1

Calcedonia e Lione: due concili, due diverse visioni della Chiesa

articolo originale in inglese

Di Robert Spencer

Una delle affermazioni che separa il cattolicesimo romano dalla Chiesa ortodossa è la tesi cattolica romana secondo cui ci sono stati ventuno concili ecumenici, non solo i sette, otto (Foziano) o nove (Concili di Palamas) che gli ortodossi riconoscono. Poiché i concili ecumenici sono il mezzo principale mediante il quale lo Spirito Santo guida la Chiesa nella verità, come promesso dal Signore (Giovanni 16,13), gli apologeti cattolici romani a volte citano l’esistenza stessa dei concili cattolici romani come prova che nella chiesa latina, lo Spirito ha continuato a guidare la Chiesa attraverso queste assemblee episcopali, mentre affermano che la mancanza di concili ecumenici da parte dell’Ortodossia per un millennio è la prova della sua ossificazione e incapacità di affrontare le questioni contemporanee. Queste argomentazioni, tuttavia, si basano sul presupposto che i concili ecumenici post-scisma del cattolicesimo romano siano sostanzialmente lo stesso tipo di assemblee dei sette concili pre-scisma. Eppure ci sono ragioni considerevoli per credere che non lo siano, come mostra chiaramente il confronto tra il quarto concilio ecumenico, il Concilio di Calcedonia (451), con quello che i cattolici romani ritengono essere il quattordicesimo concilio ecumenico, il Secondo Concilio di Lione (1274).

I concili ecumenici della Chiesa ortodossa furono convocati per risolvere questioni controverse che agitavano la Chiesa. La risoluzione di tali questioni avveniva negli stessi concili, poiché i vescovi si dedicavano alla preghiera, allo studio degli scritti dei Padri e alla discussione teologica. Questi concili non furono convocati dai papi e nessuno di essi ebbe luogo a Roma o nei suoi dintorni. Sembra che il papa dell’epoca non fosse nemmeno a conoscenza del secondo concilio ecumenico (che si tenne a Costantinopoli nel 381), e nessuno dei suoi rappresentanti fosse presente. Gli atti del quarto concilio ecumenico dimostrano che a quei tempi nessuno, compreso lo stesso Papa di Roma, pensava che il Papa fosse “in possesso di quell’infallibilità di cui il divino Redentore ha voluto che la Sua Chiesa fosse dotata per definire la dottrina in materia di fede o di morale; e che pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono irreformabili di per sé, e non dal consenso della Chiesa” [1], come disse il ventesimo concilio ecumenico dei Cattolici Romani, il Vaticano I.

Prima del Concilio di Calcedonia, papa Leone scrisse un documento, noto come il Tomo, esponendo la posizione ortodossa sulla questione della natura di Cristo: che Egli ha due nature, una divina e una umana, in una Persona divina. Cecropius, Vescovo di Sebastopoli, ha detto al Concilio che “il santissimo Arcivescovo di Roma ha dato una formula con la quale siamo d’accordo, e tutti abbiamo sottoscritto la sua lettera” [2]. La sua affermazione presuppone la possibilità che i Padri, o qualche gruppo di essi, non fossero d’accordo.

Anatolio, Patriarca di Costantinopoli, dichiarò: “La lettera del santissimo e religioso Arcivescovo Leone concorda con il credo dei nostri 318 Padri a Nicea, e dei 150 che poi si riunirono a Costantinopoli, e confermarono la stessa fede, e con il procedimento ad Efeso sotto il beatissimo Cirillo, che è tra i santi, dal Concilio ecumenico e santo, quando condannò Nestorio. Lo accetto quindi, e lo sottoscrivo volentieri” [3]. Queste parole mostrano che Anatolio studiò attentamente il Tomo prima di dichiararlo ortodosso, invece di accoglierlo semplicemente come il giudizio finale di colui che era l’arbitro finale di ciò che costituiva l’ortodossia.

Perché i Padri presumevano che la loro approvazione fosse assolutamente necessaria? Perché avevano bisogno di affermare che la lettera di Leone era ortodossa? Chiaramente, non credevano che la dichiarazione del papa fosse infallibile come una cosa ovvia e che di conseguenza dovessero semplicemente accettarla. Ottocento anni dopo, il Secondo Concilio di Lione si svolse in un’atmosfera teologica (e politica) molto diversa. L’imperatore romano Michele VIII Paleologo era riuscito a restaurare l’impero a Costantinopoli dopo 57 anni di occupazione crociata. I crociati, tuttavia, e altri ancora minacciavano profondamente l’impero, e Michele credeva che una riunione della Chiesa ortodossa con la Sede di Roma avrebbe disinnescato quelle minacce, poiché i crociati non avrebbero esitato ad attaccare gli “scismatici” ma erano meno propensi a muoversi contro quelli che vedevano come fratelli nella fede.

L’imperatore di conseguenza scrisse a papa Clemente IV, sottolineando che le lotte intestine tra gruppi che erano entrambi cristiani non facevano che rafforzare i nemici del cristianesimo. Non avendo il potere o l’autorità, dato il Grande Scisma, che i suoi predecessori avevano di convocare lui stesso un concilio ecumenico, l’imperatore chiese al papa di convocare tale concilio da tenersi in una città imperiale romana, che molto probabilmente sarebbe stata la stessa Costantinopoli, al fine di influenzare la riunione.

Papa Clemente, tuttavia, rispose con la bruschezza imperiosa di un superiore che si rivolge a un servo recalcitrante, chiedendo che Michele e tutto il popolo dell’impero accettassero senza alcuna discussione il primato del papa, il filioque e il pane azzimo nella Santa Eucaristia. . Clemente scrisse:

A Paleologo, illustre imperatore dei Greci… Sebbene tu cerchi di riunire un concilio nella tua terra, non possiamo accettare di convocare un tale concilio per la discussione o la definizione della fede. Non perché temiamo l’apparizione di qualche persona particolare o che i Greci possano avere la precedenza sulla sacra chiesa romana, ma perché sarebbe assolutamente improprio – anzi non può essere permesso, poiché la purezza della fede non può essere messa in dubbio… [ 4]

Questo era un argomento strano, poiché i concili ecumenici si erano tenuti durante tutto il primo millennio della Chiesa senza che nessuno temesse che le discussioni di quei concili avrebbero messo in dubbio la purezza della fede. Ma la Chiesa romana si era evoluta. Il papa di Roma era ora la quintessenza del monarca assoluto. Clemente non aveva in mente nulla che somigliasse alle discussioni aperte e talvolta accese dei concili passati; chiedeva invece semplicemente la sottomissione dei “greci”: “Preparati”, disse a Michele, “affinché all’arrivo dei nostri nunzi tu, il tuo clero e il popolo possiate accettare umilmente e professare devotamente la verità della fede in affinché con l’aiuto di Dio sia facilitato il progresso[5].

Una volta che quella sottomissione era stata influenzata, allora Michele poteva tenere il suo consiglio: “Dopo che voi, il vostro clero e il popolo avete accettato la vera fede…, [poi] potete chiedere la convocazione di un concilio da parte di questa Sede nel luogo più conveniente a questa Sede…, un concilio da rafforzare con un trattato perpetuo tra Latini e Greci” [6]. Clemente disse a Michele che la riluttanza del suo popolo ad accettare una tale unione non era una scusa, e “se non puoi costringerli, evitali come scismatici” [7].

Queste discussioni furono interrotte dalla morte del papa; Clemente morì il 28 novembre 1268. Tuttavia, la minaccia all’impero sopravvisse e Michele riprese i colloqui di riunione con il successore di Clemente, Gregorio X, dopo un interregno di tre anni. Il concilio di riunione ebbe finalmente luogo nel 1274, non a Costantinopoli o ovunque all’interno dell’Impero Romano, come avevano fatto i primi concili, ma nella città francese di Lione. Non c’è stata discussione sui problemi in questione; i rappresentanti ortodossi arrivarono portando lettere che accettavano il filioque e la giurisdizione universale del papa di Roma. Papa Gregorio accolse con favore il “ritorno dei Greci all’obbedienza della Chiesa romana” [8]. Il Secondo Concilio di Lione si svolse così in un ambiente ecclesiastico radicalmente diverso da quello dei tempi in cui avevano la precedenza i concili ecumenici e gli scritti patristici. Il papato era ormai una monarchia assoluta e tutto ciò che era richiesto a tutti gli altri era la sottomissione.

La riunione di Lione fallì, nonostante la durezza di Michele nel forzare la sua accettazione. E il fatto che gli ortodossi fossero obbligati semplicemente ad accettare, senza esame o discussione, le dottrine cattoliche romane indica che il Secondo Concilio di Lione non era lo stesso tipo di assemblea del Concilio di Calcedonia. Calcedonia fu convocata proprio per “discussione e definizione della fede”, che è proprio ciò che Papa Clemente IV aveva escluso prima che il suo successore convocasse il Secondo Concilio di Lione.

La differenza tra questi due concili mostra un aspetto di come la Chiesa romana si era evoluta nella sua comprensione di se stessa tra il quinto secolo e il tredicesimo. Mentre il vescovo di Roma aveva il primato [d’onore] nella Chiesa al tempo di Calcedonia, al tempo di Lione rivendicava molto più del primato [d’onore], ma un’autorità assoluta e indiscutibile. Il Concilio di Calcedonia dimostra che i Padri della Chiesa non prevedevano né riconoscevano una monarchia papale assoluta e che lo sviluppo di una tale istituzione era un’innovazione, contraria alla fede apostolica.

Riferimenti

[1]. Concilio Vaticano I, “Decreta Dogmatica Concilli Vaticani De Fide Catholica Et De Ecclesia Christi”, in The Creeds of Christendom: With A History and Critical Notes, Volume II , ed. Philip Schaff (New York: Harper & Brothers, 1877), 270-271.

[2]. Vescovo Cecropio di Sebastopoli, “Il Concilio di Calcedonia”, in Documenti che illustrano l’autorità papale, ed. E. Giles (Londra: SPCK, 1952), 303.

[3]. Patriarca Anatolio di Costantinopoli, “Introduzione generale”, in Nicene & Post-Nicene Fathers, Volume XIV , ed. Philip Schaff (Peabody: Hendrickson Publications, 1999), 245.

[4]. Alexander Alexakis, “Contatti ufficiali e non ufficiali tra Roma e Costantinopoli prima del Secondo Concilio di Lione (1274)”, in Annuario Historiae Conciliorum, n. 39, 1-2, (2007): 99-124, doi: https://doi.org/10.30965/25890433-0390102005

[5]. Deno John Geanokoplos, Emperor Michael Paleologo and the West, 1258-1282: A Study in Byzantine-Latin Relations (Whitefish: Literary Licensing, LLC, 2011), 172.

[6]. Ivi, 174.

[7]. Ivi, 174.

[8]. Ivi, 219.




p. ROMANIDES: Simeone il Nuovo teologo non ha mai ricevuto una laurea teologica

La seguente storia è ricordata da un ex studente del p. Giovanni Romanides

NON SEI UN TEOLOGO CON LICENZA? *

Circa cinquant’anni fa, quando ero studente presso l’accademia teologica, il nostro professore di dogmatica, padre Giovanni Romanides, ci raccontava una storia dei suoi giorni da studente alla scuola teologica dell’Università di Atene. Per ottenere il dottorato all’Università, padre Giovanni, un sacerdote appena ordinato a quel tempo [gli anni ’50], dovette difendere la sua tesi davanti ad una giuria di professori – teologi. L’argomento della sua tesi di laurea era “Il peccato originale“.

Mentre varie domande sulla sua tesi di dottorato venivano lanciate contro di lui dai professori [i quali avevano ricevuto le loro credenziali presso le università cattoliche o protestanti in Europa], padre Giovanni rispose al meglio delle sue notevoli capacità. Alla fine, il capo del dipartimento teologico, il dottor Panayiotes Trembelas, prese di mira padre Giovanni, che, come è consuetudine in questi interrogatori, era in piedi davanti al gruppo di professori seduti.

“Hai molte citazioni nella tua tesi dagli scritti di Simeone il Nuovo teologo”, disse il Dr.Trembelas.

“È corretto, signore professore”, rispose padre Giovanni, con la giusta deferenza.

“È necessario eliminarli”, ha continuato il dottor Trembelas. “Simeone il Nuovo teologo non può essere citato come fonte del tuo lavoro, perché non ha mai ricevuto una laurea teologica.”

Senza batter ciglio all’incredibile osservazione di Trembelas, padre Giovanni rispose con calma: “Molto bene, come dite voi, signor professore. Vorreste che cancellassi anche tutti i miei riferimenti a Matteo, Marco, Luca e Giovanni Evangelista, dal momento che anche loro non hanno mai ricevuto una laurea teologica? Anche loro non erano teologi autorizzati.”

Si sentì una risata soffocata proveniente dal gruppo di illustri professori.

* (nella foto) Padre Giovanni Romanides (sacerdote ortodosso-greco – †) di beata memoria.




Cirillo di Alessandria: TERZA LETTERA A NESTORIO

TERZA LETTERA A NESTORIO

San Cirillo, Patriarca di Alessandria (370–444)

Cirillo e il sinodo convocato ad Alessandria d’Egitto al Religiosissimo e Piissimo collega nel ministero, Nestorio, salute nel Signore.

