audace quanto affermo. Il battesimo, infatti, ci purifica dai mali che l’hanno preceduto, mentre le lacrime cancellano quelli che l’hanno seguito. Il primo, avendolo ricevuto tutti da bambini, lo abbiamo contaminato; ma per mezzo delle lacrime lo riportiamo alla sua purezza primitiva” (Scala del Paradiso VII, 89; cfr. IV, 10). “I nostri peccati passati ci furono cancellati col battesimo. Ma noi ne abbiamo commessi, poi, degli altri e non possiamo più lavarli con l’acqua del battesimo. Per queste macchie che deturpano la nostra vita dopo il battesimo, battezziamo la coscienza con le lacrime” (S. Gregorio Magno, Quaranta omelie sui Vangèli, a cura di G. Barra, om. X, Torino 1947, p. 102).

[2] “La preghiera è la madre delle lacrime e anche la loro figlia” (Scala del Paradiso  XXVIII).

[3] In diverse lettere lo ieronda Iosìf nasconde le sue esperienze personali sotto questa forma (Lettere 8, 25, 43, 62, 64)

[4] “L’intelletto non è glorificato se il corpo non soffre con Gesù. (…) Gloria del corpo è la devota sottomissione a Dio; gloria dell‘intelletto la contemplazione della verità circa Dio. La retta sottomissione è doppia: nel lavoro e nel disprezzo, perché quando il corpo soffre, soffra con esso anche il cuore (Discorsi Ascetici, vol. I, XXXIV, P. 260).




Anziano Iosif l’Esicasta: Lettere

1.
AD UN GIOVANE CHE CHIEDE DELLA “PREGHIERA”

Mio caro fratello in Cristo, mi auguro che tu stia bene. Oggi ho ricevuto la tua lettera e ti do risposta su quanto mi scrivi. Le informazioni che chiedi non richiedono tempa e fatica per pensare a risponderti.

La preghiera del cuore per me è come il mestiere per ciascuno, dal momento che la pratico da trentasei anni a questa parte.

Quando giunsi all’Aghion Oros cercai subito gli eremiti che praticavano la preghiera. Allora – quarant’anni fa – ce n’erano molti che avevano vita dentro di loro. Uomini di virtù. Vecchi monaci. Di questi, alcuni ne facemmo ieronda e li avevamo come guide.

Dunque, la prassi della preghiera del cuore consiste nel fare violenza al tuo io, nel dire continuamente la preghiera con la bocca, senza cessare. All’inizio velocemente, perché nella mente non faccia tempo a formarsi un pensiero di distrazione. Fa’ attenzione solo alle parole: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”. Così facendo per molto tempo, viene il momento in cui la mente si abitua nel dire questa preghiera. Sei riempito di dolcezza come se avessi miele nella tua bocca e vuoi sempre dirla. Se la interrompi ti angusti molto.

Quando la mente si abitua ad essa, si sazia e la impara bene, allora la invia nel cuore. Poiché la mente è la dispensatrice di alimento all’anima e il suo lavoro consiste nell’inviare ciò che di buono o di cattivo vede o ascolta al cuore, che è il centro della forza spirituale e corporale dell’uomo, il trono della mente. Dunque, quando l’orante tiene in suo potere la mente, si che non abbia alcuna fantasia, ma volga la sua attenzione solo alle parole della preghiera, allora, respirando leggermente con una certa violenza e volontà, la Fa scendere nel cuore e la tiene dentro come se fosse condannata alla reclusione e dice la preghiera con ritmo:

“Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”.

All’inizio dice quattro-cinque volte la preghiera e prende un respiro. Poi, quando la mente si abitua a rimanere ferma nel cuore, dice ad ogni respiro una preghiera. “Signore Gesù Cristo”: entra il respiro; “abbi pietà di me”: esce. Questo succede fino a quando la grazia comincia ad adombrare e ad operare nell’anima; dopo, ormai è contemplazione.

La preghiera si dice dovunque: sia seduto che a letto, sia camminando che in piedi. “Incessantemente pregate, in ogni cosa rendete grazie” (1Ts 5,17s.), dice l’Apostolo. Ma non devi pregare solo quando vai a riposare. Ci vuole lotta: in piedi-seduto. Quando ti stanchi, siediti. Poi di nuovo in piedi, perché non ti prenda il sonno. Queste cose vengono chiamate “prassi”. In esse mostri la tua disposizione verso Dio; ma il tutto dipende da Lui, se te lo dona. Dio è il principio e la fine. È la sua grazia che opera tutto. Essa è la forza movente.

