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Padre Gabriel (Bunge): Non si può imparare a pregare seduti su una poltrona calda

Di Konstantin Matsan
26 gennaio 2011, 10:00

Fonte: Foma: Orthodox Christian Journal for Dubiting Thomases

Un eremita cattolico convertito all’Ortodossia

Un noto teologo, lo ieromonaco Gabriel Bunge, rilascia raramente interviste. Conduce una vita da eremita in un piccolo skete in Svizzera, non usa mai Internet e l’unico mezzo di comunicazione con lui è il telefono. Quest’ultimo funge da segreteria telefonica in una stanza lontana. Se vuoi parlare con lui, devi lasciare un messaggio con l’ora in cui tornerai a telefonare, e se Padre Gabriel è pronto a parlare, sarà vicino al telefono all’ora da te indicata. Siamo stati fortunati a non subire questa complessa operazione perché abbiamo incontrato padre Gabriel a Mosca. Il 27 agosto si convertì all’Ortodossia dal cattolicesimo.

Nella nostra conversazione, padre Gabriel ci ha parlato dei motivi della sua decisione, delle principali  differenze tra Valaam e la Svizzera e di molte altre cose.

“Siamo comnsiderati strani”

D: Se qualcuno passa da una tradizione cristiana all’altra, deve significare che sente che gli manca qualcosa di vitale nella sua vita spirituale…

R: Sì. E se questa persona ha settant’anni, come me, questo passo non può essere definito frettoloso, vero?

D: No, non può. Ma cosa ti è mancato, essendo un monaco con una così grande esperienza spirituale?

R: Devo parlare non di una decisione, ma di tutto il percorso della vita con la sua logica interiore: a un certo punto accade un evento che veniva preparato da tutta la vita.

Come tutti i giovani, stavo cercando la mia strada nella vita, per così dire. Sono entrato all’Università di Bonn e ho iniziato a studiare filosofia e teologia comparata. Non molto tempo prima, avevo visitato la Grecia e trascorso due mesi sull’isola di Lesbo. Fu lì che vidi per la prima volta un vero monaco anziano ortodosso. A quel tempo, ero già interiormente attratto dal monachesimo e avevo letto della letteratura ortodossa, comprese le fonti russe. Quell’anziano mi ha stupito. Divenne l’incarnazione del monaco che avevo incontrato prima solo nei libri. Improvvisamente, ho visto davanti a me una vita monastica che fin dall’inizio mi è sembrata autentica, vera, la più vicina alla pratica dei primi monaci cristiani. Dopodiché, sono stato in contatto con quell’anziano per tutta la vita. Così ho ottenuto un ideale di vita monastica.

Quando sono tornato in Germania, sono entrato nell’Ordine di San Benedetto: sembrava essere il più vicino alle mie aspirazioni. La struttura dell’Ordine stesso ricorda quella della Chiesa paleocristiana. Nell’Ordine non esiste un sistema verticale di subordinazione, ogni comunità esiste da sola. Ciò che garantisce l’unità di queste comunità è la tradizione e la Chiesa: il Typicon. Cioè, non l’ordine giuridico, ma l’ideale spirituale. A proposito, in questo senso penso che siano i benedettini, di tutti i credenti occidentali, quelli che sono pronti a capire più acutamente i credenti ortodossi. Ma ancora il mio Padre spirituale ed io ci rendemmo conto molto presto che con la mia passione per il monachesimo orientale e l’amore per il cristianesimo orientale in generale, non ero al mio posto in questo Ordine. Così l’abate, uomo anziano ed esperto che ancora onoro, decise di trasferirmi in un piccolo monastero in Belgio, e non senza rimpianti. Ho trascorso 18 anni lì, ho acquisito una grande esperienza e da lì, con una benedizione, sono andato allo skete in Svizzera. Tutti questi trasferimenti furono causati da un motivo: il tentativo di progredire verso un’autentica vita monastica, come avveniva con i primi cristiani. Come quello che ho visto con i cristiani orientali. Il passo più recente su questa via è stata la conversione all’Ortodossia.

D: Perché hai deciso di adottarla? Si può amare l’Ortodossia con tutto il cuore e rimanere all’interno del cattolicesimo tradizionale. Ci sono molti esempi simili in Occidente.

R: Sì, molte persone che sono attratte dall’Ortodossia rimangono all’interno della Chiesa cattolica. E questo è normale. Nella maggior parte delle cattedrali occidentali ci sono icone ortodosse. In Italia ci sono scuole professionali di pittura di icone insegnate da specialisti russi e altri. Sempre più credenti in Europa sono oggi interessati agli inni bizantini. Anche i tradizionalisti della Chiesa cattolica hanno scoperto il canto bizantino. Naturalmente non li usano durante il servizio divino in chiesa, ma fuori dalla chiesa, ad esempio, ai concerti. La letteratura ortodossa viene tradotta in tutte le lingue europee e i libri vengono pubblicati nelle maggiori case editrici cattoliche. Insomma, in Occidente, non hanno davvero perso il gusto per tutto ciò che è autentico, cristiano, che la tradizione orientale ha conservato. Ma ahimè, non cambia nulla nella vita reale delle persone e della società nel suo complesso. L’interesse per l’Ortodossia è più culturale. E quelle povere persone come me che hanno un interesse spirituale per l’Ortodossia, sono lasciate in minoranza. Siamo considerati strani; raramente siamo capiti.

“Semplicemente per sapere da dove viene tutto”

D: Come teologo, lei ha parlato spesso del problema della separazione tra Occidente e Oriente. Possiamo dire che la sua conversione all’Ortodossia è il risultato della sua meditazione su questo argomento?

R: Quando ero in Grecia e ho iniziato a rivolgermi al cristianesimo orientale, ho cominciato a percepire molto dolorosamente lo scisma tra Oriente e Occidente. Ha smesso di essere una teoria astratta o una trama in un libro di storia della Chiesa, ma piuttosto qualcosa che stava influenzando direttamente la mia vita spirituale. Questo è il motivo per cui la conversione all’Ortodossia ha iniziato a sembrare un passo molto logico. In gioventù, speravo sinceramente che fosse possibile l’unione del cristianesimo occidentale e orientale. Aspettavo che accadesse con tutto il cuore. E avevo delle ragioni per crederci. Al Concilio Vaticano II erano presenti osservatori della Chiesa ortodossa russa, tra cui l’attuale metropolita di San Pietroburgo e Ladoga, Vladimir (Kotlyarov). A quel tempo il metropolita Nikodim (Rotov) era molto attivo negli affari internazionali. E molte persone pensavano che le due Chiese si stessero avvicinando e alla fine si sarebbero incontrate a un certo punto. Era il mio sogno che stava diventando sempre più reale. Ma mentre crescevo e imparavo alcune cose più in profondità, ho smesso di credere nella possibilità della riconciliazione di due Chiese in termini di servizi divini e unità istituzionale. Cosa dovevo fare? Potevo solo continuare a cercare questa unità da solo, individualmente, ripristinandola in un’anima separata, la mia. Non potevo fare di più. Ho solo seguito la mia coscienza e sono arrivato all’Ortodossia.  

 D: Non è un’opinione troppo radicale?

R: Mentre ero ancora in Grecia, essendo cattolico, mi sono reso conto che era l’Occidente a separarsi dall’Oriente, non viceversa. In quel momento per me era impensabile. Avevo bisogno di tempo per capirlo e accettarlo. Non posso incolpare nessuno, certo che non posso! Stiamo parlando di un intero grande processo storico e non possiamo dire che questa o quella persona sia la causa di questo. Ma i fatti restano fatti: quello che oggi chiamiamo cristianesimo occidentale è nato come una catena di rotture con l’Oriente. Queste rotture furono la riforma gregoriana, seguita dalla separazione delle chiese nell’XI secolo, poi la Riforma nel XV secolo e infine il Concilio Vaticano II nel XX secolo. Questo è, sicuramente, uno schema molto approssimativo, ma penso che nel complesso sia corretto.

D: Tuttavia, si ritiene che la catena di queste rotture sia un normale processo storico perché qualsiasi fenomeno (e la Chiesa cristiana non fa eccezione) attraversa le sue fasi di sviluppo. Qual è la tragedia in questo?

R: La tragedia è nelle persone. In una situazione di eventi radicali e rivoluzionari compaiono sempre persone che iniziano a dividere la vita in “prima” e “dopo”. Vogliono iniziare a contare solo da questo nuovo punto come se tutto quello che è successo prima non avesse senso. Quando i futuri protestanti proclamarono la Riforma, non credo che sapessero che avrebbe portato alla separazione della Chiesa occidentale in due grandi campi. Non se ne sono accorti, hanno semplicemente agito. E cominciarono a dividere chi li circondava in sani – coloro che accettarono la Riforma – e malati, i seguaci del Papa.

Inoltre, la storia si ripete: lo stesso sta accadendo ora intorno al Concilio Vaticano II all’interno della Chiesa cattolica romana. Ci sono persone che non hanno accettato le sue decisioni e persone che lo considerano una sorta di punto di partenza. E tutti ragionano in questo modo. Un semplice esempio: se in una conversazione qualcuno menziona ‘concilio’ senza ulteriori dettagli, tutti automaticamente danno per scontato che si tratti del Concilio Vaticano II.

D: Qual è la tua opinione sugli umori liberali moderni tra i cattolici?

R: Sono molto contento di avere l’opportunità di rivolgermi al pubblico russo e di dire che non si dovrebbero ridurre tutti i cattolici a un livello. Tra loro ci sono quelli che vorrebbero essere più laici, più liberali. Non significa che siano criminali, è solo il loro punto di vista sulla vita. Ce ne sono altri, quelli che si dedicano completamente alla tradizione. Non li chiamerei tradizionalisti, perché la tradizione in sé non è così importante per loro. Questo non è un folklore antico che bisogna nutrire artificialmente e tenere a galla. No! La tradizione è per loro ciò che in ogni epoca ha assicurato e assicura tuttora il contatto personale vivo con Cristo, il vivere quotidiano nelle mani di Dio. Come disse Giovanni il Teologo: “Ciò che abbiamo visto e udito ve lo dichiariamo, affinché anche voi possiate essere in comunione con noi; e in verità la nostra comunione è con il Padre” se non l’avessero scritto e non l’avessero trasmesso, non ci sarebbe stato il Nuovo Testamento. Vuol dire che non ci sarebbe stato niente… 

 D: E quale dovrebbe essere, in questo caso, il nostro atteggiamento verso chi non è molto dedito alla tradizione?

R: Non dovremmo picchiarli e ovviamente non dovremmo cacciarli fuori dalla Chiesa. Ogni persona merita la misericordia cristiana. Se io, essendo ortodosso, vedessi un cattolico in una chiesa ortodossa, vorrei avvicinarmi a lui e dirgli apertamente, dolcemente e confidenzialmente: “Ascolta, fratello, ti potrebbe interessare sapere che all’inizio ci siamo tutti segnati in questo modo: da destra a sinistra. Ora tutto è cambiato. No, non ti sto chiamando a riconsiderare tutta la tua vita e correre verso la Chiesa ortodossa. Voglio solo che tu sappia da dove vengono le cose”.

Valam

 D: E perché ha scelto la Chiesa ortodossa russa?

A: Penso che il fattore chiave in tali decisioni siano le persone che ti circondano. Quando i miei conoscenti, i vescovi russi di San Pietroburgo, hanno appreso che stavo adottando l’Ortodossia, hanno detto: “Non siamo affatto sorpresi! Sei sempre stato con noi. Ma ora avremo una comunione più stretta, sacra – in un unico Calice.” Conosco da molto tempo il metropolita Hilarion, attuale capo del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato di Mosca. Ci siamo incontrati per la prima volta nel 1994 quando era uno ieromonaco. Lo considero un mio buon amico e apprezzo questa amicizia.

Il gerarca Hilarion, se vuoi, è una delle persone più competenti e informate che abbia mai incontrato. In realtà è diventato per me l’unica persona a cui potevo rivolgermi con la mia richiesta, che conosceva me, le mie convinzioni e la mia situazione. E che, come ne ero certo, era pronto a rispondere. Ed è quello che è successo.  

D: In che modo ti aiuterà a raggiungere il tuo ideale di vita spirituale?

A: Tu vuoi la profezia da me, ma io non sono un profeta. Non so nello specifico cosa accadrà dopo. Vivremo semplicemente. Anche adesso ho già trovato in Russia molte cose che mi interessano.

Ad esempio, ho visitato Valaam. Sapete, in Occidente se un credente è attratto da una vita nel più assoluto isolamento monastico, in realtà non ha nessun posto dove andare.

Gli eremi come sono in Russia, non esistono in Occidente. Questa forma di vita sembra essere già obsoleta. Come monaco sono costantemente alla ricerca del massimo isolamento, persino della solitudine. A Valaam, ho sentito che era tutto lì.

D: Non c’è abbastanza solitudine nel tuo skete in Svizzera? Valaam è anche un luogo affollato, i pellegrini vi vengono regolarmente.

R: La Svizzera è un paese piccolo e densamente popolato. Lo skete è circondato da una foresta, ma in 15 minuti a piedi c’è un villaggio con circa un centinaio di persone che vivono lì. A Valaam è molto più tranquillo. Sì, certo, ci sono molte persone lì. Ma il luogo stesso, come ho sentito, è isolato dal resto del mondo. Forse è così perché è un’isola, o forse è per altri motivi non geografici.

Mi sembra che tutto questo possa dar luogo a questo desiderabile stato di clausura nel cuore di tutti coloro che vi si recano.

D: È più difficile in Europa?

A: In parole povere, possiamo dire che in Occidente non esiste del tutto. L’autentica tradizione monastica in Occidente è stata praticamente soffocata nel corso della rivoluzione borghese francese nel 1789. Sono fermamente convinto che le conseguenze di questa rivoluzione per l’Europa non furono meno pesanti delle conseguenze della rivoluzione del 1917 e dei 70 anni del potere ateo per la Russia. In Francia dopo quei sanguinosi eventi il ​​monachesimo dovette essere restaurato quasi da zero. I sacerdoti comuni, non i monaci, dovevano eseguire questo. Non c’era nessun altro. In Russia il monachesimo è sopravvissuto nonostante tutti gli shock e gli orrori. Sì, è successo a livello di individui particolari, cioè gli anziani. Ma esistevano! E hanno mantenuto la tradizione spirituale e l’autentica vita monastica. Mi sembra che in tutto ciò che riguarda la vita monastica, la Russia non doveva ricominciare da zero. Questo è il motivo per cui mi dispiace sentire i russi dire a volte “abbiamo avuto tutto distrutto, la Chiesa è stata soppressa, ecc.” Voglio sempre rispondere: “Secondo me, avete tutto, nuovi martiri e confessori, monaci anziani”. E sono tutti vicini, allunga il braccio. Solo tu devi allungarlo, prendere questa ricchezza e usarla in pratica, per così dire, nella tua vita. Ho spesso l’impressione che la maggior parte delle persone in Russia non apprezzi questo. Oppure semplicemente non capiscono che questo è prezioso. 

D: Perché, secondo te, succede così?

R: Parlando di problemi, le persone si concentrano sulle difficoltà materiali, a volte esterne, che i monasteri e la Chiesa devono affrontare oggigiorno. Sì, c’è molto da ricostruire. Ma questa è solo la parte tecnica, per così dire, solo le pareti e i tetti. Inutile dire che la gente si lamenta: tetti e muri costano, e dove si possono trovare soldi… Ma se andiamo mentalmente sopra il tetto – anche con i buchi – vedremo che le mura non sono la cosa principale, è più importante con che tipo di cuore si entra nelle mura. Il proverbio russo dice: “La chiesa non è nei tronchi ma nelle costole”. E questa è la cosa più importante, questa tradizione spirituale, che è ancora all’interno dei russi. Gli anziani monastici e i nuovi martiri hanno preservato tutto questo per noi. A volte le persone discutono: “Ma ci sono così pochi anziani ora, la maggior parte di loro è già morta. Non c’è nessuno che ci insegni.” Rispondo sempre: “Se non hai un anziano vivente a cui insegnarti, rivolgiti al defunto. Hai la sua agiografia, i suoi testi, i suoi insegnamenti. Leggili e correla con la tua vita. Non intendo dire che non ho mai incontrato persone in Russia che conoscano e apprezzino questa conoscenza. Ci sono molte, molte persone che lo fanno e la mia visita a Valaam lo ha dimostrato.

Salta in acqua

D: Cosa deve cambiare ora nella tua vita quotidiana dopo la conversione?

R: Certo, ci sono cose che non possono che cambiare. Essendo diventato un membro della Chiesa ortodossa russa ma vivendo ancora in Svizzera, mi sottometto all’arcivescovo Innokenty di Korsun. I miei rapporti con la Chiesa cattolica non possono, naturalmente, rimanere gli stessi.

D: Quale reazione ti aspetti dai tuoi figli spirituali? Devono essere tutti cattolici…

A: In primo luogo, fortunatamente ho a che fare con persone comprensive e sono sicuro che rispetteranno la mia decisione. E in secondo luogo, non ho mai tenuto segrete le mie opinioni e convinzioni. Tutti i miei figli spirituali hanno saputo che il mio ideale di cristianesimo è in Oriente. Non credo che saranno così sorpresi. Non avevo detto loro nulla in anticipo per evitare discussioni inutili. Ma non credo che accadrà nulla di straordinario. Credo che la tradizione dei discorsi spirituali per i quali venivano i miei figli rimarrà, non ho motivo per fermarla. Infine, le persone con cui comunico regolarmente condividono più o meno il mio ideale spirituale; altrimenti non sarebbero venuti.

D: E i servizi divini?

R: Certo, d’ora in poi non potrò amministrare la comunione ai cattolici. Ma anche prima lo facevo molto di rado: lo skete è lontano dal grande mondo, il territorio è tenuto chiuso, anche i servizi sono privati, la cappella è piccola – per dieci persone al massimo. Solo a Natale e Pasqua apriamo le porte a tutti coloro che vogliono unirsi a noi.

D: Se potessi e volessi dare ai contemporanei un consiglio molto breve sull’organizzazione della loro vita di preghiera, cosa diresti?

A: Se vuoi imparare a nuotare, salta in acqua. Solo così puoi imparare. Solo chi prega sentirà il senso, il gusto e la gioia della preghiera. Non puoi imparare a pregare seduto in una grande poltrona calda. Se sei pronto a inginocchiarti, a pentirti sinceramente, ad alzare gli occhi e le mani al Cielo, allora molte cose ti saranno rivelate. Naturalmente puoi leggere molti libri, ascoltare lezioni, parlare con le persone: anche questi sono importanti e aiutano a capirne di più. Ma qual è il valore di tutte queste cose se non si fanno passi concreti dopo? Se non iniziamo a pregare? Penso che tu debba capire anche questo. Ovviamente, stai ponendo questa domanda dalla posizione di uno che non crede…

D: Esattamente. La nostra rivista è per coloro che dubitano.

A: Non c’è niente di sbagliato nei dubbi, sono anche utili. Non bisogna cercarli, però. Ma se compaiono, si deve semplicemente ricordare che tutti noi abbiamo la possibilità di sentire: “Porta il tuo dito e guarda le mie mani; e stendi la tua mano e mettila nel mio fianco: e non essere incredulo, ma credente” (Giovanni 20:27).




Padre Gabriel (Bunge) “L’ortodossia è il frutto di tutta la mia vita di cristiano e di monaco”

A cura dell’arciprete Pavel Velikanov
25 gennaio 2011 – Fonte: https://www.pravmir.com/article_1220.html

Tradotto da TEANDRICO

ARBERIA ORTODOSSA: Dal sito di Padre Massimo

Un famoso teologo cattolico svizzero, lo ieromonaco Gabriel Bunge, si è convertito all’Ortodossia il 27 agosto 2010 a Mosca, alla vigilia della Dormizione della Vergine Maria. È stato il metropolita Hilarion di Volokolamsk a ricevere p . Gabriele nella Chiesa Ortodossa. Siamo lieti di offrire ai nostri lettori la traduzione di due interviste a p. Gabriele. La prima intervista “Sono arrivato alla fede grazie ai miei coetanei ” è stata condotta dall’arciprete Pavel Velikanov , caporedattore del sito di teologia scientifica “Bogoslos.ru” nel 2008. All’epoca p. Gabriel era ancora un ieromonaco cattolico. La seconda intervista “ Non si può imparare a pregare seduti su una poltrona calda  è invece del tempo in cui Fr. Gabriel si è convertito all’Ortodossia. L’intervista è stata condotta da Russian Orthodox Christian Journal for Doubting Thomases – Foma.

Una breve nota biografica

Gabriel Bunge è nato nel 1940 a Colonia. Suo padre era luterano e sua madre era cattolica. All’età di 22 anni, p. Gabriele si unì all’Ordine di San Benedetto in Francia. Nel 1972 è stato ordinato sacerdote. Per molti anni p. Gabriele si dedicò allo studio delle opere di Evagrio del Ponto. Dal 1980 vive nello Skete della Santa Croce nel cantone svizzero Ticino seguendo l’antico typicon di San Benedetto. È autore dei seguenti libri: “I vasi di terra: la pratica della preghiera personale secondo la tradizione patristica”, “La Trinità di Rublev: l’icona della Trinità del monaco-pittore Andrei Rublev”, “Il vino del drago e il pane dell’angelo ”, “Paternità spirituale”, ecc.

Estratto dall’articolo “Ritorno all’Unità” dello ieromonaco Gabriel Bunge

La mia scoperta dell’Ortodossia non è stata il risultato di un qualche tipo di studio scientifico, ma il frutto di tutta la mia vita di cristiano e di monaco. Questa scoperta dell’Ortodossia, iniziata 40 anni fa ed è in corso fino ad oggi, ha assunto un significato specifico.  Mi ha permesso di entrare e penetrare in quello che possiamo chiamare “un mistero della Chiesa”.

Ricordo come sono arrivato a questa scoperta. Molto prima dell’università, quando ero molto giovane e studiavo nella scuola, ho iniziato a leggere i Santi Padri, per lo più monaci. Ho iniziato con gli Apophthegmata (detti dei Padri del deserto), San Giovanni Crisostomo e San Giovanni Cassiano che era una specie di ponte tra Oriente e Occidente nel IV- V secolo. In seguito ho cominciato a leggere “La Filocalia” in una breve edizione in tedesco.