1. Poiché il nostro Salvatore chiaramente dice: Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me; e chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me, che cosa possiamo fare noi, che siamo richiesti dalla tua Pietà di amarti più di Cristo, Salvatore di noi tutti? Chi ci potrà difendere nel giorno del giudizio? Quale scusa troveremo all’essere stati per così lungo tempo in silenzio, di fronte alle bestemmie da te pronunciate su di lui? Se tu danneggiassi soltanto te stesso pensando e insegnando dottrine siffatte, minore sarebbe la preoccupazione. Ma tu hai scandalizzato tutta la Chiesa e hai posto il lievito di una nuova e bizzarra eresia in ogni gente, non solo tra quelli che stanno lì, a Costantinopoli, ma anche in ogni altro luogo (infatti i testi delle tue omelie circolano ampiamente). Quale discorso potrà allora giustificare il nostro silenzio? Come si può non essere memori di quel che Cristo dice: Non pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra, ma la spada. Son venuto a dividere l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre? Quando la fede è offesa, vada pure alla malora la riverenza verso i parenti, come qualcosa di stantio e pericoloso; passi in secondo piano anche la norma che ci obbliga all’affetto verso i figli e i fratelli, e sia preferibile per le persone pie la morte alla vita, affinché trovino una migliore risurrezione, come sta scritto. 2. Ecco, dunque, noi, insieme al santo sinodo riunito nella grande Roma, sotto la presidenza del Santissimo e Reverendissimo fratello e collega nel ministero, il vescovo Celestino, con questa terza lettera ti avvisiamo e ti intimiamo di allontanarti da dottrine tanto stolte e perverse, come sono  quelle che tu pensi e insegni, e di accettare la retta fede, data fin dall’inizio alle chiese attraverso i santi Apostoli ed Evangelisti, i quali sono stati testimoni oculari e ministri della parola. E se la tua Pietà non si atterrà alla data stabilita nella lettera del sopra menzionato Santissimo e Reverendissimo fratello e nostro collega nel ministero, il vescovo di Roma, Celestino, sappi che non avrai alcuna parte con noi né luogo o parola tra i sacerdoti di Dio e i vescovi. Non è infatti possibile vedere tutto intorno le chiese turbate, le comunità scandalizzate, la retta fede rifiutata, il gregge disperso a causa tua, che eri stato dato a sua salvaguardia, se mai avessi seguito, insieme a noi, la retta dottrina, procedendo sulle orme della pietà dei santi Padri. Noi tutti siamo in comunione con tutti, laici e chierici, che sono stati scomunicati o deposti dalla tua Pietà, a cagione della fede. Non è giusto che siano condannati da te quanti seppero mantenere la retta dottrina, perché giustamente ti si sono opposti! Di questo tu hai fatto menzione nella lettera scritta al Santissimo e nostro collega nell’episcopato Celestino, vescovo della grande Roma. Non sarà sufficiente alla tua Pietà confessare insieme a noi semplicemente il Simbolo della fede, che un tempo è stato esposto nello Spirito santo dal santo e grande concilio, riunito a suo tempo a Nicea. Anche se confessi le parole con la voce, non lo interpreti e non lo intendi rettamente, bensì in modo distorto. Confessa piuttosto per iscritto e sotto giuramento che anatematizzi le tue scellerate ed empie dottrine, e che al loro posto penserai e insegnerai le stesse dottrine di noi tutti, i vescovi d’Occidente e d’Oriente, maestri e capi delle comunità. Sappi che il santo sinodo di Roma e noi tutti conveniamo con le lettere inviate alla tua Pietà dalla chiesa di Alessandria, in quanto le stimiamo ortodosse e prive di errori. Abbiamo inoltre aggiunto a questa nostra lettera ciò che è necessario tu pensi e insegni e ciò da cui devi dissociarti. La fede della Chiesa cattolica e apostolica, in cui tutti i vescovi ortodossi d’Occidente e d’Oriente convengono è questa:

3. Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili. E in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, generato Unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre; Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato non fatto, consostanziale al Padre; attraverso il quale tutto è stato fatto, in cielo e sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli è disceso, si è incarnato ed è divenuto uomo, ha patito ed è risuscitato nel terzo giorno; è asceso al cielo; verrà a giudicare i vivi e i morti; e crediamo nello Spirito santo. Coloro che dicono: «Vi fu un tempo in cui egli non esisteva»; o «Prima di essere generato non esisteva»; o «Egli è stato generato dal nulla o da altra ipostasi o sostanza»; oppure «Il Figlio di Dio è mutabile e alterabile», tutti costoro anatematizza la Chiesa cattolica e apostolica.

Noi seguiamo esattamente la confessione espressa dai santi Padri, perché in essi parlava lo Spirito santo, e procediamo secondo l’intenzione del loro pensiero, come per una strada regia; in forza di ciò affermiamo che l’Unigenito Verbo di Dio, quello che è nato dalla stessa sostanza del Padre, il Dio vero da Dio vero, la Luce da Luce, colui attraverso il quale tutto fu fatto, in cielo e sulla terra, colui che è disceso per la nostra salvezza e che si è sottomesso all’umiliazione, proprio lui, affermiamo, si è incarnato e si è fatto uomo; cioè, avendo preso una carne dalla santa Vergine e avendola resa sua propria fin dall’utero, si sottomise alla nostra nascita e venne fuori uomo da una donna. Non perse ciò che era, ma anche assumendo la carne e il sangue, anche così, rimase ciò che era, cioè Dio per natura e verità. Non affermiamo che la carne sia passata nella natura divina né che l’ineffabile natura del Dio Verbo sia passata nella natura della carne: egli è immutabile e, poiché resta sempre il medesimo, come dicono le Scritture, è interamente inalterabile. Una volta divenuto visibile, pur essendo neonato, in fasce e sul seno della Vergine che l’aveva partorito, in quanto Dio riempiva ogni creatura e regnava insieme al Genitore. Infatti la divinità è priva di misura e grandezza, e non ammette limiti.

4. Poiché confessiamo che il Verbo è unito alla carne secondo l’ipostasi, adoriamo un solo Figlio e Signore, Gesù Cristo. Non separiamo in parti e non dividiamo l’uomo e il Dio, come se si fossero uniti insieme l’un l’altro per unità di dignità e autorità (dire questo è puro non senso e nient’altro). Neppure applichiamo propriamente il nome «Cristo» al Verbo da Dio e similmente chiamiamo «Cristo» il nato da donna; ma riconosciamo che Cristo è uno solo, il Verbo da Dio Padre con la sua propria carne. Sebbene infatti egli dia lo Spirito ai giusti senza misura (Gv 3, 34), come dice il beato evangelista Giovanni, egli è stato unto con noi in maniera umana. Non affermiamo però che il Verbo da Dio abbia abitato nel figlio generato dalla santa Vergine, come in un uomo comune, affinché non si pensi che Cristo sia un uomo «teoforo». Sebbene il Verbo abitò tra noi (Gv 1,14), affermiamo anche che in Cristo risiede, in modo corporeo, tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). Riconosciamo dunque che si è fatto carne e non dividiamo l’inabitazione, come se la maniera in cui la realizzò in sé stesso fosse stata eguale al tipo di inabitazione che diciamo ci sia nei santi. Ma, essendo uno per natura e non essendo mutato in carne, realizzò questa inabitazione come – si potrebbe dire – l’anima dell’uomo entra in relazione con il proprio corpo.

5. Perciò Cristo, Figlio e Signore, è uno solo. Non è un uomo che sia in rapporto con Dio per semplice congiunzione, mentre l’unità consisterebbe nella dignità e nella sovranità. L’eguaglianza di onore non unisce le nature; infatti Pietro e Giovanni, eguali ambedue per onore, in quanto Apostoli e santi discepoli, non sono affatto uno, ma due. Non riteniamo che il modo della congiunzione avvenga per avvicinamento (non sarebbe infatti sufficiente per un’unione naturale), né per un’unione accidentale, come avviene per noi, i quali, secondo le Scritture, siamo in connessione con il Signore e con lui siamo un solo spirito. Anzi noi rifiutiamo il termine «congiunzione», in quanto inadatto a significare l’unione. E neppure chiamiamo il Verbo da Dio Padre, Dio e Padrone di Cristo, per non tagliare manifestamente in due l’unico Cristo, Figlio e Signore, e così essere imputabili di bestemmia, avendolo reso Dio e Padrone di sé stesso. Il Verbo di Dio, come già abbiamo ribadito, essendo unito alla carne secondo l’ipostasi, è Dio dell’universo e comanda su tutto: non è servo o padrone di sé stesso. Pensare e affermare ciò è sciocco e blasfemo. Infatti egli chiama il Padre suo «Dio», sebbene per natura sia Dio e generato dalla sua stessa sostanza. Non ignoriamo, però, che, pur restando Dio, è divenuto uomo; e che per la legge inerente alla natura umana è sottoposto a Dio. In che modo allora sarebbe divenuto Dio e Padrone di sé stesso? Affermiamo che, come uomo e per quel che riguarda il modo dell’abbassamento, egli è sottoposto a

Dio come noi. Alla stessa maniera è divenuto sotto la legge, sebbene, in quanto Dio, egli stesso sia il promulgatore della legge e il legislatore.

6. Noi rifiutiamo di affermare su Cristo: «Venero colui che è rivestito, a motivo di colui che lo riveste; adoro colui che è visibile, a motivo di colui che è invisibile». È poi cosa terribile aggiungere: «Colui che è

assunto è chiamato Dio insieme con chi assume». Chi dice così divide in due Cristo e propriamente pone in modo separato un uomo e similmente un Dio. Vanifica chiaramente l’unione, secondo la quale l’uno non è adorato insieme con l’altro, ed è chiamato insieme a lui «Dio»; ma affermiamo che uno solo è Cristo Gesù, Figlio Unigenito, onorato con un’unica adorazione, insieme alla sua propria carne. Confessiamo inoltre che egli, il Figlio generato da Dio Padre e Dio Unigenito, sebbene per sua propria natura fosse impassibile, patì con la carne (1 Pt 4,1) per noi, secondo le Scritture, ed era nel corpo crocifisso, sostenendo le sofferenze della sua propria carne, sebbene fosse impassibile. Per grazia di Dio, gustò la morte per tutti (Eb 2,9),

offrendole il proprio corpo, sebbene per natura egli esista come Vita e sia la Risurrezione (Gv 11,25). Con indicibile potere, al fine di soffrire la morte con la sua propria carne, divenne il primogenito dei morti (Col 1,18)e la primizia dei dormienti (1 Cor 15,20), e indicò alla natura umana la strada per il ritorno all’incorruttibilità. Per grazia di Dio, come or ora abbiamo detto, gustò la morte per tutti e, ritornando alla vita dopo tre giorni, spogliò l’Ade. Perciò si può dire che la risurrezione dei morti avvenne attraverso un uomo, ma intendiamo che l’uomo è il Verbo nato da Dio e che per mezzo suo ha sciolto il potere della morte. Egli verrà a tempo opportuno come un unico Figlio e Signore, nella gloria del Padre a giudicare il mondo nella giustizia (At 17,31), secondo la Scrittura.

7. Necessariamente dobbiamo aggiungere anche questo. Noi proclamiamo la morte secondo la carne dell’Unigenito Figlio di Dio, Gesù Cristo, e confessiamo la sua risurrezione dai morti e l’ascesa al cielo, quando nelle chiese celebriamo l’incruento sacrificio e così ci appressiamo alle mistiche benedizioni e siamo santificati, divenendo partecipi della santa carne e del prezioso sangue di Cristo, Salvatore di noi tutti. Non riceviamo una carne comune (non sia mai!) né quella di un uomo santificato e unito al Verbo secondo l’unione della dignità oppure del possesso di una divina inabitazione, ma la carne veramente vivificante e interamente propria del Verbo. In quanto Dio egli è per natura Vita, perché è divenuto uno con la sua propria carne, rendendola vivificante. Cosicché ci ha potuto dire: Amen vi dico, se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue (Gv 6,53). Dobbiamo allora considerare che essa non è quella di un uomo come noi (come può per la sua stessa natura la carne di un uomo essere vivificante?), ma quella veramente fatta propria da colui che per noi è divenuto e si è fatto Figlio dell’uomo.

8. In forza delle espressioni del nostro Salvatore, presenti nei vangeli, noi non lo dividiamo in due ipostasi, né in due prosopa.[1] L’unico e solo Cristo non è infatti duplice; e anche se è pensato di due diversi elementi, è convenuto in una inseparabile unità. Sebbene sia considerato anche un uomo, dotato di anima e corpo, non è duplice, ma uno da due. Allora, pensando rettamente, dobbiamo riferire a uno solo le caratteristiche sia umane sia divine.

Quando, parlando come Dio, dice di sé stesso: Chi ha visto me, ha visto il Padre (Gv 14,9), e Io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10,30), comprendiamo la sua divina e ineffabile natura, secondo la quale è una cosa sola con suo Padre, per l’identica sostanza, dato che possiede l’immagine e lo splendore della sua gloria (Eb 1,3).

Quando, non disprezzando i limiti dell’umana natura, disse ai Giudei: Ora cercate di uccidere me, un uomo, io che vi ho detto la verità (Gv 8,40), egualmente riconosciamo che il Dio Verbo è in eguaglianza e

somiglianza del Padre, anche nei limiti della sua natura umana. Se bisogna credere che, essendo Dio per natura, è divenuto carne, cioè un uomo dotato di anima razionale, che scusa può avere chi si vergogna delle parole che egli ha espresse in modo appropriato alla natura umana? Se egli avesse respinto le caratteristiche proprie di un uomo, chi lo avrebbe potuto costringere a divenire uomo come noi? Poiché si è posto per noi in una volontaria umiliazione, con

quale scusa possiamo rifiutare le caratteristiche proprie dell’umiliazione? Perciò tutte le espressioni presenti nei Vangeli devono essere applicate all’unica persona, all’unica ipostasi incarnata del Verbo. Secondo le Scritture uno solo è il Signore Gesù

Cristo.