Come poi giunge l’amore e come opera, questo sta nell’osservare i comandamenti. Quando ti alzi di notte e preghi, quando vedi il malato e patisci con lui, la vedova, gli orfani e i vecchi e hai misericordia di loro, allora Dio ti ama. E allora anche tu lo ami. Lui per primo ama ed effonde la sua grazia. E noi gli restituiamo le stesse cose da Lui ricevute, “i tuoi (doni provenienti) dai tuoi (doni)”[1].

Se dunque cerchi di trovarla solamente tramite la “preghiera”, non emettere respiro[2] senza la preghiera. Fa’ solo attenzione a non accogliere Fantasie. Perché il divino è senza forma, senza immagine, senza colore. Supera ogni perfezione. Non accetta ragionamenti. Opera come brezza leggera nei nostri pensieri.

La compunzione viene allorché pensi quanto hai rattristato Dio. Lui che è tanto buono, tanto dolce, tanto misericordioso; tanto benevolo, tutto pieno di amore. Lui che è stato crocifisso e che tutto ha patito per noi. Queste e altre cose che il Signore ha patito, quando le mediti, ti generano compun­zione.

Dunque, se riesci a dire la preghiera con le labbra e incessantemente, in due-tre mesi la rendi abituale. Allora la grazia ti adombra e ti irrora. Solo devi pronunciarla con le labbra, senza interru­zione.

Quando la mente la fa propria, allora ti riposerai dal dirla con la lingua. Poi di nuovo, quando la mente non la custodisce più, ricomincia la lingua. All’inizio bisogna compiere ogni sforzo con la lingua, fino a quando non ti abitui; in seguito, per tutti gli anni della tua vita, la mente la dirà senza fatica. Quando verrai, come dici, all’Aghion Oros, vieni a trovarci. Ma allora parleremo di altre cose. Non ti rimarrà tempo per la preghiera. La preghiera la troverai[3]li dove il tuo cervello sarà quieto. Qui, girando per i monasteri, la tua mente camminerà altrove, in quelle cose che ascolterai e vedrai. Sono certo che troverai la “preghiera”. Non dubitare. ‘Solamente bussa direttamente alla porta della divina misericordia e, in ogni modo, il Cristo ti aprirà; è impossibile (che non ti apra). Amalo molto, per poter ricevere molto. Dal tuo amore, molto o poco, dipende il dono, molto a poco.

2.

ALLO STESSO, RIGUARDO ALLA PREGHIERA,
E RISPOSTA A DOMANDE

Ho molto gioito per lo zelo giovanile che hai per la tua anima. Anch’io ho sete di rendermi utile ad ogni fratello che chiede di essere salvato. Dunque, fratello mio, caro e amato, apri le tue orecchie. Il destino dell’uomo, dal momento in cui è stato generato in questa vita, è di trovare Dio. “In Lui viviamo e ci muoviamo…” (At 17,28), ma le passioni ci hanno chiuso gli occhi naturali e non vediamo. Quando però il nostro Dio buonissimo volge il suo occhio verso di noi, allora ci svegliamo come dal sonno e cominciamo a chiedere la nostra salvezza.

Per cui, riguardo alla tua prima domanda: ora Dio ti ha visto, ti ha illuminato e ti guida. Mettiti al lavoro lì dove sei. Di’ incessantemente la preghiera: con la lingua e con la mente. Quando la lingua si stanca, cominci pure la mente. E di nuovo, quando la mente si appesantisce, la lingua. Solamente non smettere. Fa’ molte prostrazioni. Veglia la notte, per quanto puoi. E se si accende nel tuo cuore una fiamma per Dio, (se) cerchi esichia e non ce la fai a rimanere nel mondo – poiché dentro di te si accende la preghiera – allora scrivimi e io ti dirò che cosa fare. Se ancora la grazia non opera nel modo che abbiamo detto, ma lo zelo permane e tu metti in pratica i comandamenti del Signore verso il prossimo, allora sta tranquillo come sei, va bene così; non cercare niente altro. La diversità del trenta, del sessanta, del cento, la potrai conoscere quando leggerai l’Everghetinòs[4]. Vi troverai scritte anche molte altre simili cose e ne trarrai grande giovamento.

Ecco poi la risposta alle altre tue domande: la preghiera bisogna dirla così, con la parola interiore. Ma siccome all’inizio la mente non ci ha preso l’abitudine, la dimentica. Per questo la dici ora con la bocca ora con la mente. Ciò accade fino a quando la mente se ne riempie e diviene energia.

Energia viene chiamato quello stato in cui, quando dici la preghiera, percepisci dentro di te gioia ed esultanza e desideri dirla incessantemente.

