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p. ROMANIDES: Simeone il Nuovo teologo non ha mai ricevuto una laurea teologica

La seguente storia è ricordata da un ex studente del p. Giovanni Romanides

NON SEI UN TEOLOGO CON LICENZA? *

Circa cinquant’anni fa, quando ero studente presso l’accademia teologica, il nostro professore di dogmatica, padre Giovanni Romanides, ci raccontava una storia dei suoi giorni da studente alla scuola teologica dell’Università di Atene. Per ottenere il dottorato all’Università, padre Giovanni, un sacerdote appena ordinato a quel tempo [gli anni ’50], dovette difendere la sua tesi davanti ad una giuria di professori – teologi. L’argomento della sua tesi di laurea era “Il peccato originale“.

Mentre varie domande sulla sua tesi di dottorato venivano lanciate contro di lui dai professori [i quali avevano ricevuto le loro credenziali presso le università cattoliche o protestanti in Europa], padre Giovanni rispose al meglio delle sue notevoli capacità. Alla fine, il capo del dipartimento teologico, il dottor Panayiotes Trembelas, prese di mira padre Giovanni, che, come è consuetudine in questi interrogatori, era in piedi davanti al gruppo di professori seduti.

“Hai molte citazioni nella tua tesi dagli scritti di Simeone il Nuovo teologo”, disse il Dr.Trembelas.

“È corretto, signore professore”, rispose padre Giovanni, con la giusta deferenza.

“È necessario eliminarli”, ha continuato il dottor Trembelas. “Simeone il Nuovo teologo non può essere citato come fonte del tuo lavoro, perché non ha mai ricevuto una laurea teologica.”

Senza batter ciglio all’incredibile osservazione di Trembelas, padre Giovanni rispose con calma: “Molto bene, come dite voi, signor professore. Vorreste che cancellassi anche tutti i miei riferimenti a Matteo, Marco, Luca e Giovanni Evangelista, dal momento che anche loro non hanno mai ricevuto una laurea teologica? Anche loro non erano teologi autorizzati.”

Si sentì una risata soffocata proveniente dal gruppo di illustri professori.

* (nella foto) Padre Giovanni Romanides (sacerdote ortodosso-greco – †) di beata memoria.




L’ALIMENTAZIONE QUOTIDIANA E RITUALE AL MONTE ATHOS

L’ALIMENTAZIONE QUOTIDIANA E RITUALE NELLA TRADIZIONE DEL MONASTERO DI VATOPEDI – MONTE ATHOS

6 Luglio 2013

* Roberto Miccinilli
** Sergio Galeotti

GEOGRAFIA

La penisola del Monte Athos (Monte Santo) è la più orientale delle tre lingue di terra che si protendono, come tre dita, dalla Calcidica verso il mare Egeo, che le avvolge e le bagna.
E’ lunga poco più di 40 km, larga dagli 8 ai 12 km ed è percorsa per tutta la sua lunghezza da una dorsale montuosa che culmina a sud con il cono del monte Athos propriamente detto, che si innalza dal mare verso il cielo per 2033 metri. I boschi lussureggianti, le cime delle montagne, le piccole valli, i corsi d’acqua incontaminati, le rocce, lo splendore delle coste e del mare, i monasteri con i loro edifici cromatici e le loro torri fanno della penisola uno dei posti più affascinanti ed interessanti del mondo.
L’accesso al Monte Athos è possibile soltanto via mare non esistendo strade che lo colleghino al resto della Calcidica.
Chi è in possesso del “Diamonitirion”, un permesso di soggiorno rilasciato a Salonicco dietro specifica richiesta, può imbarcarsi sulla nave a Ouranopolis, l’ultimo porto greco per Dafni, il porto ufficiale di ingresso al Monte Santo.
Da Dafni partono strade in terra battuta che raggiungono Karyes, capitale amministrativa, e tutti i Monasteri sparsi per la penisola.
Dal punto di vista botanico l’intera penisola, circa 400 kmq di superficie, risente del completo isolamento dal resto del mondo che dura ormai da due millenni, e si è mantenuta inalterata fino ai nostri giorni.
Il territorio del Monte Athos oggi è certamente una delle aree più incontaminate dell’intero bacino del Mediterraneo.
Tutte le piante della tipica flora mediterranea trovano qui un ambiente ideale per propagarsi, svilupparsi e crescere, grazie anche alla mitezza del clima greco e alla piovosità, qui più abbondante che in altre zone limitrofe.

MITOLOGIA

Nella mitologia greca Athos era un gigante originario della Tracia che era in continua lotta con Poseidone, dio del mare. Durante uno di questi scontri violenti, Athos rimase ucciso dal dio che lo seppellì sotto un’enorme montagna che prese il nome del gigante.

STORIA DELLO STATO MONASTICO

S. Atanasio l’Athonita, con l’appoggio dell’Imperatore Niceforo Focas di cui era padre spirituale, fondò il primo monastero sull’Athos, la Grande Lavra, all’estremo sud della penisola nel 963 d.c.
Nel 972 d.c. fu redatto il primo statuto costituzionale, il “Tragos” o Carta del Monte Santo, con il quale si definivano le norme per l’organizzazione e l’amministrazione della vita all’interno dei monasteri, riconoscendo l’Athos come uno stato indipendente e monastico.
Dal X secolo affluirono sulla penisola religiosi di diverse nazionalità, tra cui anche Benedettini amalfitani che fondarono l’omonimo monastero, rimasto a lungo attivo anche dopo lo “Scisma d’Oriente” del 1059.
Nei periodi di massimo splendore, il numero dei monaci sul monte Athos raggiunse i 30.000, ma già nel 1904 erano ridotti a circa 5.000, divisi nei vari monasteri.
Oggi sono circa 2.500, presenti in varie comunità.
Sulla penisola sono presenti 20 monasteri principali, ma anche 12 Skiti e 250 Celle, cioè comunità monastiche più piccole, autonome per la loro organizzazione interna, ma sotto la giurisdizione di uno dei monasteri principali.
Gli organi amministrativi supremi sono la “Sacra Comunità”, che risiede a Karies, e che si riunisce due volte la settimana per affrontare e risolvere i problemi quotidiani del Monte Athos e la “Doppia Synaxis” che si riunisce in caso di necessità per affrontare i problemi straordinari.
L’organo legislativo e giuridico superiore è la “Ierà Synaxis” o adunanza delle comunità, formata dai 20 Igumeni (gli Abati dei 20 monasteri) che si riunisce due volte all’anno.
I monaci chiamano il Monte Santo “Orto della Madonna”, che onorano come protettrice e Badessa di tutta la comunità monastica.
L’ingresso al Monte Athos è assolutamente vietato alle donne.

IL SACRO MONASTERO DI VATOPEDI

Vatopedi è situato in una baia sulla costa orientale della penisola.
La sua costruzione ebbe inizio nel 972 d.c., e dal 1046, occupa il secondo posto nella gerarchia dei monasteri, dopo la Grande Lavra, anche se, nella realtà, risulta oggi essere il più importante dell’intera comunità, sia per il numero di monaci presenti (oltre 100), sia per la vivacità della sua vita artistica e culturale, sia per il ruolo assunto negli ultimi decenni nell’ambito dell’intero mondo religioso greco-ortodosso.

LA VITA QUOTIDIANA DEI MONACI

La giornata di un monaco si divide in tre parti uguali: 8 ore di preghiera, 8 ore di lavoro, 8 ore di riposo, secondo la regola di San Basilio, padre del monachesimo cristiano orientale.
Al Monte Athos vige ancora l’ora bizantina, secondo la quale, la mezzanotte, e quindi l’inizio del nuovo giorno, coincide con il tramonto del sole (vedi box).
Ogni mattina, prima del sorgere del sole, il suono delle campane o del “Semantro”, una lunga tavola
di legno che viene percossa ritmicamente con un martello, richiama tutti i monaci nel Katholikòn, chiesa comune, per la celebrazione del Mattutino e della Liturgia. Il pranzo si consuma nel refettorio intorno alle 8,30-9,00.
Mentre tutti mangiano in silenzio, un monaco legge, dall’alto di un pulpito, brani tratti dai testi dei Padri della Chiesa ortodossa cristiana. Dopo il pasto ci si dedica ai vari lavori fino alle 14,00 circa. Ogni monaco ha il suo compito da svolgere per il perfetto andamento della comunità: agricoltura, artigianato, amministrazione, cucina, pulizie, servizi, accoglienza.
Intorno alle 15,00 ha luogo la celebrazione dei Vespri, che dura circa un’ora.
Subito dopo si consuma la cena, con modalità simili a quelle del pranzo.
Alle 17,00 nuovo appuntamento in Chiesa per assistere alla Compieta che ha una durata molto variabile, a seconda dei periodi dell’anno.
Dopo il tramonto le grandi porte di legno di tutti i monasteri di chiudono e i monaci si ritirano nelle loro celle.
Circa 50 volte l’anno, in occasioni di grandi feste o ricorrenze, hanno luogo delle veglie in chiesa che iniziano verso le 18,00-20,00 e che possono durare fino alle 2,00 del mattino ed oltre, in un’atmosfera molto coinvolgente, fatta di luce diffusa dalle fioche lampade ad olio e di canti tipici della liturgia ortodossa.

L’ALIMENAZIONE QUOTIDIANA

In tutti i monasteri del Monte Athos si segue una regola alimentare molto rigida e assai complessa che viene attuata durante tutto l’anno, con le opportune varianti durante i periodi di quaresima e in occasioni delle festività previste dal calendario ortodosso.
Intanto va detto che l’uso della carne è completamente abolito e che gli altri prodotti di origine animale sono utilizzati con molta moderazione.
I pasti si consumano sempre tutti insieme, tranne casi particolari di monaci impossibilitati, per motivi di salute, a lasciare la propria cella.
Sono previsti solo due pasti al giorno, il pranzo e la cena, che durano circa 30 minuti ognuno. Nel corso di tutto l’anno il lunedì, il mercoledì e il venerdì sono considerati “giorni di digiuno”.
Il martedì, il giovedì, il sabato e la domenica, più le Feste che cadono in date fisse, sono considerati “giorni di Comunione”.
Durante i giorni di digiuno si mangiano soltanto prodotti di origine vegetale, escludendo quindi dalla mensa il pesce, le uova, il formaggio, il latte. Sono esclusi anche il vino e l’olio. Sono sempre presenti, come condimenti, l’aceto, il limone, il sale, peperoncini piccanti freschi e secchi triturati.
Il pranzo è molto sobrio e consiste in ortaggi freschi, olive, pane, frutta, frutta secca e miele.
La cena ha come centro un piatto a base di riso, o pasta, o zuppa di legumi, sempre accompagnato da verdure scondite, ortaggi crudi, pane e frutta.
Nei giorni di Comunione sono serviti in più, in uno dei due pasti, i prodotti animali disponibili come il pesce, il formaggio, le uova.
In questi giorni sulla tavola sono sempre presenti l’olio e il vino (quest’ultimo non viene mai servito la sera precedente un giorno di Comunione, quindi mai il sabato sera o la sera precedente una Festa che cade in un giorno di digiuno).
La Domenica a pranzo viene servito anche un dolce tipico preparato con chicchi di grano bollito, zucchero, cannella, uvetta, noci e mandorle tritate (Bimatarisa).
Qualche volta, a pranzo, viene servito il latte. In questo caso però non sono presenti sulla tavola il vino e l’olio.
Le Feste scandite dal calendario liturgico costituiscono delle eccezioni a queste regole, già assai complicate.
La Festa inizia sempre con la celebrazione dei Vespri del giorno precedente. Quindi la cena che segue è un pasto normale, anche se capita in un giorno di digiuno.
Se la Festa coincide con un giorno di digiuno, questo salta e l’alimentazione è come in un giorno di Comunione, ma con l’aggiunta del dolce.
Nelle Feste dedicate alla Vergine Maria o a Gesù Cristo è tradizione mangiare pesce fresco, mentre nelle Feste dedicate ai Santi più importanti si servono del polpo o dei calamari.
Comunque nei giorni di Festa non sono mai serviti formaggio, uova e latte, come nei giorni di digiuno.

I DIGIUNI RITUALI

Nel corso dell’anno liturgico della Chiesa greco-ortodossa sono previsti quattro periodi di Quaresima, che comportano cambiamenti anche radicali nella dieta dei monaci.
Quaresima di Pasqua: dura 50 giorni.
Durante l’ultima settimana che precede l’inizio della Quaresima di Pasqua sono aboliti i giorni canonici di digiuno. Per tutta la settimana si possono mangiare, in uno dei due pasti prodotti di origine animale (tranne ovviamente la carne), con aggiunta di olio e vino.
Durante i 50 giorni, invece, si mangia una sola volta al giorno, alle ore 15,00, dal lunedì al venerdì, con un pasto da giorno di digiuno. Il sabato e la domenica ci sono invece due pasti completi, come nei giorni di Comunione normali, ma soltanto con polpo e calamari come prodotti animali.
Durante tutto questo periodo si mangia pesce soltanto la Domenica delle Palme e il 25 marzo, Festa dell’Annunciazione della Vergine.
Quaresima di Natale: dura 40 giorni.
E’ meno drastica di quella di Pasqua. Si fanno due pasti al giorno come nei giorni di digiuno. Il sabato è la domenica si mangia anche del pesce, ma soltanto fino al 12 dicembre. Dopo questa data si consumano solo pasti da digiuno fino al giorno compreso.
Quaresima dei Santi Apostoli (mese di Giugno): dura 20-30 giorni.
E’ del tutto simile a quella che precede il Natale, prima del 12 dicembre, con due pasti da digiuno al giorno, e il pesce il sabato e la domenica.
Quaresima della Madre di Dio (mese di agosto): dura 14 giorni.
E’ simile alla quaresima di Pasqua, con un solo pasto al giorno alle 15,00, con l’aggiunta, al mattino, di una colazione con sole olive e frutta fresca.