Più tardi ho letto “Il cammino di un pellegrino”, che è stato tradotto in tedesco negli anni ’20. È stata davvero un’esperienza da togliere il fiato. Come è noto, questo libro è composto da più parti, ma io sono partito dalle tre storie e non sono arrivato alla parte teorica. E poi senza una guida spirituale e nemmeno una corda di preghiera, ho iniziato a praticare la preghiera di Gesù. Avevo 20 anni. Come un “pellegrino” russo, ho iniziato a imparare questa preghiera “di corsa”: mentre andavo all’università attraverso un parco la ripetevo costantemente nella mia mente. Ed è rimasta con me per tutta la vita, da allora non ho mai smesso di dire questa preghiera. È entrato nel ritmo della mia esistenza e del mio respiro. Non sapevo nulla dell’Ortodossia in quel momento.

All’epoca in cui studiavo a Colonia c’erano degli ortodossi ma non li ho mai incontrati. Poi, spontaneamente, ho ritrovato le origini della vita spirituale cristiana e monastica. Questa scoperta è diventata molto importante per me quando in seguito ho ripensato a tutta la mia esperienza e a tutta la mia vita. Così, per grazia di Dio, ho ricevuto la cosa più importante.

“Sono giunto alla fede grazie ai miei coetanei”

Fr. Pavel: Padre Gabriel, per favore ci dici come sei arrivato alla fede?

Fr. G.: Sono arrivato alla fede grazie ai miei coetanei, all’età di 17-18 anni. Il fatto è che la mia famiglia era un po’ strana, mista: mia madre era cattolica e mio padre protestante. Di norma, ne consegue che diventi, come si suol dire, “né pesce né uccello”. Ben presto ho scoperto di persona le opere e le vite dei Santi Padri, la vita di sant’Antonio Magno, i detti dei Padri del deserto, la Storia lausiaca, la breve Filocalia (non c’erano che brevi stralci di lingue straniere). Ma basta una piccola scintilla per appiccare un grande fuoco: avvicinatela e il fuoco si accenderà.   A me è successa una cosa simile. Volevo seguire quelli che avevo incontrato nei libri. Alla ricerca di ciò che era più genuino nella nostra Chiesa cattolica, sono entrato nell’Ordine di San Benedetto.

L’arciprete Pavel Velikanov e lo ieromonaco Gabriel (Bunge)

Ma prima ho fatto un piccolo viaggio in Grecia. È successo nel 1961, quando ancora studiavo a Bonn. Un giorno, per caso, sono entrato in contatto molto stretto con la Chiesa ortodossa. Sulla barca ho incontrato uno dei metropoliti greci che tornava dalla Palestina insieme a sacerdoti. Era come uno dei padri di cui ho letto, molto onorevole e con una lunga barba. Mi ha visto, un giovane, e mi ha chiesto di venire a sedermi con lui e mi mostrò i suoi libri.

Ho soggiornato due mesi in Grecia a Lesbo. Non c’erano molti turisti allora e, quindi, eravamo alloggiati tra famiglie locali. Vivevo in una famiglia di un prete. E naturalmente andavo in chiesa ogni domenica. La famiglia sapeva che ero cattolico, ma poiché non c’era nessuna chiesa cattolica in giro, stavo andando in una ortodossa. Tutti in famiglia erano gentili con me e mi trattavano con molto amore. Sul piccolo ingresso mi hanno persino portato il Vangelo da baciare come se fossi un ospite d’onore.

Inoltre devo dire che prima di quel viaggio ero molto prevenuto nei confronti della Chiesa ortodossa; ero negativamente incline all’Ortodossia.

Fr. P.: Qual era stato il motivo di un atteggiamento così negativo?

Fr.G.: Gli insegnanti mi hanno detto di stare attento con questa Ortodossia. Dissero che gli ortodossi sono scismatici. Quindi durante il mio viaggio era come se indossassi un paio di guanti per non macchiare la mia purezza romana dal contatto con gli ortodossi.

E ovviamente non ho avuto problemi. I greci erano molto amichevoli e gentili. Mi è stato anche permesso di entrare nell’altare anche se non era giusto secondo i canoni. In una parola, i miei pregiudizi diminuivano ogni giorno.

Alla fine sono andato ad Atene per una settimana e lì ho vissuto nel seminario teologico insieme ad altri seminaristi. Durante una conversazione con loro ho avuto un’esperienza che ha cambiato la scala. Ho detto loro: “Bene, nella vostra Chiesa va tutto bene, ma mi dispiace che vi siete staccati da noi”. E loro hanno risposto: “No, ti sbagli. Sei stato tu a staccarti da noi”. Sono rimasto sbalordito. In Germania incontriamo solo protestanti e sappiamo tutti che sono scismatici, il che significa che sono stati loro a staccarsi una volta dalla Chiesa cattolica. Ma qui questo schema non ha funzionato perché la domanda riguardava la Chiesa che ha origine dagli Apostoli. L’apostolo Paolo aveva camminato su queste terre prima di venire a Roma.

Avevo 21 anni in quel momento. Ho iniziato a pensare a tutto, e anche adesso non ho smesso di farlo. Dovevo rendermi conto che avevano ragione su molte questioni anche dal punto di vista scientifico. Non c’è nemmeno niente da discutere perché è inutile difendere qualcosa che non può essere difeso in linea di principio. I risultati delle mie riflessioni si possono trovare nel mio libro “Earthen Vessels” che è stato tradotto in russo. Questo libro tratta della pratica della Preghiera di Gesù secondo gli insegnamenti dei Santi Padri. Ed è abbastanza chiaro che la pratica della Preghiera di Gesù era la stessa sia in Oriente che in Occidente.

Fr. P.: Sarebbe interessante scoprire qual è la preghiera di Gesù nella tradizione occidentale? Molto spesso possiamo sentire che il carattere specifico del cristianesimo orientale è nell’opera interiore che è assente in Occidente. Quanto è veritiero questo punto di vista?

Fr. G.: All’inizio, direi, che la Chiesa cattolica è una grande organizzazione composta da miliardi di cattolici. Il cattolicesimo ha diversi movimenti interni che possono entrare in conflitto tra loro, anche escludersi a vicenda. Molti notano che, grazie alla scoperta dell’Ortodossia in Occidente, le persone stanno cominciando a trovare un rinnovato interesse per le proprie origini spirituali. Spesso questo tipo di scoperta avviene con l’aiuto di icone, canzoni e libri. Ci sono molti santi russi che sono venerati nel mondo cattolico: San Silvano l’Athonita, San Serafino di Sarov… Qui tonsuriamo molti monaci con il nome di Serafino. Serafino di Sarov è persino incluso nelle litanie per la commemorazione.

Ma ci sono anche cose molto strane. E qui parlo prima di tutto da monaco.

L’origine del monachesimo occidentale è dall’Oriente. Giunse in Occidente abbastanza presto: la vita di sant’Antonio fu scritta da sant’Atanasio su richiesta dei monaci latini. Se non l’avessero chiesto, la sua vita non sarebbe stata scritta. L’originale è in greco, ma i manoscritti più antichi sono in latino.

Quindi, l’Oriente è stato la linea guida per il monachesimo per molti secoli. Ma devi sempre riscoprire questa linea guida per te stesso… Una volta che la perdi, devi concentrarti di nuovo su di essa. Abbiamo potuto vedere nei secoli come l’Occidente riscopra periodicamente l’Oriente. Ad esempio, ci sono trattati in Francia che potrebbero trovare il loro posto in “La Filocalia”. C’è un articolo interessante a riguardo scritto da uno storico ortodosso Jean-Paul Bess intitolato “Le impronte dell’esicasmo in Occidente”. Un personaggio interessante che ho scoperto di persona è l’abate de Rancé (1626-1700), fondatore del monastero di La Trappe. Era un contemporaneo di San Paisius Velichkovsky, ma la sua scuola, i Trappisti, non esiste più nella forma originale rispetto a San Paisius Velichkovsky.

Le vite di molti monaci, ad esempio, dell’anziano Giuseppe l’Esicasta sono molto popolari in Occidente e sono tradotte in molte lingue. Il libro “Il Cammino del Pellegrino” è stato tradotto nel XX secolo. Questo libro mi ha ispirato. Ero uno studente a quel tempo e non avevo mai visto una corda di preghiera. Ho letto che puoi anche pregare la preghiera di Gesù mentre cammini. E ho iniziato a pregare mentre camminavo. Sulla strada per l’università e ritorno, ho sempre detto la preghiera di Gesù e mi è entrata nel cuore.

Ora la preghiera di Gesù è molto popolare in Occidente. A proposito (“sorridendo”), se vuoi farmi piacere, dammi in regalo delle corde di preghiera, corte o lunghe, poco importa. I fedeli che mi visitano e vengono a confessarsi spesso le chiedono.  

Prego Dio che non dimentichiamo più, e passano altri cento anni, e dobbiamo riscoprire la spiritualità orientale. Oggi dobbiamo andare al nocciolo delle cose: le Chiese d’Oriente e d’Occidente devono unirsi. Ne parlo liberamente. Non bruciano più le persone sul rogo. Non stiamo parlando di ecumenismo. Quella parola è già diventata ambigua. Pensiamo subito al Dalai Lama, ecc. Non parlo nemmeno dell’unità della Chiesa, perché “unità” è intesa da ciascuno a modo suo. Quella stessa parola può significare molte cose. I cattolici contemporanei possono considerare “l’unità” in una sola forma, quella con cui sono cresciuti nella Chiesa cattolica. I cristiani ortodossi non conoscono quel tipo di unità istituzionale. Dentro una chiesa locale? Sì. Ma non tra chiese locali. Ed è per questo, purtroppo, che non esiste un meccanismo per la composizione delle controversie interne. C’è sobornost , ovviamente, ma questa è un’altra domanda.

Tornando all’argomento, devo dire che bisogna sempre tornare ai Padri. L’antica liturgia “ambrosiana” contiene una litania che durò fino al Concilio Vaticano II ma poi andò perduta. Conteneva la seguente petizione: “Preghiamo per la pace tra le Chiese, per la conversione degli infedeli e per la pace tra i barbari”.

Che cos’è questa pace tra le Chiese? Le “Chiese” sono qui al plurale, sebbene il Credo menzioni una sola Chiesa. Ma una Chiesa esiste solo in un gran numero di chiese. Questa litania è il programma che deve essere eseguito. Dobbiamo lavorare per mantenere in pace le nostre chiese.

Oggi possiamo vedere i segni che dimostrano che è possibile. In Occidente, la Chiesa ortodossa è una minoranza. Non è grande; molto spesso una congregazione non è nemmeno in grado di costruire una propria chiesa. Tuttavia, non ci sono problemi quando la Chiesa cattolica cede le sue chiese alle parrocchie ortodosse. Ad esempio, il cardinale di Milano consegnò tre grandi chiese antiche. I nostri credenti sono molto felici quando questo accade. Le persone sono amichevoli con i fedeli ortodossi nelle vicinanze. Penso che mai prima d’ora gli occidentali abbiano provato così tanta simpatia per i cristiani orientali come adesso. L’Occidente ci guadagna solo da questo.

So che questo non sarebbe possibile in Russia. E ci sono alcune ragioni storiche che potrebbero spiegarlo. Certo, c’è stata una certa evoluzione in merito a questo tema, ma i vostri problemi non sono opera mia… Per me personalmente l’ideale sarebbe la pace tra le Chiese, l’attenuazione dei pregiudizi esistenti al minimo delle questioni più importanti in modo che con rispetto reciproco si può decidere su queste questioni in futuro.

Fr. P.: La prossima domanda riguarderebbe quegli esempi che spesso vengono presi dagli ortodossi come indicatori di un falso orientamento del misticismo cattolico. Se per l’Oriente la purezza cristallina dell’anima è la condizione principale per il lavoro interiore affinché la Luce Divina agisca in essa, allora gli esempi di asceti come Teresa d’Ávila mostrano qualcosa di completamente opposto: lo scopo di podvig è raggiungere all’estasi in cui una persona sperimenta Dio. Potresti per favore commentare questo?  

Fr. G.: Ci sono due tipi di misticismo nella Chiesa cattolica: trattenuto (lavoro interiore) ed estatico. Entrambe le scuole sono radicate nella tradizione monastica. La prima scuola che ebbe origine nei SS. Macario, Antonio ed Evagrio è il misticismo interiore, il “lavoro interiore”. Ma le Omelie di San Macario contengono anche l’altra scuola, il misticismo più affettivo. Perciò è tradizionalmente considerato appartenente al monachesimo addolcito o semimessalianesimo, cioè una specie di monachesimo estatico. Penso che qui potremmo vedere solo due diversi temperamenti spirituali che si confrontano. Ecco perché è difficile trovare un linguaggio comune. Il seguace del lavoro interiore potrebbe dire al suo avversario: “Sei troppo sensuale”, e quest’ultimo potrebbe rispondere: “Sei troppo ragionevole. Non hai alcuna esperienza interiore”. Ed entrambe queste opinioni sarebbero sbagliate.

Tuttavia, devo ammettere che nel Medioevo c’erano movimenti mistici puramente femminili in Occidente che mi sembrano strani e sono al di là della mia comprensione. Appartengo a un’altra scuola. Non ho niente che possa aiutarmi a capire o a sentire profondamente quel misticismo affettivo ed estatico. La regola principale di qualsiasi vita spirituale per me è la restrizione e la mancanza di esaltazione perché l’esaltazione stessa è un terreno per il prelest demoniaco. Questa esperienza la troviamo oggi nei carismatici. Per evitare errori che Evagrio chiama imitazione di stati spirituali e mistici, dobbiamo essere molto attenti, saggi e possedere semplicità e purezza. Oggi è chiamata una condizione auto-suggerita, cioè una condizione immaginativa mistica (spirituale). 

S. Teofano il Recluso, che è molto popolare in Occidente, tra l’altro, comprese molto sottilmente la questione dei mistici occidentali. Una volta esclamò: “Oh, questi occidentali, non sanno distinguere tra psichico e spirituale!” E davvero, quando parlo con le persone che vengono a confessarsi, vedo quanto spesso mescolano queste cose. Bisogna insegnare e aiutare le persone a vedere la differenza tra i loro sentimenti e la vera spiritualità di Dio. Le persone spesso sentono qualcosa nel profondo e pensano “Eccola, ecco quella vera spiritualità”.

Fr. P. Hai appena toccato una questione molto importante. Sia Ignazio di Loyola nel suo libro “Gli Esercizi Spirituali” che Thomas à Kempis nel suo libro “L’imitazione di Cristo” sottolineano come più importante lo sviluppo dell’immaginazione. Si può dire che, anche se è solo una delle tante scuole della Chiesa cattolica, è comunque abbastanza importante e ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa cattolica?

Fr. G. No, non è dominante, ma è ancora molto diffusa tra i gesuiti. Praticano questi metodi di imitazione di Cristo anche oggi.

A proposito, il libro “L’imitazione di Cristo” era molto popolare in Russia in un certo periodo. Ora il lavoro sull’influenza di questo libro sulla Russia e la sua storia è in preparazione per la pubblicazione. Ho chiesto all’autore di questo libro se c’è un impatto sulla popolarità di questo libro sull’immagine di Cristo sull’iconografia. Ho posto questa domanda perché sembrava che in un certo momento Cristo sulle icone russe avesse un aspetto molto umano che non puoi trovare nelle icone bizantine, una sorta di senso morbido e tenero. Da che momento è successo?   Questa sarebbe una domanda per gli storici dell’arte.

Fr. P:. Quali opere di San Teofane il Recluso sono più popolari in Occidente?

Fr. G. Ci sono alcuni opuscoli ed estratti delle sue opereL’igumeno Chariton di Valaam ha scritto un libro tra due guerre mondiali intitolato “L’arte della preghiera”. È un’antologia sulla preghiera basata sulla sua conoscenza ed esperienza. Parte di questo libro che contiene estratti dagli insegnamenti di San Teofane il Recluso è molto popolare.

Fr. P.: Non crede che lo scopo principale del clero e del monachesimo moderno sia quello di adattare la tradizione dei Santi Padri alle persone contemporanee? Questo era lo stesso scopo di San Teofane il Recluso

Fr. G. Ebbene, credo che gli ultimi insegnamenti dei Santi Padri debbano essere appresi insieme agli insegnamenti dei primi Padri. Ogni Padre successivo deve essere verificato con testi precedenti. Questo è il mio metodo.

Quando un principiante viene da me, riceve da me dei testi di base, che sono i detti dei Padri del deserto, La Filocalia ecc. Dopo aver letto quei testi può leggere tutto ciò che vuole. Per prima cosa bisogna coltivare il gusto. Quando il gusto è raffinato, si può dire se l’opera è vera oppure no.

Se inizi la tua lettura con gli insegnamenti del misticismo femminile del 13° secolo, rovinerai per sempre il tuo gusto spirituale. Ma se hai un gusto sano, puoi anche leggerlo e riuscire a trovare qualcosa di utile per te stesso.

Fr. P.:   Ho un’altra domanda sull’ascesi. Si può dire che il monachesimo è l’élite, l’avanguardia della Chiesa, anche se la maggior parte dei fedeli è laica. Ovviamente, l’etica cristiana è impensabile senza l’ascesi. Quale potrebbe essere, allora, il sostegno per i cristiani nel mondo? Quando la vita monastica si imprime nella vita familiare, quest’ultima viene rovinata insieme al cristianesimo. Ecco perché il cristianesimo è oggi accusato di “antiumanità”. Tutti dovrebbero diventare monaci; la vita nel mondo è accettata ma non accolta. Un simile approccio diventa una barriera per coloro che aspirano al cristianesimo: vogliono godersi la vita, che non significa peccare ma vivere pienamente. Potrebbero essere nella Chiesa, ma purtroppo spesso la evitano.

Fr. G. In primo luogo, non esiste una spiritualità separata per monaci, laici e sacerdoti. La spiritualità cristiana è una per tutti. Se guardi dall’esterno al cristianesimo, potresti davvero dire che il monachesimo è l’élite della Chiesa. Ma ogni singolo monaco non dovrebbe pensare in questo modo, non dovrebbe considerarsi nell’élite. C’è un noto detto di un Padre del deserto che ha affermato che vive nel deserto perché non è abbastanza buono per vivere nel mondo. La migliore virtù sia per un monaco che per un laico è l’umiltà.

Penso che l’amore profondo e la compassione per tutti siano le caratteristiche distintive degli anziani ortodossi. Ne hai molti in Russia e ne ho conosciuto uno dalla Romania personalmente.

Un giorno stavo viaggiando verso l’Athos in barca insieme a molte persone diverse: uomini d’affari, banchieri, ecc. Stavano andando dai loro padri spirituali. Dissero: “I nostri padri spirituali sull’Athos sono molto severi. Ma ci conoscono molto bene e sanno di quale trattamento abbiamo bisogno per le nostre malattie”. C’erano molti giovani tra loro, molti padri di famiglia. Potevano visitare qualsiasi altro padre spirituale nel mondo che potesse dire: “Tutto questo non ha molta importanza”. Ma queste persone stavano andando da un asceta severo, che avrebbe pianto con loro per i loro peccati e avrebbe dato loro un trattamento che avrebbero potuto sopportare e che li avrebbe guariti. Avrebbe detto una cosa a una persona, a un’altra persona qualcos’altro.

Tornando alla tua domanda, devo dire che mi imbatto in questo problema quasi ogni giorno. Ho lasciato il mondo 28 anni fa per diventare un eremita. Mi dispiace ma parlerò un po’ di me. Non avevo intenzione di fare lavoro scientifico o pastorale. Ho tradotto le opere che mi sembrano importanti. Volevo renderle accessibili agli altri. Ma come può l’uomo contemporaneo del 20° secolo intendere un testo del 4° secolo? Ho dovuto aggiungere un po’ d’acqua a questo “buon vino” per renderlo comprensibile alle persone. E, ultimamente, le persone hanno iniziato a chiedere il mio consiglio. A poco a poco sono diventato un padre spirituale per molti di loro. La maggior parte di loro, circa il 90%, sono uomini di famiglia. Non ci sono molte donne perché il monastero è chiuso per loro e non molti sacerdoti.

Cosa posso fare per aiutare i miei fratelli che sono uomini d’affari, professionisti nel mondo? Come posso aiutarli a vivere una vera vita cristiana mentre tutto intorno vi si oppone?

Prima di tutto do loro una regola di preghiera adattata alla loro vita personale, a seconda di quanti anni hanno e quanti figli hanno. Penso che ci sia un solo modo di pregare. Non esiste una cosa come una speciale preghiera monastica. I monaci hanno solo più tempo per farlo. C’è la preghiera di Gesù e anche le altre preghiere. E ogni mattina, ogni sera queste persone stanno in piedi davanti alle icone e pregano. Nella loro vita “normale” cercano lo stesso che facciamo noi monaci. Sono stupito di come questa “disciplina monastica” cambi la vita delle persone. Non sto cercando di imporre loro la vera disciplina monastica. Alcune scuole carismatiche cercano di farlo, ma tali tentativi finiscono sempre con un fallimento.

Fr. P.: Abbiamo diverse domande non molto profonde ma molto importanti. Quali sono, secondo lei, le scoperte più importanti della teologia occidentale avvenute di recente?

Fr. G. Non le seguo più; Non sono nemmeno in grado di farlo perché non sono abbonato a riviste. A volte leggo solo alcune opere interessanti. Quanto alla scienza della Chiesa, non lo so. 

Fr. P:. Qual è stata per te personalmente la scoperta più importante negli insegnamenti dei Santi Padri?

Fr. G.: Leggendo Isacco di Ninive (di Siria), ho capito che i Padri si ispiravano alle opere di Evagrio del Ponto. Ho deciso di saperne di più su di lui, ho imparato la lingua siriana e ho scoperto che ci sono molti pregiudizi su di lui. Il fatto è che nel V Concilio Ecumenico non fu condannato personalmente, ma solo in connessione con gli Origenisti. Dal momento che fu deciso che fosse un Origenista, gli furono imputate cose impossibili.