Quando dunque la mente ha fatto sua la preghiera e si manifesta quella gioia di cui ti scrivo, allora viene detta di continuo, senza che tu ti faccia violenza. Questo (stato) si chiama percezione – energia, quando la grazia opera senza la volontà dell’uomo. Mangia, cammina, dorme, si sveglia, e nell’intimo la preghiera grida. Ed ha pace, gioia.

Ora per quanto riguarda le ore della preghiera, poiché sei nel mondo e hai diverse occupazioni, prega quando trovi tempo. Ma fatti violenza per non essere pigro. Per la “contemplazione” di cui chiedi, è difficile, perché necessita assoluta esichia. Lo stato spirituale si divide in tre ordini, e la

grazia opera nell’uomo analogamente. Uno stato viene chiamato purificante, purifica infatti l’uomo. La grazia che tu ora hai si dice purificante, essa guida l’uomo alla conversione. Ogni buona disposizione che hai verso le realtà spirituali proviene dalla grazia. Nulla è propriamente tuo. Essa compie la sua opera in tutto, segretamente. Questa grazia dunque, quando ti fai violenza, rimane con te qualche anno. Se poi quella persona progredisce tramite la preghiera del cuore, riceve un’altra grazia molto diversa.

Il primo (stato), come abbiamo detto, si chiama percezione-energia ed è quello purificante, in quanto l’orante percepisce dentro di sé movimento-energia divina.

L’altro si chiama illuminante. In esso riceve luce di conoscenza, viene fatto salire alla contemplazione di Dio. Non luci, non fantasie, non immaginazioni, ma limpidezza di mente, purezza di pensieri, profondità di concetti. Per giungere a questo, l’orante deve avere molta esichia e una guida infallibile.

E il terzo stato – adombramento della grazia – consiste nella grazia perfezionante, che è un grande dono. Di questo ora non ti scrivo, anche perché non c’è necessità. Se però vuoi leggere qualcosa al riguardo, ho scritto col mio analfabetismo un libretto manoscritto “Tromba mossa dallo Spirito”[5] su quando avvengono queste operazioni. Cercalo e lo troverai. Compra pure san Macarie[6] dal (signor) Schinà, e l’abbà Isacco; ne avrai grande profitto. Qualsiasi cambiamento, poi, potrai sperimentare scrivimi e ti risponderò prontissimamente. In tutto questo tempo ho scritto a quanti mi pongono questioni. Quest’anno sono venuti dalla Germania solamente per imparare la preghiera del cuore. Dall’America mi scrivono con tanto ardore. Da Parigi sono così numerosi quelli che chiedono fervidamente. Ma noi qui perché siamo negligenti? È forse un mestiere spregevole gridare continuamente il nome di Cristo perché ci faccia misericordia?

Alla fin fine, domina anche una oscura idea del diavolo, per la quale se uno dice la preghiera teme di ingannarsi, mentre invece è inganno proprio questo timore.

Chi vuole provi e, col perdurare dell’energia della preghiera, si creerà il Paradiso dentro di lui; sarà liberato dalle passioni, diventerà un altro uomo! E se poi è anche nel deserto, oh! oh! non si possono esprimere le bellezze della preghiera!

3.

AD UN MONACO CHE ENTRAVA NELLO STADIO DEL COMBATTIMENTO

Gioisci nel Signore, figlio amato che la grazia del mio Gesù ha illuminato e liberato dal mondo. Sei volato nel deserto e hai preso dimora nel cenobio con una santa sinodia. E ora dai lode e ringrazi con tutta l’anima Dio. La grazia divina, figlio mio, è come un’esca che senza fare violenza attira l’uomo alle realtà alte e superiori. Essa conosce il modo di irretire i pesci razionali e di trarli fuori dal mare del mondo. Ma dopo cosa succede? Quando fa uscire dal mondo colui che si accinge a condurre vita monastica e lo conduce nel deserto, non gli mostra subito né le sue passioni né le tentazioni fino a quando non diviene monaco e allora il Cristo lo vincola col suo timore. E così comincia la prova, la lotta e il combattimento. Se dall’inizio colui che è messo alla prova si fa violenza[7] e fa in tempo ad accendere la lucerna dell’ascesi con le sue lotte, essa non si spegne quando, all’arrivo delle tentazioni, la grazia si ritira. Diversamente, quando la grazia si ritira, ritornerà al suo primo stato. E, analogamente alle passioni che aveva nel mondo, insorgeranno le tentazioni e metteranno in moto le abitudini di prima, alle quali serviva e di cui era schiavo.