9. Inoltre, sebbene è chiamato Apostolo e sommo Sacerdote della nostra confessione (Eb 3,1), in quanto offre a Dio e Padre la confessione di fede rivolta da noi a lui e, attraverso lui, a Dio e Padre, oltre che allo Spirito santo, tuttavia affermiamo che egli è per natura il Figlio Unigenito da Dio. Non ascriviamo allora a un uomo diverso da lui il titolo e la realtà del sacerdozio: divenne il mediatore tra Dio e gli uomini (1 Tm 2,5), il conciliatore (At 7,26), quando offrì sé stesso in odore di soavità a Dio e Padre. Per questo dice: Non hai voluto sacrificio e offerta, ma mi hai preparato un corpo. Non hai gradito olocausti e vittime per il peccato. Allora dissi: ecco, vengo. Su di me è scritto nel rotolo del libro di fare, Dio, la tua volontà (Eb 10,5ss). Per noi e non per sé stesso ha offerto in odore di soavità il proprio corpo. Di quale offerta o sacrificio avrebbe avuto bisogno per sé stesso, colui che esisteva, come Dio, al di là di ogni peccato? Se tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Rm 3,23), è perché siamo divenuti soggetti alla caduta e la natura dell’uomo è stata infettata dal peccato; egli però non è in questa condizione e per questo siamo vinti dalla sua gloria. Come si può dubitare che il vero Agnello si è immolato per noi a causa nostra? Affermare allora che egli si è immolato per sé stesso e per noi, significherebbe non potere assolutamente evitare l’accusa di empietà. In nessun modo egli ha errato ne ha commesso peccato. Di quale offerta allora avrebbe potuto avere bisogno, dato che non esisteva peccato, a motivo del quale giustamente compiere l’offerta?

10. Quando dice dello Spirito: Egli mi glorificherà (Gv 16,14), noi, pensando rettamente, non diciamo che l’unico Cristo e Figlio, siccome avrebbe avuto bisogno della gloria di un altro, ha acquisito la gloria dallo Spirito santo. Il suo Spirito non è migliore né superiore a lui. Ma poiché, per dimostrare la sua divinità, ha fatto uso del suo proprio Spirito per compiere i miracoli, si afferma che è stato glorificato da lui. Sarebbe come se uno dicesse nei riguardi della propria forza o di una sua conoscenza: «essa mi glorifica». Sebbene lo Spirito sia in una sua propria ipostasi ed è considerato per sé (è Spirito e non Figlio), non è però altro da lui. È chiamato Spirito di verità (Gv 16,13) e Cristo è la Verità (Gv 14,6); inoltre procede da Cristo, come anche da Dio e Padre. Perciò lo Spirito compì miracoli per mano dei santi Apostoli e glorificò il nostro Signore Gesù Cristo dopo la sua ascensione al cielo. È oggetto di fede che Cristo è Dio per natura e che opera attraverso il suo Spirito. Per questo diceva: Egli riceverà dal mio e ve lo farà conoscere (Gv 16,14).  Non stiamo affermando affatto che lo Spirito è sapienza e potenza per partecipazione: egli è assolutamente perfetto e colmo di ogni bene. Poiché egli è Spirito della Potenza e della Sapienza del Padre – cioè del Figlio –, egli è in tutto e per tutto Potenza e Sapienza.

11. Poiché poi la santa Vergine ha partorito carnalmente Dio unito alla carne secondo l’ipostasi, per questo affermiamo che essa è Madre di Dio; non perché la natura del Verbo avrebbe preso inizio dalla carne – egli infatti era all’inizio e il Verbo era Dio e il Verbo era presso Dio (Gv 1,1)ed è il fattore di ogni cosa, coeterno al Padre e artefice di tutto – ma, come abbiamo detto, perché, unita a sé secondo l’ipostasi la natura umana, tollerò una nascita carnale dal seno di lei. Questo non perché aveva bisogno per sua propria natura di una nascita temporale e alla fine dei tempi, ma per benedire l’inizio della nostra esistenza. Dal momento che una donna lo ha partorito, unito alla carne fece cessare la maledizione, che incombeva su tutto il genere umano e che portava alla morte i nostri corpi mondani. Grazie a lui sarebbe stato reso vano il partorirai i figli nel dolore (Gn 3,16), e si sarebbe manifestata vera la parola del profeta: La morte è divenuta forte e Dio asciugherà le lacrime da ogni volto (Is 25,8). Per questo motivo diciamo che egli, per l’economia ha benedetto le nozze e, chiamato, si recò a Cana di Galilea insieme ai santi Apostoli.

12. Così abbiamo appreso a pensare dai santi Apostoli ed Evangelisti, da tutta la Scrittura ispirata da Dio e dalla vera confessione dei beati Padri. Bisogna che la tua Pietà sottoscriva tutto questo e dia il tuo assenso senza inganno.

Quel che la tua Pietà deve necessariamente anatematizzare è stato posto qui di seguito a questa nostra lettera.

– Se uno non confessa che l’Emmanuele è veramente Dio e per questo motivo la santa Vergine è Madre di Dio (essa ha infatti generato secondo la carne il Verbo da Dio divenuto carne), sia anatema.

– Se uno non confessa che il Verbo da Dio Padre è unito alla carne secondo l’ipostasi e che uno solo è Cristo con la sua propria carne, cioè che lo stesso è insieme Dio e uomo, sia anatema.

– Se uno divide dopo l’unione le ipostasi dell’unico Cristo, unendole soltanto per congiunzione secondo dignità, sovranità e potenza, e non per un legame secondo unione naturale, sia anatema.

– Se uno divide in due prosopa o ipostasi le espressioni che negli scritti evangelici e apostolici sono dette dai santi su Cristo o da lui sono riferite a sé stesso, e le applica alcune all’uomo, considerato

indipendentemente dal Verbo da Dio, e altre, come degne di Dio, al solo Verbo da Dio, sia anatema.

– Se uno osa dire che Cristo era un uomo teoforo e non piuttosto che è veramente Dio, in quanto Figlio unico e per natura, poiché il Verbo si è fatto carne e ha partecipato in modo simile a noi del sangue e della carne, sia anatema.

– Se uno dice che il Verbo da Dio Padre è Dio o Signore di Cristo e non confessa piuttosto che il medesimo è insieme Dio e uomo, poiché il Verbo, secondo le Scritture, si è fatto carne, sia anatema.

– Se uno dice che Gesù, come uomo, sia stato attivato dal Dio Verbo e che la gloria dell’Unigenito lo ha circondato, come se fosse un altro, esistente oltre a lui, sia anatema.

– Se uno osa dire che l’uomo assunto deve essere adorato insieme al Verbo, insieme glorificato e insieme chiamato Dio, come se fosse uno insieme con l’altro (il «con» impone sempre di pensare a qualcosa di aggiunto) e non onora piuttosto con una sola adorazione l’Emmanuele e a lui attribuisce un’unica glorificazione, in quanto il Verbo si è fatto carne, sia anatema.

– Se uno afferma che l’unico Signore Gesù Cristo è stato glorificato dallo Spirito, come se, attraverso lui, si fosse servito di una potenza estranea e abbia ricevuto da lui il potere di operare contro gli spiriti immondi e di realizzare i miracoli a favore degli uomini, e non afferma piuttosto che lo Spirito, per mezzo del quale ha operato i miracoli, è propriamente suo, sia anatema.

– La divina Scrittura dice che Cristo è divenuto sommo Sacerdote e Apostolo della nostra confessione e ha offerto sé stesso per noi a Dio e Padre in odore di soavità. Quindi se uno afferma che non lui, il Verbo da Dio, è divenuto sommo Sacerdote e nostro Apostolo, perché si è fatto carne e uomo come noi, ma come se fosse un altro diverso da questo, propriamente un uomo nato da donna; oppure se uno dice che egli ha presentato l’offerta anche per sé stesso e non piuttosto soltanto per noi – non necessitava di offerta, infatti, colui che non conosceva peccato –, sia anatema.

– Se uno non confessa che la carne del Signore è vivificante e che è propria dello stesso Verbo da Dio Padre, ma come se fosse di un altro diverso da questo, unito a lui per dignità o per avere soltanto ricevuto la divina inabitazione, e non confessa piuttosto – come abbiamo detto – che la carne è vivificante, perché è divenuta propria del Verbo, che ha la forza di vivificare ogni cosa, sia anatema.

– Se uno non confessa che il Verbo di Dio ha patito con la carne, è stato crocifisso con la carne, ha gustato la morte con la carne ed è divenuto primogenito dai morti, perché, in quanto Dio, è Vita e Vivificante, sia anatema.

FORMULA DI UNIONE (433)[2]

Confessiamo dunque il Signore nostro Gesù Cristo, il Figlio di Dio, l’Unigenito, Dio perfetto e uomo perfetto per anima razionale e corpo; egli è nato dal Padre prima dei tempi secondo la divinità; negli ultimi giorni però egli stesso, per noi e per la nostra salvezza, è nato dalla Vergine Maria, secondo l’umanità; egli ancora è consostanziale (2) al Padre secondo la divinità e consostanziale a noi secondo l’umanità: si è infatti realizzata l’unione delle nature. Confessiamo allora un solo Cristo, un solo Figlio e un solo Signore.

Secondo questo concetto di non confusa unione, confessiamo la santa Vergine «Madre di Dio», perché il Dio Verbo si è incarnato e si è fatto uomo e per questo concepimento ha unito a sé il Tempio preso da lei. Circa le espressioni che gli Evangelisti e gli Apostoli riferiscono al Signore, sappiamo che quegli uomini, che parlavano di Dio, alcune le hanno considerate in comune, riferendole all’unico

prosopon, altre invece le hanno divise, riferendole alle due nature. Ci hanno perciò trasmesso quelle degne di Dio secondo la divinità di Cristo, e quelle umili, secondo la sua umanità.


[1] Il passo mostra in tutta evidenza come Cirillo assimili hypostasis a prosopon. Invece Nestorio e i vescovi antiocheni si erano formati alla cristologia di Teodoro di Mopsuestia, per il quale «la parola (hypostasis) non è sinonimo di prosopon» (cf. Galtier, L’«unio secundum hypostasim»…, cit., p. 381 e nota 6).

[2] Questa formula di fede, stipulata nel 433, fu il frutto di una non semplice mediazione, guidata da Acacio di Berea e da Paolo di Emesa. Mediazione tra le tradizioni antiochena e alessandrina, tra Giovanni di Antiochia e Cirillo di Alessandria. Come ogni mediazione il testo lasciò non pienamente soddisfatte tutte le parti e quindi la diatriba suscitata da Nestorio covò a lungo sotto la cenere.




Cirillo di Alessandria: SECONDA LETTERA A NESTORIO

SECONDA LETTERA A NESTORIO

Cirillo saluta nel Signore il reverendissimo e piissimo collega nel sacerdozio Nestorio.

1. Alcuni vanno cianciando, come apprendo, contro di me presso la tua Religiosità e fanno questo piuttosto frequentemente, cogliendo soprattutto l’occasione dei sinodi ufficiali, e, ritenendo di dilettare il tuo orecchio, pronunciano parole sconsiderate, sebbene non abbiano subìto alcun torto, ma solo siano stati rimproverati, e ben a ragione, l’uno perché aveva recato offesa ai ciechi e ai poveri, un altro perché aveva puntato la spada contro sua madre, un altro ancora perché aveva rubato, insieme con un’ancella, denaro altrui e da sempre gode di una tale reputazione che non la si augurerebbe nemmeno ai peggiori nemici. Non voglio però dilungarmi su costoro, per non estendere la misura della mia piccolezza al di là del Signore e Maestro né al di là dei Padri. Non è infatti possibile evitare la stoltezza degli sciocchi, qualunque sia il genere di vita scelto.

2. Ma costoro, che hanno la bocca piena di maledizioni e amarezza, renderanno conto al giudice di tutti. Ritornerò invece di nuovo a quello di cui specialmente debbo occuparmi e anche ora riporterò alla tua memoria, come a un fratello in Cristo, la necessità di esporre l’insegnamento sul Verbo e il pensiero sulla fede, facendolo con grande cautela e tenendo presente che scandalizzare anche uno solo dei piccoli di coloro che credono in Cristo è motivo di grave sdegno. Se poi la moltitudine di quanti si lagnano è molto grande, non porremo necessariamente ogni industria per allontanare prudentemente gli scandali e sgomberare la via a una retta intelligenza della fede a coloro che cercano il vero? Realizzeremo ciò molto bene se, accostandoci alle parole dei santi Padri, ci adopereremo a realizzarle; e saggiando noi stessi, se siamo nella fede secondo quanto è stato scritto, accuratamente conformiamo i pensieri che sono in noi con le loro giuste e perfette dottrine.

3. Il santo e grande sinodo dunque afferma che colui il quale è stato generato per natura da Dio Padre, è il Figlio Unigenito, che è Dio vero da Dio vero, Luce da Luce, attraverso il quale il Padre ha fatto ogni cosa; che egli è disceso, si è incarnato, si è fatto uomo, ha patito, è risorto il terzo giorno ed è asceso al cielo. È necessario che anche noi seguiamo queste parole e questi dogmi, considerando cosa significa che il Verbo da Dio si sia incarnato e fatto uomo. Non diciamo infatti che la natura del Verbo, trasformandosi, è divenuta carne, e neppure che fu trasformata in un uomo completo, composto di anima e corpo, ma piuttosto che il Verbo, avendo unito a sé in modo indicibile e inintelligibile, secondo l’ipostasi, una carne animata da anima razionale, è divenuto uomo ed è stato costituito Figlio dell’uomo; e non per semplice volontà e per beneplacito, e neppure per l’assunzione di un semplice prosopon. Sebbene le nature che sono state unite in una vera unità siano diverse, da due è risultato un solo Cristo e Figlio. Non però come se fosse scomparsa, a causa dell’unione, la differenza delle nature, ma piuttosto si è realizzato per noi l’unico Signore, Cristo e Figlio grazie all’indicibile e arcano concorso all’unità della divinità e dell’umanità.