GLI ALIMENTI DI PRODUZIONE PROPRIA

II pane: il pane per il refettorio viene preparato due volte la settimana, il lunedì e il venerdì.
Il giovedì si prepara, invece, il pane per la liturgia, per l’Eucarestia dei monaci e dei fedeli, che lo bagnano nel calice con il vino.
Ogni volta vengono preparati circa 200 kg di pane, che bastano per tre-quattro giorni.
Il grano proviene dalle coltivazioni biologiche dei campi attorno al monastero, sufficienti per tutto l’anno. Si macina in un molino sul posto, ottenendo una farina completa e una piccola parte di farina bianca per la preparazione del pane per la liturgia.
Il lievito è naturale e viene rinnovato una volta l’anno con una cerimonia del tutto speciale.
Padre Panaretos, il monaco fornaio, alla fine di ogni infornata, si occupa personalmente di controllare ogni pagnotta, per verificarne la cottura, il colore, la consistenza.
Il vino: Padre Gennadios, monaco greco-cipriota, è il responsabile delle vigne, della produzione delle uve, della vinificazione e della cantina del monastero. Si produce vino rosso per la tavola per tutto l’anno, vino bianco per la liturgia e si imbottiglia per la vendita merlot, cabernet e syrah.
Il miele: si fanno 4 raccolti l’anno. Uno di millefiori e tre monoflora: erica, pino, castagno. La produzione copre abbondantemente le necessità dei monaci e l’eccedenza può essere acquistata dai pellegrini.
150 arnie per un totale di oltre 2 milioni di api. Si occupa di loro Padre Pandeleimon, rumeno, medico veterinario.
L’olio: il monastero è circondato da vasti oliveti, in passato abbandonati, che vengono pian piano recuperati alla produzione.
Dalla raccolta delle olive si ricavano di media circa 1.500 litri di olio, necessari sia per la cottura e il condimento degli alimenti, sia per le innumerevoli lampade ad olio che illuminano la chiesa principale e tutte le altre cappelle di Vatopedi.
In una di queste cappelle, situata all’interno dei locali dove viene conservato l’olio in grandi contenitori di marmo, è venerata l’icona detta “Vergine che fa colare l’olio”, responsabile, secondo la tradizione, di un miracolo datato XVI° secolo, quando, durante una grave carestia, nel corso della notte l’olio, terminato la sera prima, riempì il contenitore fino a farlo traboccare.
Grandi quantità di olive da tavola si conservano per il consumo a mensa.
Gli ortaggi: nei grandi orti del monastero si producono, tutto l’anno, tutte le verdure classiche delle nostre latitudini, con ritmo stagionale e con tecniche di coltivazione rigorosamente biologiche, come tutti gli altri prodotti agricoli. I raccolti sono sufficienti per le necessità alimentari dei monaci.
La frutta: nei frutteti del monastero si coltivano mele, uva, nespole, kiwi, meloni, pesche, cocomeri, pere, ciliege, arance, cachi, mandarini, fichi.
Il raccolto non copre l’intero fabbisogno dei monaci e, da gennaio a giugno, è necessario acquistare mele e arance.
Nel periodo estivo, quando c’è sovrapproduzione, si preparano anche ottime marmellate.
Il pesce: due volte la settimana, mare permettendo, un monaco pescatore esce in barca. Le acque della zona sono molto pescose, anche perché interdette ad altri pescatori. Il pescato viene consumato fresco ed il sovrappiù viene surgelato.
L’aceto: si produce solo aceto di mele.
L’arak: liquore ad alta gradazione a base di anice. Viene offerto a tutti i pellegrini che visitano Vatopedi, accompagnato da dolcetti di gelatina di frutta e da un bicchiere di acqua fresca.
L’acqua: arriva al monastero direttamente dalle numerose sorgenti che sgorgano dalle montagne adiacenti.
Alcuni di questi prodotti sono in vendita presso il negozio del Monastero, a disposizione dei pochi pellegrini di passaggio o che risiedono per qualche giorno a Vatopedi: miele di diverso tipo a seconda delle stagioni, arak in bottiglia, vino rosso e bianco imbottigliato, vino dolce da meditazione, erbe essiccate: basilico, origano e menta.

* UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA – VITERBO
Specialista in Anestesiologia e Rianimazione
Specialista in Scienza dell’Alimentazione
Direttore dei Corsi di perfezionamento in Fitoterapia e piante officinali

**Fotografo

Fonte: Natural 1 – Fitoterapia, Cosmetica, Nutraceutica

Mensile di informazione scientifica – Anno VII, Maggio 2008 – N.72: pp 68-79.

FONTE: http://www.progettomonteathos.it/




“Il mio anziano Iosif l’Esicasta” (1)

1.

Nel mondo

I suoi primi anni

La sua famiglia

L’anziano Iosif è nato nel villaggio di Lefkes sull’isola di Paros, la terza isola più grande delle Cicladi[1]. L’isola è nota per la meravigliosa Chiesa dei Cento Archi, costruita nel IV secolo da Sant’Elena. È noto anche per i suoi famosi monasteri di Longovardas e Thapsanon del santo anziano Philotheos Zervakos.

Il nome della madre dell’anziano Joseph era Maria Rangousis. Nacque a Lefkes nel 1871. Quando aveva circa diciassette anni, sposò il suo primo marito, Leonardo Zoumis, i cui genitori erano rifugiati da Odessa, in Russia, che ora fa parte dell’Ucraina meridionale. Leonardo e Maria ebbero due figli: Michele e un neonato che morì prima che fosse battezzato. Leonardo morì quando aveva solo vent’anni e così Maria si risposò nel 1890. Il suo secondo marito fu George Kottis (1867-1907), un contadino analfabeta. Era povero ma molto pio ed estremamente modesto, e trasmise queste virtù ai suoi figli.

George e Maria hanno avuto nove figli. Le prime tre morirono giovanissime: Marouso (la prima) visse fino al 1901 circa, Ergina (la prima) morì prima del 1896 e un’altra ragazza morì prima del battesimo. Gli altri sei erano vissuti e si chiamavano, in ordine di età: Ergina (la seconda), Emmanuel, Francis (l’anziano Giuseppe), Leonardo, Marouso (la seconda) e Nicholas (il futuro p. Atanasio). Francesco nacque il 2 novembre 1897[2].  Nel 1907, appena nato Nicola, il padre morì all’età di quarant’anni.

La loro piccola casa nel villaggio era di fronte al luogo in cui oggi si trova la biblioteca pubblica. Otto piccoli gradini di pietra conducevano all’ingresso di questa casa, che consisteva solo di due piccole stanze, ciascuna di circa cento piedi quadrati (o nove metri quadrati). In queste due stanze vivevano i genitori e i loro sette figli. Qui visse Francesco per circa diciassette anni. È straordinario che così tante persone siano riuscite a vivere in uno spazio così piccolo, anche se è vero che le piccole case spesso portano più calore, unione, amore e gioia in una famiglia. Oggi quella minuscola casa è stata trasformata in un piccolo negozio di souvenir di proprietà della pronipote dell’anziano Iosif.

La madre dell’anziano Iosif, Maria, seduta nell’angolo in basso a destra (con una sciarpa in testa) con i suoi fratelli e parenti

Sua madre

La madre dell’anziano Iosif, Maria, era veramente una persona devota: modesta, con un naturale senso di autocritica e un senso della propria peccaminosità, doti che coltivava nei suoi figli. Aveva semplicità e purezza d’animo e talvolta aveva anche delle visioni quando andava in chiesa, sia durante una funzione religiosa che quando era lì solo per pulire.

Il giorno in cui Francesco è nato, ha avuto una visione mentre giaceva a letto con il suo neonato. Le sembrò che il tetto della casa si aprisse e apparisse un giovane pieno di grazia. Era così brillante che riusciva a malapena a guardarlo. L’angelo si avvicinò al bambino e iniziò a scrivere il suo nome su una tavoletta. Maria si chiese cosa stesse facendo e chiese preoccupata:

“Che stai facendo lì? Perché stai scrivendo il suo nome?

“Il re ha bisogno di lui”, rispose l’angelo.

“No! Non puoi prendere questo bambino. Lui è mio!”

“Te lo dico, è scritto”, rispose l’angelo mentre le mostrava una lista.

Poiché i suoi primi figli erano morti giovani, lei ipotizzò che l’angelo volesse prendere prematuramente anche Francesco. Ogni volta che ricordava l’aspetto dell’angelo, piangeva inconsolabilmente con dolore materno. Tuttavia, mentre il tempo passava e Francesco cresceva senza morire, si rese conto che l’iscrizione significava che il Re del Cielo stava chiamando Francesco nell’esercito dei suoi angeli terreni, al monachesimo.

In un’altra occasione ebbe una spaventosa visione dell’inferno. Appena riprese i sensi, disse al piccolo Francesco:

“Oh! Figlio mio, cosa ho visto!

“Cosa hai visto, mamma?”

“Ho visto che sono andata all’inferno e le persone tormentate bollivano come fagioli che saltano su e giù in una pentola; continuavano a entrare e uscire dal fuoco infernale.

Era una persona semplice. Un giorno, quando Francesco era più grande, la portò in un cinema per mostrarle un film per la prima volta nella sua vita. Quando il film ha raffigurato una stanza in fiamme, ha pensato che fosse reale e ha iniziato a gridare: “Fuoco! Fuoco!”

Il villaggio di Lefkes nel 1896 dove nacque l’anziano Iosif.

La vita da bambino

Sant’Arsenio del Sacro Monte (1800–1877) aveva lasciato una grande influenza sull’isola di Paros quando il piccolo Francesco vi stava crescendo. Sant’Arsenio aveva lavorato con eccezionale zelo come confessore per la formazione spirituale del popolo di Paros. Il popolo pio dell’isola lo amava così tanto da onorarlo come santo anche quando era ancora in vita.

Un altro fulgido esempio di santità che influenzò direttamente Francesco e la sua famiglia fu il sacerdote del loro villaggio, p. Giorgio Aspropulos (1863-1929). Quando p. George ha servito la liturgia, il suo volto è cambiato ed è diventato così radioso che la gente non poteva guardarlo. Ricordando quelle liturgie, il suo cantore disse poi: “Che momenti sublimi! Avevamo la sensazione che stesse vedendo dei santi e che gli angeli lo stessero ministrando. Quando serviva, nessuno osava parlargli perché non volevano interromperlo quando era completamente assorto nella preghiera a Dio”. Quando p. Giorgio si addormentò nel Signore, il suo corpo era profumato “come l’odore di un incenso pregiato non di questo mondo”.[3]

Fu in questo clima strettamente ecclesiastico che crebbe il piccolo Francesco. Ricordò che era giovane e la gente gli diceva: “Figlio, è la Grande Quaresima; non giocare così tanto; non parlare o ridere. Questo è un periodo sacro dell’anno.

La famiglia di Francesco aveva regole ferree e suo padre a volte si arrabbiava con lui per la sua vivacità. Infatti, una volta suo padre decise che gli avrebbe dato una bella sferzata e disse: “Sculaccerò Francesco per quello che ha appena fatto!”

Il piccolo Francesco era sì vivace, ma era anche molto ubbidiente e intelligente. Quando ha sentito quello che aveva detto suo padre, ha pensato tra sé: “Dal momento che vuole sculacciarmi, mi sculaccerà”. Così si avvicinò con calma a suo padre e chinò umilmente il capo in modo che suo padre potesse disciplinarlo, mostrando la sua completa obbedienza. Suo padre, un uomo fedele e di buon cuore, fu così commosso dal gesto del figlioletto che disse: “Dai, vattene di qui! Non posso nemmeno sculacciarti a causa dell’umiltà che hai! Naturalmente Francesco non aspettò che suo padre cambiasse idea e se ne andò immediatamente. Più tardi disse allegramente ai suoi fratelli: “Per umiltà sono riuscito a non essere sculacciato da mio padre!”

Così, fin dalla giovane età comprese la grandezza, la potenza e il valore dell’umiltà cristiana. Questa virtù, come vedremo, pose le basi per i doni spirituali che avrebbe poi acquisito come monaco. Il 16 agosto 1904, quando aveva sette anni, Francesco si iscrisse alla prima della scuola elementare del suo paese. La sua insegnante era Sophia Pempsiadis-Kantiotis, la madre del vescovo Augustinos (1907–2010), il famoso metropolita di Florina. Francesco era eccezionalmente intelligente e imparò le lezioni rapidamente, con poco sforzo. I registri scolastici, tuttora conservati, dimostrano che riceveva sempre ottimi voti. Se avesse proseguito negli studi, è certo che avrebbe fatto molta strada nel mondo accademico. Sfortunatamente, però, quando finì la quarta elementare suo padre morì e lui dovette lasciare la scuola per aiutare sua madre ed i suoi fratelli.

Difficoltà familiari

Sulla piccola e arida isola di Paros, la vita era sempre difficile. Gli industriosi isolani riuscirono a sopravvivere coltivando i loro magri orti principalmente con cereali e verdure, allevando bestiame e pescando. È così che è sopravvissuta anche la numerosa famiglia di Francesco, ma dopo la morte del padre le cose sono diventate molto più difficili. Fu un duro colpo per la famiglia e soprattutto per sua madre Maria. La sua croce era pesante; all’età di trentasei anni aveva già perso due mariti e quattro figli!

Naturalmente, l’improvvisa perdita di suo padre ha causato a Francesco un grande dolore. Tuttavia, con il passare del tempo ebbe un effetto benefico sulla sua giovane anima. Il piccolo Francesco iniziò ad aiutare la mamma quanto più poteva per alleggerire il dolore e le difficoltà della vedovanza. Un ragazzino ordinato e disciplinato, fu coinvolto in vari piccoli compiti per aiutare la sua famiglia. Così, la sua giovane anima era segnata dalla compassione, una caratteristica che lo accompagnò per tutta la vita. In effetti, il futuro anziano Iosif divenne un uomo di grande amore.

Tanta era la povertà della famiglia che nel 1914 Maria decise a malincuore di mandare Francesco, allora diciassettenne, e il fratellino Leonardo, solo dodicenne, ad Atene per lavoro. A Paros non c’era modo per loro di guadagnarsi da vivere, mentre nella capitale c’era speranza che trovassero un lavoro.