Prima di tutto sappi, figlio mio, che c’è molta differenza tra uomo e uomo e tra monaco e monaco. Ci sono anime di carattere tenero che facilmente obbediscono. Ma ci sono anche anime di carattere duro che non si sottomettono facilmente. C’è tanta differenza quanta dal bambagio al ferro. Il bambagio richiede solo l’unzione della parola. Ma il ferro richiede fuoco e la fornace delle tentazioni per essere lavorato. Questo tale deve avere molta pazienza nelle tentazioni perché avvenga la purificazione. Quando non ha pazienza, è una lampada senza olio; si spegne in breve e si perde. Quando dunque uno di siffatta natura più dura del ferro viene a farsi monaco, appena entra nello stadio, subito rinnega l’obbedienza. Subito rifiuta le promesse e rinuncia alla lotta. E lo vedi: appena la grazia si ritira un poco per mettere alla prova la sua disposizione e la sua pazienza, lui subito getta via le armi e comincia a pentirsi di essere venuto per farsi monaco. Trascorre i giorni pieno di disobbedienza e di amarezza, tutto contraddizione e arroganza.

In forza delle preghiere dello ieronda, la grazia allontana un po’ le nubi delle tentazioni perché ritorni in parte in sé e si risvegli; ma lui, dopo poco, di nuovo la sua volontà e di nuovo disobbedienza, di nuovo agitazione e turbamento. Mi scrivi del fratello che vedi lì (nel tuo monastero) e ti meravigli come mai pur faticando tanto nel compiere il suo servizio, domini ancora dentro di lui l’egoismo. Ma cosa credi? Che sia facile per l’uomo vincere una passione? Gli atti di bontà e di misericordia e tutte le altre azioni buone che si compiono all’esterno non addolciscono l’alterigia del cuore; ma solo la meditazione della mente, la fatica della conversione, la contrizione e l’umiltà, queste umiliano il pensiero altero. Un uomo non sottomesso è una grande e penosa fatica. Solo con molta pazienza costui può venire integrato (nella comunità). Solo con una grande pazienza degli ieronda e la tolleranza e l’amore dei fratelli è possibile che ritornino in sé monaci[8] di dura cervice. Ma ecco che costoro sono spesso utili come la mano destra. Quasi sempre questi tali, quando hanno un carisma visibile agli altri, difficilmente si umiliano. Loro solo credono di essere, gli altri non sono. C’è dunque bisogno di molta fatica e di molta pazienza, fino a che non sia sradicato il vecchio fondamento della superbia e sia posto come altro fondamento l’umiltà e l’obbedienza del Cristo. Tuttavia vedendo il Signore le fatiche e la disposizione sia di questi soggetti stessi che degli altri (ieronda e fratelli), permette che abbiano un’altra tentazione che contraddice la loro passione, e, per la sua misericordia, salva pure loro, “Lui che vuole che tutti siano salvi” (1 Tm 2,2). Tu guarda bene a chi vuoi somigliare. Sarebbe bello che tutti fossero di carattere buono, umili e obbedienti. Ma, se capita a qualcuno (di essere) di natura dura, non disperi. Ci vuole lotta, ma per la grazia di Dio si può vincere. E Dio non è ingiusto da chiedere una cosa invece di un’altra. Secondo il carisma che ha dato, così ne richiede la resa. Poiché dall’inizio della creazione ha separato gli uomini in tre ordini. Ad uno ha dato cinque talenti, ad un altro due ed a un altro ancora uno (Mt 25,14ss). Il primo ha carismi superiori; è più capace nella mente e viene chiamato “ammaestrato da Dio” (Gv 6,45), perché riceve da Dio senza essere istruito. Come erano nell’epoca antica Antonio il grande, sant’ Onofrio, santa Maria (egiziaca), Cirillo Fileoti, Luca da Stirìo e migliaia di altri, i quali senza guida divennero perfetti. | L’altro (ordine) deve essere ammaestrato nel bene per compierlo. Il terzo invece, anche se ascolta, anche se impara, lo nasconde nella terra; non combina nulla.

Per questo dunque esiste tanta differenza fra gli uomini e fra i monaci che vedi. Per questo prima di tutto il “conosci te stesso”[9]. Cioè conoscerti così come sei. Come sei in realtà, non come ritieni di essere. Con questa conoscenza diventi il più sapiente degli uomini. Con questa coscienza giungi all’umiltà[10] e ricevi grazia dal Signore. Ma se non acquisti la conoscenza di te, e conti solo sulla tua fatica, sappi che ti troverai sempre lontano dalla via. Infatti il Profeta non dice: “Vedi Signore, la mia fatica”, ma “Vedi – dice – la mia umiltà e la mia fatica” (Sal 24,18). La fatica è per il corpo, l’umiltà per l’anima. Le due insieme, fatica e umiltà, (sono) per l’uomo nella sua totalità.