4. Così allora affermiamo che, pur avendo per certo l’esistenza prima dei secoli e pur essendo stato generato dal Padre, egli è stato anche generato secondo la carne da una donna; non come se avesse preso l’inizio della sua natura divina nella santa Vergine, né che avesse necessariamente bisogno di una seconda nascita da lei, dopo quella che ebbe dal Padre (è infatti sciocco e contemporaneamente insensato affermare che colui il quale esiste prima dei secoli ed è coeterno con il Padre abbia bisogno di un secondo inizio per esistere); ma, poiché per noi e per la nostra salvezza, avendo unito a sé secondo l’ipostasi l’umanità, procedette da una donna, per questo affermiamo che è nato secondo la carne. Non affermiamo però che prima nacque dalla santa Vergine un uomo comune e poi il Verbo discese in lui, ma che, essendo già uno, tollerò una nascita secondo la carne dal ventre di lei, rendendo sua la nascita della propria carne.

5. Nella stessa maniera affermiamo che ha patito ed è risorto, non come se il Verbo di Dio abbia patito sulla propria natura le percosse, la perforazione dei chiodi o le altre ferite (la divinità infatti è impassibile perché è anche incorporea), ma, poiché sopportò queste cose quello che era divenuto il suo proprio corpo, per questo motivo affermiamo che egli ha patito per noi: l’impassibile era in un corpo passibile. Allo stesso modo pensiamo anche circa la sua morte. Il Verbo di Dio è per natura immortale e incorruttibile, egli è Vita e datore di vita. Poiché però il suo proprio corpo, per grazia di Dio, come dice Paolo (Eb 11,35), gustò la morte per tutti, affermiamo che egli ha sofferto la morte per noi, non perché quel che atteneva alla sua propria natura avesse sperimentato la morte (dire o pensare tali cose è una pazzia!), ma, come ho detto sopra, perché la sua carne gustò la morte. La stessa cosa anche per la risurrezione della sua carne. Affermiamo la sua risurrezione, non nel senso che sia caduto nella corruzione – non sia mai! – ma perché il suo corpo è risuscitato.

6. Così confesseremo un solo Cristo e Signore, e non che adoriamo un uomo insieme al Verbo, affinché non si introduca un’immagine di taglio con il dire «insieme». Adoriamo invece l’uno e il medesimo, perché il suo corpo non è altro dal Verbo: con questo egli siede accanto allo stesso Padre, non come se sedessero due Figli, bensì uno solo, secondo l’unione con la propria carne. Se rifiutiamo l’unione secondo l’ipostasi come impossibile o indecorosa, cadiamo

nell’affermazione dei due figli. Sarebbe allora assolutamente necessario dividere e affermare che uno è propriamente un uomo particolarmente onorato con l’appellativo di Figlio e un altro è propriamente il Verbo da Dio, il quale possiede per natura il nome e il titolo di Figlio. Non si deve perciò dividere in due figli l’unico Signore Gesù Cristo.

7. Non sarà in alcun modo utile al retto intendimento della fede, affinché si mantenga tale, che alcuni parlino di unione dei prosopa. La Scrittura non ha detto che il Verbo ha unito a sé un prosopon di uomo, ma che divenne carne (Lc 1,2). Che il Verbo sia divenuto carne altro non è se non che ha partecipato del sangue e della carne in modo simile a noi (Gv 3,34), ha preso un corpo proprio uguale al nostro e, come uomo, procedette da una donna, non abbandonando l’essere Dio e l’esser nato da Dio Padre, ma rimanendo quel che era, anche nell’assunzione della carne. Questo è quel che proclama dappertutto la dottrina della retta fede; così troveremo che hanno pensato i santi Padri. Così essi hanno avuto il coraggio di affermare che la santa Vergine è «Madre di Dio», non perché la natura del Verbo – cioè della divinità – abbia preso l’inizio dell’essere dalla santa Vergine, ma perché è nato da lei il santo corpo animato da anima razionale. Dopo che secondo l’ipostasi si è unito a questo, affermiamo che il Verbo è stato generato secondo la carne. Queste cose anche adesso io ti scrivo, mosso dall’amore in Cristo, esortandoti come fratello e scongiurandoti innanzi a Cristo e agli angeli eletti che queste cose tu pensi e insegni, come noi, affinché si preservi la pace delle chiese e permanga integro il vincolo della concordia e dell’amore tra i sacerdoti di Dio. Saluta la fraternità che sta con te. Ti saluta in Cristo quella che sta con me.




P. Justin Popovitch: Cristo è nato!

Cristo è nato!

dell’archimandrita Justin Popovitch  (1894 – 1979)

In verità Dio è nato sulla terra come uomo. Perché? “Perché noi vivessimo per mezzo suo” (1 Giov. 4, 9). Infatti senza l’Uomo-Dio Gesù Cristo la vita dell’uomo è un assurdo degno del suicidio. Giacché la morte è il suo cuore ed essa, non c’è dubbio, è il più grande e più spaventoso assurdo tra i tanti che ci sono nella vita dell’uomo. Dare un senso alla morte significa dare un senso alla vita in tutta la sua profondità, altezza, infinità. Ma ciò è fatto solo da Dio, il quale ama tutti gli uomini e per l’infinito amore si fa uomo e rimane per l’eternità nel mondo umano come Uomo-Dio. La vita umana assume il suo eterno significato solo come vita in Dio. Altrimenti essa è il più offensivo assurdo ed il dono più pazzesco che si possa concepire. Questa vita, o uomo, solo come vita in Dio, assume il suo unico significato ragionevole e logico. Ed il tuo pensiero, fratello mio, assume il suo significato divino ed immortale solo in quanto pensiero di Dio. E così i tuoi sentimenti, solo in quanto rivolti a Dio, hanno un significato divino, immortale. Altrimenti i tuoi sentimenti sono il tuo più grande tormento, che continuamente ti crocifigge sulla più assurda croce, dietro la quale non c’è alcuna risurrezione. E la coscienza? Anch’essa in quanto solo coscienza di Dio ha il suo significato divino ed eterno. Altrimenti essa pure è un assurdo ferocemente pericoloso. E la mia morte, la tua morte, in genere quella di tutti gli uomini, non è il più crudele tormento per l’essere umano in tutto l’universo? Certamente, lo è per ogni uomo. Ma anch’essa solo in quanto morte in Dio, come morte umano-divina, assume il Suo eterno significato grazie alla Risurrezione dell’Uomo-Dio Gesù Cristo, poiché solo grazie a Lui, si realizza la vittoria sulla morte e quest’ultima assume un significato nel mondo umano. Così tutto ciò che è umano, tutto l’uomo solo come Uomo-Dio, frutto della Grazia, nel Corpo dell’Uomo-Dio, che ci divinizza ed è fonte di tutta la vita, cioè nella Chiesa, assume il suo significato eterno, umano-divino.

Con l’Incarnazione, Dio, nel modo più manifesto è entrato nel centro della vita umana, è entrato nel cuore, nel centro di tutto. Respinto a causa del volontario peccato dell’uomo dal mondo, dal corpo, dall’anima dell’uomo, Dio, incarnandosi, ritorna nel mondo, nel corpo, nell’anima, diventa completamente uomo e, come tale, opera a favore dell’uomo, si stabilisce nel mondo e come creatura provvede alla creatura, la santifica, la salva, la trasfigura, la rende umano-divina. L’incarnazione di Dio è il più grande rivolgimento nella vita della terra e di tutto l’universo, poiché per causa sua si è compiuto il miracolo dei miracoli. Se fino a quel momento la creazione del mondo dal nulla era stato il più grande miracolo, non c’è dubbio che l’Incarnazione di Dio l’ha superata per il suo carattere miracoloso. Mentre nella creazione le parole divine si sono trasformate nella realtà, nell’Incarnazione lo stesso Dio si è rivestito di un corpo, di una materia. Perciò l’Incarnazione è l’avvenimento decisivo nella storia di tutto l’universo, per ogni persona, per ogni essere, per ogni creatura. Vivi anche tu nell’Incarnazione, nell’Uomo-Dio e guarirai da tutti i generi di morte, da tutti i peccati, da tutte le passioni, da tutte le opere del demonio. Diventi la tua vita una vita in Dio. In ciò consiste tutto il tuo mistero umano-divino, fratello mio! Dio scende in un corpo che diventa il corpo di Dio. Ma egli diventa anche il tuo corpo, appena tu diventi membro della Chiesa, cioè del Corpo umano-divino del Cristo. E come si vive nella Chiesa del Cristo? Si vive nei Sacramenti, nelle virtù. Perciò è prescritto il digiuno prima di Natale. Il digiuno è come una virtù di primo ordine, e va sempre accompagnato dalla preghiera. Queste due fondamentali virtù conducono l’uomo al Cristo e con sapienza divina gli insegnano come vivere per mezzo suo ed in lui. E che fare del corpo datoci da Dio? Purificarlo, liberarlo da ogni impurità, dalle passioni, da ogni male, dal demonio. Purificarlo da ogni peccato, perché in ogni peccato si nasconde il demonio, poiché in esso opera il demonio nonostante tu abbia la libera volontà. Nel grande peccato c’è un grande demonio, nel piccolo uno piccolo. Ma a te, a me e ad ogni uomo sono concessi tutti i mezzi per vincere tutti i demoni, tutte le passioni, tutti i peccati, e la morte che è in noi e nel mondo. In primo luogo, quindi, la preghiera ed il digiuno, poiché la Verità, cioè il Cristo, ha detto: “Questo genere si caccia solo con la preghiera ed il digiuno” (Matteo 17, 21): il genere di tutti i peccati, di tutte le passioni, di tutti i demoni. Il Natale è davanti a te, davanti a me, davanti a noi tutti, fratelli e sorelle. Dio nasce come uomo, “perché noi si viva per mezzo suo”, affinché in tal modo egli riempia di sé la nostra anima ed il nostro corpo. Raggiungeremo questo obiettivo nel modo più sicuro con il digiuno e con la preghiera. Essi ci purificano, perché in noi si stabilisce gioiosamente il Bambino divino e riempia di sé la nostra natura. Giacché a questo fine, fratello mio, furono creati il tuo corpo e la tua anima. A ciò ci sono stati dati come guide l’umile preghiera e l’umile digiuno assieme alle altre virtù evangeliche. Che esse volino attorno a noi e davanti a noi annunciando a tutti gli uomini ed a tutto l’universo la salutare e lieta notizia: “Cristo è nato”.




Giuseppe di Vatopaidi (1921-2009): Sull’Incarnazione

Il recupero delle reliquie dell’anziano Iosif Vatopaidino

L’Anziano Iosif è nato a Drousia, nella regione di Paphos, a Cipro, il 1° luglio 1921. Seguendo una chiamata di Dio, è entrato nel Santo Monastero di Stavrovounio nel 1936, con la benedizione dei genitori. Qui fu fatto novizio e gli fu dato il nome di Sofronios. Rimase in monastero per 10 anni prima di trasferirsi sul Monte Santo, dopo una breve visita in Terra Santa. Lo ha fatto con l’incoraggiamento e la benedizione dell’anziano Kyprianos, il padre spirituale di Stavrovounio. All’inizio del 1947 si trova allo Skite di Sant’Anna, mentre nell’estate dello stesso anno conosce San Giuseppe l’Esicasta, il quale, dopo aver ricevuto l’inspirazione divina, accoglie il giovane nella sua confraternita. Il sabato di Lazzaro, 1948, nella casa dell’Venerabile Precursore a Piccola Sant’Anna, fu tonsurato monaco dal grande abito e gli fu dato il nome di Iosif. Nel 1951, la confraternita si trasferì nelle celle esicaste vicino alla torre Nuovo Skite. San Iosif l’Esicasta riposò nel Signore nel giorno della Dormizione della Madre di Dio, 1959. Il defunto Anziano Iosif ha soddisfatto il desiderio più profondo della sua anima durante il empo vissuto con il grande San Giuseppe, poiché ha imparato la vita da un vero esicasta, che era un asceta portatore di Dio. Dopo la morte del suo Anziano, il giovane Iosif continuò a vivere secondo i principi e l’esempio del primo e, con il passare del tempo, molti altri monaci vennero a vivere con lui. Nel 1989, a seguito di una delibera del Patriarcato Ecumenico, la sua comunità ha assunto l’amministrazione del Santo e Grande Monastero di Vatopaidi. Si é addormentato nel 2009

Sull’incarnazione

dell’anziano Giuseppe di Vatopaidi (1921-2009)

Monte Athos, Grecia

Oggi, iniziamo con la più grande festa, non potremo mai esprimerla [a parole]… Abbiamo supplicato il nostro Cristo di permetterci di prostrarci al suolo dove è nato; per prostarci davanti alla miseria che lo copriva. Abbracciare con riverenza la sua Santissima Madre che Lo teneva nel suo abbraccio. Tutto questo, miei cari, per quale scopo?

Proprio qui sta la cosa straordinaria. Se un uomo riesce a realizzarla, allora diventerà la più grande causa del suo progresso spirituale e del suo risveglio dal torpore dell’insensibilità.