Quando tocco questo argomento con qualcuno, dico: “Evagrio è accusato di essere in disaccordo con quasi ogni affermazione della cristologia ortodossa. Bene, ma non ti sembra strano che San Basilio Magno non abbia notato in lui niente di simile? E neanche Gregorio il Teologo se n’era accorto. Inoltre, Teofilo d’Alessandria volle farlo vescovo (si sottrasse). Anche gli antiorigenisti (Epifanio di Cipro, Geronimo) non accusarono mai Evagrio di nulla, sebbene lo conoscessero personalmente. Stiamo sbagliando da qualche parte?”

Così ho iniziato a studiare seriamente Evagrio. L’ottava lettera di San Basilio Magno, tradizionalmente attribuita a San Basilio, fu senza dubbio scritta da Evagrio. Questa lettera contiene tutto l’insegnamento di Evagrio. Significa che Evagrio può essere letto sempre in modo ortodosso. Ma può anche essere letto in modo non ortodosso. Il problema è nel metodo. Potrei anche citare “Sulla Preghiera”, noto come opera di Nilo di Ancyra. I nomi dei santi padri ortodossi sono stati apposti sulle opere di Evagrio per salvarli e per leggerli in modo ortodosso. È davvero possibile leggere le sue opere dal punto di vista ortodosso. Lo valuto da questo punto di vista.

Fr. P. Utilizzi Internet?

Fr. G. No. C’è una foresta tutt’intorno…

Fr. P. Significa che ti sei tenuto completamente alla larga dal mondo.

Fr. G. Ho solo un telefono. E c’è una macchina da scrivere come computer.

Fr. P. Purtroppo oggi esistono molti miti e leggende sul misticismo occidentale. È molto desiderabile ottenere una certa accuratezza scientifica in questa domanda. La tua attività di scienziato, monaco, teologo è per noi molto interessante. Pertanto, vorremmo rimanere in contatto con te, anche per iscritto. Ti sei isolato dal mondo, ma non ti lasceremo solo! 

Fr. G.: Come posso rifiutarmi di rimanere in contatto con te? Ho dedicato uno dei miei migliori libri alla Confraternita di Lavra.

Traduzione in italiano dall’inglese di un originale russo.




FALSO: Tutte le vie alla fine conducono al medesimo obiettivo!

Non tutte le religioni o le fedi sono uguali. La dottrina massonica attualmente in voga vuole insegnare che è indifferente la professione di fede. Non ci sono dogmi. Tutte le vie alla fine conducono al medesimo obiettivo. Più mondanamente il proverbio diceva che tutte le strade portano a Roma. Si predica un blando umanesimo egocentrista che in realtà ha condotto a due guerre mondiali e siamo sull’orlo della terza! Ogni uomo è dio a sé stesso. Una dottrina di chiara matrice satanica.

“Io sono la via, la verità e la vita”

Gv 14,1-12: [In quel tempo], Gesù disse: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: «Vado a prepararvi un posto»? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: «Mostraci il Padre»? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

Il Dio rivelato dal suo Figlio ha il nome di Abbà: “Papà”. Allargando il quadro è un Dio che condivide la stessa sostanza in tre ipostasi personali: il Padre il Figlio e lo Spirito Santo. La Trinità nel nome della quale siamo stati battezzati. Un Dio attento ai propri figli, che ascolta il grido di Israele in Egitto, che li corregge, gli viene incontro, li attende amorevolmente nei loro sbagli come quel Papà che abbraccia il figliol prodigo quando “rientrò in sé stesso”.  (Luca 15,11-32)

Questo è, molto sinteticamente, il volto del nostro Dio.

In un’intervista ad Osho di Enzo Biagi (Osho è stato uno dei guru più in voga negli scorsi decenni, star della new age, predicatore di questa nuova spiritualità senza Dio) il santone fa un identikit del suo dio.

“Non avete bisogno di un Gesù Cristo che vi conduca in paradiso; siete in grado di essere in paradiso qui e ora.  Perché il paradiso non è da qualche parte nell’alto dei cieli. È qui, da qualche parte!”.

Trovate differenze tra queste parole e il brano evangelico? A me pare di si…ma in molti oggi direbbero che non è importante, che è uguale! Chiunque può trovare la via del Paradiso e quindi è inutile Gesù, la sua incarnazione, la sua morte e la sua resurrezione. Tu ce la fai tranquillamente con le tue forze. Tu sei dio a te stesso.

“Il segreto della felicità è tutto qui: qualsiasi cosa fai non permettere al passato di distrarre la mente e non permettere al futuro di disturbarti. Perché il passato non esiste più e il futuro non esiste ancora.”

“Nel qui e ora non troverai Dio, ma qualcosa di più grande: troverai un’essenza divina. Questo è il termine che designa l’esperienza suprema della beatitudine. Ricorda quelle due parole: qui e ora, e conoscerai il segreto della felicità suprema”.

Riecheggia qui l’antico brano della Genesi quando il serpente suggeriva ai progenitori di mangiare dell’albero che non solo non sarebbe sopraggiunta la morte ma si sarebbero addirittura schiusi gli occhi alla conoscenza del bene e del male. Dio mente, diceva il serpente antico, Gesù non serve ribadisce il guru moderno. A che servono questi sacrifici, del non mangiare dell’albero, della via stretta, della croce, se la suprema beatitudine può essere acquistata con più semplicità? Quindi Dio, così come rivelato dal Cristo Signore, non esiste per Osho. Non troverai Dio nel qui ed ora. Troverai solo un’essenza divina, impersonale, inerte. Questo l’insegnamento della gran parte della spiritualità spacciata nel grande ipermercato moderno. Non serve grosse impegno, basta rimanere concentrati. Una flebile risonanza di dottrine “orientaleggianti” ad uso quotidiano che non richiede grande fatica. Basta concentrarsi un attimo, di tanto in tanto, quanto ne hai il tempo per sperimentare il paradiso; meglio se attraverso i consigli pagati di un famoso guru, in un’elegante palestra in centro città o addirittura senza muoversi di casa…online!

Rispettando le idee di tutti, il nostro Dio ci ha lasciato liberi di scegliere e anche di sbagliare, lo scopo di questo piccolo articolo è quello di manifestare chiaramente che non è assolutamente vero la teoria moderna para massonica che tutti i messaggi, tutte le religioni, tutte le fedi sono uguali. Non tutte conducono al Padre, molte conducono ad una “suprema beatitudine” donata con semplicità da una non meglio identificata “essenza divina”.

Altre, spesso nate negli stessi circuiti new age, promettevano e promettono la stessa “suprema beatitudine” grazie a delle “essenze chimiche”; si prende una pillola, una sostanza, un’erba, così quando ti pare, e sei in paradiso…semplice!

Marco 8,34-35: “Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. 35 Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà”.

No, non tutti i percorsi sono uguali, ci sono le vie strette e quelle larghe. No non tutte le strade portano in Paradiso! Confidiamo nella grande misericordia di Dio e preghiamo per tutti noi peccatori affinché possiamo conoscere ed imboccare la strada giusta!

Per le preghiere dei nostri santi Padri, Signore Gesù Cristo Dio nostro, abbi pietà di noi e salvaci!

TEANDRICO.IT




Padre Seraphim Rose: una breve biografia

La vita ortodossa: P. Seraphim (Rose) di Platina: La visione ortodossa del  mondo

Uno strano “segno dei tempi” ha visto sorgere in un territorio apparentemente inconsueto (la California) e in un ambiente culturale dei più impensabili (la Beat generation) una delle voci più profetiche dell’Ortodossia del ventesimo secolo. Un umile convertito americano, vissuto per gran parte della sua vita in uno stretto isolamento, e morto (per i criteri di questo mondo) nel fiore dei suoi anni, è oggi a livello internazionale una delle figure più conosciute del monachesimo ortodosso.
Eugene Rose nasce nel 1934 a San Diego, sulla costa meridionale della California, da una famiglia che incarnava il tipico “sogno americano” (laboriosità, benessere economico, una vaga religiosità vissuta all’interno di “rispettabili” comunità protestanti, valori morali perseguiti in modo onesto ma superficiale). La sua educazione è il prodotto tipico dell’America del dopoguerra, e di tutte le sue inquietudini e contraddizioni. Avvertendo un vuoto di fondo alla base di questa visione del mondo, lo spirito intelligente e analitico di Eugene lo porta negli anni universitari a immergersi nel mondo della contro-cultura californiana degli anni ’60.
Come molti suoi contemporanei, Eugene inizia un cammino di conoscenza delle religioni e filosofie dell’estremo Oriente, ma rimane presto insoddisfatto della gerarchia di valori “alternativi” proposti dall’incontro tra queste millenarie tradizioni e la mentalità moderna dell’Occidente. La debolezza e il relativismo delle risposte della contro-cultura stimolano in lui un cammino di scoperta di una verità più profonda.
In un periodo di ricerca di un nucleo di verità comuni alle grandi tradizioni religiose, viene in contatto con la Chiesa ortodossa, e inizia a frequentare la cattedrale della Chiesa Russa all’Estero a San Francisco. Questo incontro è il seme di una trasformazione interiore che, in capo a un paio di anni, gli fa acquisire una visione rinnovata.
A contatto con l’Ortodossia, la fede cristiana dei suoi anni di infanzia gli si ripresenta nella pienezza di una verità trasformante, fattasi persona (un tratto di netta distinzione con le filosofie spiritualiste allora in crescita), ed espressa in una continuità ininterrotta di fede e di dottrina. Trovando finalmente un’autentica alternativa agli approcci parziali e accomodanti del cristianesimo occidentale, e alle soluzioni altrettanto ristrette della contro-cultura, Eugene entra a far parte della Chiesa ortodossa nel Febbraio 1962.
Con la nuova prospettiva fornitagli dalla visione ecclesiale ortodossa, Eugene può sviluppare un’analisi critica del mondo moderno: inizia a dedicarsi alla stesura di un libro che passa in rassegna le tappe della progressiva scristianizzazione degli ultimi secoli, e mostra come il graduale allontanamento dall’ordine tradizionale apre la strada a un futuro ben più inquietante di quanto si creda. Quest’opera, il cui titolo avrebbe dovuto essere Il regno dell’uomo e il Regno di Dio, è rimasta incompleta: Il testo pubblicato anche in italiano, Nichilismo. Le radici della rivoluzione nell’età moderna (Schio: Interlogos 1998), non ne copre che un singolo capitolo.
Tra i numerosi incontri che arricchiscono la vita ecclesiale di Eugene, è decisivo quello con Gleb Podmoshensky, un seminarista di famiglia russo-lettone, che è al suo fianco nel cammino di approfondimento della fede ortodossa, e che in seguito condividerà con lui la vocazione eremitica e monastica e il sacerdozio.
Nel Novembre 1962, viene insediato a San Francisco uno dei più straordinari vescovi ortodossi del ventesimo secolo, che avrebbe lasciato una decisiva impronta su Eugene e sul suo cammino: si tratta del santo Arcivescovo John Maximovich (la cui canonizzazione ha avuto luogo a San Francisco nel 1994, a opera delle gerarchie della Chiesa Russa all’Estero e del Patriarcato di Serbia).
L’Arcivescovo John giunge in California dopo una vita di infaticabile opera missionaria in Asia (era stato consacrato in origine come Vescovo di Shanghai), Africa, e in vari paesi d’Europa. La sua fama di asceta e taumaturgo lo ha preceduto da tutti questi luoghi, così come i frutti della sua visione apostolica, non sempre compresa dalle stesse gerarchie ortodosse.
L’ideale perseguito dall’Arcivescovo John è la costituzione di un’Ortodossia occidentale, non tramite la fondazione di “filiali” delle Chiese orientali storiche, ma attraverso la rigenerazione, compiuta all’interno della vita ecclesiale ortodossa, delle radici cristiane ortodosse dell’Occidente contemporaneo. Questo compito davvero arduo ha ricondotto molti francesi all’Ortodossia, e ha aiutato a creare in altri paesi (tra cui i Paesi Bassi e la stessa Italia) un clima favorevole alla costituzione di una Chiesa ortodossa genuinamente locale.
Ispirati dall’Arcivescovo John, Eugene e Gleb, assieme ad alcuni amici, si costituiscono in una fraternità, posta sotto il patronato di uno dei primi evangelizzatori ortodossi in America: il beato Herman dell’Alaska. Tra gli scopi della fraternità, oltre a un esperimento di vita comune tra giovani attivisti della Chiesa, vi è la diffusione degli insegnamenti patristici e ascetici dell’Ortodossia: un campo per il quale l’Occidente inizia in questi anni a mostrare i primi, timidi segni di interessamento.

Icon of the Righteous Seraphim (Rose) of Platina - With Gospel (1SR14) -  Uncut Mountain Supply

I fratelli preferiscono operare attraverso modalità non necessariamente vincolate alle strutture parrocchiali esistenti, e decidono di aprire un negozio di libri e icone a San Francisco: in questo modo sono in grado di estendere una testimonianza di fede ortodossa a molte persone per diverse ragioni estranee agli ambienti ecclesiali, per ignoranza, distanza culturale o per un esplicito rigetto delle tradizioni.
Molte sono le persone che scoprono l’Ortodossia attraverso la libreria gestita dalla fraternità, e diversi iniziano qui un cammino di fede che li porta in seno alla Chiesa.
Con la benedizione dell’Arcivescovo John, la fraternità inizia nel 1964 la pubblicazione della rivista The Orthodox Word (La parola ortodossa), che per oltre un trentennio ha continuato a fornire traduzioni di testi patristici (molti dei quali apparsi per la prima volta in una lingua occidentale), scritti spirituali, vite di santi e testimonianze dell’Ortodossia sofferente.
Un compito particolarmente sentito dai fratelli, attraverso le pagine della rivista e l’impegno di testimonianza personale, è quello di suonare una nota di cautela nei confronti del gusto di compromesso con il mondo che sta inizando a intaccare, in quegli anni, alcuni ambienti delle giurisdizioni ortodosse più propense al dialogo ecumenico e ai confronti con la civiltà contemporanea.
Dopo la morte (nell’estate del 1966) dell’Arcivescovo John, il timore di coinvolgimento dell’attività missionaria ortodossa in una politica di rivalità ecclesiastiche, a livello parrocchiale e diocesano, è la molla che spinse Eugene e Gleb ad abbandonare San Francisco e a ritirarsi in solitudine, fondando uno skit (eremo).
Nel 1967, dopo avere trovato un terreno boschivo a Platina, nella California settentrionale, Eugene e Gleb abbandonano il mondo e vi si trasferiscono, combinando la loro missione di traduzione, stampa e diffusione di testi patristici con una vita di stile monastico nella frontiera occidentale americana.

Parrocchia ortodossa - Documenti

La vita di fratellanza nel deserto, iniziata tra mille difficoltà pratiche, è però sostenuta dalla sapiente esperienza di secoli di monachesimo ortodosso: i fratelli sono in grado di applicarne gli insegnamenti in un modo più efficiente (e senza dubbio più vissuto) di quanto avevano potuto fare nel loro periodo di apostolato urbano.
Nel 1970 ha luogo la canonizzazione del Beato Herman dell’Alaska, il patrono delle attività missionarie della piccola fraternità: pochi mesi dopo, anche i due fratelli accettano di essere tonsurati monaci, Eugene con il nome di Seraphim, e Gleb con quello di Herman.
La tonsura monastica, che era sembrata ai due fratelli il naturale coronamento della loro scelta di vita eremitica, dà luogo a vari problemi con l’Arcivescovo locale; il desiderio di quest’ultimo di assegnare Padre Seraphim e Padre Herman come parroci in chiese prive di pastore rischia di distruggere le attività missionarie e la loro esperienza di monachesimo del deserto.
Con il tempo, tuttavia, cresce l’affluenza di pellegrini e fedeli, che cercavano attraverso i due padri una luce spirituale per orientare la propria vita cristiana; arrivano anche novizi, e all’eremo di Platina si istituisce un percorso di studi religiosi monastici. L’esperienza missionaria della fraternità aveva preparato i padri Herman e Seraphim ad affrontare i casi più diversi, e talvolta più disperati, di necessità spirituali.
Nella sua opera di trasmissione dell’esperienza monastica, Padre Seraphim si adopera con incredibile energia per far comprendere la validità del monachesimo ortodosso anche in un mondo pieno di alternative religiose: dalle sue lezioni ai novizi, si sviluppa un vero e proprio “corso di sopravvivenza ortodossa”, che spazia su ogni campo dello scibile umano.
L’isolamento dell’eremo di Platina, lungi dall’attenuare la sensibilità ecclesiale dei padri, permette loro di valutare con un maggiore distacco alcuni temi delicati della vita ortodossa americana, tra cui lo stesso zelo per la tradizione, che aveva portato in altri contesti a un certo intransigentismo. Sono interessanti alcuni tentativi, compiuti da Padre Seraphim nei suoi ultimi anni, di contrastare con un approccio di moderazione gli eccessi di “rinnovamento” all’interno dell’Ortodossia, sia in senso modernista che conservatore.
Solo alla fine del 1976 Padre Herman e Padre Seraphim accettano di essere ordinati sacerdoti, quasi a malincuore, sicuri che le necessità del ministero avrebbero sottratto tempo prezioso all’attività di traduzione e diffusione di testi patristici.
L’attività sacerdotale dei due padri è comunque fondata sulla roccia degli insegnamenti spirituali che essi avevano fatti propri e cercato di vivere da oltre un decennio, e, a quel punto, lo sforzo missionario della piccola fraternità non tarda a far vedere i suoi primi importanti frutti. Nel corso di pochi anni, i padri accolgono centinaia di nuovi membri nella Chiesa ortodossa; attraverso un’opera iniziata in piccole missioni domestiche, si aprono numerose chiese nella California settentrionale e negli stati confinanti.
Un ulteriore numero di novizi e monaci viene a stabilirsi nell’eremo, non lontano dal quale si fonda anche un eremo femminile dedicato a Santa Xenia. Platina diviene il centro di un movimento che coinvolge un numero crescente di ortodossi negli Stati Uniti, e che dopo la morte di Padre Seraphim riuscirà ad aprire un monastero in Alaska, nelle terre originariamente evangelizzate dal Santo Herman.
Padre Seraphim muore il 20 Agosto/2 Settembre 1982, dopo una breve ma intensa agonia, per i postumi di una malattia giovanile che già avrebbe potuto stroncarlo negli anni in cui era divenuto ortodosso. Egli aveva anzi vissuto tutti gli anni della sua missione nella certezza che questi fossero un “tempo regalato”, un dono fattogli al solo scopo di diffondere la conoscenza dell’Ortodossia in Occidente.
Dopo la sua morte (come già era accaduto per l’Arcivescovo John Maximovich) ha luogo una serie di guarigioni e di conversioni in seguito a preghiere a lui rivolte; forse l’episodio più significativo è la conversione all’Ortodossia, tramite ispirazione alla sua figura, di centinaia di membri di un gruppo monastico indipendente, l’Ordine di MANS, partito da posizioni sincretiste comuni all’ambiente New Age, ed evolutosi in una attiva fraternità ortodossa.
Oltre a questi numerosi eventi (per nulla insoliti per coloro che credono), ci resta di Padre Seraphim un gran numero di scritti di notevole valore, e un esempio di come, anche in questa civiltà sempre più aliena dal cristianesimo, sia possibile vivere una vita del tutto simile a quella degli antichi Padri e santi asceti.
Per le persone che sperimentano maggiore inquietudine nella ricerca della verità, soprattutto i più giovani, e coloro che si sono rivolti a religioni e spiritualità orientali non cristiane, Padre Seraphim è il punto di riferimento ideale nel mondo ortodosso, in grado di comprendere le tappe dei più diversi pellegrinaggi verso la fede cristiana.
L’approccio di Padre Seraphim ai problemi dell’Ortodossia contemporanea, pur muovendosi in una totale fedeltà alla Tradizione, è caratterizzato dalla mancanza di qualsiasi polemica a livello giurisdizionale: egli è rimasto leale per tutta la vita, scontrandosi spesso con l’ostilità della propria gerarchia, alla Chiesa Russa all’Estero, che lo aveva accolto come convertito; tuttavia, non ha voluto cadere negli eccessi di zelo e di rivalità che talora dividono le giurisdizioni ortodosse, adoperandosi anzi per promuovere uno spirito di mutua comprensione: ne è una testimonianza il suo spirito di profonda comunione con i confessori dell’Ortodossia nel Patriarcato di Mosca, come Padre Dimitri Dudko.
A fianco del suo prezioso impegno di traduzione e diffusione di letteratura patristica, Padre Seraphim ci ha lasciato anche contributi letterari di notevole chiarezza, che tentano di offrire una risposta ortodossa ad alcuni grandi problemi contemporanei.
Affrontando nel 1978 il tema dei nuovi movimenti religiosi nell’opera Orthodoxy and the Religion of the Future (L’Ortodossia e la religione del futuro), ci mostra quanto la tradizione patristica ortodossa abbia da dirci in proposito alle tendenze della religiosità contemporanea (inclusi alcuni nuovi movimenti orientali, il fenomeno degli UFO, i movimenti carismatici e certe tendenze dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso).
Altri scritti provano a rivalutare una posizione cristiana di fronte a ideologie costruite su dati presi per scontati (come l’intero mondo dell’evoluzionismo contemporaneo).
Di fronte a casi di incapacità pastorale di rispondere alle domande sulla vita oltre la morte (una incapacità manifestata purtroppo anche all’interno di strutture ecclesiali ortodosse), Padre Seraphim ha voluto presentare l’escatologia ortodossa, le esperienze dei santi e la dottrina dei Padri della Chiesa a fianco delle esperienze extracorporee e di “pre-morte”, e delle loro spiegazioni provenienti da antiche tradizioni pre-cristiane o da moderne ipotesi occultiste o parapsicologiche. Quest’opera, intitolata The Soul After Death (L’anima dopo la morte), è probabilmente il più diffuso tra i libri di Padre Seraphim, e le sue traduzioni in varie lingue sono diffuse in tutto il mondo ortodosso. La traduzione italiana è del 1999 (L’anima dopo la morte, Schio: Interlogos).
Una delle opere patristiche di Padre Seraphim ha un valore particolare per la riscoperta dell’Ortodossia nei paesi dell’Europa occidentale. Traducendo una raccolta di vite di santi dell’antico Occidente cristiano, la Vita Patrum di San Gregorio di Tours, Padre Seraphim l’ha corredata di uno studio sull’antica Gallia cristiana: da questo, e dalle esperienze dei santi monaci narrate da San Gregorio, vengono alla luce impensabili paralleli tra i primi secoli dell’Occidente cristiano e la realtà attuale della Chiesa ortodossa. Uno sforzo simile, attuato anche per il nostro paese, potrebbe aprirci gli occhi sulle radici ortodosse del nostro passato.
Di tutta la notevole produzione letteraria di Padre Seraphim, solo un paio di opere sono oggi disponibili in lingua italiana (tuttavia, all’interno della comunità torinese del Patriarcato di Mosca, abbiamo anche tradotto alcuni capitoli della sua biografia). Ci auguriamo una maggiore diffusione delle opere che furono oggetto della missione di approfondimento e di trasmissione spirituale di uno dei più straordinari testimoni della Fede ortodossa dei nostri tempi.