Chi ha potuto vincere il diavolo? Chi ha conosciuto la propria debolezza, le passioni e le mancanze che ha. Chi teme di conoscere sé stesso costui è lontano dalla conoscenza; costui non sa nient’altro se non vedere solo difetti negli altri e giudicarli. Negli altri non vede carismi, ma solo mancanze; non vede in sé stesso mancanze ma solo carismi. E questo è veramente il difetto di cui soffriamo noi uomini del ventesimo secolo, che non riconosciamo l’uno il carisma dell’altro. Uno da solo è privo di molte cose, ma la moltitudine le ha tutte. Ciò che uno ha l’altro non lo ha. Se riconosciamo questo si genera molta umiltà. In quanto Dio è onorato e glorificato, Lui che ha adornato gli uomini in modo vario e nel suo disegno ha voluto l’inuguaglianza per tutte le sue creature. Non come vogliono gli empi, che portano l’uguaglianza sovvertendo la creazione. Dio ha fatto tutto con sapienza.

Per cui, figlio mio, ora che sei all’inizio, abbi cura di conoscere bene te stesso, perché possa porre come fondamento stabile l’umiltà. Abbi cura di imparare l’obbedienza (Eb 5,8) e di acquisire la preghiera. Il “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me” sia il tuo respiro. Non lasciare la tua mente disoccupata; per non essere ammaestrato nel male. Non permetterti di osservare i difetti degli altri, perché, senza che te ne accorga, ti troverai ad essere cooperatore del maligno e incapace di progredire nel bene. Non combattere con ignoranza contro il nemico della tua anima. Il diavolo è astuto e si sa nascondere bene dietro alle passioni e alle debolezze. Per cui, per poterlo colpire, devi combattere, mettere a morte il tuo io, le tue passioni. Quando muore l’uomo vecchio, allora viene ridotta a nulla la potenza del nemico e dell’avversario. La nostra lotta non è nei confronti dell’uomo, che puoi, secondo il caso uccidere in mille modi, ma è nei confronti dei principati e delle potenze della tenebra (Ef 6,12). Non si combattono con dolci e lukumi, ma con torrenti di lacrime, con sofferenza dell’anima fino alla morte, con suprema umiltà e grandissima pazienza. Fino a far scorrere sangue per la superfatica della preghiera, ad accasciarti per settimane spossato, gravemente ammalato. E senza abbandonare la battaglia, fino a che non siano stati vinti e non battano in ritirata i demoni. Allora otterrai libertà dalle passioni.

E dunque, figlio mio, fa’ violenza a te stesso dall’inizio, per poter entrare attraverso la porta stretta (Mt 7,13) perché questa sola introduce nella spaziosità del Paradiso. Taglia ogni giorno e ogni ora la tua volontà[11] e non cercare altra via se non questa. È quella che hanno battuto i piedi dei santi Padri. Rivela anche tu al Signore la tua via ed Egli ti guiderà (Sal 36,5). Rivela allo ieronda i tuoi pensieri ed egli ti guarirà. Non nascondere mai un tuo pensiero, poiché dentro di esso si trova nascosta la malizia del diavolo; nel dirlo si dissolve. Non rivelare un difetto di un altro, a tua giustificazione, perché la grazia subito rivela i tuoi, essa che fino adora ti copriva. Quanto tu con amore copri il fratello, tanto la grazia ti nutre e ti protegge dalle calunnie degli uomini.

Riguardo poi all’altro fratello, di cui parli, si vede che ha peccati non confessati, poiché si vergogna di dirli allo ieronda, e per questo prende piede la tentazione. Ma bisogna correggere questa cosa che è fuori posto. Perché senza una pura confessione l’uomo non si purifica. Ed è un peccato lasciarsi giocare dal diavolo. Nel profondo c’è nascosto l’egoismo. Il Signore lo illumini perché ritorni in sé stesso. Tu prega e abbi carità verso di lui e verso tutti, guardandoti però da tutti. Ad ogni modo ora che sei entrato nello stadio proverai molte specie di tentazioni: preparati a portare pazienza. Di’ incessantemente la preghiera e il Signore ti aiuterà con la sua grazia. Le tentazioni non sono mai più forti della grazia.

4.

FIGLIO MIO, SE FAI ATTENZIONE A CIO’ CHE TI SCRIVO.

Figlio mio, se fai attenzione a ciò che ti scrivo e fai violenza a te stesso, ne avrai un grande beneficio. Tutte queste cose ti succedono perché non ti fai violenza nella preghiera. Fatti violenza dunque. Di’ continuamente la preghiera. Non fare riposare per nulla la bocca. Così la renderai abituale in te e poi la mente la farà sua. Non dare licenza ai pensieri, poiché ti infiacchisci e ti contamini. Preghiera, continua violenza alla natura, e vedrai quanta grazia riceverai!