Per quanto riguarda il resto dei fratelli di Francesco, si sposarono tutti tranne Nicholas, che in seguito sarebbe diventato monaco accanto a suo fratello. Altre due parenti di Francesco si fecero monache. Una di loro era la figlia di Ergina, il cui nome era Barbara e in seguito divenne badessa a Vryeni. Le voleva molto bene e nelle tante lettere che le inviava la chiamava: “anima della mia anima”. L’altra sua parente che si fece suora fu la moglie di Leonardo, Maria. Alla sua tonsura ricevette il nome di Melanie e visse molti anni fino al suo riposo nel 1997.


[1] L’isola è lunga circa tredici miglia e a quel tempo aveva una popolazione di 9.000 abitanti.

[2] La data precisa di nascita dell’anziano Joseph e dei suoi fratelli è stata trovata scritta sul retro di un’icona cimelio di famiglia di San Giorgio. Questo è un modo antico e tradizionale con cui le famiglie (soprattutto nelle zone rurali) tengono traccia delle date di nascita dei propri figli. Inoltre, in un certo senso, poneva i loro figli sotto la protezione del santo raffigurato nell’icona

[3] Triantafyllou, Protopresbyterou Georgiou, Papa-Georgis Aspropoulos, Santuario delle Sante Donne “Panagia la Mirtidiotissa” di Thapsana Paros, 2009, pp. 56-57.




Anziano Iosif l’Esicasta: Lettera 10

Lettera 10.

LA GRAZIA PRECEDE SEMPRE LE TENTAZIONI COME PREAVVISO PER TENERSI PRONTI

Si può dire prassi non quando uno prova e poi si ritira. “Prassi” invece si chiama quando uno entra e si batte sul terreno di lotta; quando vince, quando è vinto, guadagna e perde; cade e si rialza; quando solleva tutto e accetta la lotta e la battaglia fino all’ultimo respiro. E che mai dia licenza al suo io finché non abbia esalato l’anima. Ma, quando sale in cielo, deve aspettarsi, il giorno seguente, di scendere nell’Ade. Senza dire che anche nello stesso momento può avvenire la discesa. Per questo non deve meravigliarsi dei cambiamenti, ma avere davanti agli occhi ambedue le situazioni come proprie (al suo stato). Sappi che la grazia precede sempre le tentazioni come preavviso per tenersi pronti. Subito, quando vedi la grazia, cingiti (i fianchi) e di’: “E’ giunto l’annuncio di guerra! Fa’ attenzione, o argilla, da dove il maligno attaccherà battaglia”. Spesso giunge alla svelta e spesso dopo due o tre giorni. Ad ogni modo, verrà, e che le barricate siano solide: confessione ogni sera; obbedienza allo ieronda; umiltà e amore verso tutti. Così facendo alleggerisci la tribolazione.

Ora, in quanto alla questione se la grazia giunge prima della purificazione e altre cose simili, chiedo attenzione e mente pura. La grazia si distingue in tre ordini: purificante, illuminante, perfezionante. Così anche la vita: secondo natura, al di sopra della natura, contro natura. In questi tre ordini sale e scende. Tre sono anche i grandi carismi che riceve: contemplazione, amore, impassibilità. Dunque: nella “prassi” coopera la grazia purificante, la quale aiuta alla purificazione. Per chiunque si è convertito, la grazia è ciò che lo ha spinto a conversione. Qualunque cosa faccia è opera della grazia, anche se colui che la possiede non lo sa; tuttavia, è essa che lo nutre e lo guida. Analogamente al profitto che riceve, sale o scende o rimane nello stesso stato. Se ha zelo e rinnegamento di sé stesso, sale alla contemplazione, che fa posto alla illuminazione nella divina conoscenza e ad una parziale impassibilità. Se lo zelo e lo slancio si raffreddano, si ritira pure l’energia della grazia.

Riguardo a colui che prega con intelligenza, come mi dici, è colui che sa che cosa prega e che cosa chiede a Dio. Colui che prega con intelligenza non parla a vanvera, non chiede cose superflue, ma conosce il luogo, il tempo e il modo, e chiede ciò che è adatto e utile alla sua anima. Comunica spiritualmente col Cristo, lo precede e lo tiene stretto. “Non ti lascerò – dice – in eterno”. Così, colui che prega chiede la remissione dei Peccati, chiede la misericordia del Signore. Se chiede cose grandi prima del tempo, il Signore non gliele dà. Perché Dio le dà con ordine. Se tu lo importuni col chiedere, dà via libera allo spirito dell’inganno, dissimula la grazia e ti inganna mostrandoti cose invece di altre. Perciò non è conveniente chiedere cose al di là della misura. Ma se anche si è ascoltati prima della purificazione, quando (il dono concesso) non è nel giusto ordine, (allora) insorgono serpenti e causano danno. Tu sii puro nel convertirti, pratica l’obbedienza e la grazia verrà da sola senza che la chieda.

L’uomo come un infante balbuziente chiede a Dio che si compia la sua volontà santa. Dio, Padre buono, gli concede la grazia, ma gli concede pure tentazioni. Se sopporta le tentazioni senza mormorare, ottiene un aumento di grazia. Quanta più grazia riceve, tanto aumento anche di tentazione. I demoni, quando si avvicinano per attaccare battaglia, non si dirigono là dove tu li vincerai senza mormorare, ma provano dove hai una debolezza.

Dove tu assolutamente non te l’aspetti, là installano la roccaforte. E, quando trovano un’anima fragile e una zona debole, lo vincono sempre e lo rendono colpevole.

Chiedi grazia a Dio? Invece della grazia ti dà la tentazione. Non resisti alla guerra e cadi? Non ti concede aumento di grazia. Di nuovo chiedi? Di nuovo la tentazione. Ancora sconfitta? Ancora privazione. Fino alla fine della vita. Devi dunque uscirne vincitore. Resisti alla tentazione fino alla morte! Cadi (pure) nella battaglia, ridotto a cadavere, gridando paralizzato a terra: “Non ti lascio, o dolcissimo Gesù! Non ti abbandono! Rimarrò inseparabile da te per sempre, e per amore tuo renderò l’ultimo respiro nello stadio”. E all’ improvviso si presenta nello stadio e fa sentire la sua voce in mezzo alla tempesta: “Sono qui! Cingi come un prode il tuo fianco e seguimi!”. E tu, tutto luce e gi0ia: “Oh, me misero! Ahimé malvagio e inutile! Prima avevo sentito dire di te ma ora i miei occhi ti vedono; mi disprezzo e mi ritengo terra e cenere” (Gb 42,5-6). Allora vieni riempito di amore divino. La tua anima brucia di amore come quella di Cleopa (Lc 24,18). Nel momento della tentazione non abbandoni più il lenzuolo e scappi nudo (Mc 14,52), ma sopporti le tribolazioni dicendo: “Come è passata l’una e l’altra tentazione, così passerà anche questa”.

Quando tuttavia ti scoraggi e mormori e non sopporti le tentazioni, allora, invece di vincere, devi di continuo pentirti: per gli errori del giorno, per l’impazienza della notte. Invece di ricevere un aumento di grazia, rendi più grandi le tue tribolazioni.

Per questo non essere timoroso. Non aver paura delle tentazioni. Anche se cadi a più riprese, alzati. Non perdere il tuo sangue freddo. Non scoraggiarti. Sono nubi e passeranno. Quando poi con la cooperazione della grazia, la quale ti purifica da tutte le passioni, oltrepassi tutte queste cose che sono la “prassi”, allora la mente gusta l’illuminazione ed è spinta alla contemplazione.

La prima contemplazione è quella degli esseri: perché Dio ha fatto tutte le cose per l’uomo, e per di più anche gli stessi angeli al suo servizio. Quale dignità, quale magnificenza, che grande predestinazione ha l’uomo; tale è il soffio di Dio!

Non per vivere qui i pochi giorni del suo esilio, ma per vivere in eterno col suo Creatore. Per vedere i divini angeli. Per ascoltare la loro ineffabile melodia. Che gioia! Che splendore! Appena ha termine questa nostra vita, e si chiudono questi occhi, si aprono gli altri e inizia la nuova vita, la vera gioia che non ha più fine. Pensando a queste cose la mente viene immersa in una pace e tranquillità suprema che si estendono a tutto il corpo, dimenticando del tutto che conduce un’esistenza in questa vita.

Queste contemplazioni si succedono l’una all’altra. Non che fai fantasie nella tua mente, ma lo stato (reale) è questo: operazione della grazia che fa venire pensieri e la mente si delizia nella contemplazione. Non li crea l’uomo; vengono da soli e rapiscono la mente alla contemplazione. Allora la mente si dilata e diventa un’altra, da diversa (che era). È illuminata. Tutto si dischiude ad essa. E’ riempita di sapienza e come un figlio possiede le cose di suo Padre (Mt 11,27; Lc 15,31; Gv 16,15; 17,10). Sa che è un nulla, argilla, ma anche figlio del Re. Non ha nulla, ma possiede tutto. È riempita di teologia. Grida insaziabilmente, con piena coscienza, confessando che il suo essere è nulla. La sua origine è l’argilla; ma la sua forza vitale? Il soffio di Dio, la sua anima.

Subito l’anima vola in cielo! “Sono il soffio, l’alito di Dio! Tutto si è dissolto, è rimasto sulla terra, da cui ero stato preso! Sono figlio di un Re eterno! Sono dio per grazia! Sono immortale ed eterno! Sono, dopo un attimo, vicino al mio Padre celeste!”

Questa è in verità la predestinazione dell’uomo. Per questo è stato plasmato e deve giungere dove è uscito. Queste sono le contemplazioni di cui si delizia l’uomo spirituale. E attende il momento, quando lascerà la polvere e volerà verso le (regioni) celesti. Coraggio dunque, figlio mio, e con questa speranza sopporta ogni sofferenza e tribolazione.

Dal momento che fra poco saremo fatti degni di questi doni. Per tutti noi sono le stesse cose. Tutti siamo figli di Dio. Lui invochiamo giorno e notte, (invochiamo) pure la nostra dolce Mammina, la Signora del mondo, che non abbandona mai chiunque la supplica.




MACARIO L’EGIZIANO

“SULLA PERFEZIONE NELLO SPIRITO

1. Ciascuno di noi acquista la salvezza per grazia e divino dono dello Spirito e può giungere alla misura perfetta della virtù con la fede, con la carità e con la lotta del libero arbitrio, per ereditare, sia per grazia che per giustizia, la vita eterna. Non è fatto degno del progresso perfetto per la sola potenza e grazia divina, senza offrire insieme i frutti del proprio sudore; né raggiunge la misura perfetta della libertà e della purezza solamente per la propria sollecitudine e la propria potenza, se non concorre dall’alto la mano divina. Giacché dice: Se il Signore non costruisce la casa e non custodisce la città, invano veglia il custode, e ugualmente chi si affatica e chi costruisce”.




Anziano Iosif l’Esicasta: Lettera 5

Lettera 5

NON RIVESTIRTI SOLO DI FOGLIE

Figlio mio amato nel Signore… creatura dello Spirito divino. Gioisco, quando tu gioisci. Gioiscono i Principati e le Potenze, i Cherubini e i Serafini, le schiere angeliche, i cori dei martiri, dei profeti, dei giusti e dei santi, la Tuttapura Madre nostra, Regina e Signora di tutti. Oggi hai rallegrato la mia anima con ciò che mi hai detto tramite inchiostro e carta. Molto gioisco e mi rallegro grandemente, se fino alla fine rimarrai fedele alle cose che ora scrivi. Perché la guerra del nemico comincia dopo tre-quattro anni. Allora la grazia si ritira per mettere alla prova. La lucerna si spegne. E le cose così belle che ora si manifestano – e sono veramente belle – allora appariranno brutte, nere e tenebrose. Perciò quanto ora ti capita non prenderlo come tentazione. Un altro infatti fa da sentinella per te. E dal momento che, figlio mio amato, chiedi a me misero un consiglio, ascolta: non rivestirti solo di foglie, ma affonda le radici profondamente per poter trovare la sorgente, come fanno i platani. Così da essere irrigato di continuo dall’acqua e di continuo possa germogliare. Quando viene la secca non patirai alcun cambiamento. In quanto hai trovato la sorgente stessa. E allorché si spegnerà la lucerna che ora tieni in mano, ne avrai accesa un’altra per mezzo delle tue opere. Non soffrirai per nulla la tenebra. Il modo per acquisire tali (opere) è questo: anzitutto un’obbedienza perfetta e a tutti, senza distinzione. Da essa viene generata l’umiltà. Il vero segno di riconoscimento dell’umiltà sono le lacrime[1] senza misura, che per tre-quattro anni scorrono a somiglianza di una fonte. Da essa viene generata la preghiera incessante[2], la cosiddetta preghiera del cuore. Per cui, appena dici: “Gesù mio dolcissimo!” scorrono le lacrime. Appena dici: “Vergine mia!” non puoi trattenerle. Allora da esse viene generata in tutto il corpo grande calma e perfetta pace.

Un fratello[3] una volta volle trattenersi poiché si erano messe in movimento le lacrime e qualcuno aveva bussato alla porta – ma non poté, fino a quando passarono. Tanta è la potenza che hanno. Se dunque le ottieni, non hai paura di soffrire nessun cambiamento. Perché diventi un uomo di altra natura. Non che la natura cambi, ma la grazia ne trasforma i caratteri per mezzo delle sante energie di Dio.

I cosiddetti “canoni” devono circondare la sostanza, come le foglie coprono i frutti. Il canto degli inni sia fatto con umiltà. La mente vada dietro al senso del tropario. Il pensiero riceva piacere da ciò che è compreso dalla mente e si elevi a ciò che essa contempla. Allo stesso modo la lettura venga fatta con molta attenzione. Allora, con tutte queste cose, l’anima cresce e si dilata. Si spegne, muore l’uomo vecchio e si rinnova il nuovo; e abbonda nell’amore di Cristo. Allora l’uomo non trova più appagamento in alcun modo nelle cose terrene, ma di continuo brama quelle celesti. Lo stesso riguardo al corpo: deve lottare con tutte le forze, deve essere sempre sotto il dominio dello spirito[4], cosi· che non lo contristi in alcun modo. Poi, sia che tu mangi sia che lavori, la preghiera del cuore non cessi mai.