FONTE: http://www.santiebeati.it/dettaglio/93686




BIOGRAFIA: San Giovanni Climaco

BREVE VITA DEL BEATO GIOVANNI, IGUMENO DEL SANTO MONTE SINAI, DETTO SCOLASTICO E AUTORE DELLE “TAVOLE SPIRITUALI”, OVVERO DELLA “SCALA SANTA”

Scritta dal monaco Daniele di Raito,
uomo venerabile e virtuoso

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1. Non sono in grado di dire con precisione ed esattezza quale città abbia dato alla luce e allevato quest’uomo divino prima che egli intraprendesse la lotta della vita ascetica; ma quale città lo ospiti e lo nutra ora con delizie di ambrosia, il grande apostolo Paolo lo aveva già scoperto prima di noi: certamente infatti anch’egli appartiene a quella Gerusalemme celeste, dove si trova l’assemblea dei primogeniti (cf. Eb 12,23) la cui patria è nei cieli (Fil 3,20), come sta scritto. Là, saziandosi con il senso spirituale dei beni di cui non si può mai essere sazi e contemplando le bellezze invisibili, riceve ora adeguate ricompense dei propri sudori; e avendo ottenuto come dolce premio delle proprie fatiche l’eredità celeste, si unisce oramai per l’eternità al coro di quelli il cui piede è rimasto sulla via retta (Sal 25,12). Ma ora voglio raccontare in che modo quest’uomo glorioso sia riuscito a ottenere una tale beatitudine.

2. Costui, all’età di sedici anni, si offrì a Cristo come sacrificio accetto e a lui gradito (cf. Fil 4,18), sottoponendosi al giogo della vita monastica sul monte Sinai, e lo stesso luogo visibile in cui dimorava contribuiva – credo – a guidarlo e condurlo verso il Dio invisibile. Abbracciò così l’estraneità, che è la custode di tutte le fanciulle spirituali, e respinta, grazie a essa, ogni forma di eccessiva e sconveniente familiarità, e acquistata l’onesta umiltà, scacciò una volta per tutte lontano da sé, fin dalla sua entrata nella vita monastica, il demone dell’autocompiacimento e della fiducia in se stesso. Avendo piegato il collo ed essendosi affidato, nel Signore, al padre che l’aveva accolto, come a un ottimo pilota, attraversava senza pericolo questa aspra e violenta tempesta della vita: era talmente morto al mondo e alle proprie volontà, che la sua anima era veramente come priva di ragione e di volontà, e totalmente spogliata delle proprie facoltà naturali; e ciò, nonostante egli avesse ricevuto un’istruzione completa nella scienza mondana prima di giungere a questa celeste ignoranza: cosa sorprendente, perché l’arroganza della filosofia è per lo più estranea all’umiltà di Cristo!

3. Dopo aver vissuto così per diciannove anni sostenendo le lotte della beata sottomissione, allorché il santo anziano che lo aveva formato lasciò questa vita, anch’egli uscì nello stadio dell’esichia tenendo in mano le divine preghiere del suo anziano come armi capaci di distruggere le fortezze di Satana (cf. 2Cor 10,3-4). Come palestra della sua lotta scelse un luogo solitario chiamato Tola, distante cinque miglia dalla chiesa del monastero, e là trascorse con fervore quarant’anni, sempre infiammato da un amore ardente e dal fuoco della divina carità. Ma chi è in grado di descrivere e celebrare a parole le fatiche ascetiche che egli sostenne in quel luogo? E come è possibile parlarne apertamente, dal momento che ogni sua fatica fu seminata nel segreto e senza testimoni? Tuttavia, partendo da alcuni fatti noti e servendocene come di piccoli indizi, possiamo intuire quale fu la santa condotta di quest’uomo tre volte beato.

4. Mangiava di tutto ciò che gli era consentito dal proprio stato di vita, ma molto poco; e così, con molta sapienza, riusciva a vincere l’orgoglio e ad abbassare le corna della presunzione. Mangiando poco, infatti, schiacciava quanto più possibile il suo folle e insaziabile tiranno gridandogli nella sua fame: Taci, calmati! (Mc 4,39); e mangiando un po’ di tutto riusciva ad abbattere la tirannia della vanagloria. Oltre a ciò, con la solitudine e la mancanza di qualsiasi rapporto umano, spense le fiamme di questa fornace, riuscendo a ridurla in cenere e a calmarla completamente. All’idolatria, poi, quell’uomo valoroso sfuggì valorosamente, grazie alla misericordia di Dio e alla mancanza di ogni mezzo necessario. Fece risorgere l’anima da quella morte e da quella paralisi in cui essa rischia di cadere in ogni momento stimolandola con il pungolo del ricordo della morte. Spezzò la catena della tristezza liberandosi da ogni attaccamento passionale, o forse anche gustando i beni invisibili. Se la tirannia dell’ira l’aveva uccisa già prima con la spada dell’obbedienza, impedendo al proprio corpo di uscire fuori dalla cella, e ancora più alla propria parola di uscire dalle labbra, poi mise a morte anche quella sanguisuga, simile a un ragno, che è la vanagloria. Cosa rimane ancora? La vittoria sull’ottava passione, cioè la perfetta purificazione dall’empia superbia. Questo novello Beseleèl iniziò quest’impresa attraverso l’obbedienza, ma fu il Signore della Gerusalemme celeste a portarla a termine visitandolo con la propria presenza, ed esaltando contro la superbia la sua umiltà, virtù senza la quale è impossibile vincere il diavolo e tutta la sua compagnia.

5. Ma dove posso collocare, nella corona che sto intrecciando, la fontana delle sue lacrime, che è un dono concesso a pochissimi? L’officina segreta di queste lacrime esiste ancora oggi: una strettissima spelonca situata in un luogo sperduto ai piedi della montagna, che distava dalla sua cella e da tutte le altre quel tanto da consentirgli di sfuggire alle orecchie che avrebbero suscitato in lui la vanagloria, ma che arrivava quasi a toccare il cielo con i gemiti e le grida che egli vi emetteva, simili a quelli di persone trafitte da spade o bruciate da ferri incandescenti, o a cui vengano cavati gli occhi.

Dormiva il minimo indispensabile per non danneggiare le proprie facoltà mentali con le veglie, e prima di addormentarsi pregava a lungo e scriveva sopra delle tavolette: questo infatti era l’unico mezzo che aveva per vincere l’acedia. Del resto l’intero corso della sua vita fu una preghiera incessante e un amore appassionato e indescrivibile per Dio: di notte e di giorno lo contemplava nel limpido specchio della propria purezza, e non voleva mai saziarsene, o piuttosto – per essere più corretti – non poteva.

6. Stimolato dallo zelo del nostro padre teoforo, un tale di nome Mosè, che già aveva abbracciato la vita monastica, lo supplicò con insistenza, attraverso le intercessioni di molti padri, di farlo diventare suo discepolo e di istruirlo nei primi rudimenti della vera filosofia, e perciò il beato, costretto da tali preghiere, lo prese con sé.

Un giorno il santo padre ordinò a questo Mosè di trasportare da un luogo a un altro una certa quantità di terra fertile per la coltivazione degli ortaggi, ed egli, raggiunto il luogo indicato, cominciò a eseguire con impegno quanto gli era stato ordinato; ma quando arrivò l’ora del mezzogiorno e la calura rovente cominciò a bruciare quel luogo come una fornace – infatti era già l’ultimo mese dell’anno – Mosè, poiché gli venivano meno le forze, stanco com’era per il trasporto della terra, pensò di doversi riposare un po’, e così, sdraiatosi all’ombra di un’enorme macigno, si addormentò, com’era normale. Ma il Dio amico degli uomini, che non vuole contristare in nulla i suoi servi più fedeli, prevenne – come è sua abitudine fare – il pericolo che Mosè stava per correre, e dirò subito in che modo.

Il nostro padre Giovanni, quel grand’uomo, mentre stava nella sua cella raccolto in se stesso e in Dio, come soleva fare, cadde in un leggerissimo sonno e vide una persona dall’aspetto venerabile che lo svegliava e, come rimproverandolo di essersi addormentato, gli diceva: “Giovanni, come puoi dormire così spensieratamente, mentre Mosè si trova in pericolo?”. Ritornato in se stesso all’istante, imbracciò subito le armi della preghiera a difesa del discepolo, e quando costui a sera fu di ritorno gli chiese: “Ti è forse successo qualche spiacevole imprevisto?”. Ed egli rispose: “Un enorme macigno mi avrebbe schiacciato e fracassato completamente, mentre dormivo profondamente alla sua ombra, se io, credendo di udire la tua voce, non mi fossi alzato di soprassalto da quel luogo, tutto confuso; e così vidi subito il macigno staccarsi e cadere a terra”. E quell’uomo veramente umile, senza dir nulla al discepolo della visione che aveva avuto, rese grazie a Dio lodandolo dentro di sé con segrete grida e forti slanci d’amore.

7. Quest’uomo di Dio era capace di guarire anche le ferite invisibili. Una volta, infatti, un monaco di nome Isacco, che era gravemente afflitto dal demonio della fornicazione, preso dallo sconforto, non sapendo più cosa fare, corse da quest’uomo meraviglioso e con gemiti e lacrime gli manifestò la guerra che era dentro di lui; e il divino padre, ammirando la sua fede e la sua umiltà, disse: “Mettiamoci tutti e due in preghiera, fratello, e certamente Dio, che è pieno di misericordia, non disprezzerà la nostra supplica!”. Si misero dunque a pregare, e non avevano ancora terminato la preghiera e il poveretto era ancora prostrato con la faccia a terra, che Dio fece la volontà del suo servo, per dimostrare ancora una volta la verità delle parole del profeta David. Il serpente della fornicazione, vinto dalle frustate di quell’intensa preghiera, fuggì via, e il malato, vedendosi ormai guarito e liberato da ogni turbamento, fu preso da grande stupore e rese grazie a Dio che aveva glorificato il suo servo, e al suo servo che da lui era stato glorificato.

8. Questo padre venerabile elargiva con abbondanza le sue parole di grazia a tutti coloro che venivano a visitarlo e versava loro con grande generosità e larghezza le acque del suo insegnamento: perciò alcuni uomini maligni, rosi dall’invidia, cercando di por fine a tutto il bene che faceva, lo accusarono di essere un chiacchierone e un ciarlatano. Ma egli, sapendo di poter tutto nel Cristo che gli dava la forza (cf. Fil 4,13) e volendo istruire chi gli si avvicinava per la propria edificazione, non soltanto con le proprie parole ma ancor più con il proprio silenzio e con la sapienza delle proprie opere – per troncare così ogni pretesto a quelli che cercavano un pretesto (cf. 2Cor 11,12), come sta scritto -, rimase in silenzio per un certo tempo e interruppe il flusso del suo insegnamento dolce come il miele. Riteneva preferibile infatti recare un leggero danno agli amanti del bene – che forse avrebbe comunque potuto aiutare con il proprio silenzio – piuttosto che irritare ancor di più quei giudici maldisposti, esasperando la loro cattiveria. Questi ultimi perciò, rimasti ammirati del suo comportamento umile e modesto e avendo compreso quale grande sorgente di salvezza avevano chiuso e quale grande danno avevano arrecato a tutti, cominciarono a supplicarlo e a implorare insieme agli altri i suoi insegnamenti, pregandolo di non rovinare con il proprio silenzio quanti cercavano la salvezza attraverso le sue parole. Ed egli, che era incapace di contraddire, cedette immediatamente e riprese a comportarsi come prima.

9. Poiché dunque era superiore a tutti in ogni virtù e tutti lo ammiravano, di comune accordo, ma contro la sua volontà, lo posero alla guida dei fratelli come nuovo Mosè, innalzandolo come una lucerna sul lucerniere (cf. Mt 5,15 par.), loro che in tali cose erano giudici eccellenti. E non rimasero delusi nelle loro speranze, perché anch’egli [come Mosè] salì sul monte e, entrato nella nube oscura e impenetrabile (cf. Es 24,18), ricevette la legge scritta da Dio, elevandosi alla contemplazione attraverso dei gradini spirituali. Aprì la bocca alla parola di Dio e, attirato lo Spirito (cf. Sal 118,131), riversò la parola buona dal buon tesoro del proprio cuore (cf. Mt 12,35 par.).

Così giunse al termine di questa vita visibile guidando gli israeliti, cioè i monaci; e l’unica differenza tra lui e Mosè fu che, mentre egli ascese alla Gerusalemme celeste senza alcuna difficoltà, quello – non so come mai – non riuscì a raggiungere quella terrena (cf. Dt 34,4).

Possono testimoniare la verità di quanto abbiamo raccontato tutti coloro che, grazie a quest’uomo, hanno ricevuto le parole dello Spirito, e i molti che sono stati salvati e continuano a esserlo. Testimone d’eccezione della salvezza ottenuta grazie a questo sapiente, e insieme della sua sapienza, è quel novello David; ma ne è testimone anche il nostro buon pastore Giovanni, grazie alle cui preghiere insistenti quel grande scese dal monte Sinai verso di noi e, avendo anch’egli visto Dio [come Mosè], ci mostrò le tavole scritte dal dito di Dio, che contengono all’esterno gli insegnamenti pratici, e all’interno, quelli relativi alla contemplazione (cf. Es 32,15-16).

L'Arpa di Davide: Quarta domenica di Quaresima - di san Giovanni Climaco

DAI “RACCONTI SUI SANTI PADRI DEL SINAI” DI ANASTASIO SINAITA

1. Abba Martirio, dopo aver tonsurato il nostro igumeno, il santo padre Giovanni, che allora aveva sedici anni, si recò insieme a lui dalla “colonna” del nostro deserto, abba Giovanni il Sabaita, che allora viveva nel deserto di Guda insieme al suo discepolo abba Stefano di Cappadocia. Appena dunque l’anziano Sabaita li vide, si alzò: prese dell’acqua, la versò in una bacinella e lavò i piedi del discepolo, baciando anche la sua mano, mentre non lavò i piedi del suo maestro, abba Martirio. Abba Stefano si scandalizzò del fatto, e dopo che abba Martirio e il suo discepolo furono partiti, abba Giovanni, avendo visto con la sua chiaroveggenza che il suo discepolo si era scandalizzato, gli disse: “Perché ti sei scandalizzato? Credimi, non so chi sia quel ragazzo, ma io ho accolto l’igumeno del Sinai e ho lavato i suoi piedi!”. E dopo quarant’anni egli diventò il nostro igumeno, secondo la profezia dell’anziano. E non solo abba Giovanni il Sabaita, ma anche abba Strategio il Recluso, sebbene non uscisse mai, fece la stessa profezia, nel giorno in cui abba Giovanni fu tonsurato.

2. Una volta abba Anastasio vide scendere abba Giovanni dalla santa vetta insieme ad abba Martirio. Chiamò dunque abba Martirio e il ragazzo, e disse all’anziano: “Dimmi, abba Martirio, da dove viene questo ragazzo? E chi lo ha tonsurato?”. E quello gli rispose: “È tuo servo, padre, e l’ho tonsurato io”. Riprese l’altro: “Oh! abba Martirio! Chi avrebbe mai detto che tu avresti tonsurato l’igumeno del Sinai?”.

Ed è veramente a buon diritto che i santi padri fecero queste profezie riguardo al nostro santissimo padre Giovanni: egli infatti era adorno di tutte le virtù e risplendeva a tal punto che i padri del luogo lo chiamavano “secondo Mosè”.

3. Un giorno vennero quassù circa seicento ospiti e, mentre erano seduti a tavola e mangiavano, il nostro santo padre Giovanni vide un uomo dai capelli corti, vestito secondo l’uso dei giudei di una tunica bianca, che andava avanti e indietro e dava ordini ai cuochi, agli economi, ai cellerari e agli altri servitori. Quando dunque tutte quelle persone se ne furono andate, mentre i servitori erano seduti a tavola a mangiare, si cercò quell’uomo che andava avanti e indietro e dava ordini, ma non lo si trovò. Allora il servo di Dio, il nostro santo padre Giovanni, disse: “Smettete di cercarlo! Il nostro signore Mosè non ha fatto nulla di strano mettendosi a servire a casa sua!”.

4. Quando l’anno passato il nostro “nuovo e secondo Mosè”, il venerabilissimo igumeno Giovanni, era sul punto di passare al Signore, il vescovo abba Giorgio, suo fratello gli era accanto e tra le lacrime gli disse: “Ecco che mi abbandoni e te ne vai! Io ti pregavo di mandarmi avanti, perché senza di te, mio signore, non sono capace di pascere questa comunità, ma ora sono io che devo lasciarti partire!”. Allora abba Giovanni gli disse: “Non ti affliggere, non ti preoccupare! Se trovo grazia davanti a Dio, non ti lascerò neanche terminare un anno dopo di me”. E ciò avvenne. Dopo dieci mesi, infatti, anche il vescovo passò al Signore, nei giorni dell’inverno appena passato.




STORIA: Dalla pentarchia al dittico

Come si formava l'”ordine d’onore” nelle Chiese ortodosse

articolo di Pavel Kuzenkov, dottore di ricerca in storia, professore associato, Patriarcato di Mosca

Per la Chiesa ortodossa, l’unico vero Capo è il Signore Gesù Cristo, al quale è stato dato ogni potere in cielo e in terra (Matteo 28:18). E se per i cattolici il Papa “ha sulla Chiesa la potestà piena, suprema e universale” in quanto Vicario di Cristo (Catechismo della Chiesa Cattolica, 882), nella tradizione ortodossa i primati delle Chiese locali autocefali sono considerati uguali in dignità gerarchica. Nello stesso tempo, tra di loro esiste un certo ordine d’onore, secondo il quale vengono commemorati nei dittici liturgici. Come si è sviluppata questa tradizione secolare?

Cristo e gli apostoli sul primato nella chiesa

Secondo i Vangeli, il Signore non ha individuato alcun “leader” tra gli apostoli che avrebbe diritti speciali sugli altri. Inoltre, Gesù Cristo represse rigorosamente i tentativi dei discepoli di scoprire chi di loro avesse il vantaggio (Luca 22: 24-30; Matteo 18: 1-2), e disse loro: “Il più grande tra sia come il più piccolo; e chi governa sia come colui che serve “(Luca 22: 24-26; cfr. Matt. 23: 11-12). Dopo di ciò, egli stesso diede un esempio di questa insolita comprensione del potere, lavando i piedi degli apostoli durante l’Ultima Cena.

Il sistema, in cui più alto è il capo, più deve servire ai suoi subordinati, era incomprensibile per i pagani. E infatti, nelle condizioni di “questo mondo” è inconcepibile. Ma nella Chiesa di Cristo da duemila anni regna questo principio di amore, che è l’opposto della logica del potere mondano, basato sulla forza e sull’orgoglio. L’ideale del governo della chiesa è il biblico Buon Pastore, che offre la sua vita per le sue pecore (Giovanni 10: 11-16; cfr. Isa. 40:11 e altri).

 La nascita della gerarchia 

Già l’apostolo Paolo menziona il ministero ecclesiastico del vescovo (letteralmente “colui che sorveglia, supervisore”) e diacono (letteralmente “servitore”) (1 Tim. 3). All’inizio, il vescovo è difficilmente distinguibile dai presbiteri (“anziani”) che governavano le comunità nell’era apostolica (Atti 15:23, 16: 4 e altri). Dal secondo secolo in poi, i vescovi ricevevano per tutta la vita il potere di “legare e sciogliere”, presiedevano le riunioni eucaristiche e guidavano la preghiera dei fedeli come successori degli apostoli.

Il vescovo di Roma – capitale dell’impero e luogo di sepoltura dei più autorevoli tra gli apostoli, Pietro e Paolo – aveva una posizione del tutto particolare. Già nel II secolo era considerato il vescovo più influente non solo all’interno dell’Impero Romano, ma anche al di fuori di esso.

I concili e la sinodalita’

Entro il III secolo appaiono le riunioni (concili) dei vescovi delle città di una particolare provincia romana (in greco “eparchia”) sotto la presidenza del vescovo della città principale, la metropoli. Il vescovo di questa città (metropolita) era obbligato a consultarsi con i vescovi della sua provincia, che dovevano onorarlo come capo. Allo stesso tempo, nelle loro diocesi i vescovi rimanevano governanti sovrani (34 ° Canone Apostolico, 9 ° Canone del Concilio di Antiochia).

Nel 325, Costantino il primo imperatore cristiano, invitò i vescovi a Nicea per l’anniversario del suo regno. Questo incontro ha aperto una serie di Concili straordinari dell’episcopato, convocati dalle autorità statali per risolvere i disaccordi ecclesiali. I sette Concili Ecumenici dei secoli IV-VII formularono i fondamenti dogmatici e canonici dell’Ortodossia (tra cui quello dell’ortodossia, e della cattolicità).