La vita dell’uomo, figlio mio, è tribolazione, perché è in esilio. Non cercare un perfetto riposo. Il Cristo ha preso su di sé la croce, e anche noi la prenderemo. Se sopportiamo tutte le tribolazioni, troveremo grazia dal Signore. Per questo il Signore permette che siamo tentati, per mettere alla prova lo zelo e l’amore che abbiamo verso di Lui. Per cui c’è bisogno di pazienza. Senza la pazienza l’uomo non diventa “pratico”, non apprende le realtà spirituali, non giunge a (grandi) misure di virtù e di perfezione. Ama Gesù e dì incessantemente la preghiera ed essa ti illuminerà nella sua via.

Guardati dal giudicare, perché a causa di ciò Dio si ritira, la grazia fugge e il Signore ti lascia cadere perché tu venga umiliato e possa vedere i tuoi difetti. Quanto scrivi va bene. La prima cosa che percepisci è la grazia di Dio, che, quando giunge, rende l’uomo spirituale. Tutto gli pare bello e buono. Allora ama tutti; ha compunzione, lacrime e fervore nell’anima. Ma quando la grazia si ritira per mettere alla prova l’uomo, allora tutto diviene carnale e l’anima cade in basso. Tuttavia in quell momento non perdere il tuo slancio, ma grida continuamente la preghiera: con Violenza, con forza, con molta sofferenza. Signore Gesù Cristo abbi pietà di me! Di nuovo e molte volte la stessa (invocazione) di continuo. E, come se fissassi il Cristo con la mente, dì: “Ti rendo grazie, mio Signore per i beni che mi hai dato e per i mali che soffro. Gloria a te, Dio mio, gloria a te!”. Se porterai pazienza, di nuovo verrà la grazia, di nuovo la gioia. Ma poi ancora la tentazione e la tristezza, il turbamento e l’irritazione. E di nuovo lotte e vittoria e rendimento di grazie. Questo succede fino a quando a poco a poco sei purificato dalle passioni e diventi spirituale. Invecchiando, poi, col tempo giungi alla impassibilità. Ma lotta! Non volere che i beni vengano da sé stessi. Con le piume non si fa il monaco. Il monaco deve essere ingiuriato, deriso, provato, deve cadere, alzarsi, divenire uomo. Non nelle braccia della sua mamma. È mai possibile? Si è mai sentito dire che uno sia divenuto monaco vicino a sua mamma, la quale appena dici: “Oh!”, (subito aggiunge:) “Mangia, per non indebolirti!”. L’ascesi richiede privazioni. I beni non li trovi nei bagni e nella vita comoda. Ci vuole lotta e molta fatica. Bisogna gridare giorno e notte a Cristo. Ci vuole pazienza in tutte le tentazioni e le tribolazioni. Bisogna soffocare l’ira e il desiderio. Faticherai molto, fino a quando capirai che la preghiera senza attenzione e sobrietà è perdita di tempo, fatica senza salario. Devi costituire su tutti i sensi interiori ed esteriori, come guardia che non prende mai sonno, la vigilanza. Perché senza di essa la mente ele forze dell’anima si disperdono nelle cose vane e abitudinarie, come l’acqua inutile che corre nelle strade. Nessuno ha mai trovato la preghiera, senza vigilanza esobrietà. Nessuno è mai stato trovato degno di salire verso le realtà dell’alto senza che prima avesse disprezzato quelle del basso. Molte volte tu preghi e la tua mente vaga qui e là, dove le piace, verso quelle cose da cui è attratta per abitudine. Occorre violenza per sradicarla di lì, perché possa così prestare attenzione alle parole della preghiera. Spesso nel tuo pensiero, nella tua parola, nel tuo udito, nel tuo sguardo si insinua con inganno il nemico e non te ne accorgi. Te ne rendi conto dopo, e ci vuole lotta per essere purificato. Tuttavia non venir meno nella battaglia contro gli spiriti della malvagità. Per la grazia di Cristo vincerai e ti rallegrerai per quanto ti sei rattristato. Inoltre fa’ attenzione, dillo anche agli altri, fate attenzione a non lodarvi l’un l’altro in faccia. Perché la lode reca danno anche ai perfetti, non solo a voi che ancora siete deboli. Un visitatore disse ad un santo, per tre volte, che intrecciava bene il suo lavoro. E la terza volta gli disse il santo: “Da quando sei entrato qui, o uomo, hai cacciato Dio da me!”[12].