Ma in tutte le altre preghiere, la mente deve seguire e comprendere che cosa preghi e che cosa dici. Perché, se tu non capisci quello che dici, come ci sarà un’intesa con Dio, si che ti possa donare ciò che chiedi?

Se custodirai queste cose, te ne verrà del bene. Ti salverai per sempre e mi renderai pieno di gioia; ma se per negligenza disobbedirai, diventerai causa di tribolazione per molti.


[1] Lo ieronda Iosìf aveva in grado eminente il dono delle lacrime: ce lo attesta questo epistolario con accenti pervasi di grazia divina e ce lo hanno testimoniato al Monte Athos i suoi discepoli, in particolare il padre Efrèm delle Katunakia. “Piangere è la via che ci hanno trasmesso la Scrittura e i Padri” (Detti, vol. II, p. 132). Isacco di Ninive così commenta: “Beati i puri di cuore (Mt 5,8), perché non v’è istante in cui non si dilettino della soavità delle lacrime: grazie ad esse vedono continuamente nostro Signore perché, quando hanno le lacrime agli occhi, sono degni della visione della sua rivelazione nell’altezza della preghiera, ne v’è per loro preghiera senza lacrime. Questo, infatti, significa il detto del Signore: Beati coloro che piangono, perché saranno consolati (Mt 5,4). Dal pianto, dunque, uno viene alla purezza dell’anima (Discorsi Ascetici, vol. I, p. 286). Piangere è proprio del battezzato che, memore incessantemente del suo essere “cenere e polvere” (cfr. Gen 3,19; 18,27; Gb 30,19) e che ha il tesoro della gloria divina che rifulse sul volto di Cristo in un vaso di creta, brama ritornare ogni giorno, quale figlio prodigo (Cfr. Lc 15,11-32), alla casa del Padre, confessando, con lacrime, il suo peccato e sperando dalla misericordia di Dio il suo abbraccio paterno. I Padri hanno visto nel lavacro purificatore delle lacrime il segno di una particolare attualizzazione del lavacro battesimale e spesso l’hanno chiamato un secondo battesimo. Isacco di Ninive attesta che la fatica delle veglie notturne rende gli occhi “una specie di fonte battesimale per le lacrime” (Discorsi Ascetici, p. 180). E Giovanni Climaco: “La sorgente delle lacrime che (scaturisce) dopo il battesimo, è superiore al battesimo stesso, anche se è un po’ audace quanto affermo. Il battesimo, infatti, ci purifica dai mali che l’hanno preceduto, mentre le lacrime cancellano quelli che l’hanno seguito. Il primo, avendolo ricevuto tutti da bambini, lo abbiamo contaminato; ma per mezzo delle lacrime lo riportiamo alla sua purezza primitiva” (Scala del Paradiso VII, 89; cfr. IV, 10). “I nostri peccati passati ci furono cancellati col battesimo. Ma noi ne abbiamo commessi, poi, degli altri e non possiamo più lavarli con l’acqua del battesimo. Per queste macchie che deturpano la nostra vita dopo il battesimo, battezziamo la coscienza con le lacrime” (S. Gregorio Magno, Quaranta omelie sui Vangèli, a cura di G. Barra, om. X, Torino 1947, p. 102).

[2] “La preghiera è la madre delle lacrime e anche la loro figlia” (Scala del Paradiso  XXVIII).

[3] In diverse lettere lo ieronda Iosìf nasconde le sue esperienze personali sotto questa forma (Lettere 8, 25, 43, 62, 64)

[4] “L’intelletto non è glorificato se il corpo non soffre con Gesù. (…) Gloria del corpo è la devota sottomissione a Dio; gloria dell‘intelletto la contemplazione della verità circa Dio. La retta sottomissione è doppia: nel lavoro e nel disprezzo, perché quando il corpo soffre, soffra con esso anche il cuore (Discorsi Ascetici, vol. I, XXXIV, P. 260).




Anziano Iosif l’Esicasta: Lettere

1.
AD UN GIOVANE CHE CHIEDE DELLA “PREGHIERA”

Mio caro fratello in Cristo, mi auguro che tu stia bene. Oggi ho ricevuto la tua lettera e ti do risposta su quanto mi scrivi. Le informazioni che chiedi non richiedono tempa e fatica per pensare a risponderti.

La preghiera del cuore per me è come il mestiere per ciascuno, dal momento che la pratico da trentasei anni a questa parte.

Quando giunsi all’Aghion Oros cercai subito gli eremiti che praticavano la preghiera. Allora – quarant’anni fa – ce n’erano molti che avevano vita dentro di loro. Uomini di virtù. Vecchi monaci. Di questi, alcuni ne facemmo ieronda e li avevamo come guide.

Dunque, la prassi della preghiera del cuore consiste nel fare violenza al tuo io, nel dire continuamente la preghiera con la bocca, senza cessare. All’inizio velocemente, perché nella mente non faccia tempo a formarsi un pensiero di distrazione. Fa’ attenzione solo alle parole: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”. Così facendo per molto tempo, viene il momento in cui la mente si abitua nel dire questa preghiera. Sei riempito di dolcezza come se avessi miele nella tua bocca e vuoi sempre dirla. Se la interrompi ti angusti molto.

Quando la mente si abitua ad essa, si sazia e la impara bene, allora la invia nel cuore. Poiché la mente è la dispensatrice di alimento all’anima e il suo lavoro consiste nell’inviare ciò che di buono o di cattivo vede o ascolta al cuore, che è il centro della forza spirituale e corporale dell’uomo, il trono della mente. Dunque, quando l’orante tiene in suo potere la mente, si che non abbia alcuna fantasia, ma volga la sua attenzione solo alle parole della preghiera, allora, respirando leggermente con una certa violenza e volontà, la Fa scendere nel cuore e la tiene dentro come se fosse condannata alla reclusione e dice la preghiera con ritmo:

“Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”.

All’inizio dice quattro-cinque volte la preghiera e prende un respiro. Poi, quando la mente si abitua a rimanere ferma nel cuore, dice ad ogni respiro una preghiera. “Signore Gesù Cristo”: entra il respiro; “abbi pietà di me”: esce. Questo succede fino a quando la grazia comincia ad adombrare e ad operare nell’anima; dopo, ormai è contemplazione.

La preghiera si dice dovunque: sia seduto che a letto, sia camminando che in piedi. “Incessantemente pregate, in ogni cosa rendete grazie” (1Ts 5,17s.), dice l’Apostolo. Ma non devi pregare solo quando vai a riposare. Ci vuole lotta: in piedi-seduto. Quando ti stanchi, siediti. Poi di nuovo in piedi, perché non ti prenda il sonno. Queste cose vengono chiamate “prassi”. In esse mostri la tua disposizione verso Dio; ma il tutto dipende da Lui, se te lo dona. Dio è il principio e la fine. È la sua grazia che opera tutto. Essa è la forza movente.

Come poi giunge l’amore e come opera, questo sta nell’osservare i comandamenti. Quando ti alzi di notte e preghi, quando vedi il malato e patisci con lui, la vedova, gli orfani e i vecchi e hai misericordia di loro, allora Dio ti ama. E allora anche tu lo ami. Lui per primo ama ed effonde la sua grazia. E noi gli restituiamo le stesse cose da Lui ricevute, “i tuoi (doni provenienti) dai tuoi (doni)”[1].

Se dunque cerchi di trovarla solamente tramite la “preghiera”, non emettere respiro[2] senza la preghiera. Fa’ solo attenzione a non accogliere Fantasie. Perché il divino è senza forma, senza immagine, senza colore. Supera ogni perfezione. Non accetta ragionamenti. Opera come brezza leggera nei nostri pensieri.

La compunzione viene allorché pensi quanto hai rattristato Dio. Lui che è tanto buono, tanto dolce, tanto misericordioso; tanto benevolo, tutto pieno di amore. Lui che è stato crocifisso e che tutto ha patito per noi. Queste e altre cose che il Signore ha patito, quando le mediti, ti generano compun­zione.

Dunque, se riesci a dire la preghiera con le labbra e incessantemente, in due-tre mesi la rendi abituale. Allora la grazia ti adombra e ti irrora. Solo devi pronunciarla con le labbra, senza interru­zione.

Quando la mente la fa propria, allora ti riposerai dal dirla con la lingua. Poi di nuovo, quando la mente non la custodisce più, ricomincia la lingua. All’inizio bisogna compiere ogni sforzo con la lingua, fino a quando non ti abitui; in seguito, per tutti gli anni della tua vita, la mente la dirà senza fatica. Quando verrai, come dici, all’Aghion Oros, vieni a trovarci. Ma allora parleremo di altre cose. Non ti rimarrà tempo per la preghiera. La preghiera la troverai[3]li dove il tuo cervello sarà quieto. Qui, girando per i monasteri, la tua mente camminerà altrove, in quelle cose che ascolterai e vedrai. Sono certo che troverai la “preghiera”. Non dubitare. ‘Solamente bussa direttamente alla porta della divina misericordia e, in ogni modo, il Cristo ti aprirà; è impossibile (che non ti apra). Amalo molto, per poter ricevere molto. Dal tuo amore, molto o poco, dipende il dono, molto a poco.

2.

ALLO STESSO, RIGUARDO ALLA PREGHIERA,
E RISPOSTA A DOMANDE

Ho molto gioito per lo zelo giovanile che hai per la tua anima. Anch’io ho sete di rendermi utile ad ogni fratello che chiede di essere salvato. Dunque, fratello mio, caro e amato, apri le tue orecchie. Il destino dell’uomo, dal momento in cui è stato generato in questa vita, è di trovare Dio. “In Lui viviamo e ci muoviamo…” (At 17,28), ma le passioni ci hanno chiuso gli occhi naturali e non vediamo. Quando però il nostro Dio buonissimo volge il suo occhio verso di noi, allora ci svegliamo come dal sonno e cominciamo a chiedere la nostra salvezza.

Per cui, riguardo alla tua prima domanda: ora Dio ti ha visto, ti ha illuminato e ti guida. Mettiti al lavoro lì dove sei. Di’ incessantemente la preghiera: con la lingua e con la mente. Quando la lingua si stanca, cominci pure la mente. E di nuovo, quando la mente si appesantisce, la lingua. Solamente non smettere. Fa’ molte prostrazioni. Veglia la notte, per quanto puoi. E se si accende nel tuo cuore una fiamma per Dio, (se) cerchi esichia e non ce la fai a rimanere nel mondo – poiché dentro di te si accende la preghiera – allora scrivimi e io ti dirò che cosa fare. Se ancora la grazia non opera nel modo che abbiamo detto, ma lo zelo permane e tu metti in pratica i comandamenti del Signore verso il prossimo, allora sta tranquillo come sei, va bene così; non cercare niente altro. La diversità del trenta, del sessanta, del cento, la potrai conoscere quando leggerai l’Everghetinòs[4]. Vi troverai scritte anche molte altre simili cose e ne trarrai grande giovamento.

Ecco poi la risposta alle altre tue domande: la preghiera bisogna dirla così, con la parola interiore. Ma siccome all’inizio la mente non ci ha preso l’abitudine, la dimentica. Per questo la dici ora con la bocca ora con la mente. Ciò accade fino a quando la mente se ne riempie e diviene energia.

Energia viene chiamato quello stato in cui, quando dici la preghiera, percepisci dentro di te gioia ed esultanza e desideri dirla incessantemente.

Quando dunque la mente ha fatto sua la preghiera e si manifesta quella gioia di cui ti scrivo, allora viene detta di continuo, senza che tu ti faccia violenza. Questo (stato) si chiama percezione – energia, quando la grazia opera senza la volontà dell’uomo. Mangia, cammina, dorme, si sveglia, e nell’intimo la preghiera grida. Ed ha pace, gioia.

Ora per quanto riguarda le ore della preghiera, poiché sei nel mondo e hai diverse occupazioni, prega quando trovi tempo. Ma fatti violenza per non essere pigro. Per la “contemplazione” di cui chiedi, è difficile, perché necessita assoluta esichia. Lo stato spirituale si divide in tre ordini, e la

grazia opera nell’uomo analogamente. Uno stato viene chiamato purificante, purifica infatti l’uomo. La grazia che tu ora hai si dice purificante, essa guida l’uomo alla conversione. Ogni buona disposizione che hai verso le realtà spirituali proviene dalla grazia. Nulla è propriamente tuo. Essa compie la sua opera in tutto, segretamente. Questa grazia dunque, quando ti fai violenza, rimane con te qualche anno. Se poi quella persona progredisce tramite la preghiera del cuore, riceve un’altra grazia molto diversa.

Il primo (stato), come abbiamo detto, si chiama percezione-energia ed è quello purificante, in quanto l’orante percepisce dentro di sé movimento-energia divina.

L’altro si chiama illuminante. In esso riceve luce di conoscenza, viene fatto salire alla contemplazione di Dio. Non luci, non fantasie, non immaginazioni, ma limpidezza di mente, purezza di pensieri, profondità di concetti. Per giungere a questo, l’orante deve avere molta esichia e una guida infallibile.

E il terzo stato – adombramento della grazia – consiste nella grazia perfezionante, che è un grande dono. Di questo ora non ti scrivo, anche perché non c’è necessità. Se però vuoi leggere qualcosa al riguardo, ho scritto col mio analfabetismo un libretto manoscritto “Tromba mossa dallo Spirito”[5] su quando avvengono queste operazioni. Cercalo e lo troverai. Compra pure san Macarie[6] dal (signor) Schinà, e l’abbà Isacco; ne avrai grande profitto. Qualsiasi cambiamento, poi, potrai sperimentare scrivimi e ti risponderò prontissimamente. In tutto questo tempo ho scritto a quanti mi pongono questioni. Quest’anno sono venuti dalla Germania solamente per imparare la preghiera del cuore. Dall’America mi scrivono con tanto ardore. Da Parigi sono così numerosi quelli che chiedono fervidamente. Ma noi qui perché siamo negligenti? È forse un mestiere spregevole gridare continuamente il nome di Cristo perché ci faccia misericordia?