È Lui che oggi si manifesta come un bambino esposto al freddo del mondo; Lui, per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte. Ha creato l’universo, il visibile e l’invisibile, il materiale e l’immateriale e tutto ha fatto in modo imperativo per mezzo della sua onnipotenza, essendo il Signore di tutto. Ma l’uomo, Egli lo fece con le Sue mani. Voleva fare una copia del prototipo. Mentre tutto, come ho detto, è stato costruito in maniera imperativa, per comando, anche gli angeli. Vedi che crea l’uomo con le sue stesse mani, ne è orgoglioso, gli dimostra di averlo fatto a “sua immagine e somiglianza” e quindi creato ricettivo di tutte le qualità divine. Ma ha dato un ordine? Non c’era bisogno di un ordine, e voglio che tu stia attento a questo. Certamente, Dio ha dato un ordine ad Adamo di custodire l’obbedienza e la sottomissione all’autorità, al suo Capo, a suo Padre e di non mangiare del frutto proibito che genera morte e decomposizione. Non erano ordini impartiti in maniera imperativa come quelli che usa un superiore per rivolgersi ai suoi subordinati. Sii attento a ciò perché sono il fondamento sia della nostra catastrofe ma anche del nostro ritorno, qualora volessimo cercarlo. Tutto ha una causa, e come tale ogni cosa è stata prodotta da una causa prima e non possono reggersi o sopravvivere se non sono in rapporto continuo con la causa prima. Ad esempio, pensa ai rami che crescono da un bellissimo albero. Se tagliamo questi rami e poi li mettiamo in acqua e aggiungiamo anche del fertilizzante, non possono sopravvivere. Una volta che hanno abbandonato il tronco è impossibile per loro sopravvivere. Pertanto, l’obbedienza e la sottomissione di tutti gli esseri che sono stati creati dalla bontà divina dovrebbero esistere in una forma pratica per possedere il potere dell’essere e dell’esistenza. Altrimenti è impossibile… e attenzione è importante tutto ciò.

Il Diavolo che fu la prima causa del nostro perderci, poiché apostatò da Dio per diventare un dio a sé stante, fu subito distrutto del tutto senza speranza di ritorno. Poi, per odio, inganna l’uomo nella sua inesperienza. L’uomo fu ingannato e ascoltò ciò che gli disse il diavolo. Subito, è stato escluso dalla sua Causa. Di conseguenza, l’uomo cade, perde la sua personalità ed è esiliato nella terra del decadimento, della morte, della perdita e di tutti gli altri mali che ci circondano. Tutto questo è il risultato della disobbedienza.

La causa pratica era l’egoismo poiché era stato ingannato dal diavolo che gli disse che poteva diventare dio senza Dio. La seconda causa era l’egocentrismo, una sensualità tale che lo portò a mangiare di ciò che gli piaceva. Tutto questo egoismo ed egocentrismo sono le cause della distruzione, la radice della caduta dell'[intero] universo.

Il nostro misericordiosissimo Dio e Padre, dopo la nostra apostasia, avrebbe potuto prendere una manciata di terra e soffiare di nuovo in essa per fare un altro uomo. Ma questo non avrebbe manifestato il suo affetto e la sua capacità paterna. Lui non lo fa!

Decide invece di venire Lui stesso, di far ritornare in Sé stesso ciò che ha creato con le sue stesse mani, e dargli ciò che gli aveva promesso fin dall’inizio.

Questa è la ragione dell’Incarnazione del Verbo divino. Dio stesso doveva venire, il Creatore, per ristabilire l’equilibrio. Non in modo imperativo, ma paterno. Come vedi, per raggiungere questo obiettivo, ha dovuto comunicare ontologicamente con l’ipostasi umana.

Tuttavia, non poteva comunicare con l’ipostasi umana poiché ci trovavamo nella legge del decadimento e della morte. Per questo decide e prepara in anticipo la sua figlia Santissima, la sua stessa Madre. Fin da piccola, l’ha portata nel Santo dei Santi e lì gli angeli si sono presi cura di lei.

E Lei non solo non ha mai commesso, ma non ha mai considerato una cosa malvagia. Dentro l’immensità della sua purezza, questa figlia Santissima divenne la ragione per cui Dio accettò di entrare in Lei, per ricevere dalla sua purezza l’uomo nuovo e non quello decaduto.

E Lui venne e prese dalla sua Madre Santissima, dalle sue viscere interiori, dalla limpidezza della sua purezza; prese dall’Onorevole e Santissimo sangue, all’inizio della sua ipostasi, si incarnò e cominciò a plasmare la sua forma di uomo. Ma attenzione al candore di questa figlia e a quanto la società le deve. Questa figlia, piena di Grazia.

Per cooperare fino in fondo, il Dio Onnipotente, quando ha deciso di fare questo, si è degnato di chiedere alla figlia se lo desiderasse… il Dio onnipotente, Colui che si è preso cura di lei dentro il Santo dei Santi e l’ha custodita lì solo per questo Motivo. Eppure, non interviene senza chiederle il permesso, affinché possa dimostrare anche la correttezza del ritorno e la sapienza di Dio.

Allora l’angelo le disse: “Ora diventerai Madre e partorirai il Figlio di Dio”. E lei chiese: “Come è possibile visto che sono Vergine?”

L’angelo le rispose: “Verrà un Angelo del Signore e porterà in te la Grazia dello Spirito Santo e ciò che accadrà sarà causato da Dio stesso, che si incarnerà”.

E poi la bambina disse: “Accetto. Avvenga così; sia fatta la sua volontà!”. Sii attento alla precisione! E così Dio riceve la natura umana. “Riceve la natura” nel senso della purezza che è alla base dell’ethos che è il centro della personalità umana e di tutti gli esseri razionali. Custodisce sua Madre, una Vergine, così come l’ha ricevuta, rimane puro e vergine e non ha minimamente comunicato con il decadimento e la caduta per poter diventare il rinnovatore e il “rigeneratore”. Ebbe comunione con la legge del decadimento? Come avrebbe potuto creare l’incorruttibilità?

Per la nostra salvezza, ha sofferto questa prova inimmaginabile che è impossibile descrivere, non nel mondo presente, ma anche nell’infinità della totalità. La Kenosis del Dio-Verbo, l’Incarnazione del Dio-Verbo.

Dio, come crediamo, è la Santissima Trinità. Egli è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ha tre ipostasi ma una natura. Un’ipostasi di questi Tre doveva assumersi questo compito e nessun altro era appropriato per questo se non il Figlio. Colui che era chiamato Figlio, il Figlio del Padre, doveva diventare il Figlio dell’Uomo affinché l’ipostasi rimanesse la stessa. Essere un Figlio di Dio e un Figlio dell’Uomo, cioè un uomo.

Guarda questa purezza, questa ragazza con tanto candore stende le mani per ricevere dalla destra del Dio e Padre, il Dio-Verbo. Quello che non è conforme alla natura. Impone le mani alla ragazza, lo prende e lo mette nel suo seno perché possa ricevere la natura umana. Non dimentichiamo queste cose, fratelli miei! Perché per la nostra rigenerazione e salvezza, sono accadute!

Ma poiché la causa della catastrofe era l’egoismo e l’egocentrismo dell’uomo, il Dio-Verbo deve assumere il suo ruolo, affrontare la catastrofe, battere e sradicare il logocentrismo e l’egoismo. E questa è la ragione delle sue Santissime passioni.

Condiscende alla crocifissione, al dolore, alla sofferenza per sradicare la radice del piacere che l’uomo nella sua disobbedienza ha creato. Assume la veste degli umili… come posso esprimerlo a parole…

Quando tutta la creazione – ciò che non si può descrivere – è Lui che la governa e la comanda, è costretto a farsi umile nel cuore e non solo nell’apparenza per sradicare l’egoismo umano, per ristabilire l’equilibrio… mistero dei misteri.

Questa è la nostra radice, fratelli miei. Per questo, ora, noi cristiani che siamo stati attratti da Lui nella sua conoscenza, non abbiamo il diritto di esprimere un altro giudizio. Dice: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga…”. Ma per quelli che avevano una disposizione superiore a seguirlo genuinamente, quelli che avevano la forza di negare la loro partecipazione alla società in modo da potersi liberare dalle cause. Sono la parte dei monaci, per questo i monaci non li elegge in qualche modo nella somma della natura umana ma dice “Nessuno viene a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato”.

Coloro che avevano la forza, la volontà di negare la società in quanto non necessaria, ma di amare Dio in quanto sono obbligati perché questo è il primo e principale comandamento. Amare Dio con tutta la loro anima, tutto il loro cuore e la loro mente come Lui ci ha amati e ha sacrificato suo Figlio per la nostra salvezza. Le anime elette che hanno avuto il potere di negare la società non perché la società sia in sé colpevole, ma piuttosto perché, dopo la caduta, dopo il decadimento, la società pervertita, non si regge bene. Quindi chi vuole diventare puro di cuore come Dio vuole che sia e come Dio lo ha creato, deve evitare le cause.

Con la nostra caduta e la perdita della “sua immagine e somiglianza”, ci siamo pervertiti, e ora l’uomo è vittima dell’influenza. Paolo lo descrive “[…], ma io sono carnale, venduto sotto il peccato”. Dice che vedo il bene e lo preferisco, ma non posso farlo. Il male che cerco di evitare mi preme. Descrive il modo in cui funziona la perversione.

Dopo che l’uomo è diventato vittima dell’influenza, la porta si è aperta e così il demone pernicioso la usa come base della caduta, per poter combattere l’uomo. Coloro che sono stati attratti da Cristo e hanno lasciato la società, l’hanno sentito solo nella loro ipostasi biologica. Un uomo ha bisogno di tre cose: un piatto di cibo, vestiti e una casa in cui vivere. Questa è la sana conquista universale che riporterà l’uomo all’equilibrio. Nella società, invece, questo principio non è possibile applicarlo, perché all’interno della società, dove nascono le persone, bisogna prendersi cura di più bisogni. Questi bisogni e preoccupazioni aprono la porta al diavolo perché possa provocare scandali e ostacolare la salvezza. Costoro, che furono chiamati da Dio, tutto rifiutarono perché capirono che tutto ciò non era necessario. Partirono lontano, rifiutarono persino la loro personalità e ad essi resta un solo scopo… di orientare il cuore e la mente verso l’amore divino e verso l’osservanza accurata dei suoi comandamenti poiché li ha inclusi nella parte dei Santi affinché diventino eredi delle promesse divine. “Ma a quanti lo hanno accolto, a loro ha dato il diritto di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome”. Quindi, coloro che custodiranno la volontà divina – nella sua pienezza – hanno diritto a questa promessa.

I monaci, però, perché hanno una maggiore facilità grazie al fatto che hanno negato tutto e non ci sono ragioni perché il diavolo li inciti, sono organizzati, hanno poco cibo, un vestito da indossare, una stanza per dormire e non hanno altre preoccupazioni. Si preoccupano solo quando hanno un surplus di amore e solidarietà. Per questo comunicano con coloro che vogliono beneficiare spiritualmente ed essere salvati. Custodiscono la Verità del Vangelo fino all’ultimo dettaglio; insegnano la via pratica del pentimento e del ritorno e conservano e contengono la continuità della chiesa e la rivelazione fino a quel giorno. E la cosa più vicina è la morte. Tutti marciano verso la morte, volenti o nolenti. La morte non ha tempo. È vicina sin dall’infanzia e arriva quando vuole. Ma non c’è morte per l’uomo. Chi è “a sua immagine e somiglianza” non può morire. Il corpo morirà, lo lasceremo qui per un po’ di tempo e poi lo riprenderemo e ci presenteremo al Tribunale, il Grande Giudizio, in modo che Colui che non solo ci ha creati, ma ci ha anche comprato con il proprio sangue, ha pagato per la nostra tolleranza del peccato con il Suo stesso sangue, ci chiederà: “Hai fatto qualcosa per Me? Hai apprezzato l’amore che ti ho mostrato?”. Il processo si svolgerà lì. Lì saremo chiamati a dimostrare che lo abbiamo amato con gli atti o, anche se non siamo riusciti così, siamo comunque riusciti a cancellare i nostri peccati attraverso il pentimento, così di nuovo ci accetta.

Guarda che amore senza confini! Noi l’abbiamo tradito, l’abbiamo rinnegato, l’abbiamo rattristato e sempre siamo rimasti ai margini dell’ignoranza e dell’ingratitudine; Egli ancora non cambia la sua natura paterna. Lui va più in basso e ci dà il pentimento come se dicesse: “Va bene, se non hai onorato ciò che hai promesso durante il tuo Battesimo, chiedi almeno perdono dei tuoi errori e io ti perdonerò”. Questo si chiama pentimento. Naturalmente, il pentimento è molto più di quello che ho brevemente detto.

Tuttavia, il pentimento è un dovere assoluto, tanto più necessario e applicabile a voi, nostri fratelli che vivete nel mondo e non potete evitare le cause [del peccato]. Soprattutto, oggi, nel nostro secolo, assistiamo a una tale perversione e decadimento legati alla personalità umana che non sono mai esistiti prima nella storia umana. I motivi sono tanti. Per questo, ti prego, nel tuo amore, custodisci con tutte le tue forze il pentimento e rendi grazie a Dio che ci ha rattristato affinché nel Giorno della Giustizia possiamo dire “anche se non abbiamo mantenuto ciò che ci hai chiesto, almeno, abbiamo chiesto perdono attraverso il nostro pentimento in modo che tu possa perdonarci”.

Ora mi rivolgo a noi, monaci. Noi monaci abbiamo come scopo e punto di partenza della nostra esistenza il pensiero e la contemplazione della nostra origine. Nessun atto può aver luogo prima di essere pianificato. Uno vuole avviare un’impresa; pianifica in anticipo. Ha in mente il luogo, i mezzi, le entrate attese e in base a tutto questo, parte. Lo stesso vale per la scala spirituale. Siamo stati chiamati qui, siamo stati attratti dall’amore divino, ma Dio non ci ha tolto la nostra libertà. Siamo liberi di sottometterci, se lo desideriamo, per fare come Lui ci ha chiesto e Lui ci restituirà anche più di quello che chiediamo o pensiamo. Per questo, ora siamo seduti qui, iniziamo dall’obbedienza e dalla sottomissione. Iniziamo con il sacrificio di noi stessi, attenuando la nostra volontà e opinione. Chiediamo alla conoscenza divina di avvicinarsi a noi e illuminare la nostra mente.