Vedi che esatta conformità (alla virtù) avevano i santi? Per questo in tutte le cose occorre molta attenzione. Solo gli insulti[13] e gli oltraggi sono di giovamento spirituale all’uomo. Perché da essi viene generata l’umiltà. Guadagna corone. Portando pazienza soffoca l’egoismo e la vanagloria.

Per cui quando ti insultano (dicendoti) superbo, ipocrita, impaziente, e cose simili, è il momento della pazienza. Se parli, hai perso. Abbi dunque sempre il timore di Dio, amore verso tutti e guardati dal rattristare e dal nuocere qualcuno in un modo o nell’altro, perché nel momento della preghiera avrai quale impedimento l’afflizione del tuo fratello. Sii per tutti un buon esempio in parole ed in opere e la grazia divina sempre ti coprirà e ti aiuterà. Sta attento, figlio mio, a non dimenticare mai in tutta la tua vita che il monaco deve essere di esempio per coloro che vi vano nel mondo enon di scandalo, come a sua volta lui deve prendere l’esempio dagli angeli. Per cui deve fare molta attenzione, perché il satana non lo derubi. È veramente necessario che il monaco esca per andare nel mondo? Esca pure. Ma deve essere tutto occhio, tutto luce, per vedere bene, perché non gli succeda di essere di vantaggio agli altri e di danno a sé stesso. Uscendo per andare nel mondo corrono pericoli in modo massimo i monaci giovani ele monache che sono ancora nel fiore della loro età; camminano fra le trappole.

Per coloro che sono un po’ avanzati nell’età eche si sono appassiti a causa dell’ascesi, non è tanto il timore. Costoro non ne ricevono danno tanto quanto possono trarne giovamento, se hanno esperienza e sapienza. Ma in genere ogni monaco non trae nessun profitto dal mondo, se non onore elodi, con cui lo lavano per bene e (così) rimane spoglio. Povero lui se la grazia divina non lo coprisse, in rapporto alle necessità e allo scopo per cui esce.


[1] Dalla “Divina Liturgia” di s. Giovanni Crisostomo. Acclamazione che il sacerdote canta alla consacrazione immediatamente prima dell’epiclesi: “I tuoi (doni provenienti) dai tuoi (doni) a te offriamo in tutto e per tutto”.

[2] Nel pensiero dei Padri ricorre frequentemente l’esortazione ad unire la preghiera, il ricordo incessante di Dio e della parola di Dio, al respiro: *Il ricordo di Gesù si unisca al tuo respiro, e allora conoscerai l’utilità dell’isichia” (Climaco, Scala del Paradiso, XXVII B, 26; cfr. anche IV, 113; XIV, 30)

[3] L’espressione “trovare la preghiera” vuole sottolineare la fatica e la lotta per raggiungere lo stato di preghiera continua.

[4]  Paolo Everghetinòs, Raccolta delle parole pronunciate da Dio e degli insegnamenti dei santi Padri portatori di Dio, 4 voll., V ed., Atene 1957-1961.

[5] Questo libretto riprende il contenuto, sviluppandolo, della “Lettera ad un eremita esicasta” (L 82).

[6] Si tratta delle “Omelie spirituali” (PG XXXIV).

[7] “Farsi violenza” è una delle espressioni che ricorre con frequenza martellante in questo epistolario (cfr. Indice Analitico). Lo ieronda Iosìf – come lui stesso attesta nella lettera 81 – la fonda su Mt 11,12: “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora il regno dei cieli patisce violenza e i violenti lo rapiscono”. È la violenza di chi ama appassionatamente il Signore e sa, per esperienza, che solo così può custodire il tesoro divino. Di costui è detto: “Colui che fa violenza a sé stesso per amore di Dio è simile a un confessore” (PJ, Appendice, 38), cioè è testimone della fede allo stesso modo di coloro che la testimoniano fino al sangue, i martiri. I Padri che lo ieronda Iosìf leggeva insistono non poco su questa realtà: “Coloro che, col corpo, hanno intrapreso l’ascensione al cielo hanno bisogno veramente di farsi violenza e di soffrire di continuo”; “Il monaco è una continua violenza fatta alla natura umana…” (Scala del Paradiso  I, 10); “Beato colui che, oltraggiato e disprezzato ogni giorno, si fa violenza per il Signore. Costui si unirà al coro dei martiri e si intratterrà confidenzialmente. con gli angeli” (Scala del Paradiso  IV,37); “Il digiuno è una violenza fatta alla natura” (XIV, 37).