Alla fin fine, domina anche una oscura idea del diavolo, per la quale se uno dice la preghiera teme di ingannarsi, mentre invece è inganno proprio questo timore.

Chi vuole provi e, col perdurare dell’energia della preghiera, si creerà il Paradiso dentro di lui; sarà liberato dalle passioni, diventerà un altro uomo! E se poi è anche nel deserto, oh! oh! non si possono esprimere le bellezze della preghiera!

3.

AD UN MONACO CHE ENTRAVA NELLO STADIO DEL COMBATTIMENTO

Gioisci nel Signore, figlio amato che la grazia del mio Gesù ha illuminato e liberato dal mondo. Sei volato nel deserto e hai preso dimora nel cenobio con una santa sinodia. E ora dai lode e ringrazi con tutta l’anima Dio. La grazia divina, figlio mio, è come un’esca che senza fare violenza attira l’uomo alle realtà alte e superiori. Essa conosce il modo di irretire i pesci razionali e di trarli fuori dal mare del mondo. Ma dopo cosa succede? Quando fa uscire dal mondo colui che si accinge a condurre vita monastica e lo conduce nel deserto, non gli mostra subito né le sue passioni né le tentazioni fino a quando non diviene monaco e allora il Cristo lo vincola col suo timore. E così comincia la prova, la lotta e il combattimento. Se dall’inizio colui che è messo alla prova si fa violenza[7] e fa in tempo ad accendere la lucerna dell’ascesi con le sue lotte, essa non si spegne quando, all’arrivo delle tentazioni, la grazia si ritira. Diversamente, quando la grazia si ritira, ritornerà al suo primo stato. E, analogamente alle passioni che aveva nel mondo, insorgeranno le tentazioni e metteranno in moto le abitudini di prima, alle quali serviva e di cui era schiavo.

Prima di tutto sappi, figlio mio, che c’è molta differenza tra uomo e uomo e tra monaco e monaco. Ci sono anime di carattere tenero che facilmente obbediscono. Ma ci sono anche anime di carattere duro che non si sottomettono facilmente. C’è tanta differenza quanta dal bambagio al ferro. Il bambagio richiede solo l’unzione della parola. Ma il ferro richiede fuoco e la fornace delle tentazioni per essere lavorato. Questo tale deve avere molta pazienza nelle tentazioni perché avvenga la purificazione. Quando non ha pazienza, è una lampada senza olio; si spegne in breve e si perde. Quando dunque uno di siffatta natura più dura del ferro viene a farsi monaco, appena entra nello stadio, subito rinnega l’obbedienza. Subito rifiuta le promesse e rinuncia alla lotta. E lo vedi: appena la grazia si ritira un poco per mettere alla prova la sua disposizione e la sua pazienza, lui subito getta via le armi e comincia a pentirsi di essere venuto per farsi monaco. Trascorre i giorni pieno di disobbedienza e di amarezza, tutto contraddizione e arroganza.

In forza delle preghiere dello ieronda, la grazia allontana un po’ le nubi delle tentazioni perché ritorni in parte in sé e si risvegli; ma lui, dopo poco, di nuovo la sua volontà e di nuovo disobbedienza, di nuovo agitazione e turbamento. Mi scrivi del fratello che vedi lì (nel tuo monastero) e ti meravigli come mai pur faticando tanto nel compiere il suo servizio, domini ancora dentro di lui l’egoismo. Ma cosa credi? Che sia facile per l’uomo vincere una passione? Gli atti di bontà e di misericordia e tutte le altre azioni buone che si compiono all’esterno non addolciscono l’alterigia del cuore; ma solo la meditazione della mente, la fatica della conversione, la contrizione e l’umiltà, queste umiliano il pensiero altero. Un uomo non sottomesso è una grande e penosa fatica. Solo con molta pazienza costui può venire integrato (nella comunità). Solo con una grande pazienza degli ieronda e la tolleranza e l’amore dei fratelli è possibile che ritornino in sé monaci[8] di dura cervice. Ma ecco che costoro sono spesso utili come la mano destra. Quasi sempre questi tali, quando hanno un carisma visibile agli altri, difficilmente si umiliano. Loro solo credono di essere, gli altri non sono. C’è dunque bisogno di molta fatica e di molta pazienza, fino a che non sia sradicato il vecchio fondamento della superbia e sia posto come altro fondamento l’umiltà e l’obbedienza del Cristo. Tuttavia vedendo il Signore le fatiche e la disposizione sia di questi soggetti stessi che degli altri (ieronda e fratelli), permette che abbiano un’altra tentazione che contraddice la loro passione, e, per la sua misericordia, salva pure loro, “Lui che vuole che tutti siano salvi” (1 Tm 2,2). Tu guarda bene a chi vuoi somigliare. Sarebbe bello che tutti fossero di carattere buono, umili e obbedienti. Ma, se capita a qualcuno (di essere) di natura dura, non disperi. Ci vuole lotta, ma per la grazia di Dio si può vincere. E Dio non è ingiusto da chiedere una cosa invece di un’altra. Secondo il carisma che ha dato, così ne richiede la resa. Poiché dall’inizio della creazione ha separato gli uomini in tre ordini. Ad uno ha dato cinque talenti, ad un altro due ed a un altro ancora uno (Mt 25,14ss). Il primo ha carismi superiori; è più capace nella mente e viene chiamato “ammaestrato da Dio” (Gv 6,45), perché riceve da Dio senza essere istruito. Come erano nell’epoca antica Antonio il grande, sant’ Onofrio, santa Maria (egiziaca), Cirillo Fileoti, Luca da Stirìo e migliaia di altri, i quali senza guida divennero perfetti. | L’altro (ordine) deve essere ammaestrato nel bene per compierlo. Il terzo invece, anche se ascolta, anche se impara, lo nasconde nella terra; non combina nulla.

Per questo dunque esiste tanta differenza fra gli uomini e fra i monaci che vedi. Per questo prima di tutto il “conosci te stesso”[9]. Cioè conoscerti così come sei. Come sei in realtà, non come ritieni di essere. Con questa conoscenza diventi il più sapiente degli uomini. Con questa coscienza giungi all’umiltà[10] e ricevi grazia dal Signore. Ma se non acquisti la conoscenza di te, e conti solo sulla tua fatica, sappi che ti troverai sempre lontano dalla via. Infatti il Profeta non dice: “Vedi Signore, la mia fatica”, ma “Vedi – dice – la mia umiltà e la mia fatica” (Sal 24,18). La fatica è per il corpo, l’umiltà per l’anima. Le due insieme, fatica e umiltà, (sono) per l’uomo nella sua totalità.

Chi ha potuto vincere il diavolo? Chi ha conosciuto la propria debolezza, le passioni e le mancanze che ha. Chi teme di conoscere sé stesso costui è lontano dalla conoscenza; costui non sa nient’altro se non vedere solo difetti negli altri e giudicarli. Negli altri non vede carismi, ma solo mancanze; non vede in sé stesso mancanze ma solo carismi. E questo è veramente il difetto di cui soffriamo noi uomini del ventesimo secolo, che non riconosciamo l’uno il carisma dell’altro. Uno da solo è privo di molte cose, ma la moltitudine le ha tutte. Ciò che uno ha l’altro non lo ha. Se riconosciamo questo si genera molta umiltà. In quanto Dio è onorato e glorificato, Lui che ha adornato gli uomini in modo vario e nel suo disegno ha voluto l’inuguaglianza per tutte le sue creature. Non come vogliono gli empi, che portano l’uguaglianza sovvertendo la creazione. Dio ha fatto tutto con sapienza.

Per cui, figlio mio, ora che sei all’inizio, abbi cura di conoscere bene te stesso, perché possa porre come fondamento stabile l’umiltà. Abbi cura di imparare l’obbedienza (Eb 5,8) e di acquisire la preghiera. Il “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me” sia il tuo respiro. Non lasciare la tua mente disoccupata; per non essere ammaestrato nel male. Non permetterti di osservare i difetti degli altri, perché, senza che te ne accorga, ti troverai ad essere cooperatore del maligno e incapace di progredire nel bene. Non combattere con ignoranza contro il nemico della tua anima. Il diavolo è astuto e si sa nascondere bene dietro alle passioni e alle debolezze. Per cui, per poterlo colpire, devi combattere, mettere a morte il tuo io, le tue passioni. Quando muore l’uomo vecchio, allora viene ridotta a nulla la potenza del nemico e dell’avversario. La nostra lotta non è nei confronti dell’uomo, che puoi, secondo il caso uccidere in mille modi, ma è nei confronti dei principati e delle potenze della tenebra (Ef 6,12). Non si combattono con dolci e lukumi, ma con torrenti di lacrime, con sofferenza dell’anima fino alla morte, con suprema umiltà e grandissima pazienza. Fino a far scorrere sangue per la superfatica della preghiera, ad accasciarti per settimane spossato, gravemente ammalato. E senza abbandonare la battaglia, fino a che non siano stati vinti e non battano in ritirata i demoni. Allora otterrai libertà dalle passioni.

E dunque, figlio mio, fa’ violenza a te stesso dall’inizio, per poter entrare attraverso la porta stretta (Mt 7,13) perché questa sola introduce nella spaziosità del Paradiso. Taglia ogni giorno e ogni ora la tua volontà[11] e non cercare altra via se non questa. È quella che hanno battuto i piedi dei santi Padri. Rivela anche tu al Signore la tua via ed Egli ti guiderà (Sal 36,5). Rivela allo ieronda i tuoi pensieri ed egli ti guarirà. Non nascondere mai un tuo pensiero, poiché dentro di esso si trova nascosta la malizia del diavolo; nel dirlo si dissolve. Non rivelare un difetto di un altro, a tua giustificazione, perché la grazia subito rivela i tuoi, essa che fino adora ti copriva. Quanto tu con amore copri il fratello, tanto la grazia ti nutre e ti protegge dalle calunnie degli uomini.

Riguardo poi all’altro fratello, di cui parli, si vede che ha peccati non confessati, poiché si vergogna di dirli allo ieronda, e per questo prende piede la tentazione. Ma bisogna correggere questa cosa che è fuori posto. Perché senza una pura confessione l’uomo non si purifica. Ed è un peccato lasciarsi giocare dal diavolo. Nel profondo c’è nascosto l’egoismo. Il Signore lo illumini perché ritorni in sé stesso. Tu prega e abbi carità verso di lui e verso tutti, guardandoti però da tutti. Ad ogni modo ora che sei entrato nello stadio proverai molte specie di tentazioni: preparati a portare pazienza. Di’ incessantemente la preghiera e il Signore ti aiuterà con la sua grazia. Le tentazioni non sono mai più forti della grazia.

4.

FIGLIO MIO, SE FAI ATTENZIONE A CIO’ CHE TI SCRIVO.

Figlio mio, se fai attenzione a ciò che ti scrivo e fai violenza a te stesso, ne avrai un grande beneficio. Tutte queste cose ti succedono perché non ti fai violenza nella preghiera. Fatti violenza dunque. Di’ continuamente la preghiera. Non fare riposare per nulla la bocca. Così la renderai abituale in te e poi la mente la farà sua. Non dare licenza ai pensieri, poiché ti infiacchisci e ti contamini. Preghiera, continua violenza alla natura, e vedrai quanta grazia riceverai!

La vita dell’uomo, figlio mio, è tribolazione, perché è in esilio. Non cercare un perfetto riposo. Il Cristo ha preso su di sé la croce, e anche noi la prenderemo. Se sopportiamo tutte le tribolazioni, troveremo grazia dal Signore. Per questo il Signore permette che siamo tentati, per mettere alla prova lo zelo e l’amore che abbiamo verso di Lui. Per cui c’è bisogno di pazienza. Senza la pazienza l’uomo non diventa “pratico”, non apprende le realtà spirituali, non giunge a (grandi) misure di virtù e di perfezione. Ama Gesù e dì incessantemente la preghiera ed essa ti illuminerà nella sua via.

Guardati dal giudicare, perché a causa di ciò Dio si ritira, la grazia fugge e il Signore ti lascia cadere perché tu venga umiliato e possa vedere i tuoi difetti. Quanto scrivi va bene. La prima cosa che percepisci è la grazia di Dio, che, quando giunge, rende l’uomo spirituale. Tutto gli pare bello e buono. Allora ama tutti; ha compunzione, lacrime e fervore nell’anima. Ma quando la grazia si ritira per mettere alla prova l’uomo, allora tutto diviene carnale e l’anima cade in basso. Tuttavia in quell momento non perdere il tuo slancio, ma grida continuamente la preghiera: con Violenza, con forza, con molta sofferenza. Signore Gesù Cristo abbi pietà di me! Di nuovo e molte volte la stessa (invocazione) di continuo. E, come se fissassi il Cristo con la mente, dì: “Ti rendo grazie, mio Signore per i beni che mi hai dato e per i mali che soffro. Gloria a te, Dio mio, gloria a te!”. Se porterai pazienza, di nuovo verrà la grazia, di nuovo la gioia. Ma poi ancora la tentazione e la tristezza, il turbamento e l’irritazione. E di nuovo lotte e vittoria e rendimento di grazie. Questo succede fino a quando a poco a poco sei purificato dalle passioni e diventi spirituale. Invecchiando, poi, col tempo giungi alla impassibilità. Ma lotta! Non volere che i beni vengano da sé stessi. Con le piume non si fa il monaco. Il monaco deve essere ingiuriato, deriso, provato, deve cadere, alzarsi, divenire uomo. Non nelle braccia della sua mamma. È mai possibile? Si è mai sentito dire che uno sia divenuto monaco vicino a sua mamma, la quale appena dici: “Oh!”, (subito aggiunge:) “Mangia, per non indebolirti!”. L’ascesi richiede privazioni. I beni non li trovi nei bagni e nella vita comoda. Ci vuole lotta e molta fatica. Bisogna gridare giorno e notte a Cristo. Ci vuole pazienza in tutte le tentazioni e le tribolazioni. Bisogna soffocare l’ira e il desiderio. Faticherai molto, fino a quando capirai che la preghiera senza attenzione e sobrietà è perdita di tempo, fatica senza salario. Devi costituire su tutti i sensi interiori ed esteriori, come guardia che non prende mai sonno, la vigilanza. Perché senza di essa la mente ele forze dell’anima si disperdono nelle cose vane e abitudinarie, come l’acqua inutile che corre nelle strade. Nessuno ha mai trovato la preghiera, senza vigilanza esobrietà. Nessuno è mai stato trovato degno di salire verso le realtà dell’alto senza che prima avesse disprezzato quelle del basso. Molte volte tu preghi e la tua mente vaga qui e là, dove le piace, verso quelle cose da cui è attratta per abitudine. Occorre violenza per sradicarla di lì, perché possa così prestare attenzione alle parole della preghiera. Spesso nel tuo pensiero, nella tua parola, nel tuo udito, nel tuo sguardo si insinua con inganno il nemico e non te ne accorgi. Te ne rendi conto dopo, e ci vuole lotta per essere purificato. Tuttavia non venir meno nella battaglia contro gli spiriti della malvagità. Per la grazia di Cristo vincerai e ti rallegrerai per quanto ti sei rattristato. Inoltre fa’ attenzione, dillo anche agli altri, fate attenzione a non lodarvi l’un l’altro in faccia. Perché la lode reca danno anche ai perfetti, non solo a voi che ancora siete deboli. Un visitatore disse ad un santo, per tre volte, che intrecciava bene il suo lavoro. E la terza volta gli disse il santo: “Da quando sei entrato qui, o uomo, hai cacciato Dio da me!”[12].