Oltre a questo, abbiamo al nostro fianco i milioni di Santi, che hanno copiato con precisione matematica il nostro Padre, il nostro Salvatore e sono riusciti a santificarsi. Chi può dire oggi che il cristianesimo è irraggiungibile? Quando milioni di eroi che si sono sacrificati, che hanno subito il martirio, sono riusciti a respingere la perversione, il delitto, la menzogna, la disonestà, l’ingiustizia. ‘E preferì l’amore e la prudenza e raggiunse la santificazione’. Fratelli miei, questa è la realtà. Abbiamo persone simili anche ai nostri giorni. Non solo in passato, anche ai giorni nostri. Abbiamo tra noi tali persone che sono portatrici della promessa divina, che comunicano con Dio, partecipi delle promesse divine, partecipi della conoscenza di Dio e attendono la morte con desiderio. Facciamo in modo che i legami si ritirino e torneremo nella nostra patria dove il nostro Signore ha preparato la nostra casa. Dice: ‘vado a prepararti un posto e di nuovo tornerò a prenderti perché dove sono io tu possa essere con me’. Tutto ciò travolge l’ideologia monastica ed i monaci negano la vanità del mondo perché non è necessaria, hanno solo bisogno dell’ipostasi biologica.

Ve lo chiedo, specialmente ai più grandi, che vivono ancora nel mondo. Cosa hai guadagnato fino ad ora nel caos della confusione del mondo? Quando la promessa divina testimonia che andremo in Paradiso per incontrare i Santi e gli angeli ci accoglieranno. Colui che vive nel mondo è riuscito a sperimentarlo? Per questo i monaci hanno negato la società perché lì si trovano le cause [del peccato]. Lontani da queste cause, qui, in questo luogo, si dedicano con tutto il cuore all’amore di Cristo e del prossimo e si fanno partecipi delle promesse divine.

Questo avviene oggi, non solo nel passato. Per favore perdonami perché la mia salute non mi permette molte cose ma per l’impulso della legge dell’amore, volevo ricordarti alcune lezioni necessarie. Perché, fratelli miei, domani c’è la morte. La morte ha un calendario. Inizia dall’infanzia e va avanti. Per i piccoli ed i grandi, i primi e gli ultimi, arriverà la morte. Dopo la morte, però, l’uomo non muore come abbiamo detto. Abbandoneremo il corpo per un po’. Ma nella risurrezione lo riavremo intatto e vivo e insieme alla nostra anima marceremo verso la Corte. Abbiamo dimostrato amore e fede a Colui che è stato sgozzato, che è stato crocifisso per comprarci con il suo sangue e ci ha mostrato – in modo concreto – la via del ritorno?

Questo è il nostro dovere, fratelli. Per questo, vi prego, nel Suo amore, che tutti noi con nuove decisioni ci troviamo pronti con vero pentimento a convincere la misericordia del nostro Dio che chiediamo perdono per i nostri errori e abbiamo preso la decisione da questo momento in poi di negare la perversione e salvaguardare l’equilibrio della dignità. 

Amen!




San Leone Magno: OMELIA XCVI – L’eresia eutichiana.

OMELIA XCVI

L’eresia eutichiana.

1. Come è compito dei medici veramente valenti prevenire, o miei cari, con rimedi opportuni le alterazioni proprie dell’infermità umana, ed indicare il modo con cui evitare quanto è dannoso alla salute, così rientra nei doveri pastorali impedire che la perversità delle eresie nuoccia al gregge del Signore, e dimostrare altresì come ci si debba guardare dalla malvagità dei lupi e dei ladroni. Di fatto mai l’empietà degli eretici è riuscita a nascondersi: i nostri santi Padri l’hanno sempre scoperta e giustamente condannata.

Così non è sfuggito al nostro zelo, che dedichiamo alla vostra carità, il fatto che certi Egiziani, per lo più mercanti venuti a Roma, vanno sostenendo delle idee già empiamente diffuse dagli eretici ad Alessandria. Essi dicono che in Cristo c’era soltanto la natura divina, mentre l’umana carne, presa dalla beata Vergine Maria, non avrebbe avuto alcuna reale consistenza: dottrina questa veramente empia, perché presenta Cristo come falso uomo e, in quanto Dio, lo fa passibile1. Riguardo poi allo spirito e alle finalità, che animano la loro audacia, non ci possono esser dubbi per noi: dopo essersi personalmente allontanati dalla verità evangelica, per seguire le menzogne del demonio, essi intendono attirare anche gli altri e farli compagni della loro perdizione.

È per questo che noi con sollecitudine insieme paterna e fraterna vi avvertiamo di non seguire, escludiamo qualsiasi forma di adesione, questi avversari della fede cattolica, nemici della Chiesa, negatori dell’incarnazione del Signore, oppositori del Simbolo stabilito dai santi Apostoli, perché appunto dice l’Apostolo: «Allontana da te, dopo un primo e un secondo ammonimento, l’uomo che provoca scissioni, ben sapendo che chi è tale è un perverso e un peccatore che si condanna da sé stesso». (Tito, 3,10-11)

2. Effettivamente si rovina per la sua stessa ostinazione e si stacca con un atto pazzesco da Cristo, chi aderisce a quella dottrina empia, dalla quale pur sa che in passato molti altri sono stati rovinati, e ritiene cosa perfettamente ortodossa quel che pur gli risulta essere stato formalmente condannato dai santi Padri sia nelle perfide teorie di Fotino, sia nelle folli asserzioni di Mani, sia nei dogmi insensati di Apollinare2: coloro cioè che negano il mistero dell’incarnazione del Signore, non fanno che accettare con grave danno della loro anima un errore sacrilego, come se fosse qualcosa di nuovo e non ancora condannato. Ma che altro ci insegna la lettura di tutto il Vangelo, se non che proprio per questo mistero della divina misericordia è avvenuta, in quelli che credono, la salvezza del genere umano? Il Figlio unigenito di Dio — essa ci insegna — eguale in tutto al Padre, ha assunto la nostra natura, e rimanendo quel che era, si è degnato di essere quel che non era, cioè vero uomo pur essendo vero Dio; egli ha unito a se stesso, senza contrarre macchia alcuna di peccato, la nostra natura nella sua integrità e perfezione, e quindi con un vero corpo ed una vera anima; concepito per opera dello Spirito Santo nel seno della santa Vergine, sua madre, non ha rifiutato di venir alla luce attraverso il suo parto e di passare per i primi gradi propri dell’infanzia. Così il Verbo di Dio Padre proclamava con la potenza della sua divinità ed insieme con la debolezza della sua carne che c’era realmente in lui la natura umana: con il suo corpo era in grado di porre azioni corporee, con la sua divinità era in grado di operare prodigi spirituali.

Difatti è proprio dell’uomo aver fame, aver sete e dormire; è proprio dell’uomo temere, piangere, rattristarsi; è proprio dell’uomo infine esser crocifisso, morire ed esser seppellito. Ma è proprio di Dio camminare sopra le onde, cambiare l’acqua in vino, risuscitare i morti, far tremare il mondo al momento della propria morte ed elevarsi al di sopra di tutti i cieli con la propria carne, ritornata alla vita. Quelli dunque che credono a tutto questo, non possono aver dubbi su ciò che rispettivamente va ascritto all’umanità o attribuito alla divinità, in quanto nell’uno e l’altro principio uno solo è il Cristo, che come non ha perduto la sua potenza divina, così nascendo ha assunto la vera realtà di un uomo perfetto.

3. Queste persone di cui stiamo parlando, o miei cari, dovete dunque — come si evita un veleno mortale — evitarle, detestarle, sfuggirle, astenendovi anche, se dopo le vostre riprensioni rifiutano di correggersi, dal parlare con loro, perché sta scritto: «La loro parola rode come la cancrena» (2 Tim., 2, 17). Non si può infatti accordare rapporto alcuno di comunione a coloro, che una giusta sentenza ha messo fuori dall’unità della Chiesa: essi non per nostro odio, ma per i loro crimini l’hanno perduta!

Quanto a voi, che siete prediletti da Dio ed oggetto di un riconoscimento apostolico che vale una testimonianza, voi a cui l’apostolo san Paolo, il dottore delle genti, dice: «Perché la vostra fede è proclamata in tutto quanto il mondo» (Rom 1,8), dovete sempre mantenere inalterato quel giudizio, che sapete aver avuto di voi un predicatore tanto autorevole. Nessuno di voi diventi indegno di questa lode, sicché, come in tanti secoli grazie all’ispirazione superiore dello Spirito Santo nessuna eresia vi ha mai contaminato, neppure il contagio dell’empietà di Eutiche possa ora macchiarvi.

Nutriamo fiducia che la protezione di Dio custodirà il vostro cuore e la vostra fede: come finora gli avete fedelmente obbedito, così, perseverando nell’osservanza della fede cattolica, per sempre gli piacerete, per il Cristo nostro Signore.

Amen.

1. L’eresia, a cui si allude, è il monofisismo, che affermava l’esistenza di una sola natura nel Cristo. È dunque la dottrina stessa di Eutiche, di cui tratta l’Omilia.

2. L’idea generale di questo passo è che nel monofisismo di Eutiche riappaiono in parte gli elementi di eresie precedenti, in particolare la perfidia di Fotino, la dementia di Mani, la insania di Apollinare.




IL MONACO ORTODOSSO

“Il monaco sa di non essere “produttivo”. Ha imparato dalla nostra tradizione che esiste un’inattività che si trova al di sopra di ogni attività. Il monaco non fa assolutamente “nulla”, misurato con criteri mondani. E con questo “nulla” risuscita nuovi mondi”

IL MONACO ORTODOSSO *

Un Padre del deserto era solito affermare: «Non sono monaco, ma ho visto veri monaci». (…) Sulla base di quanto ho visto, cercherò di spiegare brevemente cos’è un monaco ortodosso e quale profonda relazione ci leghi tutti alla vita liturgica dei monasteri e alle esperienze personali dei santi asceti. Il Signore non è venuto nel mondo per migliorare semplicemente le condizioni della vita presente, non è venuto per proporre un qualche sistema economico o politico, né per insegnarci un qualche metodo che ci consenta di ottenere un equilibrio psicosomatico. E’ venuto per vincere la morte e portare la vita eterna. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 316) (…)

Ciò che ha l’uomo e ha valore non sono tanto le sue capacità fisiche e intellettuali ma il fatto che egli può diventar partecipe della risurrezione di Cristo, che può morire e viver fin da oggi la vita eterna: «Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25) (…)

La vita del monaco è una perdita e un ritrovamento. Monaco ortodosso non è semplicemente il «mistico». Non è colui che con una determinata dieta o tecnica è giunto ad un alto livello di autodominio e a prodezze di tipo. ascetico. Queste cose, da sole, sono conquiste dell’eone presente, insignificanti e incapaci di vincere – per il monaco e per i suoi fratelli – la morte. Vero monaco ortodosso è il risorto.

Egli non ha quale missione di fare qualcosa con i suoi ragionamenti o di organizzare qualcosa con le sue capacità ma di testimoniare con la sua vita che la morte è stata vinta. E ciò si verifica quando egli stesso si seppellisce come il seme nella terra. Per questo – secondo quanto viene citato nel libro dei detti dei Padri del deserto – quando un giovane monaco riferisce allo iéronda: «Noto che il mio intelletto si trova continuamente in Dio» l’anziano gli dice: «Non è grande impresa il fatto che il tuo intelletto si trovi in Dio; ciò che invece ha importanza è considerare te stesso al di sotto di tutta la creazione» …

Nell’università del deserto – così i Padri hanno chiamato il monachesimo – gli asceti non “imparano” ma “patiscono” e cose divine. Non affaticano la loro mente o il loro corpo, ma sacrificano interamente se stessi. «Se non avessi demolito tutto, non avrei potuto costruire me stesso». Vero monaco è chi è risorto dai morti, chi è un’icona del Cristo risorto (…)

In un modo particolare egli si occupa di tutto e di nulla. E “separato da tutto e unito a tutto”. Il concetto di specializzazione gli è estraneo per natura. Non è specializzato in qualcosa, né qualcos’altro lo lascia indifferente. Gli interessa tutto…

Un monaco scriveva «Non è mio lavoro costruire e tinteggiare case. Nemmeno leggere e scrivere. Qual’è la mia missione? Se possibile, morire in Dio. Allora vivo e mi muovo a opera di un’altra Potenza. Posso in tal modo, liberamente fare tutto (zappare, organizzare, leggere, scrivere) senza legarmi a nulla. Posso passare attraverso tutto – debbo passare – perseguendo sempre con tranquillità ciò che è uno ed unico. Devo lasciare tutto, tutte le divagazioni’ mi attraversino, liberamente, in attesa di quell’uno che dà valore a ogni cosa.

Quando costruisci per costruire edifichi il tuo sepolcro. Quando scrivi per scrivere, tessi il tuo lenzuolo funebre. Quando vivi e respiri cercando la misericordia di Dio, allora attorno a te si intesse una veste di incorruttibilità e dentro di te freme la dolcezza di una consolazione celeste. Costruire o scrivere risulta assai secondario». Il monaco non ha quale scopo di vita di pervenire a un’autoconcentrazione o a un progresso individuali, ma di servire – il mistero della salvezza con il fatto di vivere non per se stesso – ma per Colui che è morto e risorto per noi. E per tutti i Suoi fratelli. Tale meta viene attinta perché il monaco vive non come vuole lui, ma come detta la Chiesa….

L’intera nostra vita ruota attorno a Dio. Il nostro tempo, la nostra occupazione è Lui. La nostra resistenza fisica e il nostro primo pensiero sono rivolti a Lui. L’ufficiatura, la meditazione, la preghiera, costituiscono il senso della lotta ed il polo attorno a cui ci muoviamo….

Ogni consolazione e grazia viene data all’Ortodossia e al suo monachesimo attraverso la morte. Consolazione è il superamento della morte, in ogni forma di vita.