[8] Letteralmente “ipotaktikì” (sottomessi). Il  monaco che vive sotto il giogo soave dell’obbedienza, in una totale consegna al suo padre spirituale, viene chiamato “ipotaktikòs”, sottomesso, con lo stesso termine che Lc 2,51 usa per indicare l’essere di Gesù nei confronti dei suoi genitori a Nazareth.

[9] La mistica cristiana del ritorno in sé (cfr. Lc 15,17) ha un senso completamente diverso dal ‘conosci te stesso’ socratico. I Padri orientali ne hanno sempre avuto una coscienza chiara. Il Monte Athos, poi, al riguardo ha conservato gelosamente la testimonianza di s. Gregorio Palamas nella sua lotta per difendere la concezione biblica della conoscenza contro la minaccia del pensiero filosofico: “Ecco dunque dove i filosofi conducono quelli che non si accorgono del trabocchetto, con il loro ‘conosci te stesso’; ed essi pensano di parlare conformemente ai nostri Padri!” (PD I, 1, par. 10, p.32). In questa lettera, come in altre (L 9; 63), lo ieronda Iosìf rivela la limpidezza del ‘conosci te stesso’ secondo il pensiero biblico e gli scritti dei Padri.

[10] Anche s. Giovanni Climaco inserisce la conoscenza di sé stessi nel grado “sull’umiltà”: “La conoscenza di sé stessi è una coscienza chiara della propria misura e un ricordo incessante delle minime colpe” (Scala del Paradiso XXV, 37; cfr. anche XXV, 28.45).

[11] Lo ieronda Iosìf è – in questa sequela di Cristo che è disceso dal cielo non per fare la sua volontà ma quella di Colui che l’ha mandato (cfr. Gv 6,38) – un maestro pieno di potenza e di Spirito Santo. Ne ha lasciata una testimonianza viva nei suoi discepoli che al Monte Athos continuano a vivere della sua eredità. Uno di essi, lo ieronda Iosìf j. ci diceva: “Dio non può obbedire perché non può rinunciare alla propria volontà, altri­menti non sarebbe Dio. Invece sono caratteristiche delle creature angeliche e corporee l’obbedienza, la sottomissione, la rinuncia quindi alla propria volontà e il taglio di essa. Adamo è caduto per voler fare la sua volontà. Dovete insegnare ai giovani a tagliare la propria volontà, a perderla; l’obbedienza è perdere la propria volontà, non seguire mai i propri deside­ri… Allora colui che è sottomesso viene liberato dalla schiavitù del peccato, dai pensieri; viene reso capace di ricevere la grazia e lo Spirito Santo lo adombra” (Da Cronache dal Monte Athos, Valleripa 1986, p. 207). Il taglio della volontà propria, la “crocifissio­ne del proprio io” (Lettera 43) è il nucleo centrale della vita del monaco, è il segreto per poter trovare la pace dell’anima ed accogliere la luce increata della grazia divina, è l’opera più grande di ogni altra perché richiede una violenza continua a se stessi, equivalente al martirio. “Spogliati della tua volontà come di una veste di vergogna ed entra nudo nello stadio della lotta” (Scala del Paradiso IV, 31). “Niente giova all’uomo quanto il recidere la propria volontà: con questa cosa si avanza veramente oltre ogni virtù. Come un uomo che percorre una strada e trova una scorciatoia, se la prende, grazie a quella scorciatoia guadagna una gran parte di quella strada, così è di chi percorre questa strada della recisione della propria volontà: se uno recide la sua volontà, acquista la libertà dalle passioni, e dalla libertà dalle passioni giunge, con l’aiuto di Dio, alla perfetta impassibilità” (Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali p. 60). “Beato colui che ha fatto morire completamente la propria volontà e ha abbandonato la cura della sua anima al suo maestro nel Signore: starà alla destra del Crocifisso” (Scala del Paradiso IV, 37). È così pericoloso fare la propria volontà, che i Padri giungono a dire: “Se vedi un giovane che sale al cielo con la propria volontà, prendilo per i piedi e tiralo giù, gli fa bene” (PJ X, 111).

[12] Detti dei Padri del deserto, vol. I, p. 253, n. 32.

[13] “Disse il padre Isaia: ‘Niente giova al novizio più del disprezzo. Il monaco che è disprezzato e che lo sopporta, è come una pianta che viene annaffiata ogni giorno'” (Detti op.cit., vol. I, p. 212, n. 1). L’insulto è una pratica normale che gli uomini veramente spirituali usano per purificare i loro figli. Così faceva lo ieronda Iosìf coi suoi, esortandoli pure ad insultare il proprio io “in tutto, dovunque” e a non cercare mai il proprio diritto e la propria volontà. Così facendo avrebbero potuto gustare in breve il frutto dell’umiltà (Lettera 72).