Consegna del Simbolo – Parrocchia di Quartirolo

 Poiché l’episcopato di tutto l’impero si riuniva ai Concili Ecumenici, nacque la necessità di una gerarchia cerimoniale per il clero più alto. Inizialmente, lo status dei vescovi dipendeva dalla loro autorevolezza personale. Ma già a Nicea nel 325 era stabilito (6°  regola del Primo Concilio Ecumenico):

“In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi”

Fu proprio questa regola che fu successivamente utilizzata dai Papi per confermare le rivendicazioni del loro primato È curioso che già nelle antiche versioni latine questa regola inizia con parole che non ci sono nell’originale greco: “La sede romana ha sempre avuto il primato”. Ma in realtà la regola parla solo del riconoscimento dei diritti dei vescovi delle città più grandi nei confronti dei vescovi delle province circostanti.

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Le due Rome

 La fondazione di Costantinopoli nel 330 fu una sfida all’antica tradizione politica ed ecclesiastica, in cui Roma non aveva e non poteva avere rivali. La “Città Eterna” era considerata non solo un simbolo della potenza della “sovranazione” romana, ma anche un sacro garante dell’esistenza del mondo stesso. Anche gli scrittori cristiani hanno riconosciuto che l’indebolimento di Roma avrebbe portato a una catastrofe mondiale. E così la Nuova Roma apparve in Oriente, dove si trasferì lo stesso imperatore. L’emergere della nuova capitale richiedeva una revisione del sistema dei “privilegi” delle cattedre episcopali, fissati a Nicea. Il vescovo della città di Bisanzio, località dove Costantino il Grande costruì la Nuova Roma, era un vescovo ordinario della provincia di Tracia, subordinato al metropolita della sua capitale, Irakleia. Ma questo status non corrispondeva in alcun modo a quello della capitale dell’impero che presto divenne un megapoli. Allora al II Concilio Ecumenico di Costantinopoli (381) fu adottato il seguente canone (3° regola):

“Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma”.

 La Nuova Roma era equiparata alla Vecchia Roma non solo per quanto allo status politico, ma anche dal punto di vista ecclesiastico. Tuttavia, la natura dei “privilegi d’onore”, da lei ricevuti, non fu precisata, il che diede origine a una serie di conflitti. I vescovi di Costantinopoli, non avendo una propria provincia, iniziarono ad estendere la loro autorità tanto lontano quanto lo permettevano le circostanze, provocando proteste dei metropoliti vicini. La reazione di Efeso, una metropoli dell’Asia Minore, orgogliosa del suo status dell cattedra di San Giovanni il Teologo, è stata particolarmente acuta.Illustration_6.jpg

In Occidente, il II Concilio Ecumenico non fu immediatamente riconosciuto come tale, e la suddetta regola fu ignorata dai papi, che continuarono a considerare i tre troni elencati nei canoni di Nicea  (Roma, Alessandria ed Antiochia) come i principali. Qui, un ruolo è stato svolto sia dalla tendenza di seguire gli antichi costumi, caratteristica della mentalità romana, sia dalla tendenza di ricondurre l’autorevolezza di alcune cattedre episcopali ai tempi apostolici. La chiesa romana fu fondata da San Pietro e San Paolo; anche ad Antiochia agirono entrambi questi principi degli apostoli, il trono di Alessandria fu fondato dal discepolo di Pietro, il santo evangelista Marco. E di cosa poteva vantarsi Bisanzio, che era una città insignificante? Solo molti secoli dopo apparirà la leggenda sulla visita in quella località di Sant’Andrea, che trasformerà Costantinopoli in una sede apostolica e, per di più, fondata dal primo chiamato tra gli apostoli e il fratello maggiore di San Pietro.Illustration_7.jpg

Canone 28 di Calcedonia e la giurisdizione di Costantinopoli 

Era impossibile negare il “peso” ecclesiastico di Costantinopoli, specialmente dopo che l’Impero Romano fu definitivamente diviso nel 395 e la sua metà occidentale iniziò a declinare sempre più notevolmente. Inoltre, era necessario definire formalmente i confini della giurisdizione della cattedra della Nuova Roma, in modo che il suo patriarca (come iniziarono ad essere designati i principali vescovi dal V secolo) non invadesse le diocesi altrui. Perciò, nel 451, il IV Concilio Ecumenico di Calcedonia adottò alcune importanti regole, tra cui quella 28° è particolarmente importante:

“Seguendo in tutto le disposizioni dei santi padri, preso atto del canone or ora letto, dei 150 vescovi cari a Dio, che sotto Teodosio il Grande, di pia memoria, allora imperatore si riunirono nella città imperiale di Costantinopoli, nuova Roma, stabiliamo anche noi e decretiamo le stesse cose riguardo ai privilegi della stessa santissima chiesa di Costantinopoli, nuova Roma. Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell’antica Roma, perché la città era città imperiale. Per lo stesso motivo i 150 vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l’imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell’antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella. Di conseguenza, i soli metropoliti delle diocesi del Ponto, dell’Asia, della Tracia, ed inoltre i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla sacratissima sede della santissima chiesa di Costantinopoli. E’ chiaro che ciascun metropolita delle diocesi sopraddette potrà, con i vescovi della sua provincia, ordinare i vescovi della sua provincia, come prescrivono i sacri canoni; e che i metropoliti delle diocesi che abbiamo sopra elencato, dovranno essere consacrati dall’arcivescovo di Costantinopoli, a condizione, naturalmente, che siano stati eletti con voti concordi, secondo l’uso, e presentati a lui”.

 Questi canoni sono estremamente importanti, poiché è su di essi che ormai nel XX secolo alcuni teologi cercheranno di costruire una teoria della giurisdizione ecclesiastica mondiale di Costantinopoli (Istanbul). Ma è sufficiente leggere attentamente questi testi per essere sicuri che qui non si tratta di alcuna “giurisdizione universale”. Al contrario, i padri del Concilio limitano la giurisdizione dell’arcivescovo di Costantinopoli, dandogli il diritto di nominare metropoliti delle tre diocesi, nonché vescovi delle comunità straniere di queste stesse diocesi. Nell’impero romano di quell’epoca, c’erano molte tribù, germaniche e altre, che si stabilivano nell’impero come alleati (federati); non erano inclusi nella struttura amministrativa imperiale e le loro strutture ecclesiastiche erano dirette da vescovi speciali, direttamente subordinati al patriarca.

Quindi, la 28° Regola di Calcedonia equiparava la Vecchia Roma e la Nuova Roma nei loro privilegi e trasferiva tre diocesi nella sfera della giurisdizione ecclesiastica di Costantinopoli: Asia, Ponto e Tracia.

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I cinque “patriarcati dell’ecumene ” 

Allo stesso Concilio di Calcedonia fu presa un’altra decisione importante. La Città Santa di Gerusalemme fu definitivamente separata in uno speciale distretto ecclesiastico. Si formarono così le cinque principali cattedre dell’Impero Romano, ai cui primati fu assegnato il titolo di patriarca: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. Le loro aree di giurisdizione differivano notevolmente dalla divisione amministrativa: dall’intero Impero d’Occidente con la prefettura dell’Illirico (Roma) ad alcune piccole province (Gerusalemme). Tuttavia, l’enorme “Patriarcato d’Occidente” era una finzione convenzionale: nel V secolo, l’Impero Romano d’Occidente cessò di esistere e il controllo di Roma sulle strutture ecclesiastiche dei regni barbari, che sorsero sulle sue rovine, era illusorio. Inoltre, la Chiesa nell’ Africa Latina proibiva esplicitamente gli appelli “oltreoceano”, cioè a Roma (Canoni di Cartagine 32, 37, 118, 139), mentre l’arcivescovo di Aquileia (Grado, Venezia) rivendicava il titolo di patriarca.

Pentarchia - Wikipedia

 L’imperatore Giustiniano il Grande si riferisce a Roma e Costantinopoli come alle cattedre principali dell’impero (editto del 533; 131° novella del 545), e riduce la pienezza della Chiesa cattolica e apostolica al consenso dei cinque “santissimi patriarchi dell’ecumene” e dei vescovi a loro subordinati (109° novella del 541). Allo stesso tempo, il titolo onorifico di “Patriarca ecumenico” è stato aggiunto nel titolo dell’arcivescovo di Costantinopoli, il che ha sottolineato lo status di Nuova Roma come di uno dei patriarcati dell’universo (“ecumene”, come era solennemente chiamato l’Impero Romano). Va tenuto presente che la divisione della Chiesa in cinque patriarcati non era assoluta: non teneva conto né dell’autocefala Chiesa del Cipro, né della sede particolare dell’arcivescovo della città nativa di Giustiniano, Giustiniana (fondata nel 545 dallo stesso imperatore), per non parlare delle Chiese fuori dall’impero.

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Pentarchia nell’impero bizantino medievale 

La definitiva formalizzazione canonica del sistema dei cinque patriarcati avvenne nel 692 al Quinisesto Concilio ecumenico (Concilio in Trullo). Il canone 36, ivi adottato, dice:

“Rinnovando la legge ordinata dai 150 santi padri che si sono riuniti in questa città regnante e protetta da Dio, e dei 630 che si sono riuniti a Calcedonia, determiniamo: la sede di Costantinopoli abbia uguali privilegi con la sede dell’antica Roma; e venga altrettanto elevata negli affari della chiesa, essendo la seconda dopo di essa; dopo quella poi venga elencata la sede della grande città di Alessandria, poi la sede di Antiochia, e dopo di essa la sede della città di Gerusalemme”.

Un’altro ordine di “sedi principali” è stato adottato invece nell’Occidente. Nel “Dono di Costantino” (un famoso falsificato dell’VIII secolo, che confermava il diritto dei Papi al potere secolare), Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli sono menzionate come sedi subordinate a Roma. L’autore di questo falsificato medievale non era imbarazzato dal fatto che il “decreto” fosse datato 315, quando Costantinopoli non esisteva nemmeno nel progetto: per lui era importante mettere il “nuovo arrivato” all’ultimo posto. I papi più di una volta hanno sottolineato lo status secondario di Costantinopoli in quanto patriarcato e hanno protestato contro il titolo “ecumenico”, che in epoca bizantina divenne consuetudinario per i patriarchi di  Costantinopoli. Nel VII secolo tutte le altre sedi orientali furono conquistate dagli arabi e Costantinopoli rimase l’unico patriarcato ecumenico sul territorio dell’impero.

Tuttavia, gli altri patriarchi erano comunque considerati i principali vescovi dell’unica Chiesa universale. La Pentarchia, sebbene fosse interpretata dagli scrittori bizantini come l’organica pienezza ecclesiastica, simile ai cinque sensi dell’uomo, non fu mai intesa come un elenco chiuso. Nei secoli X-XIII apparvero Chiese autocefali che non facevano parte di essa (la Chiesa bulgara o quella serba). È curioso che anche lo scisma di Roma nell’XI secolo non ha cambiato il concetto: Teodoro Balsamon (XII secolo) e Matteo Blastares (XIV secolo) parlano della divisione dell’universo tra i cinque patriarchi, “senza contare le piccole chiese”.

Mosca invece di Roma 

L’elevazione del metropolita di Mosca al rango di patriarca dal patriarca Geremia II di Costantinopoli (1589), sancita dai Concili dei Patriarchi Orientali nel 1590 e 1593, ha introdotto una nuova concezione della Pentarchia. Il Patriarca di Mosca e di tutta la Rus’ San Giobbe lo ha descritto in questo modo:

“Al posto del papa, il padre maggiore dovrebbe essere il santissimo signor Geremia, l’arcivescovo di Costantinopoli – Nuova Roma e il patriarca ecumenico, e poi dovrebbero esserci quattro patriarchi: di Alessandria, d’Antiochia, di Gerusalemme e della città regnante di Mosca e del regno russo”.

Foto La Cattedrale di San Basilio a Mosca - 366x550 - Autore: Redazione (3  di 3)

Il Concilio del 1590 decretò che il Patriarca di Costantinopoli era d’ora in poi il primo, e quello di Mosca – il quinto. E al Concilio del 1593 fu espressamente stabilito che Mosca fu dichiarata patriarcato per rispetto dello status politico della Russia: “poiché Dio ha onorato questo paese con il regno”.

Quindi, Mosca ricevette la dignità patriarcale in quanto capitale dell’unico regno ortodosso al mondo, proprio come accadde a Costantinopoli a suo tempo. Allo stesso tempo, non fu elevata allo stesso livello con essa, ma ottenne l’ultimo, quinto posto nella Pentarchia.Illustration_12.jpg

A quel tempo, i quattro patriarcati orientali si trovavano sul territorio del più grande stato del mondo islamico: l’Impero Ottomano. Ciononostante, il patriarca di Costantinopoli aveva i diritti del capo dell’intero millet ortodosso, il che gli dava opportunità del tutto particolari. Tuttavia, quando Fener (il quartiere di Istanbul dove si trova la residenza del patriarca) violava i diritti canonici dei suoi confratelli ad Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, incontrava ferme proteste.

Le nuove pretese di Costantinopoli e la posizione della Chiesa russa 

Nel XX secolo, dopo l’emergere della Repubblica Turca e la deportazione della popolazione greca dall’Asia Minore, la posizione di Costantinopoli apparve davvero drammatica. Allora i Patriarchi ecumenici, con il sostegno dell’Intesa, hanno deciso di trasformare il loro titolo onorifico nel vero status di “patriarca dell’universo”. Approfittando della posizione più difficile della Chiesa russa, che aveva subito persecuzioni senza precedenti, Costantinopoli iniziò a prendere unilateralmente, in modo anticanonico, sotto la sua “giurisdizione suprema” le Chiese locali, sorte nei nuovi stati nazionali dell’Europa orientale. Reinterpretando il 28 ° canone di Calcedonia, Fener iniziò a considerare “stranieri” tutti i popoli che non avevano proprie antiche Chiese ortodosse e considerarli sotto la sua giurisdizione.

Incontro a fine agosto tra Kirill e Bartolomeo, una occasione a rischio - La  Stampa

 Non accontentandosi del tradizionale status canonico di “primus inter pares”, i patriarchi di Costantinopoli iniziarono a rivendicare il posto di un “vescovo mondiale”, “primus sine paribus”, come disse uno degli sostenitori di questo concetto, l’arcivescovo Elpidophoros (Lambriniadis) d’America. Un passo importante su questo percorso è stata l’organizzazione e lo svolgimento, contrariamente alla posizione di un certo numero di Chiese ortodosse, del “Santo e Grande Concilio Panortodosso” a Creta nel 2016, che ha tentato di trasferire a Costantinopoli i diritti di “coordinatore” tra tutte le altre Chiese ortodosse. La natura di questo “coordinamento” può essere vista nelle azioni del Patriarca Bartolomeo in relazione alla scismatica Chiesa ortodossa dell’Ucraina. Queste azioni, calpestando grossolanamente gli antichi canoni, hanno portato e continuano a portare scandalo e divisione nella Chiesa ortodossa.

 La Chiesa ortodossa russa preserva fermamente il principio apostolico di sinodalità e riconosce l’uguaglianza dei diritti canonici dei primati di tutte le 15 Chiese locali autocefale, tra cui quelle di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Russia, Georgia, Serbia, Romania, Bulgaria, Cipro, Grecia, Albania, Polonia, delle Terre Ceche e della Slovacchia, d’America. Tutte queste Chiese sorelle sono membri uguali dell’Unica Chiesa Cattolica e Apostolica di Cristo.




CONCILIO DI NICEA

Convocato dall’imperatore Costantino nel 325 a Nicea. A questo concilio ecumenico parteciparono 318 padri. Erano invitati tutti i vescovi della cristianità, mentre l’Imperatore si è fatto carico delle spese, ma dall’Europa occidentale vennero soltanto 4 o 5 vescovi; lo stesso vescovo di Roma non partecipò personalmente, ma mandò 2 sacerdoti a rappresentarlo. La maggioranza vennero dalle città Elleniche o ellenizzate. Fra questi si distinguevano il vecchio Alessandro, Vescovo di Alessandria, accompagnato dal suo giovane consigliere Atanasio. Costantino partecipò nelle discussioni, come dice Eusebio: “parlando greco perché non era estraneo a questa lingua”. I vescovi si incontrarono nella metà di giugno del 325, ma la riunione ufficiale si tenne il 5 o 6 di luglio. L’incontro durò 20 giorni e risolse la questione del rapporto fra il Padre ed il Figlio usando il termine “omoousios” (consustanziale)

Sant’Atanasio il Grande, Il Concilio di Nicea

“Anche i giudei infatti, [come gli ariani ndr] confutati dalla verità e incapaci di guardarla in faccia, dicevano pretestuosamente: Che segno fai, perché vediamo e crediamo in te? Che opera fai? Eppure già erano stati fatti molti segni, al punto che essi stessi dicevano: Che cosa facciamo, poiché quest’uomo fa molti segni? In effetti, c’erano morti che risuscitavano, storpi che camminavano, ciechi che vedevano, lebbrosi che venivano purificati; inoltre, una volta l’acqua venne cambiata in vino e da cinque pani vennero sfamati cinquemila uomini. Tutti erano
nella meraviglia e adoravano il Signore, riconoscendo che in lui si erano adempiute le profezie e che egli stesso era Dio, Figlio di Dio. Soltanto i farisei, anche se i segni apparivano più splendenti del sole, di nuovo mormoravano da ignoranti e dicevano: ·Perché tu, che sei uomo, ti fai Dio?·. Insensati e veramente ciechi nella mente! 5. Avrebbero invece dovuto dire: •Perché tu, che sei Dio, ti sei fatto uomo?•. Le opere infatti mostravano che egli era Dio, ed essi avrebbero dovuto adorare la bontà del Padre e ammirare la disposizione da lui attuata a causa nostra. […]

Come gente empia, che ama contestare e cerca di opporsi a Dio, quelli [gli ariani ndr] proferivano parole piene di empietà. I vescovi invece, che si erano radunati in numero più o meno di trecento, con atteggiamento mite e benevolo chiedevano loro di dare ragione di quanto dicevano e [di fornire] dimostrazioni conformi alla retta fede. Ma poiché anche solo ad aprir bocca si condannavano e disputavano tra di loro, vedendo l’estremo imbarazzo della loro eresia, rimasero senza parola, e con il loro silenzio confermavano la vergogna insita nella loro cattiva dottrina. I vescovi allora, annullando le parole escogitate da quelli, esposero contro di essi la sana fede della Chiesa. Tutti, anche quelli della cerchia di Eusebio, sottoscrissero quelle parole, di cui ora questi si lamentano. Mi riferisco a “dalla sostanza” (ek tes ousias) e “consostanziale” (homoousios), con cui si esprime che il Figlio di Dio non è creatura od opera, né è una delle realtà divenute, ma che il Logos è generato dalla sostanza del Padre”.

Concilio di Nicea I - Wikipedia

I TESTI CONCILIARI

PROFESSIONE DI FEDE DEI 318 PADRI

Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili. Ed in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre [secondo i Greci: consustanziale], mediante il quale sono state fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che quelle che sono sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto e risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà per giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo.

Ma quelli che dicono: Vi fu un tempo in cui egli non esisteva; e: prima che nascesse non era; e che non nacque da ciò che esisteva, o da un’altra ipostasi o sostanza che il Padre, o che affermano che il Figlio di Dio possa cambiare o mutare, questi la chiesa cattolica e apostolica li condanna.

CANONI

I. Di quelli che si mutilano o permettono questo da parte di altri su se stessi.

Se qualcuno, malato, ha subito dai medici un’operazione chirurgica, o è stato mutilato dai barbari, può far parte ancora del clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è castrato da sé, costui, appartenendo al clero, sia sospeso, e in seguito nessuno che si trovi in tali condizioni sia promosso allo stato ecclesiastico. E’ evidente, che quello che è stato detto riguarda coloro che deliberatamente compiono una cosa simile e osano mutilare se stessi ma se qualcuno, fosse stato castrato dai barbari o dai propri padroni, ma fosse degno sotto ogni aspetto, i canoni lo ammettono nel clero.

II. A coloro che dopo il battesimo sono subito ammessi nel clero.

Poiché molte cose per necessità, o sotto la pressione di qualcuno, sono state fatte contro le disposizioni ecclesiastiche, sicché degli uomini, venuti da poco alla fede dal paganesimo e istruiti in breve tempo, sono stati subito ammessi al battesimo e insieme sono stati promossi all’episcopato o al sacerdozio, è sembrato bene che in futuro non si verifichi nulla di simile: è necessario del tempo, infatti, a chi viene catechizzato, ed una prova più lunga dopo il battesimo. E’ chiara infatti, la parola dell’apostolo: (il vescovo) non sia un neofita, perché non gli accada di montare in superbia e di cadere nella stessa condanna (1).

Se poi col passar del tempo si venisse a scoprire qualche colpa commessa da costui e fosse accusato da due o tre testimoni, questi cesserà di far parte del clero. Chi poi osasse agire contro queste disposizioni e si ergesse contro questo grande sinodo, costui metterebbe in pericolo la sua stessa dignità sacerdotale.

III. Delle donne che vivono nascostamente con i chierici.

Questo grande sinodo proibisce assolutamente ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e in genere a qualsiasi membro del clero di tenere delle donne di nascosto, a meno che non tratti della propria madre, di una sorella, di una zia, o di persone che siano al di sopra di ogni sospetto.

IV. Da quanti debba essere consacrato un vescovo.

Si abbia la massima cura che un vescovo sia istituito da tutti i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per sopravvenute difficoltà, o per la distanza, almeno tre, radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima per iscritto il consenso degli assenti, celebrino la consacrazione. La conferma di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna provincia al vescovo metropolita.

V. Degli scomunicati: che non siano accolti da altri; e dell’obbligo di tenere i sinodi due volte all’anno.

Quanto agli scomunicati, sia ecclesiastici che laici, la sentenza dei vescovi di ciascuna provincia abbia forza di legge e sia rispettata la norma secondo la quale chi è stato cacciato da alcuni non sia accolto da altri. E’ necessario tuttavia assicurarsi che questi non siano stati allontanati dalla comunità solo per grettezza d’animo o per rivalità del vescovo o per altro sentimento di odio.