Vedi che esatta conformità (alla virtù) avevano i santi? Per questo in tutte le cose occorre molta attenzione. Solo gli insulti[13] e gli oltraggi sono di giovamento spirituale all’uomo. Perché da essi viene generata l’umiltà. Guadagna corone. Portando pazienza soffoca l’egoismo e la vanagloria.

Per cui quando ti insultano (dicendoti) superbo, ipocrita, impaziente, e cose simili, è il momento della pazienza. Se parli, hai perso. Abbi dunque sempre il timore di Dio, amore verso tutti e guardati dal rattristare e dal nuocere qualcuno in un modo o nell’altro, perché nel momento della preghiera avrai quale impedimento l’afflizione del tuo fratello. Sii per tutti un buon esempio in parole ed in opere e la grazia divina sempre ti coprirà e ti aiuterà. Sta attento, figlio mio, a non dimenticare mai in tutta la tua vita che il monaco deve essere di esempio per coloro che vi vano nel mondo enon di scandalo, come a sua volta lui deve prendere l’esempio dagli angeli. Per cui deve fare molta attenzione, perché il satana non lo derubi. È veramente necessario che il monaco esca per andare nel mondo? Esca pure. Ma deve essere tutto occhio, tutto luce, per vedere bene, perché non gli succeda di essere di vantaggio agli altri e di danno a sé stesso. Uscendo per andare nel mondo corrono pericoli in modo massimo i monaci giovani ele monache che sono ancora nel fiore della loro età; camminano fra le trappole.

Per coloro che sono un po’ avanzati nell’età eche si sono appassiti a causa dell’ascesi, non è tanto il timore. Costoro non ne ricevono danno tanto quanto possono trarne giovamento, se hanno esperienza e sapienza. Ma in genere ogni monaco non trae nessun profitto dal mondo, se non onore elodi, con cui lo lavano per bene e (così) rimane spoglio. Povero lui se la grazia divina non lo coprisse, in rapporto alle necessità e allo scopo per cui esce.


[1] Dalla “Divina Liturgia” di s. Giovanni Crisostomo. Acclamazione che il sacerdote canta alla consacrazione immediatamente prima dell’epiclesi: “I tuoi (doni provenienti) dai tuoi (doni) a te offriamo in tutto e per tutto”.

[2] Nel pensiero dei Padri ricorre frequentemente l’esortazione ad unire la preghiera, il ricordo incessante di Dio e della parola di Dio, al respiro: *Il ricordo di Gesù si unisca al tuo respiro, e allora conoscerai l’utilità dell’isichia” (Climaco, Scala del Paradiso, XXVII B, 26; cfr. anche IV, 113; XIV, 30)

[3] L’espressione “trovare la preghiera” vuole sottolineare la fatica e la lotta per raggiungere lo stato di preghiera continua.

[4]  Paolo Everghetinòs, Raccolta delle parole pronunciate da Dio e degli insegnamenti dei santi Padri portatori di Dio, 4 voll., V ed., Atene 1957-1961.

[5] Questo libretto riprende il contenuto, sviluppandolo, della “Lettera ad un eremita esicasta” (L 82).

[6] Si tratta delle “Omelie spirituali” (PG XXXIV).

[7] “Farsi violenza” è una delle espressioni che ricorre con frequenza martellante in questo epistolario (cfr. Indice Analitico). Lo ieronda Iosìf – come lui stesso attesta nella lettera 81 – la fonda su Mt 11,12: “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora il regno dei cieli patisce violenza e i violenti lo rapiscono”. È la violenza di chi ama appassionatamente il Signore e sa, per esperienza, che solo così può custodire il tesoro divino. Di costui è detto: “Colui che fa violenza a sé stesso per amore di Dio è simile a un confessore” (PJ, Appendice, 38), cioè è testimone della fede allo stesso modo di coloro che la testimoniano fino al sangue, i martiri. I Padri che lo ieronda Iosìf leggeva insistono non poco su questa realtà: “Coloro che, col corpo, hanno intrapreso l’ascensione al cielo hanno bisogno veramente di farsi violenza e di soffrire di continuo”; “Il monaco è una continua violenza fatta alla natura umana…” (Scala del Paradiso  I, 10); “Beato colui che, oltraggiato e disprezzato ogni giorno, si fa violenza per il Signore. Costui si unirà al coro dei martiri e si intratterrà confidenzialmente. con gli angeli” (Scala del Paradiso  IV,37); “Il digiuno è una violenza fatta alla natura” (XIV, 37).

[8] Letteralmente “ipotaktikì” (sottomessi). Il  monaco che vive sotto il giogo soave dell’obbedienza, in una totale consegna al suo padre spirituale, viene chiamato “ipotaktikòs”, sottomesso, con lo stesso termine che Lc 2,51 usa per indicare l’essere di Gesù nei confronti dei suoi genitori a Nazareth.

[9] La mistica cristiana del ritorno in sé (cfr. Lc 15,17) ha un senso completamente diverso dal ‘conosci te stesso’ socratico. I Padri orientali ne hanno sempre avuto una coscienza chiara. Il Monte Athos, poi, al riguardo ha conservato gelosamente la testimonianza di s. Gregorio Palamas nella sua lotta per difendere la concezione biblica della conoscenza contro la minaccia del pensiero filosofico: “Ecco dunque dove i filosofi conducono quelli che non si accorgono del trabocchetto, con il loro ‘conosci te stesso’; ed essi pensano di parlare conformemente ai nostri Padri!” (PD I, 1, par. 10, p.32). In questa lettera, come in altre (L 9; 63), lo ieronda Iosìf rivela la limpidezza del ‘conosci te stesso’ secondo il pensiero biblico e gli scritti dei Padri.

[10] Anche s. Giovanni Climaco inserisce la conoscenza di sé stessi nel grado “sull’umiltà”: “La conoscenza di sé stessi è una coscienza chiara della propria misura e un ricordo incessante delle minime colpe” (Scala del Paradiso XXV, 37; cfr. anche XXV, 28.45).

[11] Lo ieronda Iosìf è – in questa sequela di Cristo che è disceso dal cielo non per fare la sua volontà ma quella di Colui che l’ha mandato (cfr. Gv 6,38) – un maestro pieno di potenza e di Spirito Santo. Ne ha lasciata una testimonianza viva nei suoi discepoli che al Monte Athos continuano a vivere della sua eredità. Uno di essi, lo ieronda Iosìf j. ci diceva: “Dio non può obbedire perché non può rinunciare alla propria volontà, altri­menti non sarebbe Dio. Invece sono caratteristiche delle creature angeliche e corporee l’obbedienza, la sottomissione, la rinuncia quindi alla propria volontà e il taglio di essa. Adamo è caduto per voler fare la sua volontà. Dovete insegnare ai giovani a tagliare la propria volontà, a perderla; l’obbedienza è perdere la propria volontà, non seguire mai i propri deside­ri… Allora colui che è sottomesso viene liberato dalla schiavitù del peccato, dai pensieri; viene reso capace di ricevere la grazia e lo Spirito Santo lo adombra” (Da Cronache dal Monte Athos, Valleripa 1986, p. 207). Il taglio della volontà propria, la “crocifissio­ne del proprio io” (Lettera 43) è il nucleo centrale della vita del monaco, è il segreto per poter trovare la pace dell’anima ed accogliere la luce increata della grazia divina, è l’opera più grande di ogni altra perché richiede una violenza continua a se stessi, equivalente al martirio. “Spogliati della tua volontà come di una veste di vergogna ed entra nudo nello stadio della lotta” (Scala del Paradiso IV, 31). “Niente giova all’uomo quanto il recidere la propria volontà: con questa cosa si avanza veramente oltre ogni virtù. Come un uomo che percorre una strada e trova una scorciatoia, se la prende, grazie a quella scorciatoia guadagna una gran parte di quella strada, così è di chi percorre questa strada della recisione della propria volontà: se uno recide la sua volontà, acquista la libertà dalle passioni, e dalla libertà dalle passioni giunge, con l’aiuto di Dio, alla perfetta impassibilità” (Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali p. 60). “Beato colui che ha fatto morire completamente la propria volontà e ha abbandonato la cura della sua anima al suo maestro nel Signore: starà alla destra del Crocifisso” (Scala del Paradiso IV, 37). È così pericoloso fare la propria volontà, che i Padri giungono a dire: “Se vedi un giovane che sale al cielo con la propria volontà, prendilo per i piedi e tiralo giù, gli fa bene” (PJ X, 111).

[12] Detti dei Padri del deserto, vol. I, p. 253, n. 32.

[13] “Disse il padre Isaia: ‘Niente giova al novizio più del disprezzo. Il monaco che è disprezzato e che lo sopporta, è come una pianta che viene annaffiata ogni giorno'” (Detti op.cit., vol. I, p. 212, n. 1). L’insulto è una pratica normale che gli uomini veramente spirituali usano per purificare i loro figli. Così faceva lo ieronda Iosìf coi suoi, esortandoli pure ad insultare il proprio io “in tutto, dovunque” e a non cercare mai il proprio diritto e la propria volontà. Così facendo avrebbero potuto gustare in breve il frutto dell’umiltà (Lettera 72).





San Massimo il Confessore (580 – 662): Lo scopo dell’incarnazione di Dio

San Massimo il Confessore (580 – 662)

dall’opera “Discorso Ascetico”

Lo scopo dell’incarnazione di Dio

1. Un fratello interrogò un vecchio dicendo: — Ti chiedo di dirmi, o padre: quale fu lo scopo per cui il Signore divenne uomo?

Ed il vecchio rispondendo disse: — Mi meraviglio di te, o fratello, perché mi interroghi intorno a ciò, pur ascoltando ogni giorno il simbolo della fede. Tuttavia ti dico che lo scopo per cui il Signore divenne uomo fu la nostra salvezza.

Ed il fratello chiese: — Come dici, o padre?

Ed il vecchio rispose: — Poiché dunque l’uomo, creato all’inizio da Dio e posto nel paradiso, avendo trasgredito il comandamento, soggiacque alla corruzione ed alla morte, di conseguenza, pur governato dalla varia provvidenza di Dio per ogni successiva generazione, continuava a rimanere decaduto nello stato peggiore, spinto dalle diverse passioni della carne alla disperazione della vita. Per questo l’unigenito Figlio di Dio, il Verbo anteriore al tempo procedente da Dio Padre, la fonte della vita e dell’immortalità, apparve a noi che giacevamo nell’oscurità e nell’ombra della morte (Mt 4,16 – Lc 1-79); incarnatosi dallo Spirito Santo e dalla Santa Vergine, ci indicò il modo di una vita divina e, dopo averci impartito santi precetti ed aver annunziato il regno dei cieli a chi vive secondo essi e minacciato eterno castigo a chi li viola, sofferta la passione salvatrice e risorto dai morti, ci donò la speranza della risurrezione e della vita eterna. Tolta mediante la sua ubbidienza la condanna della colpa dei progenitori ed annientata con la morte la potenza della morte (Eb 2,14), affinché, come tutti muoiono in Adamo, cosi tutti siano vivificati (1 Cor 15,22); asceso ai cieli e postosi alla destra del Padre, fece discendere io Spirito Santo in pegno della vita e ad illuminazione e santificazione delle nostre anime ed in aiuto di chi lotta per la propria salvezza per custodire i suoi precetti. Questo fu lo scopo per cui il Signore divenne uomo, a dirla in breve.




Passi biblici sulla nascita dell’Emmanuele, il ‘Dio con noi’

ISAIA 7,10-16

10,10 Il Signore parlò ancora ad Acaz: 11 «Chiedi un segno dal Signore tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure lassù in alto». 12 Ma Acaz rispose: «Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore». 13 Allora Isaia disse: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta di stancare la pazienza degli uomini, perché ora vogliate stancare anche quella del mio Dio? 14 Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele. 15 Egli mangerà panna e miele finché non imparerà a rigettare il male e a scegliere il bene. 16 Poiché prima ancora che il bimbo impari a rigettare il male e a scegliere il bene, sarà abbandonato il paese di cui temi i due re.

ISAIA 9,5-6

9,5 Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; 6 grande sarà il suo dominio
e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno,
che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.