Possiamo renderci conto di questo anche nelle grandi ufficiature monastiche, nei digiuni, in tutti i mezzi di ascesi. E’ dura l’Ortodossia? E’ severa? Supera la resistenza dell’uomo? Dall’esterno appare così. Così è in parte anche nella essenza («Monaco è violenza della natura», afferma San Giovanni Climaco). Solo che non è mai priva di speranza, quanto dura possa sembrare. Non è mai soffocante e innaturale, per quanto buia possa presentarsi.

Perché, alla fine dalla molta fatica, dall’ascesi, dalla veglia – realtà che superano, spesso, la resistenza umana – spunta un germoglio nuovo, incorruttibile, immarcescibile che un frutto centuplicato E allora proclami beate le fatiche e le sofferenze…

I veri monaci giungono alla fine ad accogliere con riconoscenza e di buon grado la tribolazione e la sofferenza, o il disprezzo e l’umiliazione da parte degli uomini perché così vengono affrancati dalle consolazioni ingannevoli di questo mondo e diventano partecipi, fin da oggi, della gloria eterna del Signore….

Non appartengono a quanti si sono convertiti ma a quanti si convertono. L’invito “convertitevi” del Signore non viene inteso con “convertitevi una volta”, nè significa “convertirsi ogni tanto (forse inizia così); significa invece che la tua vita diviene conversione. Che esiste dentro di te un perpetuo atteggiamento di conversione e contrizione. Che nessuno parla, pensa, qualcosa fuori del clima e dell’ethos della contrizione. Che quest’ultima impregna l’esistenza di ognuno. Celebrare ogni momento il mistero della conversione della contrizione, del venire rialzati dall’altra Potenza. Sentire ogni momento che, caduto, sei risollevato da Lui. Sentire che tu sei caduta e Lui risurrezione. Sei non-essere e Lui è l’essere. E per la sua misericordia sconfinata ti ha portato all’essere; caduto, ti ha fatto risorgere e ti fa risorgere incessantemente… Vivono senza posa la “morte vivificante”, la “radiosa tristezza”….

L’uomo può trovare se stesso nelle sue vere dimensioni solo se perduto per Dio e per l’altro (il fratello). «Chi perderà troverà». Solo così si ricostruisce dentro di lui la magnificenza teantropica e sconfinata dell’uomo. Solo così possiamo sentire colte le fondamenta su cui l’uomo si regge non vengano mai scosse. Le fondamenta sono la morte, l’estinzione La realtà antropologica entro cui vive continuamente l’uomo nuovo è la grazia che abbraccia ogni cosa…

Con tutta la loro vita di ascesi e ritiro, essi non si sono allontanati dall’uomo: vi hanno fatto invece ritorno. Hanno abbracciato tutti gli uomini e i loro dolori. Sono diventati veri uomini. Il progresso monastico non dipende da quanto il monaco ha digiunato tribolato, ma da quanto, con l’intera sua ascesi, e divenuto partecipe della grazia del Paraclito (cioè lo Spirito Santo), ha trovato lui stesso riposo e si è fatto riposo per l’uomo suo fratello.

I monaci di una fraternità pensavano di superare in virtù gli altri monaci perché facevano più digiuni e le loro ufficiature erano più lunghe. Su tale argomento un vecchio iéronda (cioè una figura venerabile del monachesimo ortodosso) si espresse così: «Non ditemi quanto digiunano o quanto durata loro ufficiatura. Un’altra è la cosa che mi interessa. Può uno di loro – anche il più perfetto – capire l’uomo stanco di oggi, dare un conforto all’afflitto? Può liberare chi è stretto nelle macchinazioni del diavolo? Se fa questo, se è in grado di dar riposo al fratello, di fargli amare la vita, di farlo gioire ed essere grato a Dio, sarà tutto ciò a dimostrare i progressi spirituali compiuti da un tale monaco» …

(Il monaco ortodosso) ha un’altra concezione della vita, del mondo, delle distanze. Non ha esistenza nel mondo, e nel contempo lo ricapitola, organizza, riunifica («Con le tue preghiere hai sostenuto l’ecumene»).

È uscito dalla mischia. Se cerchi di colpirlo, i tuoi dardi non lo trovano. E’ inesistente per essi. Se lo cerchi, dovunque tu sia, lo hai accanto a te. Vive solo per te…

Non organizza in modo umano. Aiuta ciascuno a trovare se stesso. Aiuta ciascuno ad amare la propria vita, guidandolo fino al cuore della luce che non conosce tramonto…

Ti accorgi che solo ti aiuta con discrezione. Non si intromette brutalmente. Non si impone magicamente. Ti rivela il funzionamento secondo natura del tuo essere. Ti lascia libero. E sei prigioniero della verità, della libertà, dell’unica realtà così com’è …

Davanti a lui hai la percezione di trovarti nel giorno ultimo….Ti trovi innanzi a una teofania, a una vera antropofania. La tua vita assume un’altra dimensione, escatologica. E di un tepore e di una speranza umani si riempiono le realtà escatologiche…

• padre Basilio di Iviron (+ Igumeno aghiorita) in “AA. VV., Voci dal Monte Athos” (Servitum Interlogos – 1993)




L’AMORE, IL MATRIMONIO E LA SESSUALITÀ

di Padre Giovanni Chryssavgis

nato in Australia nel 1958. Ha studiato teologia all’Università di Atene, musica bizantina al Conservatorio greco di musica e ha ottenuto una borsa di studio presso il Seminario teologico “St. Vladimir” (NY), completando poi la sua formazione con un dottorato in studi patristici all’Università di Oxford. La sua ricerca si è specializzata sul pensiero ascetico e la pratica della chiesa primitiva.

I. Amore – Divino e umano

“L’amore, il matrimonio e la sessualità riguardano tutti, perché l’amore è una vocazione per tutti. Come cristiani, crediamo che l’intera creazione sia stata fatta attraverso l’amore. La fonte e la fine di tutte le cose è l’amore, perché la fonte e la fine di tutte le cose è Dio, e “Dio è amore” (1 Giovanni 4: 8, 16).
Anche il male dipende dall’amore. Secondo l’ottimismo di alcuni Padri della Chiesa, nessuno commette un atto malvagio a meno che non creda che ne risulterà qualcosa che ama. Pertanto, l’amore è di origine divina e di natura sacra.
Da una prospettiva umana, non esiste un modo singolare di comprendere il concetto di amore. Trasmette una moltitudine di significati e stati d’animo: dal “fare l’amore”, che può implicare un atto fisico senza amore, all’impegno profondo di una coppia di anziani; dai motivi egoistici, al dono disinteressato; dalla dolcezza di un bambino che tiene per mano i suoi genitori, all’intimità di due amici che si tengono per mano.
Gli esseri umani sono fatti per amarsi e guardarsi l’un l’altro. L’esperienza dell’amore è il cielo e la vita; l’assenza d’amore è l’inferno e la morte. San Macario d’Egitto credeva che l’inferno assomigliasse all’essere legati, schiena contro schiena con un’altra persona, incapace per tutta l’eternità di affrontarla. L’amore spezza le catene della solitudine; abbatte i muri dell’egoismo. L’amore è una forza profonda, un’energia spirituale. Non siamo mai più potenti di quando attraverso l’amore siamo vulnerabili. L’amore scaccia la paura; è più forte della morte.
Apprezzando questa intensità dell’amore, i Padri della Chiesa osano paragonarla all’eros o alla passione. Dionisio l’Areopagita descrive Dio come un “amante maniacale” che protegge con zelo la Sua creazione. L’amore è così potente che una genuina espressione d’amore rivela un’apertura che trasfigura il mondo intero. Guardare negli occhi di un’altra persona con amore è vedere l’anima del mondo intero, è vedere l’immagine stessa di Dio.
Questo tipo di amore è un dono di Dio. Tuttavia, allo stesso tempo, richiede coltivazione e duro lavoro. L’amore richiede tempo e abilità, responsabilità e rispetto. è un atto di estendere me stesso per nutrire un altro, tutto il tempo. La sera della vita, saremo giudicati solo sull’amore. Questo amore è più che semplici sentimenti. È decisione e impegno. Se vuoi amare, devi crearlo e non aspettare che il tuo coniuge te lo offra. Nell’amore e nel matrimonio, Dio ci offre una meravigliosa opportunità di rinascere, di maturare. “Questo è davvero un grande mistero” (Ef 5:32).
La vita è il grande mistero: da vivere, e vivere in abbondanza. E se lavoriamo sull’amore, se coltiviamo l’amore, se abbassiamo la guardia della sfiducia, se facciamo fatica a relazionarci, allora gradualmente noteremo che tutto il mondo cambia e che tutto il mondo è bello. In realtà, certo, saremo noi che saremo cambiati; siamo noi che vediamo le stesse cose con occhi diversi”.

II. Fisicità e spiritualità

Gli autori cristiani fin dai primi tempi si sono sentiti a disagio con l’amore fisico o sessuale. In qualche modo, l’amore fisico è considerato una forma degradata di amore. Alcuni autori affermano che il celibato è superiore all’amore nel matrimonio; altri propongono che l’unico scopo dell’amore fisico sia la procreazione. La fisicità o la sessualità sono state contaminate, considerate impure. Sono visti come contaminanti e vergognosi; le persone sono piene di paura e senso di colpa. La sessualità è vista come un’espressione che ci collega alle forme di vita inferiori, identificate con desideri lussuriosi e istinti animali.
La figura e la teologia di sant’Agostino ha stabilito il modello per il pensiero occidentale su questo argomento fino ad oggi. Di conseguenza, le persone soffrono di una schizofrenia insita in questo aspetto più intimo e personale della vita. Per Agostino la sessualità è il risultato della nostra caduta, Eva è il risultato della defezione di Adamo da Dio; la donna non è creata a immagine di Dio, ma come strumento dell’uomo.
Eppure san Paolo ha chiarito che, divenendo una sola carne (1Cor 6,16), l’uomo e la donna simboleggiano l’unione tra Cristo e la Chiesa. In ogni caso, Cristo non ha mai identificato il peccato con il corpo, ma con ciò che si commette nel cuore (Mt 15,18-19). Per i cristiani “la carne è il cardine della salvezza” (Tertulliano). Quanto è sfortunato, allora, che il cristianesimo – come religione del corpo e della carne, come religione dell’incarnazione – abbia lasciato una cicatrice permanente sul corpo umano.
Non si tratta di fare i conti con il corpo o con la sessualità. Si tratta piuttosto di riconoscerle come legate in modo cruciale agli aspetti più profondi della natura umana. La sessualità non è casuale; piuttosto, è essenziale per la nostra realtà. L’amore sessuale e fisico appartiene al mistero del nostro essere. Questo non vuol dire che la sessualità e la spiritualità siano la stessa cosa. Tuttavia, c’è un’intima corrispondenza tra i due. La negazione dell’uno si riflette nel degrado dell’altro. Senza sessualità non c’è bellezza; senza bellezza non c’è anima; e senza anima non c’è Dio. “Maschio e femmina [Dio] ci creò” (Gen. 1:26). Così ci viene detto subito dopo la creazione di Adamo ed Eva a immagine e somiglianza di Dio. Per i Padri orientali, senza Eva, Adamo era incompleto. “La donna è fatta in piena comunione con l’uomo: condividendo ogni piacere, ogni gioia, ogni bene, ogni dolore, ogni dolore” (San Basilio Magno), “partecipando della stessa grazia divina” (Clemente di Alessandria) Scrivendo esattamente nello stesso periodo come Agostino di Ippona, San Giovanni Crisostomo afferma che “l’amore sessuale non è umano; è di origine divina”.

III. Icona o idolo

“Ora è difficile per una persona prendere coscienza della sessualità (del proprio corpo) senza prendere coscienza della sessualità (dei corpi) di altre persone. E così nell’amore fisico, nell’unione del matrimonio, l’uomo e la donna si offrono l’un l’altro all’immagine di Dio nell’altro. Questo non è dissimile dall’incontro che si verifica nel caso di un’icona. C’è un’arte coinvolta nell’iconografia. Allo stesso modo, c’è un’arte coinvolta nell’amore. L’amore non è semplicemente un atto; è arte. Lo scopo dell’arte dell’amore – come anche dell’iconografia – è trasfigurarsi l’un l’altro, vedersi come la manifestazione dell’Amato divino. Se c’è un posto per le icone nella Chiesa, allora c’è anche un posto per il matrimonio e l’amore sessuale.
Il corpo e l’amore sessuale somigliano a un’icona che apre alla bellezza divina e all’amore divino: “Beato l’uomo che ha ottenuto tale amore e desiderio per Dio come un innamorato folle ha per la sua amata generando fuoco su fuoco, eros su eros, passione per passione, desiderio per desiderio” (San Giovanni Climaco).
Vedere un’altra persona come un’icona è vedere il mondo attraverso gli occhi di Dio. È abolire la distanza tra questo mondo e l’altro; è parlare su questa terra e in quest’epoca il linguaggio del cielo e dell’età che verrà, è rivelare la dimensione sacramentale dell’amore.
L’icona ci insegna un altro mezzo di comunicazione, oltre la parola scritta e parlata. Ci viene insegnato a non guardare le icone, ma a guardarle attraverso. Allo stesso modo, siamo chiamati a penetrare la superficie della persona che amiamo e a rivelarne la sacra profondità interiore.
In effetti, la questione della procreazione si riferisce direttamente a questa nozione di icona. A meno che l’amore coniugale non apra la coppia al di là di se stessa, a meno che la relazione dei due nel matrimonio non rifletta la comunione della Trinità, a meno che l’amore della coppia li estenda in un modo o nell’altro, allora l’amore coniugale si riduce da icona sacra a icona semplice idolo.
La coppia di innamorati è sempre chiamata ad andare oltre il riflesso reciproco; uno specchio non è un’icona, ma un riflesso di se stessi. La coppia è chiamata a diventare icona della Chiesa, una “chiesa in miniatura”. Per San Giovanni Crisostomo, “il matrimonio è un’icona mistica della Chiesa”. Le dimensioni della Chiesa rivelano le dimensioni della coppia di sposi. Come “noi crediamo in una chiesa una, santa, cattolica e apostolica”, così la coppia dovrebbe riflettere la stessa unità, santità, apertura e apostolicità. Questo è importante perché la Chiesa rifiuta di idealizzare o romanticizzare la vita matrimoniale e la famiglia. Pertanto, la coppia deve generare “prole”; il loro amore deve “dare frutto”. Il paradosso è che la coppia deve avere figli, anche se non possono avere figli.