Perché poi questo punto abbia la dovuta considerazione, è sembrato bene che in ogni provincia, due volte all’anno si tengano dei sinodi, affinché tutti i vescovi della stessa provincia riuniti al medesimo scopo discutano questi problemi, e così sia chiaro a tutti i vescovi che quelli che hanno mancato in modo evidente contro il proprio vescovo sono stati opportunamente scomunicati, fino a che l’assemblea dei vescovi non ritenga di mostrare verso costoro una più umana comprensione. I sinodi siano celebrati uno prima della Quaresima perché, superato ogni dissenso, possa esser offerto a Dio un dono purissimo; l’altro in autunno.

VI. Della precedenza di alcune sedi, dell’impossibilità di essere ordinato vescovo senza il consenso del metropolita.

In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi. Inoltre sia chiaro che, se qualcuno è fatto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba esser vescovo. Qualora poi due o tre, per questioni loro personali, dissentano dal voto ben meditato e conforme alle norme ecclesiastiche degli altri, prevalga l’opinione della maggioranza.

VII. Del vescovo di Gerusalemme.

Poiché è invalsa la consuetudine e l’antica tradizione che il vescovo di Gerusalemme riceva particolare onore, abbia quanto questo onore comporta, salva sempre la dignità propria della metropoli.

VIII. Dei cosiddetti càtari.

Quanto a quelli che si definiscono càtari, cioè puri, qualora si accostino alla chiesa cattolica e apostolica, questo santo e grande concilio stabilisce che, ricevuta l’imposizione delle mani, rimangano senz’altro nel clero. E’ necessario però, prima di ogni altra cosa, che essi dichiarino apertamente, per iscritto, di accettare e seguire gli insegnamenti della chiesa cattolica, che cioè essi comunicheranno con chi si è sposato per la seconda volta e con chi è venuto meno durante la persecuzione, per i quali sono stabiliti il tempo e le circostanze della penitenza, così da seguire in ogni cosa le decisioni della chiesa cattolica e apostolica. Quando, sia nei villaggi che nelle città, non si trovino che ecclesiastici di questo gruppo essi rimangano nello stesso stato. Se però qualcuno di essi si avvicina alla chiesa cattolica dove già vi è un vescovo o un presbitero, è chiaro che il vescovo della chiesa avrà dignità di vescovo e colui che presso i càtari è chiamato vescovo, avrà dignità di presbitero, a meno che piaccia al vescovo che quegli possa dividere con lui la stessa dignità. Se poi questa soluzione non fosse per lui soddisfacente, gli procurerà un posto o di corepiscopo o di presbitero, perché appaia che egli fa parte veramente del clero e che non vi sono due vescovi nella stessa città.

IX. Di quelli che senza il debito esame sono Promossi al sacerdozio.

Se alcuni sono stati promossi presbiteri senza il debito esame, o, se esaminati, hanno confessato dei falli, ma, contro le disposizioni dei canoni, hanno ricevuto l’imposizione delle mani, la legge ecclesiastica non li riconosce; la chiesa cattolica infatti vuole uomini irreprensibili.

X. Di coloro che hanno rinnegato la propria fede durante la Persecuzione e poi sono stati ammessi fra il clero.

Se alcuni di quelli che hanno rinnegato la fede cristiana sono stati eletti sacerdoti o per ignoranza o per simulazione di quelli che li hanno scelti, questo non porta pregiudizio alla disciplina ecclesiastica: una volta scoperti, infatti, costoro saranno deposti.

XI. Di quelli che hanno rinnegato la Propria fede e sono finiti tra i laici.

Quanto a quelli che, senza necessità, senza confisca dei beni, senza pericolo o qualche cosa di simile – ciò che avvenne sotto la tirannide di Licinio – hanno tradito la loro fede, questo santo sinodo dispone che, per quanto essi siano indegni di qualsiasi benevolenza, si usi tuttavia comprensione per essi. Quelli dunque tra i fedeli che fanno davvero penitenza, trascorrano tre anni tra gli audientes, sei anni tra i substrati (2), e per due anni preghino col popolo salvo che all’offertorio.

XII. Di coloro che, dopo aver lasciato il mondo, vi sono poi ritornati.

Quelli che chiamati dalla grazia, dopo un primo entusiasmo hanno deposto il cingolo militare, ma poi sono tornati, come i cani, sui loro passi (3), al punto da versare denaro e da ricercare con benefici la vita militare, facciano penitenza per dieci anni, dopo aver passato tre anni fra gli audientes (4). Ma, per questi penitenti, bisognerà guardare la loro volontà ed il modo di far penitenza. Quelli, infatti, che col timore, con le lacrime, con la pazienza, con le buone opere dimostrano con i fatti, e non simulano la loro conversione, costoro, compiuto il tempo prescritto da passare fra gli audientes (5), potranno essere ammessi ragionevolmente a partecipare alle preghiere; dopo ciò, il vescovo potrà prendere nei loro riguardi qualche decisione anche più mite. Ma quelli che si comportano con indifferenza, e credono che per la loro espiazione sia sufficiente questa penitenza, devono senz’altro scontare tutto il tempo stabilito.

XIII. Di quelli che in punto di morte chiedono la comunione.

Con quelli che sono in, fin di vita, si osservi ancora l’antica norma per cui in caso di morte nessuno sia privato dell’ultimo, indispensabile viatico. Se poi avvenisse che quegli che era stato dichiarato disperato, ed era,stato ammesso alla comunione e fatto partecipe dell’offerta, guarisca, sia ammesso tra coloro che partecipano alla sola preghiera (fino a che sia trascorso il tempo stabilito da questo grande concilio ecumenico). In genere, poi, il vescovo, dopo inchiesta, ammetterà chiunque si trovi in punto di morte e chieda di partecipare all’eucarestia.

XIV. Dei catecumeni lapsi.

Questo santo e grande concilio stabilisce che i catecumeni lapsi per tre anni siano ammessi solo tra gli audientes (6), e che dopo questo tempo possano prender parte alla preghiera, con gli altri catecumeni.

XV. Del clero che si sposta di città in città.

Per i molti tumulti ed agitazioni che avvengono, è sembrato bene che sia assolutamente stroncata la consuetudine, che in qualche parte ha preso piede, contro le norme ecclesiastiche, in modo che né vescovi né preti, né diaconi si trasferiscano da una città all’altra. Che se qualcuno, dopo questa disposizione del santo e grande concilio, facesse qualche cosa di simile, e seguisse l’antico costume, questo suo trasferimento sarà senz’altro considerato nullo, ed egli dovrà ritornare alla chiesa per cui fu eletto vescovo, o presbitero, o diacono

XVI. Di coloro che non dimorano nelle chiese nelle quali furono eletti.

Quanti temerariamente, senza santo timore di Dio, né alcun rispetto per i sacri canoni si allontanano dalla propria chiesa, siano essi sacerdoti o diaconi, o in qualsiasi modo ecclesiastici, non devono in nessun modo essere accolti in un’altra chiesa; bisogna, invece, metterli nell’assoluta necessità di far ritorno alla propria comunità, altrimenti siano esclusi dalla comunione. Che se poi uno tentasse di usar violenza ad alcun dipendente da un altro vescovo e di consacrarlo nella sua chiesa contro la volontà del vescovo, da cui si è allontanato, tale ordinazione sia considerata nulla.

XVII. Dei chierici che esercitano l’usura.

Poiché molti che sono soggetti ad una regola religiosa, trascinati da avarizia e da volgare desiderio di guadagno, e dimenticata la divina Scrittura, che dice: Non ha dato il suo denaro ad interesse (7), prestando, esigono un interesse, il santo e grande sinodo ha creduto giusto che se qualcuno, dopo la presente disposizione prenderà usura, o farà questo mestiere d’usuraio in qualsiasi altra maniera, o esigerà una volta e mezza tanto:, o si darà, in breve, a qualche altro guadagno scandaloso, sarà radiato dal clero e considerato estraneo alla regola.

XVIII. Che i diaconi non debbano dare l’eucarestia ai presbiteri; e che non devono prender posto avanti a questi.

Questo grande e santo concilio è venuto a conoscenza che in alcuni luoghi e città i diaconi danno la comunione ai presbiteri: cosa che né i sacri canoni, né la consuetudine permettono: che, cioè, quelli che non hanno il potere di consacrare diano il corpo di Cristo a coloro che possono offrirlo. Esso è venuto a conoscenza anche di questo: che alcuni diaconi ricevono l’eucarestia perfino prima dei vescovi. Tutto ciò sia tolto di mezzo, e i diaconi rimangano nei propri limiti, considerando che essi sono ministri dei vescovi ed inferiori ai presbiteri. Ricevano, quindi, come esige l’ordine, l’eucarestia, dopo i sacerdoti, e per mano del vescovo o del sacerdote. Non è neppure lecito ai diaconi sedere in mezzo ai presbiteri; ciò è, infatti, sia contro i sacri canoni, sia contro l’ordine. Se poi qualcuno non intende obbedire, neppure dopo queste prescrizioni, sia sospeso dal diaconato.

XIX. Di quelli che dall’errore di Paolo di Samosata si avvicinano alla chiesa cattolica e delle diaconesse.

Quanto ai seguaci di Paolo, che intendono passare alla chiesa cattolica, bisogna osservare l’antica prescrizione che essi siano senz’altro ribattezzati. Se qualcuno di essi, in passato, aveva appartenuto al clero, purché, del tutto irreprensibile, una volta ribattezzato potrà essere ordinato dal vescovo della chiesa cattolica. Ma se l’esame dovesse far concludere che si tratta di inetti, è bene deporli. Questo modo d’agire sarà usato anche con le diaconesse e, in genere, con quanti appartengono al clero. Quanto alle diaconesse in particolare, ricordiamo, che esse, non avendo ricevuto alcuna imposizione delle mani, devono essere computate senz’altro fra le persone laiche.

XX. Che non si debba, nei giorni di domenica e di Pentecoste, pregare in ginocchio.

Poiché vi sono alcuni che di domenica e nei giorni della Pentecoste si inginocchiano, per una completa uniformità è sembrato bene a questo santo sinodo che le preghiere a Dio si facciano in piedi.

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Note

(1) I Tm 3, 6-7
(2) Audientes e substrati indicano gli appartamenti a due fasi dei catecumenato, che dovevano essere adempiute da chi, convertito al cristianesimo, aspirava al battesimo
(3) Cfr. Pr 26, 11. 
(4) V. nota 2.
(5) V. nota 2.
(6) V. nota 2.
(7) Sal 14, 5




TRACCE BIZANTINE: Madonna del Pilerio, Cosenza

tratto da un articolo di Riccardo Brunetti

II titolo ed il culto alla Madonna del Pilerio si fanno risalire comunemente all’anno 1576. Si può invece ritenere, almeno quanto al titolo, che siano di data molto più remota, se si considera che il Dipinto su tavola è un originale del XII secolo. Da documenti storici (l) risulta intanto che, tra il 1575-1576, un’orribile pestilenza infieriva per le molte regioni d’Italia, tra cui la Calabria e che la stessa Cosenza, non risparmiata dall’immane calamità, dovette lamentare moltissime vittime!

I Cosentini, minacciati da un tale flagello, cui non era possibile porre rimedio con risorse umane, fiduciosi, fecero ricorso a Dio ed ai Santi protettori, implorando misericordia. Ora avvenne che un giorno mentre un pio devoto, pregava con particolare fervore, dinnanzi ad un’antica Icone della Madonna (2), vide apparire all’improvviso sulla guancia sinistra della sacra Immagine una macchia simile a bubbone di peste. Immediatamente corse trepidante ad avvertire il Vicario generale dell’Archidiocesi  in quel periodo teneva le veci dell’Arcivescovo Andrea Matteo Acquaviva, che si trova da qualche tempo e che, colpito anch’egli dall’inesorabile morbo, lo stesso anno vi moriva  e veniva sepolto in S. Giovanni in Laterano, nel  sepolcro preparatogli dal nipote Card. Giulio Acquaviva (3). Il Vicario, seguito da Clero e numeroso popolo, accorse per verificare lo straordinario prodigio . Osservato il segno miracoloso si ebbe certo che con esso la Vergine Ss.  aveva voluto dimostrare di prendere quasi su di sé il flagello della peste, per liberarne i suoi figli e devoti, «alla stessa guisa, annota il Botta, del Redentore divino, che assunse sé per la sua passione e morte tutti i peccati  degli uomini». Cosi confermarono infatti gli eventi che seguirono. Da quel momento il contagio cominciò a regredire, poi man mano cessò del tutto. Gli stessi ammalati e quelli appena affetti dal ferale morbo sollecitamente e felicemente guarirono. Questo prodigio strepitoso(4) spinse il Popolo a dare fin d’allora alla Vergine della Cattedrale di Cosenza il titolo di Protettrice della Città (5).  La notizia non tardò a divulgarsi per i dintorni. Dai Casali circostanti, dalle campagne e dai paesi vicini fu un ininterrotto e crescente accorrere di pellegrini, i quali venivano per vedere il prodigioso Dipinto e per invocare la Madonna di Cosenza. Tali pellegrinaggi continuarono nel tempo e  gradatamente crebbero di numero e d’intensità tanto che, nel 1603, dopo più di cinque lustri dall’evento miracoloso, l’Arcivescovo mons. Giovanni Battista Costanzo (1591-1617), per meglio favorire l’afflusso dei pellegrini, fece rimuovere il sacro Dipinto dal sito dove trovavasi per farlo collocare, dapprima su di un pilastro del Duomo, indi sull’altare maggiore ed infine, quattro anni dopo, nel 1607, nella Cappella “de’ li Pilieri”, dove era stata disposta la costruzione di un altare, come è documentato da un atto del notaro Giacomo Mangerio del 20 giugno1602 (6). Agevolmente da ciò può dedursi che il titolo “Pilerio” è certo anteriore all’avvenimento del 1603,  la  collocazione cioè del  Quadro sul pilastro del Duomo. Quindi il titolo “Pilerio” non sarebbe derivato dal gesto dell’appoggiarlo sul pilastro o colonna del Duomo.

A tal punto, è opportuno far rilevare, gli storici, i quali si sono occupati della vicenda, si siano, ovviamente, limitati a riferire soltanto i fatti e le circostanze concomitanti e susseguenti il prodigioso evento del 1576 e null’altro. Difatti nessuno di essi, sembra, abbia fatto riferimento alcuno all’origine, valore artistico e vetustà del Dipinto e del Titolo; cose queste peraltro rimaste inspiegabilmente nell’ombra e nel silenzio secolare, fin quasi ai nostri giorni. Devesi alla fervida inventiva e genialità  pastorale dell’illustre e dinamico Presule Enea Selis (1971-1979) l’iniziativa, certamente provvidenziale, di far curare dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici della Calabria, il restauro dell’Icona bizantina della Madonna del Pilerio, ritenuta comunemente «un dipinto su tavola e copia, per giunta rimaneggiata, di un’immagine della Madonna, di non rilevante valore artistico». Il restauro era stato richiesto in vista ed in ordine alla ricorrenza del IV Centenario del miracolo (1576-1976), che il Presule mons. Selis intendeva commemorare con particolari festeggiamenti, secondo un suo geniale stile, così come aveva già fatto nella ricorrenza del 750° anniversario della Consacrazione del Duomo (1222-1972), all’inizio del suo governo episcopale. Tutti quelli, che ebbero la ventura di presenziarli, ricorderanno certo come, per l’intervento della Radiotelevisione, ne fu ripresa e diffusa in diretta sulla rete nazionale in tutta Italia la solenne cerimonia e la visione delle strutture interne del nostro Duomo. Per quanto poi si riferisce al restauro del dipinto fu la felice occasione della sorprendente scoperta e ricognizione. La sacra Icona risultata essere «un dipinto originale di pregevole artistica fattura del secolo magistralmente riportato al suo primitivo splendore bizantino» (7). Di ciò evidentemente con il trascorrere degli anni e per averla del tutto alterata, per il vezzo o mania, talora ricorrente, di abbellire opere d’arte, se n’era perduta la memoria. A tal punto riesce più agevole risalire all’origine del sacro dipìnto e del titolo, rimando indietro nel tempo e nel contesto storico onde poterne determinare l’epoca e la primitiva collocazione. Alcuni studiosi oggi sostengono con argomentazioni valide che si tratta di “antica icona bizantina su legno” posta al di fuori del nostro Duomo, probabilmente presso una delle porte della città, a custodia e difesa di essa. Citiamo perciò uno scritto di Elio Vivacqua (8), il quale fa anche riferimento ad un altro sullo stesso argomento del compianto prof. Serravalle: — «Che l’Immagine della Madonna del Pilerio, venerata nella Cattedrale di Cosenza, sia di molto anteriore alla dominazione spagnola tra noi, con la pace di Cateau Cambrèsis, è un fatto ammesso da tutti».

Dunque Madonna del Pilerio, che si vorrebbe far derivare da “Pilar” = pilastro o colonna, non sembra verosimile. Insieme al Serravalle, scrive testualmente il Vivacqua “noi crediamo invece che il titolo e la devozione alla Madonna del Pilerio siano molto più antichi e quindi preesistenti alla peste del 1576”.

Ecco da che cosa lo si deduce:

  1. Dobbiamo ricordare che Cosenza, fin dal sec. IV, faceva parte dell’Eparchia greca della Calabria, quale suffraganea di Reggio. Inoltre è impossibile che essa non abbia  sentito l’influsso della vicina Rossano, capitale bizantina nei sec. X e XI.
  2. Nella liturgia bizantina la devozione alla Madonna ha un ruolo preponderante, ecco perché in quel periodo si solevano porre immagini della Vergine nei punti strategici, come a difesa del ponte  levatoio oppure alle porte della città.
  3. Nel contesto della religiosità greca o bizantina il titolo “Pilerio” non può dunque avere che una etimologia greca. E’infatti in greco “pule” significa porta e “puleròs” guardiano, custode della porta. Porre la Madonna a custodia della porta voleva dire riporre in Lei la fiducia di essere scampati da qualsiasi pericolo e quindi mettere la città sotto la sua materna protezione.

A riprova c’è un esempio illuminante a Rossano, dove una vetusta chiesina, che trovasi davanti ad una delle antiche porte della città, è dedicata alla Madonna del Pilerio».

 Note

(1) Andreotti D., Storia  dei  Cosentini, vol.   Il,  cap.10 & 3. • Botta C., Storia d’Italia, anno 1763, Pagnoni, Milano.

(2) N. B. È un dipinto su tavola, originale del secolo XII-XIII, esposto in un sito remoto del nostro Duomo o piuttosto all’esterno di esso o addirittura in una nicchia, presso una delle porte della città.                  

(3)Andreotti D., op.cit., Vol. Il p.329. Litta, Famiglie celebri d’Italia, Milano,1819-1880.
P. Russo F, Storia dell’archidiocesi di Cosenza, Rinascita Artistica Editrice, Napoli,1958.

(4)Botta C., op.cit

(5) Andreotti D., op. cit.    

(6) Archivio Notarile Statale, Cosenza, – Atti Notaro G. Mangerio, 1602.

(7) Relazione sul restauro del Quadro a cura della Sovrintendenza ai Beni culturali della Calabria. 1976.

(8) Vivacqua E., Le origini del culto della Madonna del Pilerio, Periodico “L’Unione” 31-3-1981, Cosenza.


LETTURA DELL’ICONA

Tratto da un articolo di Antonio Marchianò

Messaggio dell'Arcivescovo per la Festa della Madonna del Pilerio –  Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano

L’icona misura 95 x 65 cm ed è stata eseguita in ambito mediterraneo occidentale; grazie alle sue caratteristiche iconografiche è definita “bizantina”. La tavola su cui è rappresentata la Vergine che allatta il Bambino ha subito nel tempo vari rimaneggiamenti, ma anche danneggiamenti, fino ad essere stata completamente ridipinta. Solo con i restauri voluti dall’arcivescovo Mons. Enea Selis nel 1976-77 ed eseguiti presso la Sovrintendenza per i Beni culturali è stata ripristinata la bellezza originale, che ha permesso una lettura approfondita della immagine dipinta sul legno. L’icona infatti fino ad allora era considerata di scarso valore artistico, e solo una mera riproduzione di una più antica icona medievale. Secondo la Di Dario Guida, l’icona sembra essere stata eseguita durante l’ultimo scorcio della dominazione Sveva. Risulta come uno dei prodotti artistici più rilevanti di un vasto movimento artistico e culturale che subì sia gli influssi del “bizantinismo aulico delle opere messinesi del XIII secolo, sia le affinità delle ricerche plastiche perseguite dai maestri toscani pre-cimabueschi ”L’icona si inserisce, inoltre, in una linea che unisce, dal punto di vista artistico, Monreale, Messina e la Campania.

Partendo dalla figura della Vergine rappresentata possiamo affermare, confortati da autorevoli studi, che l’immagine è la sintesi tra una Galaktotrophousa (Colei che dona il latte) e la Kikkotissa (Vergine dal rosso manto). I due particolari pittorici relativi all’allattamento del Divin Bambino e del Maforiuòn (manto rosso) emergono nella loro immediatezza appena ci si accosta all’icona.