DAL VANGELO DI MATTEO

1,1 Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. 2Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, 3Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esrom, Esrom generò Aram, 4Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmon, 5Salmon generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, 6Iesse generò il re Davide. Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria, 7Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abia, Abia generò Asaf, 8Asaf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, 9Ozia generò Ioatàm, Ioatàm generò Acaz, Acaz generò Ezechia, 10Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, 11Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia. 12Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatièl, Salatièl generò Zorobabele, 13Zorobabele generò Abiùd, Abiùd generò Eliachìm, Eliachìm generò Azor, 14Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, 15Eliùd generò Eleazar, Eleazar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, 16Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo.
17In tal modo, tutte le generazioni da Abramo a Davide sono quattordici, da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici, dalla deportazione in Babilonia a Cristo quattordici.

18Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. 20Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”.
22Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:

23 Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio:
a lui sarà dato il nome di Emmanuele
,

che significa Dio con noi24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; 25senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù.

2,1 Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme 2e dicevano: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. 3All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. 4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:

6 E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda:

da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele“.

7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: “Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”.

9Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
13Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”. 14Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, 15dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:

Dall’Egitto ho chiamato mio figlio.

16Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. 17Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia:

18 Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.

19Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto 20e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino”. 21Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. 22Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea 23e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: “Sarà chiamato Nazareno”.

DAL VANGELO DI LUCA

1, 26 Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, 27a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28 Entrando da lei, disse: “Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te”. 29 A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. 30 L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31 Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32 Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33 e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”.34 Allora Maria disse all’angelo: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?”. 35 Le rispose l’angelo: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. 36 Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: 37 nulla è impossibile a Dio”. 38 Allora Maria disse: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. E l’angelo si allontanò da lei. 39 In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. 40 Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41 Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo 42ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!  43A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? 44Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. 45E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. 46Allora Maria disse:

“L’anima mia magnifica il Signore
47e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
48perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
49Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
50di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
51Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
54Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre”.

56Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua. 57Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei. 59Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. 60Ma sua madre intervenne: “No, si chiamerà Giovanni”. 61Le dissero: “Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome”. 62Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63Egli chiese una tavoletta e scrisse: “Giovanni è il suo nome”. Tutti furono meravigliati. 64All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: “Che sarà mai questo bambino?”. E davvero la mano del Signore era con lui. 67Zaccaria, suo padre, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo:

68“Benedetto il Signore, Dio d’Israele,
perché ha visitato e redento il suo popolo,
69e ha suscitato per noi un Salvatore potente
nella casa di Davide, suo servo,
70come aveva detto
per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
71salvezza dai nostri nemici,
e dalle mani di quanti ci odiano.
72Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri
e si è ricordato della sua santa alleanza,
73del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre,
di concederci, 74liberati dalle mani dei nemici,
di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia
al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.
76 E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo
perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade,
77 per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza
nella remissione dei suoi peccati.
78 Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio,
ci visiterà un sole che sorge dall’alto,
79 per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre
e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi
sulla via della pace”.

80Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.

2,1 In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. 2Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. 3Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. 4Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. 5Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. 6Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio. 8C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. 9Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, 10ma l’angelo disse loro: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. 12Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. 13E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: 14“Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”. 15Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: “Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”. 16Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. 17E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. 19Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. 20I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. 21Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.
22Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – 23come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – 24e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. 25Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. 26Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. 27Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, 28anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:

29“Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
30perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
31preparata da te davanti a tutti i popoli:
32luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele”.

33Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. 34Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: “Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione 35– e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”. 36C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, 37era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. 38Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. 39Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. 40Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
41I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. 43Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. 49Ed egli rispose loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. 51Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. 52E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.




Cirillo di Alessandria: TERZA LETTERA A NESTORIO

TERZA LETTERA A NESTORIO

San Cirillo, Patriarca di Alessandria (370–444)

Cirillo e il sinodo convocato ad Alessandria d’Egitto al Religiosissimo e Piissimo collega nel ministero, Nestorio, salute nel Signore.

1. Poiché il nostro Salvatore chiaramente dice: Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me; e chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me, che cosa possiamo fare noi, che siamo richiesti dalla tua Pietà di amarti più di Cristo, Salvatore di noi tutti? Chi ci potrà difendere nel giorno del giudizio? Quale scusa troveremo all’essere stati per così lungo tempo in silenzio, di fronte alle bestemmie da te pronunciate su di lui? Se tu danneggiassi soltanto te stesso pensando e insegnando dottrine siffatte, minore sarebbe la preoccupazione. Ma tu hai scandalizzato tutta la Chiesa e hai posto il lievito di una nuova e bizzarra eresia in ogni gente, non solo tra quelli che stanno lì, a Costantinopoli, ma anche in ogni altro luogo (infatti i testi delle tue omelie circolano ampiamente). Quale discorso potrà allora giustificare il nostro silenzio? Come si può non essere memori di quel che Cristo dice: Non pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra, ma la spada. Son venuto a dividere l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre? Quando la fede è offesa, vada pure alla malora la riverenza verso i parenti, come qualcosa di stantio e pericoloso; passi in secondo piano anche la norma che ci obbliga all’affetto verso i figli e i fratelli, e sia preferibile per le persone pie la morte alla vita, affinché trovino una migliore risurrezione, come sta scritto. 2. Ecco, dunque, noi, insieme al santo sinodo riunito nella grande Roma, sotto la presidenza del Santissimo e Reverendissimo fratello e collega nel ministero, il vescovo Celestino, con questa terza lettera ti avvisiamo e ti intimiamo di allontanarti da dottrine tanto stolte e perverse, come sono  quelle che tu pensi e insegni, e di accettare la retta fede, data fin dall’inizio alle chiese attraverso i santi Apostoli ed Evangelisti, i quali sono stati testimoni oculari e ministri della parola. E se la tua Pietà non si atterrà alla data stabilita nella lettera del sopra menzionato Santissimo e Reverendissimo fratello e nostro collega nel ministero, il vescovo di Roma, Celestino, sappi che non avrai alcuna parte con noi né luogo o parola tra i sacerdoti di Dio e i vescovi. Non è infatti possibile vedere tutto intorno le chiese turbate, le comunità scandalizzate, la retta fede rifiutata, il gregge disperso a causa tua, che eri stato dato a sua salvaguardia, se mai avessi seguito, insieme a noi, la retta dottrina, procedendo sulle orme della pietà dei santi Padri. Noi tutti siamo in comunione con tutti, laici e chierici, che sono stati scomunicati o deposti dalla tua Pietà, a cagione della fede. Non è giusto che siano condannati da te quanti seppero mantenere la retta dottrina, perché giustamente ti si sono opposti! Di questo tu hai fatto menzione nella lettera scritta al Santissimo e nostro collega nell’episcopato Celestino, vescovo della grande Roma. Non sarà sufficiente alla tua Pietà confessare insieme a noi semplicemente il Simbolo della fede, che un tempo è stato esposto nello Spirito santo dal santo e grande concilio, riunito a suo tempo a Nicea. Anche se confessi le parole con la voce, non lo interpreti e non lo intendi rettamente, bensì in modo distorto. Confessa piuttosto per iscritto e sotto giuramento che anatematizzi le tue scellerate ed empie dottrine, e che al loro posto penserai e insegnerai le stesse dottrine di noi tutti, i vescovi d’Occidente e d’Oriente, maestri e capi delle comunità. Sappi che il santo sinodo di Roma e noi tutti conveniamo con le lettere inviate alla tua Pietà dalla chiesa di Alessandria, in quanto le stimiamo ortodosse e prive di errori. Abbiamo inoltre aggiunto a questa nostra lettera ciò che è necessario tu pensi e insegni e ciò da cui devi dissociarti. La fede della Chiesa cattolica e apostolica, in cui tutti i vescovi ortodossi d’Occidente e d’Oriente convengono è questa:

3. Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili. E in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, generato Unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre; Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato non fatto, consostanziale al Padre; attraverso il quale tutto è stato fatto, in cielo e sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli è disceso, si è incarnato ed è divenuto uomo, ha patito ed è risuscitato nel terzo giorno; è asceso al cielo; verrà a giudicare i vivi e i morti; e crediamo nello Spirito santo. Coloro che dicono: «Vi fu un tempo in cui egli non esisteva»; o «Prima di essere generato non esisteva»; o «Egli è stato generato dal nulla o da altra ipostasi o sostanza»; oppure «Il Figlio di Dio è mutabile e alterabile», tutti costoro anatematizza la Chiesa cattolica e apostolica.

Noi seguiamo esattamente la confessione espressa dai santi Padri, perché in essi parlava lo Spirito santo, e procediamo secondo l’intenzione del loro pensiero, come per una strada regia; in forza di ciò affermiamo che l’Unigenito Verbo di Dio, quello che è nato dalla stessa sostanza del Padre, il Dio vero da Dio vero, la Luce da Luce, colui attraverso il quale tutto fu fatto, in cielo e sulla terra, colui che è disceso per la nostra salvezza e che si è sottomesso all’umiliazione, proprio lui, affermiamo, si è incarnato e si è fatto uomo; cioè, avendo preso una carne dalla santa Vergine e avendola resa sua propria fin dall’utero, si sottomise alla nostra nascita e venne fuori uomo da una donna. Non perse ciò che era, ma anche assumendo la carne e il sangue, anche così, rimase ciò che era, cioè Dio per natura e verità. Non affermiamo che la carne sia passata nella natura divina né che l’ineffabile natura del Dio Verbo sia passata nella natura della carne: egli è immutabile e, poiché resta sempre il medesimo, come dicono le Scritture, è interamente inalterabile. Una volta divenuto visibile, pur essendo neonato, in fasce e sul seno della Vergine che l’aveva partorito, in quanto Dio riempiva ogni creatura e regnava insieme al Genitore. Infatti la divinità è priva di misura e grandezza, e non ammette limiti.

4. Poiché confessiamo che il Verbo è unito alla carne secondo l’ipostasi, adoriamo un solo Figlio e Signore, Gesù Cristo. Non separiamo in parti e non dividiamo l’uomo e il Dio, come se si fossero uniti insieme l’un l’altro per unità di dignità e autorità (dire questo è puro non senso e nient’altro). Neppure applichiamo propriamente il nome «Cristo» al Verbo da Dio e similmente chiamiamo «Cristo» il nato da donna; ma riconosciamo che Cristo è uno solo, il Verbo da Dio Padre con la sua propria carne. Sebbene infatti egli dia lo Spirito ai giusti senza misura (Gv 3, 34), come dice il beato evangelista Giovanni, egli è stato unto con noi in maniera umana. Non affermiamo però che il Verbo da Dio abbia abitato nel figlio generato dalla santa Vergine, come in un uomo comune, affinché non si pensi che Cristo sia un uomo «teoforo». Sebbene il Verbo abitò tra noi (Gv 1,14), affermiamo anche che in Cristo risiede, in modo corporeo, tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). Riconosciamo dunque che si è fatto carne e non dividiamo l’inabitazione, come se la maniera in cui la realizzò in sé stesso fosse stata eguale al tipo di inabitazione che diciamo ci sia nei santi. Ma, essendo uno per natura e non essendo mutato in carne, realizzò questa inabitazione come – si potrebbe dire – l’anima dell’uomo entra in relazione con il proprio corpo.

5. Perciò Cristo, Figlio e Signore, è uno solo. Non è un uomo che sia in rapporto con Dio per semplice congiunzione, mentre l’unità consisterebbe nella dignità e nella sovranità. L’eguaglianza di onore non unisce le nature; infatti Pietro e Giovanni, eguali ambedue per onore, in quanto Apostoli e santi discepoli, non sono affatto uno, ma due. Non riteniamo che il modo della congiunzione avvenga per avvicinamento (non sarebbe infatti sufficiente per un’unione naturale), né per un’unione accidentale, come avviene per noi, i quali, secondo le Scritture, siamo in connessione con il Signore e con lui siamo un solo spirito. Anzi noi rifiutiamo il termine «congiunzione», in quanto inadatto a significare l’unione. E neppure chiamiamo il Verbo da Dio Padre, Dio e Padrone di Cristo, per non tagliare manifestamente in due l’unico Cristo, Figlio e Signore, e così essere imputabili di bestemmia, avendolo reso Dio e Padrone di sé stesso. Il Verbo di Dio, come già abbiamo ribadito, essendo unito alla carne secondo l’ipostasi, è Dio dell’universo e comanda su tutto: non è servo o padrone di sé stesso. Pensare e affermare ciò è sciocco e blasfemo. Infatti egli chiama il Padre suo «Dio», sebbene per natura sia Dio e generato dalla sua stessa sostanza. Non ignoriamo, però, che, pur restando Dio, è divenuto uomo; e che per la legge inerente alla natura umana è sottoposto a Dio. In che modo allora sarebbe divenuto Dio e Padrone di sé stesso? Affermiamo che, come uomo e per quel che riguarda il modo dell’abbassamento, egli è sottoposto a

Dio come noi. Alla stessa maniera è divenuto sotto la legge, sebbene, in quanto Dio, egli stesso sia il promulgatore della legge e il legislatore.

6. Noi rifiutiamo di affermare su Cristo: «Venero colui che è rivestito, a motivo di colui che lo riveste; adoro colui che è visibile, a motivo di colui che è invisibile». È poi cosa terribile aggiungere: «Colui che è

assunto è chiamato Dio insieme con chi assume». Chi dice così divide in due Cristo e propriamente pone in modo separato un uomo e similmente un Dio. Vanifica chiaramente l’unione, secondo la quale l’uno non è adorato insieme con l’altro, ed è chiamato insieme a lui «Dio»; ma affermiamo che uno solo è Cristo Gesù, Figlio Unigenito, onorato con un’unica adorazione, insieme alla sua propria carne. Confessiamo inoltre che egli, il Figlio generato da Dio Padre e Dio Unigenito, sebbene per sua propria natura fosse impassibile, patì con la carne (1 Pt 4,1) per noi, secondo le Scritture, ed era nel corpo crocifisso, sostenendo le sofferenze della sua propria carne, sebbene fosse impassibile. Per grazia di Dio, gustò la morte per tutti (Eb 2,9),

offrendole il proprio corpo, sebbene per natura egli esista come Vita e sia la Risurrezione (Gv 11,25). Con indicibile potere, al fine di soffrire la morte con la sua propria carne, divenne il primogenito dei morti (Col 1,18)e la primizia dei dormienti (1 Cor 15,20), e indicò alla natura umana la strada per il ritorno all’incorruttibilità. Per grazia di Dio, come or ora abbiamo detto, gustò la morte per tutti e, ritornando alla vita dopo tre giorni, spogliò l’Ade. Perciò si può dire che la risurrezione dei morti avvenne attraverso un uomo, ma intendiamo che l’uomo è il Verbo nato da Dio e che per mezzo suo ha sciolto il potere della morte. Egli verrà a tempo opportuno come un unico Figlio e Signore, nella gloria del Padre a giudicare il mondo nella giustizia (At 17,31), secondo la Scrittura.