L’icona è avvolta da una luce tutta particolare che emerge dallo sfondo oro che simboleggia la gloria di Dio che tutto abbraccia. La grazia trasfigura la creatura nella quale “abita l’Altissimo”. Tutte le icone, ma particolarmente quelle della Madre di Dio, sono accompagnate dall’oro che indica il progetto e l’iniziativa di Dio, la gloria scende e prende possesso della tenda. Anche il rosso del velo che scende dal capo e il porpora dell’abito di cui Maria è rivestita sono simboli della divinità che “avvolge” la giovane di Nazareth e ne coinvolge mente e cuore. Il colore porpora dell’abito richiama anche la dimensione sacerdotale e regale ma soprattutto la “potenza dell’Altissimo” di cui l’Angelo annunziante le parla quando le propone il grande progetto della salvezza e della maternità. Il velo rosso che scende sulla spalla vuole significare che la Vergine Maria è stata “avvolta” dall’alto e ricoperta dalla grazia. Il marrone della veste della Vergine è richiamo della sua umanità, mentre l’altra parte di manto di colore blu che avvolge la donna, ed avvolge anche gli abiti, indica il privilegiato rapporto con Dio di questa creatura. Base di ogni colore è il bianco che in tutta la tavola esprime la purezza, l’immacolato concepimento della Vergine. Esso si intravede sulla fronte, nella manica del braccio sinistro ed è l’abito che ella indossa sotto tutti gli altri. Le tre stelle, secondo l’iconografia classica bizantina, sono collocate una sulla fronte e due ai lati sulle spalle. Esse indicano che Maria è inabitata dalla Trinità ma anche la sua Verginità prima, durante e dopo il parto. I medaglioni dorati intorno al capo della Vergine sono undici. Rappresentano la Chiesa Apostolica senza l’apostolo Giuda che aveva tradito il Signore. Questo particolare stellario indica Maria presente nel Cenacolo di Gerusalemme, accanto agli Apostoli, proprio nei giorni e nelle ore della Pasqua fino alla Pentecoste. Le scritte in latino (MR e DOMINI) collocate rispettivamente a sinistra e a destra dell’immagine come prescritto dal Concilio di Nicea (787d.C) indicano la maternità divina di Maria. L’aureola sul capo del Divino Bambino contrassegnato dalla croce è un chiaro richiamo alla Passione di Cristo e al suo regnare glorioso. Il mistero dell’Incarnazione infatti è strettamente collegato con quello della Redenzione. Un ultimo segno che appare sulla tavola è la macchia scura sul volto della Vergine. È il segno della peste di cui Maria si è caricata per liberare miracolosamente la città di Cosenza afflitta dal terribile morbo e di cui storia e devozione popolare sono ancora testimoni. La Vergine Maria regge il Bambino tra le braccia e Gesù è seduto delicatamente sulla mano destra; essa diventa per lui quasi un trono da cui regna. Un drappo rosso posto tra le mani della Madonna richiama la sua signoria, la sua potestà regale e sacerdotale, la sua divinità. Non è escluso anche il richiamo alla Passione. Gesù che prende il latte dalla mammella diventa un particolare iconografico molto evidente: c’è una stretta tensione tra Cristo che è capo della Chiesa e il suo corpo mistico, di cui Maria ne è icona perfetta. Alcuni studiosi vedono proprio nella posizione del collo piegata verso il Bambino questa strettissima dipendenza e questo stretto rapporto tra Gesù e Maria, tra Cristo e la Chiesa. L’iconografia del seno si chiarisce ancora di più se la Vergine è colta nella dimensione di nutrice dei figli (Colei che nutre, imbandisce il banchetto, la mensa) fino a diventare, come la invoca la Chiesa ortodossa,
Trapeza, evidente richiamo alla mensa eucaristica. Il Bambino è rappresentato con due addomi, strettamente legati da una fascia rossa intrecciata, ad indicare che le due nature umana e divina che sono unite in Cristo. Nella piccola fascia rossa intrecciata alcuni hanno intravisto anche un prolungamento del cordone ombelicale che unisce il figlio (divino) alla Vergine (madre) per esprimere visivamente il titolo di Madre di Dio (Theotòkos) inciso sulla tavola. Copre il Bambino un trasparente velo bianco che ricorda la divina purezza di Cristo agnello senza macchia che toglie i peccati del mondo e riscatta con l’effusione del suo sangue l’intera umanità dalla schiavitù, dai peccati e dalla morte. La Vergine come in ogni antica icona indica con la mano sinistra il figlio, si fa Odigitria (indica la Via) per tutti coloro che guardano la sua immagine e che potrebbero cadere nella tentazione di fermare lo sguardo su di lei. Le dita delle mani indicano anche alcune verità di fede: le tre dita della mano destra richiamano il mistero trinitario e ancora il parto verginale di Maria toccata dal mistero dell’Incarnazione; le due dita della mano sinistra invece indicano la doppia natura umana e divina di Cristo.

Bibliografia
Di Dario Guida M. Pia, Itinerario dell’arte dai Bizantini agli Svevi,
in “Itinerari per la Calabria”, ed. l’Espresso, Roma, 1983, p.157.
Di Dario Guida M. P., Cultura artistica della Calabria medievale, di Mauro Edizioni, 1978.
Frangipane A., Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, II – Calabria, Roma 1933, p. 121.
Leone G., Icone della “Theotokos” in Calabria, Ed. Vivarium 1990
Leone G., Icone della “Teotokos” in Calabria, in “Concilio Niceno II e l’iconografia mariana in Calabria”, atti del convegno, Cz, 1987, a cura di Squillace M., Edizioni Vivarium,Catanzaro, 1990, pp.119 e ss.
Napolillo V., Storia e fede a Cosenza, la Madonna del Pilerio, Edizioni Santelli, Cosenza, 2002, p.13.
Tuoto G., La Madonna del Pilerio, Leggenda, Cosenza 2001, p. 32.
Vitari S., Il Duomo di Cosenza, in Bilotto L., Il Duomo di Cosenza, Effesette, Cosenza, 1989, p.101.




ANZIANO PORFIRIO: Una biografia

Tratta da: ANZIANO PORFIRIO Testimonianze ed esperienze

Originale: KLITOS IOANNIDIS, ELDER PORPHYRIOS. Testimonies and experiences, THE HOLY CONVENT OF THE TRANSFIGURATION  OF THE SAVIOR, MILESSI 2013

UNA BREVE BIOGRAFIA

San Porphyrios di Kavsokalyvia

La sua famiglia

L’anziano Porfirio è nato il 7 febbraio 1906, nel villaggio di San Giovanni Karystia, vicino ad Aliveri, nella provincia di Evia. I suoi genitori erano contadini poveri ma devoti. Il nome di suo padre era Leonidas Bairaktaris e quello di sua madre era Eleni, la figlia di Antonios Lambrou.

Al battesimo gli fu dato il nome di Evangelos. Era il quarto di cinque figli e il terzo dei quattro sopravvissuti. Sua sorella maggiore, Vassiliki, è morta quando aveva un anno. Oggi è ancora viva solo la sorella minore, che è una suora.

Suo padre aveva una vocazione monastica ma ovviamente non divenne monaco. Era, tuttavia, il cantore del villaggio e St. Nectarios chiese i suoi servizi durante i suoi viaggi attraverso la zona, ma la povertà lo costrinse a emigrare in America per lavorare alla costruzione del canale di Panama.

I suoi anni d’infanzia

L’Anziano ha frequentato la scuola nel suo villaggio solo per due anni. L’insegnante era malato la maggior parte del tempo e i bambini non imparavano molto. Vedendo come stavano le cose, Evangelos lasciò la scuola, lavorò nella fattoria di famiglia e si prese cura dei pochi animali che possedeva. Ha iniziato a lavorare dall’età di otto anni. Nonostante fosse ancora molto giovane, per guadagnare di più andò a lavorare in una miniera di carbone. In seguito ha lavorato in un negozio di alimentari a Halkhida e nel Pireo.

Suo padre gli aveva insegnato il Canone Supplicativo (Paraklisis) alla Madre di Dio (Panaghia); e qualunque altra cosa della nostra fede poteva. Da bambino si è sviluppato rapidamente. Lui stesso ci ha detto che aveva otto anni quando ha iniziato a radersi. Sembrava molto più vecchio di quanto non fosse in realtà. Fin dall’infanzia fu molto serio, operoso e diligente.

Chiamata monastica

Mentre si prendeva cura delle pecore, e anche quando lavorava nel negozio di alimentari, leggeva lentamente la storia della vita di San Giovanni, l’abitante della capanna. Voleva seguire l’esempio del santo. Così partì molte volte per il Monte Athos, ma per vari motivi non ce la fece e tornò a casa. Infine, quando aveva circa quattordici o quindici anni, partì di nuovo per il Monte Athos. Questa volta era determinato a farcela e questa volta ce l’ha fatta.

Il Signore, che veglia sui destini di tutti noi, fece sì che Evangelos incontrò il suo futuro padre spirituale, lo ieromonaco Panteleimon, mentre si trovava sulla barca tra Salonicco e la Montagna Sacra (Mont. Athos). Padre Panteleimon prese subito il ragazzo sotto la sua ala protettrice. Evangelos non era ancora adulto, quindi non avrebbe dovuto essere ammesso sulla Montagna Sacra. Padre Panteleimon ha detto che era suo nipote e il suo ingresso fu assicurato.

La vita monastica

Il suo maggiore, P. Panteleimon, lo portò a Kavsokalyvia alla Capanna di San Giorgio (una capanna o kalyvi è il termine usato sul Monte Athos per ciascuna delle piccole abitazioni monastiche). P. Panteleimon visse lì con il fratellastro P. Ioannichio. Anche il famoso monaco, il beato Hatzigeorgios, aveva vissuto lì.

In questo modo l’anziano Porfirio acquisì contemporaneamente due padri spirituali. Ha dato volentieri obbedienza assoluta a entrambi. Abbracciò la vita monastica con grande zelo. La sua unica lamentela era che i suoi anziani non gli chiedevano abbastanza. Ci ha parlato molto poco delle sue lotte ascetiche e abbiamo pochi dettagli. Da ciò che ha detto molto raramente ai suoi figli spirituali al riguardo, possiamo concludere che ha lottato felicemente e duramente. Camminava a piedi nudi tra i sentieri rocciosi e innevati del Monte Santo. Dormiva pochissimo, e poi con una sola coperta si trovava sul pavimento della capanna, anche tenendo la finestra aperta quando nevicava. Durante la notte faceva molte prostrazioni, spogliandosi fino alla cintola perché il sonno non lo sopraffacesse. Ha lavorato: intaglio del legno o abbattimento di alberi all’aperto.

Si è immerso anche nelle preghiere, nei servizi e negli inni della Chiesa, imparandoli a memoria mentre lavorava con le sue mani. Alla fine dalla ripetizione continua del Vangelo e dall’impararlo a memoria allo stesso modo, non poteva avere pensieri che non erano buoni o che erano oziosi. Si caratterizzava, in quegli anni, come “perennemente in movimento”.

Tuttavia, il segno distintivo della sua lotta ascetica non era lo sforzo fisico che fece, ma piuttosto la sua totale obbedienza al suo maggiore. Era completamente dipendente da lui. La sua volontà scomparve nella volontà del suo maggiore. Aveva totale amore, fede e devozione per il suo anziano. Si identificò completamente con lui, facendo propria la condotta del suo anziano nella vita. È qui che troviamo l’essenza di tutto. È qui, nella sua obbedienza che scopriamo il segreto, la chiave della sua vita.

Questo ragazzo ignorante della seconda elementare, usando le Sacre Scritture come suo dizionario, ha saputo educare se stesso. Leggendo del suo amato Cristo è riuscito in pochi anni ad apprendere quanto, se non di più, abbiamo mai fatto con tutte le nostre comodità. Avevamo scuole e università, insegnanti e libri, ma non avevamo l’entusiasmo focoso di questo giovane novizio.

Non sappiamo esattamente quando, ma certamente non molto tempo dopo aver raggiunto il Monte Santo, fu tonsurato come monaco e gli fu dato il nome di Nikitas.

La visitazione della grazia divina

Non dovremmo trovare strano che la grazia divina riposi su questo giovane monaco che è stato ripieno di fuoco per Cristo e ha dato tutto per il suo amore. Non ha mai considerato tutte le sue fatiche e lotte.

Era ancora l’alba e la chiesa principale di Kavsokalyvia era chiusa a chiave. Nikitas, invece, era fermo all’angolo dell’ingresso della chiesa in attesa che le campane suonassero e che le porte si aprissero.

Fu seguito dal vecchio monaco Dimas, ex ufficiale russo, ultranovantenne, asceta e nascostamente santo. P. Dimas si guardò intorno e si assicurò che non ci fosse nessuno. Non notò il giovane Nikitas che aspettava all’ingresso. Cominciò a prosternarsi completamente e a pregare davanti alle porte chiuse della chiesa.

La grazia divina si riversò sul santo P. Dimas e scese a cascata sul giovane monaco Nikitas che era allora pronto a riceverlo. I suoi sentimenti erano indescrivibili. Sulla via del ritorno alla capanna, dopo aver ricevuto quella mattina la Santa Comunione nella Divina Liturgia, i suoi sentimenti erano così intensi che si fermò, tese le mani e gridò forte “Gloria a Te, Ο Dio! Gloria a Te, Ο Dio! Gloria a Te, Ο Dio!”

Il cambiamento operato dallo Spirito Santo.

Dopo la visita dello Spirito Santo, si verificò un cambiamento fondamentale nella struttura psicosomatica del giovane monaco Nikitas. Era il cambiamento che viene direttamente dalla mano destra di Dio. Ha acquisito doni soprannaturali ed è stato investito di potere dall’alto.

Il primo segno di questi doni (charismata – si riferisce a doni specifici dello Spirito Santo verso l’uomo. In questo libro indicato semplicemente come “dono”. Da non confondere con il significato comune della parola inglese “charisma”) fu quando i suoi anziani tornavano da un viaggio lontano, poté “vederli” a grande distanza. Li “vide” là, dov’erano, anche se non potevano essere visti dagli occhi umani. Lo ha confessato a P. Panteleimon che gli consigliò di essere molto cauto riguardo al suo dono e di non dirlo a nessuno. Consiglio che seguì con molta attenzione finché non gli fu detto di fare diversamente.

Altri seguirono. La sua sensibilità per le cose intorno a lui divenne molto acuta e le sue capacità umane si svilupparono al massimo. Ascoltava e riconosceva voci di uccelli e animali nella misura in cui sapeva non solo da dove venivano, ma cosa stavano dicendo. Il suo senso dell’olfatto era sviluppato a tal punto da poter riconoscere le fragranze a grande distanza. Conosceva i diversi tipi di aroma e il loro trucco. Dopo umile preghiera poté “vedere” le profondità della terra e gli angoli più remoti dello spazio. Poteva vedere attraverso l’acqua e attraverso le formazioni rocciose. Poteva vedere giacimenti di petrolio, radioattività, monumenti antichi e sepolti, tombe nascoste, fessure nelle profondità della terra, sorgenti sotterranee, icone perdute, scene di eventi accaduti secoli prima, preghiere che erano state innalzate in passato, spiriti buoni e cattivi, l’anima umana stessa, quasi tutto. Assaggiò la qualità dell’acqua nelle profondità della terra. Avrebbe interrogato le rocce e loro gli avrebbero parlato delle lotte spirituali degli asceti che lo hanno preceduto. Guardava le persone ed era in grado di guarire. Ha toccato persone beneficandole. Pregò e la sua preghiera divenne realtà. Tuttavia, non ha mai cercato consapevolmente di usare questi doni di Dio per trarne beneficio. Non ha mai chiesto che i suoi stessi disturbi venissero guariti. Non ha mai cercato di ottenere un guadagno personale dalla conoscenza estesa a lui dalla grazia divina. 

Ogni volta che usava il suo dono del discernimento, (diakrisis) gli venivano rivelati i pensieri nascosti della mente umana. Egli è stato in grado, per grazia di Dio, di vedere il passato, il presente e il futuro tutti allo stesso tempo. Ha confermato che Dio è onnisciente e onnipotente. È stato in grado di osservare e toccare tutta la creazione, dai confini dell’Universo alla profondità dell’anima umana e della storia. La frase di san Paolo “Un solo e medesimo Spirito opera tutte queste cose, distribuendo a ciascuno individualmente come vuole” ( 1 Cor 12,11) certamente valeva per l’anziano Porfirio. Naturalmente era un essere umano e ricevette la grazia divina, che viene da Dio. Questo Dio che per ragioni sue a volte non rivelava tutto. La vita vissuta nella grazia è per noi un mistero sconosciuto. Qualsiasi altro discorso sull’argomento sarebbe una rude invasione di questioni che non capiamo. L’anziano lo faceva sempre notare a tutti coloro che attribuivano le sue capacità a qualcosa di diverso dalla grazia. Ha sottolineato questo fatto, ancora e ancora, dicendo: “Non è qualcosa che si impara. Non è un’abilità. È GRAZIA”.

Ritorno nel mondo

Anche dopo essere stato toccato dalla grazia divina, questo giovane discepolo del Signore ha continuato le sue lotte ascetiche come prima, con umiltà, zelo divino e amore per l’apprendimento senza precedenti. Il Signore ora voleva fare di lui un maestro e un pastore delle sue pecore razionali. Lo ha provato, misurato e trovato adeguato.

Il monaco Nikitas non ha mai pensato di lasciare la Montagna Sacra e di tornare nel mondo. Il suo divino amore divorante per il nostro Salvatore lo spingeva a desiderare e sognare di ritrovarsi nel deserto aperto e, salvo il suo dolce Gesù, completamente solo.

Tuttavia, una grave pleurite, trovandolo esausto dalle sue lotte ascetiche sovrumane, lo afferrò mentre stava raccogliendo lumache sulle scogliere rocciose. Questo costrinse i suoi anziani a ordinargli di stabilirsi in un monastero nel mondo, in modo che potesse guarire di nuovo. Obbedì e tornò nel mondo, ma, appena guarito, tornò al luogo del suo pentimento. Si ammalò di nuovo; questa volta i suoi anziani, con molta tristezza, lo rimandarono nel mondo per sempre.

Così, a diciannove anni, lo troviamo a vivere come monaco nel monastero Lefkon di St. Charalambos, vicino alla sua città natale. Tuttavia continuò con il regime che aveva appreso sul Monte Santo, con i suoi salmi e simili uffici. Tuttavia, è stato costretto a ridurre il digiuno fino a quando la sua salute non è migliorata.

Atanasio di Limassol: San Porfirio di Kafsokalyvia – Monastero Ortodosso di  Arona

Ordinazione al sacerdozio

Fu in questo monastero che incontrò l’arcivescovo del Sinai, Porfirio III, ospite in visita lì. Dalla sua conversazione con Nikitas, ha notato la virtù e i doni divini che possedeva. Ne fu così colpito che il 26 luglio 1927, festa di San Paraskevi, lo ordinò diacono. Il giorno successivo, festa di San Panteleimon, lo promosse al sacerdozio, come membro del monastero del Sinai. Gli fu dato il nome Porfirio. L’ordinazione è avvenuta nella Cappella della Santa Metropoli di Karystia, nella diocesi di Kymi. Al servizio ha preso parte anche il metropolita di Karystia, Panteleimon Phostinis. L’anziano Porphyrios aveva solo ventuno anni.

Il Padre Spirituale

Dopo questo il metropolita residente di Karystia, Panteleimon, lo nominò con una lettera ufficiale ad essere padre confessore. Ha realizzato questo nuovo “talento” che gli è stato donato con umanità e fatica. Ha studiato il “Manuale del confessore”. Tuttavia, quando cercò di seguire alla lettera ciò che diceva sulla penitenza, ne fu turbato. Capì che doveva occuparsi individualmente di ciascuno dei fedeli. Trovò la risposta negli scritti di san Basilio, il quale consigliò: “Noi scriviamo tutte queste cose perché possiate assaporare i frutti del pentimento. Non consideriamo il tempo necessario, ma prendiamo atto delle modalità del pentimento”. (Ep. 217 n. 84) Ha preso a cuore questo consiglio e lo ha messo in pratica. Anche nella sua vecchiaia ha ricordato questo consiglio ai giovani padri confessori.

Così maturato il giovane ieromonaco Porfirio, per grazia di Dio, si dedicò con successo all’opera di padre spirituale in Evia fino al 1940. Riceveva un gran numero di fedeli per la confessione, ogni giorno. In molte occasioni ascoltava la confessione per ore senza interruzione. La sua reputazione di padre spirituale, conoscitore di anime e guida sicura, si diffuse rapidamente in tutta l’area vicina. Ciò significava che molte persone si sono accalcate al suo confessionale presso il Santo Monastero di Lefkon, vicino ad Avlonarion, nell’Evia.

A volte interi giorni e notti trascorrevano senza tregua e senza riposo, mentre compiva questa opera divina, questo sacramento. Aiutando coloro che si avvicinano a lui con il suo dono del discernimento, guidandoli alla conoscenza di sé, alla vera confessione e alla vita in Cristo. Con questo stesso dono ha scoperto le insidie ​​del diavolo, salvando le anime dalle sue trappole e congegni malvagi.

Archimandrita

Nel 1938 fu insignito della carica di Archimandrita dal Metropolita di Karystia, «in onore del servizio che finora hai reso alla Chiesa come Padre spirituale, e per le virtuose speranze che la nostra Santa Chiesa nutre per te» ( protocollo n . . 92/10-2-1938) come scritto dal Metropolita. Le loro speranze, per grazia di Dio, si sono realizzate.

Sacerdote, per un breve periodo alla parrocchia di Tsakayi, Evia e al Monastero di San Nicola di Ano Vathia

Fu assegnato dal metropolita residente come sacerdote al villaggio di Tsakayi, nell’Evia. Alcuni degli abitanti del villaggio più anziani, fino ad oggi, conservano bei ricordi della sua presenza lì. Aveva lasciato il Santo Monastero di S. Charalambos perché era stato trasformato in convento. Così, intorno al 1938 lo troviamo a vivere nel Santo Monastero in rovina e abbandonato di San Nicola, Ano Vathia, Evia, nella giurisdizione del metropolita di Halkhida.

Nel deserto della città

Quando il tumulto della seconda guerra mondiale si avvicinò alla Grecia, il Signore arruolò il suo obbediente servitore, Porfirio, assegnandolo a un nuovo incarico, più vicino al suo popolo assediato. Il 12 ottobre 1940 ricevette l’incarico di sacerdote provvisorio presso la Cappella di San Gerasimos nel Policlinico di Atene, che si trova all’angolo tra via Socrate e via Pireo, vicino a piazza Omonia. Egli stesso ha chiesto la posizione per l’amore compassionevole che aveva per i suoi simili che stavano soffrendo. Voleva essere loro nei momenti più difficili della loro vita, quando la malattia, il dolore e l’ombra della morte mostravano la disperazione di ogni altra speranza tranne quella in Cristo.

C’erano altri candidati con ottime credenziali che erano anche interessati alla carica, ma il Signore ha illuminato il direttore del Policlinico. Umile e affascinante, fu scelto Porfirio, che era ignorante secondo gli standard del mondo ma saggio secondo Dio. La persona che ha fatto questa scelta ha poi espresso stupore e gioia nel trovare un vero sacerdote dicendo: “Ho trovato un padre perfetto, proprio come vuole Cristo”.