7. Necessariamente dobbiamo aggiungere anche questo. Noi proclamiamo la morte secondo la carne dell’Unigenito Figlio di Dio, Gesù Cristo, e confessiamo la sua risurrezione dai morti e l’ascesa al cielo, quando nelle chiese celebriamo l’incruento sacrificio e così ci appressiamo alle mistiche benedizioni e siamo santificati, divenendo partecipi della santa carne e del prezioso sangue di Cristo, Salvatore di noi tutti. Non riceviamo una carne comune (non sia mai!) né quella di un uomo santificato e unito al Verbo secondo l’unione della dignità oppure del possesso di una divina inabitazione, ma la carne veramente vivificante e interamente propria del Verbo. In quanto Dio egli è per natura Vita, perché è divenuto uno con la sua propria carne, rendendola vivificante. Cosicché ci ha potuto dire: Amen vi dico, se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue (Gv 6,53). Dobbiamo allora considerare che essa non è quella di un uomo come noi (come può per la sua stessa natura la carne di un uomo essere vivificante?), ma quella veramente fatta propria da colui che per noi è divenuto e si è fatto Figlio dell’uomo.

8. In forza delle espressioni del nostro Salvatore, presenti nei vangeli, noi non lo dividiamo in due ipostasi, né in due prosopa.[1] L’unico e solo Cristo non è infatti duplice; e anche se è pensato di due diversi elementi, è convenuto in una inseparabile unità. Sebbene sia considerato anche un uomo, dotato di anima e corpo, non è duplice, ma uno da due. Allora, pensando rettamente, dobbiamo riferire a uno solo le caratteristiche sia umane sia divine.

Quando, parlando come Dio, dice di sé stesso: Chi ha visto me, ha visto il Padre (Gv 14,9), e Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10,30), comprendiamo la sua divina e ineffabile natura, secondo la quale è una cosa sola con suo Padre, per l’identica sostanza, dato che possiede l’immagine e lo splendore della sua gloria (Eb 1,3).

Quando, non disprezzando i limiti dell’umana natura, disse ai Giudei: Ora cercate di uccidere me, un uomo, io che vi ho detto la verità (Gv 8,40), egualmente riconosciamo che il Dio Verbo è in eguaglianza e

somiglianza del Padre, anche nei limiti della sua natura umana. Se bisogna credere che, essendo Dio per natura, è divenuto carne, cioè un uomo dotato di anima razionale, che scusa può avere chi si vergogna delle parole che egli ha espresse in modo appropriato alla natura umana? Se egli avesse respinto le caratteristiche proprie di un uomo, chi lo avrebbe potuto costringere a divenire uomo come noi? Poiché si è posto per noi in una volontaria umiliazione, con

quale scusa possiamo rifiutare le caratteristiche proprie dell’umiliazione? Perciò tutte le espressioni presenti nei Vangeli devono essere applicate all’unica persona, all’unica ipostasi incarnata del Verbo. Secondo le Scritture uno solo è il Signore Gesù

Cristo.

9. Inoltre, sebbene è chiamato Apostolo e sommo Sacerdote della nostra confessione (Eb 3,1), in quanto offre a Dio e Padre la confessione di fede rivolta da noi a lui e, attraverso lui, a Dio e Padre, oltre che allo Spirito santo, tuttavia affermiamo che egli è per natura il Figlio Unigenito da Dio. Non ascriviamo allora a un uomo diverso da lui il titolo e la realtà del sacerdozio: divenne il mediatore tra Dio e gli uomini (1 Tm 2,5), il conciliatore (At 7,26), quando offrì sé stesso in odore di soavità a Dio e Padre. Per questo dice: Non hai voluto sacrificio e offerta, ma mi hai preparato un corpo. Non hai gradito olocausti e vittime per il peccato. Allora dissi: ecco, vengo. Su di me è scritto nel rotolo del libro di fare, Dio, la tua volontà (Eb 10,5ss). Per noi e non per sé stesso ha offerto in odore di soavità il proprio corpo. Di quale offerta o sacrificio avrebbe avuto bisogno per sé stesso, colui che esisteva, come Dio, al di là di ogni peccato? Se tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Rm 3,23), è perché siamo divenuti soggetti alla caduta e la natura dell’uomo è stata infettata dal peccato; egli però non è in questa condizione e per questo siamo vinti dalla sua gloria. Come si può dubitare che il vero Agnello si è immolato per noi a causa nostra? Affermare allora che egli si è immolato per sé stesso e per noi, significherebbe non potere assolutamente evitare l’accusa di empietà. In nessun modo egli ha errato ne ha commesso peccato. Di quale offerta allora avrebbe potuto avere bisogno, dato che non esisteva peccato, a motivo del quale giustamente compiere l’offerta?

10. Quando dice dello Spirito: Egli mi glorificherà (Gv 16,14), noi, pensando rettamente, non diciamo che l’unico Cristo e Figlio, siccome avrebbe avuto bisogno della gloria di un altro, ha acquisito la gloria dallo Spirito santo. Il suo Spirito non è migliore né superiore a lui. Ma poiché, per dimostrare la sua divinità, ha fatto uso del suo proprio Spirito per compiere i miracoli, si afferma che è stato glorificato da lui. Sarebbe come se uno dicesse nei riguardi della propria forza o di una sua conoscenza: «essa mi glorifica». Sebbene lo Spirito sia in una sua propria ipostasi ed è considerato per sé (è Spirito e non Figlio), non è però altro da lui. È chiamato Spirito di verità (Gv 16,13) e Cristo è la Verità (Gv 14,6); inoltre procede da Cristo, come anche da Dio e Padre. Perciò lo Spirito compì miracoli per mano dei santi Apostoli e glorificò il nostro Signore Gesù Cristo dopo la sua ascensione al cielo. È oggetto di fede che Cristo è Dio per natura e che opera attraverso il suo Spirito. Per questo diceva: Egli riceverà dal mio e ve lo farà conoscere (Gv 16,14).  Non stiamo affermando affatto che lo Spirito è sapienza e potenza per partecipazione: egli è assolutamente perfetto e colmo di ogni bene. Poiché egli è Spirito della Potenza e della Sapienza del Padre – cioè del Figlio –, egli è in tutto e per tutto Potenza e Sapienza.

11. Poiché poi la santa Vergine ha partorito carnalmente Dio unito alla carne secondo l’ipostasi, per questo affermiamo che essa è Madre di Dio; non perché la natura del Verbo avrebbe preso inizio dalla carne – egli infatti era all’inizio e il Verbo era Dio e il Verbo era presso Dio (Gv 1,1)ed è il fattore di ogni cosa, coeterno al Padre e artefice di tutto – ma, come abbiamo detto, perché, unita a sé secondo l’ipostasi la natura umana, tollerò una nascita carnale dal seno di lei. Questo non perché aveva bisogno per sua propria natura di una nascita temporale e alla fine dei tempi, ma per benedire l’inizio della nostra esistenza. Dal momento che una donna lo ha partorito, unito alla carne fece cessare la maledizione, che incombeva su tutto il genere umano e che portava alla morte i nostri corpi mondani. Grazie a lui sarebbe stato reso vano il partorirai i figli nel dolore (Gn 3,16), e si sarebbe manifestata vera la parola del profeta: La morte è divenuta forte e Dio asciugherà le lacrime da ogni volto (Is 25,8). Per questo motivo diciamo che egli, per l’economia ha benedetto le nozze e, chiamato, si recò a Cana di Galilea insieme ai santi Apostoli.

12. Così abbiamo appreso a pensare dai santi Apostoli ed Evangelisti, da tutta la Scrittura ispirata da Dio e dalla vera confessione dei beati Padri. Bisogna che la tua Pietà sottoscriva tutto questo e dia il tuo assenso senza inganno.

Quel che la tua Pietà deve necessariamente anatematizzare è stato posto qui di seguito a questa nostra lettera.

– Se uno non confessa che l’Emmanuele è veramente Dio e per questo motivo la santa Vergine è Madre di Dio (essa ha infatti generato secondo la carne il Verbo da Dio divenuto carne), sia anatema.

– Se uno non confessa che il Verbo da Dio Padre è unito alla carne secondo l’ipostasi e che uno solo è Cristo con la sua propria carne, cioè che lo stesso è insieme Dio e uomo, sia anatema.

– Se uno divide dopo l’unione le ipostasi dell’unico Cristo, unendole soltanto per congiunzione secondo dignità, sovranità e potenza, e non per un legame secondo unione naturale, sia anatema.

– Se uno divide in due prosopa o ipostasi le espressioni che negli scritti evangelici e apostolici sono dette dai santi su Cristo o da lui sono riferite a sé stesso, e le applica alcune all’uomo, considerato

indipendentemente dal Verbo da Dio, e altre, come degne di Dio, al solo Verbo da Dio, sia anatema.

– Se uno osa dire che Cristo era un uomo teoforo e non piuttosto che è veramente Dio, in quanto Figlio unico e per natura, poiché il Verbo si è fatto carne e ha partecipato in modo simile a noi del sangue e della carne, sia anatema.

– Se uno dice che il Verbo da Dio Padre è Dio o Signore di Cristo e non confessa piuttosto che il medesimo è insieme Dio e uomo, poiché il Verbo, secondo le Scritture, si è fatto carne, sia anatema.

– Se uno dice che Gesù, come uomo, sia stato attivato dal Dio Verbo e che la gloria dell’Unigenito lo ha circondato, come se fosse un altro, esistente oltre a lui, sia anatema.

– Se uno osa dire che l’uomo assunto deve essere adorato insieme al Verbo, insieme glorificato e insieme chiamato Dio, come se fosse uno insieme con l’altro (il «con» impone sempre di pensare a qualcosa di aggiunto) e non onora piuttosto con una sola adorazione l’Emmanuele e a lui attribuisce un’unica glorificazione, in quanto il Verbo si è fatto carne, sia anatema.

– Se uno afferma che l’unico Signore Gesù Cristo è stato glorificato dallo Spirito, come se, attraverso lui, si fosse servito di una potenza estranea e abbia ricevuto da lui il potere di operare contro gli spiriti immondi e di realizzare i miracoli a favore degli uomini, e non afferma piuttosto che lo Spirito, per mezzo del quale ha operato i miracoli, è propriamente suo, sia anatema.

– La divina Scrittura dice che Cristo è divenuto sommo Sacerdote e Apostolo della nostra confessione e ha offerto sé stesso per noi a Dio e Padre in odore di soavità. Quindi se uno afferma che non lui, il Verbo da Dio, è divenuto sommo Sacerdote e nostro Apostolo, perché si è fatto carne e uomo come noi, ma come se fosse un altro diverso da questo, propriamente un uomo nato da donna; oppure se uno dice che egli ha presentato l’offerta anche per sé stesso e non piuttosto soltanto per noi – non necessitava di offerta, infatti, colui che non conosceva peccato –, sia anatema.

– Se uno non confessa che la carne del Signore è vivificante e che è propria dello stesso Verbo da Dio Padre, ma come se fosse di un altro diverso da questo, unito a lui per dignità o per avere soltanto ricevuto la divina inabitazione, e non confessa piuttosto – come abbiamo detto – che la carne è vivificante, perché è divenuta propria del Verbo, che ha la forza di vivificare ogni cosa, sia anatema.

– Se uno non confessa che il Verbo di Dio ha patito con la carne, è stato crocifisso con la carne, ha gustato la morte con la carne ed è divenuto primogenito dai morti, perché, in quanto Dio, è Vita e Vivificante, sia anatema.

FORMULA DI UNIONE (433)[2]

Confessiamo dunque il Signore nostro Gesù Cristo, il Figlio di Dio, l’Unigenito, Dio perfetto e uomo perfetto per anima razionale e corpo; egli è nato dal Padre prima dei tempi secondo la divinità; negli ultimi giorni però egli stesso, per noi e per la nostra salvezza, è nato dalla Vergine Maria, secondo l’umanità; egli ancora è consostanziale (2) al Padre secondo la divinità e consostanziale a noi secondo l’umanità: si è infatti realizzata l’unione delle nature. Confessiamo allora un solo Cristo, un solo Figlio e un solo Signore.

Secondo questo concetto di non confusa unione, confessiamo la santa Vergine «Madre di Dio», perché il Dio Verbo si è incarnato e si è fatto uomo e per questo concepimento ha unito a sé il Tempio preso da lei. Circa le espressioni che gli Evangelisti e gli Apostoli riferiscono al Signore, sappiamo che quegli uomini, che parlavano di Dio, alcune le hanno considerate in comune, riferendole all’unico

prosopon, altre invece le hanno divise, riferendole alle due nature. Ci hanno perciò trasmesso quelle degne di Dio secondo la divinità di Cristo, e quelle umili, secondo la sua umanità.


[1] Il passo mostra in tutta evidenza come Cirillo assimili hypostasis a prosopon. Invece Nestorio e i vescovi antiocheni si erano formati alla cristologia di Teodoro di Mopsuestia, per il quale «la parola (hypostasis) non è sinonimo di prosopon» (cf. Galtier, L’«unio secundum hypostasim»…, cit., p. 381 e nota 6).

[2] Questa formula di fede, stipulata nel 433, fu il frutto di una non semplice mediazione, guidata da Acacio di Berea e da Paolo di Emesa. Mediazione tra le tradizioni antiochena e alessandrina, tra Giovanni di Antiochia e Cirillo di Alessandria. Come ogni mediazione il testo lasciò non pienamente soddisfatte tutte le parti e quindi la diatriba suscitata da Nestorio covò a lungo sotto la cenere.