Ha servito il Policlinico come suo cappellano dipendente, per trent’anni interi e poi per essere al servizio dei suoi figli spirituali che lo hanno cercato, volontariamente, per altri tre anni.

Qui anche il ruolo di cappellano, che svolse con pieno amore e devozione, celebrando i servizi con meravigliosa devozione; confessando, ammonendo, guarendo anime e molte volte anche malattie corporali, agiva anche come padre spirituale per tanti di coloro che venivano da lui.

“Sì, voi stessi sapete che queste mani sono state provvedute per le mie necessità e per coloro che erano con me”. (Atti 20:34)

L’anziano Porphyrios, con la sua mancanza di qualifiche accademiche, accettò di essere cappellano del Policlinico per uno stipendio quasi nullo. Non bastava per mantenere se stesso, i suoi genitori e i pochi altri parenti stretti che facevano affidamento su di lui. Doveva lavorare per vivere. Organizzò in successione un allevamento di pollame e poi una tessitura. Nel suo zelo per i servizi da celebrare nel modo più edificante, si applicò alla composizione di sostanze aromatiche che potevano poi essere utilizzate nella preparazione degli incensi usati nel culto divino. Infatti negli anni ’70 fece una scoperta originale. Unì il carbone con essenze aromatiche incensando la chiesa con il suo carbone a combustione lenta che emanava un dolce profumo di spiritualità. Sembra che non abbia mai rivelato i dettagli di questa scoperta.

Dal 1955 ha affittato il piccolo monastero di San Nicola, Kallisia, che appartiene al Santo Monastero di Pendeli. Coltivò sistematicamente la terra circostante. facendo un sacco di duro lavoro. Fu qui che volle fondare il convento, che poi costruì altrove. Migliorò i pozzi, costruì un sistema di irrigazione, piantò alberi e dissodò il terreno con uno scavatore che utilizzava lui stesso. Tutto questo insieme al dovere, ventiquattr’ore su ventiquattro, come cappellano e confessore.

Apprezzò molto il lavoro e non si concedeva riposo. Apprese dall’esperienza le parole di abba Isacco il Siro: «Dio e i suoi angeli trovano gioia nella necessità; il diavolo e i suoi operai trovano gioia nell’ozio”.

Fr. Seraphim Rose - "Death does not exist. Don't fear death." -St.  Porphyrios (Photo from "The Divine Flame Elder Porphyrios Lit in My Heart,"  by Monk Agapios, published by The Holy Convent

Partenza dal Policlinico

Il 16 marzo 1970, dopo aver compiuto trentacinque anni di servizio sacerdotale, ricevette una piccola pensione dalla Cassa ellenica di assicurazione del personale e lasciò l’incarico presso il Policlinico. In sostanza, però, rimase fino all’arrivo del suo sostituto. Anche dopo ha continuato a visitare il Policlinico per incontrare il suo gran numero di figli spirituali. Infine, intorno al 1973, ridusse al minimo le sue visite al Policlinico e invece ricevette i suoi figli spirituali a San Nicola a Kallisia, Pendeli, dove celebrò la liturgia e confessò.

La mia forza è resa perfetta dalla debolezza

L’anziano Porfirio, oltre alla malattia che lo costrinse a lasciare il Monte Athos, e che mantenne particolarmente sensibile il suo fianco sinistro, soffrì di molti altri disturbi, in tempi diversi.

Verso la fine del suo servizio al Policlinico si ammalò di problemi ai reni. Tuttavia, è stato operato solo quando la sua malattia era in fase avanzata. Questo perché ha lavorato instancabilmente nonostante la sua malattia. Si era abituato a essere obbediente “fino alla morte”. Fu obbediente anche al direttore del Policlinico, che gli disse di rimandare l’operazione, per poter celebrare le funzioni per la Settimana Santa. Questo ritardo lo ha portato a scivolare in coma. I medici hanno detto ai suoi parenti di prepararsi per il suo funerale. Tuttavia, per volontà divina, e nonostante tutte le aspettative mediche, l’anziano è tornato alla vita terrena per continuare il suo servizio ai membri della Chiesa.

Qualche tempo prima, si era fratturato una gamba. Collegato a questo incidente è un esempio miracoloso della preoccupazione di San Gerasimos (di cui ha servito la cappella del Policlinico).

Oltre a questo la sua ernia, di cui soffrì fino alla morte, peggiorò, a causa dei pesanti carichi che era solito portare a casa sua, a Turkounia, dove visse per molti anni.

Il 20 agosto 1978, mentre si trovava a San Nicola, Kallisia, ebbe un infarto (infarto del miocardio). Fu portato d’urgenza all’ospedale “Hygeia”, dove rimase per venti giorni. Quando lasciò l’infermeria, continuò la sua convalescenza ad Atene, nelle case di alcuni suoi figli spirituali. Questo per tre ragioni. In primo luogo, non poteva andare a San Nicola, Kallisia, perché non c’era strada, e avrebbe dovuto fare una lunga strada a piedi. Inoltre, la sua casa a Turkounia non aveva nemmeno i comfort più elementari. Infine, doveva essere vicino ai medici.

In seguito, quando si era stabilito in un ricovero provvisorio a Milessi, sede del convento da lui fondato, si è operato all’occhio sinistro. Il dottore ha commesso un errore, distruggendo la vista in quell’occhio. Dopo alcuni anni il Vecchio divenne completamente cieco. Durante l’operazione, senza il permesso dell’anziano Porfirio, il medico gli ha somministrato una forte dose di cortisone. L’anziano era particolarmente sensibile ai farmaci, e soprattutto al cortisone. Il risultato di questa iniezione fu un’emorragia allo stomaco continua che durò per tre mesi circa. A causa del suo stomaco costantemente sanguinante non poteva mangiare cibo normale. Si sosteneva con qualche cucchiaio di latte e acqua ogni giorno. Ciò lo ha portato a diventare così esausto fisicamente che ha raggiunto il punto in cui non poteva nemmeno stare seduto dritto. Ricevette dodici trasfusioni di sangue, tutti nel suo alloggio a Milessi. Alla fine, sebbene fosse di nuovo alla porta della Morte, per grazia di Dio sopravvisse.

Da quel momento in poi, la sua salute fisica fu terribilmente compromessa. Tuttavia, ha continuato il suo ministero di padre spirituale per quanto poteva, confessando continuamente per periodi più brevi e spesso soffrendo di vari altri problemi di salute e nel dolore più spaventoso. In effetti, ha perso lentamente la vista fino a quando nel 1987 è diventato completamente cieco.

Diminuì costantemente le parole di consiglio che dava alle persone e aumentò le preghiere che diceva a Dio per loro. Pregò silenziosamente con grande amore e umiltà per tutti coloro che cercavano la sua preghiera e il suo aiuto da Dio. Con gioia spirituale vide agire su di loro la grazia divina. Così, l’anziano Porfirio divenne un chiaro esempio delle parole dell’apostolo Paolo: “La mia forza è resa perfetta nella debolezza”.

Costruisce un nuovo convento

Era un desiderio radicato nell’anziano di fondare un suo santo convento, di costruire una fondazione monastica in cui potessero vivere alcune donne devote, che erano sue figlie spirituali. Aveva giurato a Dio che non avrebbe abbandonato queste donne quando avrebbe lasciato il mondo perché erano state sue fedeli aiutanti per molti anni. Col passare del tempo sarebbe stato possibile per altre donne che volevano dedicarsi al Signore stabilirsi lì.

Il suo primo pensiero fu di costruire il Convento nel luogo di Kallisia, Pendeli, che aveva affittato nel 1955 dal Santo Monastero di Pendeli. Cercò più volte di convincere i proprietari a donargli o a vendergli la terra richiesta. Non è servito a nulla. Ora sembrava che il Signore, saggio regolatore e dispensatore di tutto, destinasse un altro posto a questa particolare impresa. Quindi l’anziano rivolse gli occhi a un’altra area nella sua ricerca di immobili.

Nel frattempo, però, con la collaborazione dei suoi figli spirituali, redasse lo statuto legale per la fondazione del Convento e lo sottopose alle autorità ecclesiastiche competenti. Poiché non aveva ancora scelto il luogo specifico dove sarebbe stato costruito il suo convento, identificò Turkounia ad Atene come il luogo in cui sarebbe stato fondato. Qui aveva un’umile casetta in pietra, che, senza nemmeno le comodità di base, era stata la sua povera dimora dal 1948.

L’anziano Porfirio non ha fatto nulla senza la benedizione della Chiesa. Così, in questo caso, ha chiesto e ricevuto l’approvazione canonica sia di Sua Eminenza l’Arcivescovo di Atene che del Santo Sinodo. Sebbene le relative procedure fossero iniziate nel 1978, solo nel 1981, dopo aver superato molta burocrazia procedurale e altre difficoltà, ebbe il privilegio di vedere il “Santo Convento della Trasfigurazione del Salvatore” riconosciuto con decreto presidenziale e pubblicato in la gazzetta governativa.

La ricerca di un luogo adatto per fondare il Convento era stata avviata dall’Anziano molto prima del suo infarto, quando era più che certo che non sarebbe stato a Kallisia. Con estrema cura e grande zelo, cercò instancabilmente un sito che avesse i maggiori vantaggi. Quando le sue forze si furono moderatamente recuperate dopo l’infarto e quando sentì di poterlo fare, continuò l’intensa ricerca del posto che desiderava. Non ha risparmiato sforzi. Percorse tutta l’Attica, l’Evia e la Beozia nelle auto di vari suoi figli spirituali. Ha esaminato la possibilità di costruire il suo convento a Creta o in qualche altra isola. Ha lavorato incredibilmente duro. Ha chiesto informazioni su centinaia di proprietà e ne ha visitate la maggior parte. Ha consultato molte persone. Ha viaggiato per migliaia di chilometri. Ha fatto innumerevoli calcoli. Ha soppesato tutti i fattori; e, infine, scelse e acquistò alcune proprietà sul sito di Hagia Sotira, Milessi di Malakasa, Attica, vicino a Oropos.

All’inizio del 1979 si stabilisce in questa proprietà a Milessi, che era stata acquistata per la costruzione di un convento. Per più di un anno, all’inizio, ha vissuto in una casa mobile in condizioni molto difficili, soprattutto in inverno. Successivamente si stabilì in una casa piccola e squallida, nella quale subì tutte le fatiche di tre mesi di continue emorragie allo stomaco e dove ricevette anche numerose trasfusioni di sangue. Il sangue è stato donato con molto amore dai suoi figli spirituali.

Nel 1980 sono iniziati anche i lavori di costruzione, che l’anziano ha seguito da vicino, e ha pagato i lavori con i risparmi che lui, i suoi amici e i suoi parenti avevano realizzato negli anni con questo obiettivo in mente. Fu anche aiutato da vari figli spirituali.

La costruzione della Chiesa della Trasfigurazione

Il suo grande amore per il prossimo era centrato nel guidarlo alla gioia della trasfigurazione secondo Cristo. Insieme a san Paolo apostolo, ha implorato noi, suoi fratelli e sorelle, per la compassione di Dio: «Non conformatevi a questo mondo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, affinché possiate provare ciò che è buono e accettevole e perfetta volontà di Dio”. ( Rom. 12:2 ). Ha voluto guidarci allo stato in cui visse, secondo il quale: «Noi tutti con il volto scoperto, contemplando come in uno specchio la gloria del Signore, ci trasformiamo di gloria in gloria nella stessa immagine, così come da lo Spirito del Signore”. ( 2 Cor.3:18 )

Per questo chiamò anche il suo Convento la “Trasfigurazione” e volle che la chiesa fosse dedicata alla Trasfigurazione. Infine, attraverso le sue preghiere, influenzò i suoi compagni di lavoro in questa impresa e riuscì nel suo scopo. Dopo molte consultazioni e un duro lavoro da parte dell’Anziano, si è arrivati ​​a un design semplice, gradevole e perfetto.

Nel frattempo, per intervento canonico di Sua Eminenza, l’Arcivescovo di Atene, (poiché il Convento rientra nell’Arcidiocesi ateniese) il Metropolita locale, diede il permesso di costruire la chiesa sotto la sua giurisdizione presso l’annesso del Convento, a Milessi.

La posa delle fondamenta è avvenuta a mezzanotte tra il 25 e il 26 febbraio 1990 durante una veglia notturna in onore di San Porfirio, Vescovo di Gaza, Taumaturgo. L’anziano Porfirio, malato e incapace di salire gli undici metri fino al luogo dove doveva essere posta la prima pietra, con grande commozione offrì la sua croce per la pietra angolare. Dal suo letto pregava con queste parole: «O Croce di Cristo, rendi salda questa casa. Ο Croce di Cristo, salvaci con la tua forza. Ricordati, Ο Signore, del tuo umile servitore Porfirio e dei suoi compagni…” Dopo aver pregato per tutti coloro che hanno lavorato con lui, ordinò che i loro nomi fossero posti in una posizione speciale nella chiesa, per la loro eterna commemorazione.

Immediato il lavoro di costruzione della Chiesa (in cemento armato). Accompagnato dalle preghiere del Vecchio, procedette senza interruzioni. Poteva vedere con i suoi occhi spirituali – poiché molti anni prima aveva perso la vista naturale – la chiesa che raggiungeva le fasi finali della sua costruzione. Vale a dire, alla base della cupola centrale. In realtà ha raggiunto questo punto il giorno della partenza finale dell’anziano.

Si prepara al ritorno sul Sacro Monte

L’anziano Porfirio non aveva mai lasciato emotivamente il Monte Athos. Non c’era nessun altro argomento che lo interessasse più della Montagna Sacra, e soprattutto Kavsokalyvia. Quando nel 1984 seppe che l’ultimo abitante della capanna di San Giorgio era partito definitivamente e si era stabilito in un altro monastero, si affrettò alla Santa Grande Lavra di Sant’Atanasio, a cui apparteneva e chiese che gli fosse data. Fu a St. George’s che aveva preso per la prima volta i voti monastici. Aveva sempre voluto tornare, mantenere il voto fatto alla tonsura circa sessant’anni prima, rimanere nel suo monastero fino al suo ultimo respiro. Adesso si stava preparando per il suo ultimo viaggio.

La capanna gli fu data secondo le usanze del Monte Athos, con il pegno sigillato del monastero, datato 21 settembre 1984. L’anziano Porfirio vi stabilì diversi suoi discepoli in successione. Nell’estate del 1991 erano cinque. Questo è il numero che aveva menzionato a un suo figlio spirituale circa tre anni prima come il totale che indicava l’anno della sua morte.

Torna al suo pentimento

Durante gli ultimi due anni della sua vita terrena parlava spesso della sua preparazione per la sua difesa davanti al terribile tribunale di Dio. Diede ordini severi che se fosse morto qui, il suo corpo sarebbe stato trasportato senza clamore e sepolto a Kavsokalyvia. Alla fine decise di andarci mentre era ancora vivo. Ha parlato di una certa storia nei Detti dei Padri:

Un anziano, che aveva preparato la sua tomba quando sentiva che la sua fine era vicina, disse al suo discepolo: «Figlio mio, le rocce sono scivolose e scoscese e metterai in pericolo la tua vita se tu solo mi porterai alla mia tomba. Vieni, andiamo ora che sono vivo”. E sicuramente il suo discepolo lo prese per mano e l’anziano si sdraiò nella tomba e diede in pace la sua anima.

Alla vigilia della festa della Santissima Trinità, 1991, recatosi ad Atene per confessarsi al suo anziano e malaticcio padre spirituale, ricevette l’assoluzione e partì per la sua capanna sul monte Athos. Si stabilì e aspettò la fine, pronto a dare una buona difesa davanti a Dio.

Poi, quando gli ebbero scavato una fossa profonda, secondo le sue istruzioni, dettò una lettera d’addio di consiglio e di perdono a tutti i suoi figli spirituali, attraverso un suo figlio spirituale. Questa lettera, datata 4 giugno (vecchio calendario) e 17 giugno (nuovo calendario), è stata trovata tra gli abiti monastici che erano stati disposti per il suo funerale il giorno della sua morte. 

“Attraverso la mia venuta di nuovo da te”

L’anziano Porfirio lasciò l’Attica per il Monte Athos con l’intenzione nascosta di non tornare mai più qui. Aveva parlato a un numero sufficiente di suoi figli spirituali in modo tale che sapevano che lo stavano vedendo per l’ultima volta. Ad altri ha appena accennato. Fu solo dopo la sua morte che si resero conto di cosa intendeva. Naturalmente, a coloro che non avrebbero sopportato la notizia della sua partenza, disse loro che sarebbe tornato. Ha detto tante cose della sua morte, in modo chiaro o criptico, tanto che solo la certezza di chi gli sta intorno che sarebbe sopravvissuto come tutte le altre volte (una speranza nata dal desiderio), può forse spiegare il non subitaneo annuncio della sua morte.

Forse lui stesso esitò, come l’apostolo Paolo, che scrisse ai Filippesi: «Perché sono stretto tra i due, avendo il desiderio di separarmi e di stare con Cristo, il che è molto meglio. Tuttavia, per te è più necessario rimanere nella carne». ( Fil 1:23-24 ) Forse…

I suoi figli spirituali ad Atene lo invocavano costantemente e per due volte fu costretto a tornare al Convento contro la sua volontà. Qui ha dato consolazione a tutti coloro che ne avevano bisogno. Ogni volta si fermava solo per pochi giorni, «affinché la nostra gioia per lui fosse più abbondante in Gesù Cristo, venendo a noi». (Parafrasando le parole dell’Apostolo, Fil. 1:26 ) Sarebbe poi tornato di corsa al Monte Athos il più presto possibile. Desiderava ardentemente morire lì ed essere sepolto tranquillamente in mezzo alla preghiera e al pentimento.

Verso la fine della sua vita fisica si sentì a disagio per la possibilità che l’amore dei suoi figli spirituali influisse sul suo desiderio di morire da solo. Era abituato a essere obbediente e a sottomettersi agli altri. Perciò lo disse a uno dei suoi monaci. “Se ti dico di riportarmi ad Atene, impediscimelo, sarà una tentazione.” In effetti, molti suoi amici avevano fatto diversi piani per riportarlo ad Atene, poiché l’inverno si avvicinava e la sua salute stava peggiorando.

Dorme nel Signore

Dio, che è tutto buono e che soddisfa i desideri di coloro che lo temevano, ha esaudito il desiderio dell’anziano Porfirio. Lo rese degno di avere una fine benedetta nell’estrema umiltà e nell’oscurità. Era circondato solo dai suoi discepoli sul monte Athos che pregavano con lui. L’ultima notte della sua vita terrena si confessò e pregò noeticamente (cioè la preghiera di Gesù). I suoi discepoli leggono il Cinquantesimo e altri salmi e il servizio per i moribondi. Dissero la breve preghiera: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”, finché non ebbero completato la regola di un monaco megaloschema.

Con grande amore i suoi discepoli gli offrirono ciò di cui aveva bisogno, un po’ di conforto corporeo e molto spirituale. Per molto tempo poterono sentire le sue sante labbra sussurrare le ultime parole che uscivano dalla sua venerabile bocca. Queste erano le stesse parole che Cristo pregò alla vigilia della sua crocifissione “affinché possiamo essere uno”.

Dopo questo lo sentirono ripetere solo una parola. La parola che si trova alla fine del Nuovo Testamento, a conclusione della Divina Apocalisse (Apocalisse) di San Giovanni. “Vieni” (“Sì, vieni, Signore Gesù”).

Il Signore, il suo dolce Gesù è venuto. L’anima santa dell’anziano Porfirio lasciò il suo corpo alle 4:31 della mattina del 2 dicembre 1991 e si diresse verso il cielo.

Il suo venerabile corpo, vestito alla maniera monastica, fu deposto nella chiesa principale di Kavsokalyvia. Secondo l’usanza, i padri lì leggevano il Vangelo tutto il giorno e durante la notte vegliavano tutta la notte. Tutto è stato fatto in accordo con le dettagliate istruzioni verbali dell’anziano Porfirio. Erano stati scritti per evitare qualsiasi errore.

All’alba, il 3 dicembre 1991, la terra ricopriva le venerabili spoglie del santo Anziano alla presenza dei pochi monaci del santo skete di Kavsokalyvia. Fu solo allora, secondo i suoi desideri, che il suo riposo fu annunciato.

Era quell’ora del giorno in cui il cielo si colorava di rosa, riflettendo la luminosità del nuovo giorno che si avvicina. Un simbolo per molte anime del passaggio dell’Anziano dalla morte alla luce e alla vita.

Un breve schizzo

La caratteristica principale dell’anziano Porfirio per tutta la sua vita è stata la sua completa umiltà. Questo era accompagnata dalla sua assoluta obbedienza, dal suo caldo amore e dalla sua pazienza senza mormorare con un dolore insopportabile. Era noto per la sua saggia discrezione, il suo inconcepibile discernimento; il suo amore sconfinato per l’apprendimento, la sua straordinaria conoscenza (un dono di Dio e non formatasi alla scuola inesistente del mondo); il suo inesauribile amore per il duro lavoro, e la sua continua, umile, (e per questo riuscita) preghiera. Oltre a questo, le sue pure convinzioni ortodosse, senza alcun tipo di fanatismo; il suo vivo interesse, ma per la maggior parte invisibile e sconosciuto, per gli affari della nostra Santa Chiesa; i suoi consigli efficaci; le molteplici sfaccettature del suo insegnamento; il suo spirito longanime; la sua profonda devozione; il modo dignitoso di celebrare i sacri servizi,

Mount Athos Icon of Saint Porphyrios the Kafsokalyvite



BASILIO MAGNO: Rassomigliare a Dio, per quanto sia possibile alla natura dell’uomo!

“Ascoltare non alla leggera la lingua della teologia, ma sforzarsi in ogni parola e in ogni sillaba di scoprire il significato nascosto, non è di persone restie alla pietà, ma di persone che percepiscono lo scopo della nostra vocazione: a noi è proposto di rassomigliare a Dio, per quanto sia possibile alla natura dell’uomo”.

da LO SPIRITO SANTO,

di BASILIO, NOSTRO PADRE ARCIVESCOVO PER I SANTI DI CESAREA DI CAPPADOCIA AD ANFILOCHIO VESCOVO PER I SANTI DI ICONIO