IV. Monachesimo e matrimonio

Alcuni Padri della Chiesa hanno interpretato le lettere di San Paolo, come se implicassero che il monachesimo è superiore al matrimonio (1 Cor 7, 8-9). Tuttavia, «se la verginità è onorata, non ne consegue che il matrimonio sia disonorato» (Gregorio il Teologo). San Macario d’Egitto esclama: “In verità, non c’è né vergine né sposato, né monaco né secolare; ma Dio dà il suo Santo Spirito a tutti, secondo le intenzioni di ciascuno”.
La versione siriaca dello stesso testo recita così: “In verità, la verginità di per sé non è nulla, né il matrimonio, né la vita monacale, né la vita nel mondo…”
La purezza interiore è sempre possibile, indipendentemente dalle circostanze esteriori.
In una relazione d’amore l’altro diventa il centro di attrazione. L’obiettivo è sempre il movimento fuori e oltre se stessi. La prospettiva è sempre il regno dei cieli. I monaci hanno tradizionalmente compreso questa verità nella stessa misura delle coppie sposate. Così gli scrittori ascetici ci insegnano che l’amore non è mai soddisfatto; è solo soddisfatto. L’amore non è un atto di soddisfazione, ma di donazione totale. L’amore sessuale è per la gloria di Dio, non per la gratificazione egoistica dell’uomo.
L’amore genuino alla fine non può essere raggiunto senza la castità. Nella “Scala del Paradiso”, San Giovanni Climaco pone la purezza (passo 29) immediatamente prima dell’amore (passo 30). Il monachesimo, quindi, non è l’astensione dall’amore sessuale. È un’altra manifestazione di questo amore. Il monachesimo non può mai essere un’estinzione o una diminuzione della più vitale risposta umana alla vita.
C’è un elemento di ascesi nel matrimonio, una raffinatezza nell’amore; così come nel monachesimo c’è una dimensione dell’amore, una passione per Dio. Nella tradizione monastica le passioni sono trattate diversamente; sono sopraffatti da passioni più grandi. Una singola, vivida esperienza di amore appassionato ci farà avanzare molto più avanti nella vita spirituale della più ardua lotta ascetica. Una sola fiamma di puro amore è sufficiente per accendere un fuoco cosmico e trasformare il mondo intero.
L’amore non è né un problema fisico né materiale. Non è principalmente una preoccupazione sessuale. È una preoccupazione spirituale. Non va temuto come un tabù, ma accolto come un mistero sacro; non dovrebbe mai essere nascosto come un segreto, ma rivelato come un sacramento.
Il monachesimo, come il matrimonio, è un sacramento d’amore. Il monachesimo, come il matrimonio, è un sacramento del regno. La vera dimensione di entrambi è escatologica. Così l’amore è più grande della preghiera stessa; anzi, è preghiera. Perché l’amore è ciò che definisce la natura umana. Sia i monaci che le coppie sposate devono continuamente lottare per essere ciò che sono chiamati ad essere: rapiti dalla fiamma viva dell’amore divino. Come abbiamo già osservato, l’amore è un dono dall’alto e anche qualcosa per cui tendere; è un punto di partenza, oltre che un punto di arrivo. L’alfa e l’omega della vita sono la prima e l’ultima lettera della parola greca “amo” (agapè). Questo è vero per un monaco o una monaca, come lo è per un marito e una moglie”.

V. Il sacramento del matrimonio

Ogni sacramento è una trascendenza della divisione e dell’alienazione. Nel caso del matrimonio, ogni persona deve prendere coscienza della presenza divina nell’altra. Sia il marito che la moglie devono squarciare il sipario della distanza e della falsità. Quando ciò accade, l’unione coniugale è più forte della morte, non può essere «separata da nessuno». In questa relazione, il maschio non è mai esclusivamente il polo attivo, e la femmina non è mai esclusivamente il polo passivo. La base di ogni relazione sacramentale è che l’uomo e la donna sono complementari: c’è una reciprocità di dare e ricevere, un incontro di reciprocità. Nessuno dei due deve considerare l’altro come un mezzo verso un fine, non importa quanto elevato o spirituale.
Ciò significa che i partner non dovrebbero cercare l’appagamento o la dipendenza l’uno dall’altro. Non posso ritenere mia moglie responsabile del mio vuoto. In ogni momento, ho bisogno di scoprire in Dio il compimento del mio vuoto: è Dio che mi fa sapere che sono amato; è Dio che mi autorizza ad amare un altro. Anche qui incontriamo il “monasticismo” del rapporto coniugale. Il matrimonio non è una soluzione magica ai problemi della vita. Come potrebbe un matrimonio resistere a tali aspettative? C’è da meravigliarsi che i matrimoni falliscano, quando oggi ci viene insegnato che il nostro partner è la nostra “altra metà”, quando siamo meno che persone complete nel sacramento? L’amore personale implica piena dignità e identità, nessuna diminuzione dell’altro; non c’è né falsa idealizzazione né deturpazione dell’altro. La completezza e l’integrità sono indispensabili per un matrimonio sano. E la completezza presuppone l’onestà, non la gentilezza. L’amore è un atto di fede così come un atto di fedeltà. È sempre una tentazione quella di mentire, di ingannare, di essere men che sinceri.
Ciò significa che se deve esserci intimità nell’amore, allora deve esistere la possibilità di conflitto. Nei matrimoni in cui non c’è conflitto, di solito c’è, oppure potrebbe non esserci onestà. Nella società, e anche in Chiesa, ci viene insegnato ad essere gentili. È come imparare a essere disonesti. E così sorridiamo quando siamo tristi o arrabbiati; diciamo cose che non intendiamo. Eppure tutto ciò di cui non si parla apertamente rimane irrisolto e diventa dannoso per la vita dei nostri figli. Dobbiamo essere onesti sui nostri fallimenti, aperti sul nostro vuoto. Sono una parte inestimabile delle nostre relazioni. Questo è il motivo per cui il matrimonio riguarda tanto la separazione quanto l’unione; riguarda tanto il distacco quanto l’attaccamento.

VI. Sessualità e sacramentalità

Per diventare un’unione sacramentale completa, l’ amore tra l’uomo e la donna deve abbracciare tutti gli aspetti della loro vita, ogni livello e capacità del loro essere. Ciò include gli aspetti fisici, spirituali, emotivi e intellettuali della natura umana. Se ciò non accade, la relazione rimane non consumata e incompiuta, è sia non sacra che non sacramentale; diventa sia paralizzante che frustrante.
Questo ci offre un’idea di come pochi matrimoni, anche quelli benedetti dalla Chiesa, siano in realtà sacramentali. Indica anche il nesso tra il matrimonio e la deificazione, verso cui tutti siamo chiamati. Questa sarebbe la mia definizione di “sessualità”: vero completamento e consumazione a tutti i livelli – un risultato raro come la stessa theosis, sebbene altrettanto nobile anche un compito e una vocazione.
Se un partner si sviluppa (a qualsiasi livello) oltre o fuori ritmo con l’altro, questo livello non consumato o non soddisfatto (non accoppiato), questa parte non completata o non realizzata tenderà sempre verso e cercherà di esprimersi in qualche altra forma; non sarà in grado di funzionare correttamente e pienamente all’interno del matrimonio.
Se l’integrità e la totalità sono condizioni critiche per una relazione sacramentale, lo sono infine anche la continuità e l’impegno. La capacità di trasformarsi reciprocamente richiede dedizione e pazienza, fino a quando le estremità appuntite delle rocce indurite nella relazione non vengono appianate, fino a quando non viene costruito un campo magnetico a ogni livello. Poi livello alter livello si dispiega, interagisce e sprigiona le sue potenzialità, che non sono altro che divine. In questo contesto, la fedeltà nella relazione è un riflesso della natura amorevole e paziente di Dio.
In ultima analisi, né il marito né la moglie si appropriano di ciò che l’altro offre. Al contrario, ciascuno la restituisce – insieme a se stesso – alla fonte di ogni vita, a Dio, che ciascuno di noi viene a vedere, incontrare e amare dall’altro, così come avviene nella Divina Liturgia. L’uomo e la donna diventano il pane e il vino dell’Eucaristia. Allora l’amore sacramentale diventa benedizione, conferita dal Creatore a due creature che hanno compiuto lo stesso corso della loro vita attraverso qualunque ostacolo e gioia abbia portato loro. Così entreranno finalmente, trasfigurati, nel Regno di Dio, al quale è dovuto ogni grazie.




San Leone Magno: Quarto discorso tenuto nel Natale del Signore

QUARTO DISCORSO TENUTO NEL NATALE DEL SIGNORE

1. – Dilettissimi, in diversi modi e in molte misure la divina bontà ha sempre provveduto al genere umano e ha generosamente elargito in tutti i secoli precedenti i doni della sua provvidenza. Però in questi ultimi tempi ha superato la larghezza della consueta benignità, quando in Cristo è discesa ai peccatori la misericordia, ai traviati la verità, ai morti la vita. Infatti il Verbo, coeterno e uguale al Padre nell’unità della divinità, assunse la nostra umile natura; e così egli che è Dio, nato da Dio, in quanto uomo prese origine dall’uomo. Il fatto era già stato promesso nella creazione del mondo e anche preannunciato in molte figure e oracoli. Però quelle figure e quei misteri, nascosti nella penombra, avrebbero salvato una piccola porzione dell’umanità, se Cristo non avesse adempiuto le occulte e ripetute promesse! Ora invece, quando l’opera redentiva è stata adempiuta, giova a innumerevoli fedeli, mentre a pochi credenti giovò quando ancora doveva compiersi.

Noi siamo portati alla fede non più con segni e immagini, ma, confermati dal racconto evangelico, adoriamo quel che crediamo adempiuto. In proposito si aggiungono a nostro ammaestramento le testimonianze dei profeti, affinché sia esclusa la possibilità di ritenere dubbio ciò di cui conosciamo attraverso la predizione in tante profezie.

Dunque è vero quel che il Signore ha detto ad Abramo: “Tutte le genti della terra saranno benedette nella tua discendenza”. E David con spirito profetico canta la promessa di Dio: “Il Signore giurò a David la promessa da cui non si ritrae: un rampollo della tua stirpe io porrò sul trono”. E il Signore dice per bocca di Isaia: “Ecco la Vergine che concepisce e dà alla luce un figlio e gli darà il nome di Emmanuele, che significa: Dio con noi”; e ancora: “Un virgulto sorgerà dal tronco di Jesse e un pollone verrà su dalle sue radici”.

In questo virgulto certamente è stata preannunciata la santa vergine Maria, che, discendente della stirpe di David e di Jesse, è stata fecondata dallo Spirito Santo e ha partorito il fiore novello dell’umana carne nell’esercizio di una reale funzione di madre, benché il parto sia stato verginale.

2. – Dunque, i giusti esultino nel Signore, i cuori dei fedeli prorompano nella lode a Dio e i figli degli uomini esaltino i suoi prodigi. Soprattutto da questa opera di Dio la nostra pochezza conosce quanto sia stimata dal suo Creatore.

Egli già ha donato molto all’umanità fin dall’origine, perché ci ha fatti a sua immagine, ma molto più generoso si è mostrato nella nostra restaurazione, quando egli stesso, il Signore, si è adeguato alla condizione di servo. Proviene certamente dalla stessa identica misericordia tutto quanto il Creatore ha elargito alla creatura: però è meno meraviglioso che l’uomo sia elevato a qualità divine del fatto che Dio si abbassi alla condizione umana. Se Dio, onnipotente, non si fosse degnato di tanto, nessun modello di santità, nessuna ricchezza di sapienza ci avrebbe potuto liberare dalla schiavitù del diavolo e dall’abisso della morte eterna. La condanna, che si propaga con il peccato da uno agli altri uomini, sarebbe rimasta; e la natura colpita da mortale ferita, non avrebbe trovato nessun rimedio, perché non avrebbe potuto mutare con le proprie forze la sua condizione.

Ora, il primo uomo prese la sostanza carnale dalla terra e fu animato da spirito razionale per insufflazione del Creatore, perché vivendo a immagine e somiglianza del suo autore, conservasse la bellezza della bontà e santità di Dio nella irradiante imitazione (del suo essere), come in un nitido specchio.

Se egli avesse con l’osservanza della legge costantemente perfezionato tale luminosissima dignità della propria natura, la stessa anima incontaminata avrebbe condotto la condizione terrestre del corpo alla gloria celeste. Ma perché credette temerariamente e infelicemente a colui che per invidia tendeva inganni, e accondiscese ai suggerimenti di superbia e preferì usurpare con l’occupazione, anziché meritare l’aumento di dignità, tenuto in serbo per lui, non soltanto il primo uomo ma tutta la sua posterità dovette ascoltare: “Tu sei polvere e in polvere ritornerai”. Dunque “qual è l’Adamo terrestre, tali sono anche i corpi terrestri”: nessuno di essi fu immortale, perché nessuno è diventato celeste.

3. – L’onnipotente Figlio di Dio che tutto riempie e tutto contiene, totalmente uguale al Padre, coeterno nell’unica e medesima essenza ricevuta da lui e regna con lui coeterno, ha assunto la natura umana. Così il Creatore e il Signore di tutto si è degnato essere uno dei mortali per spezzare le catene del peccato e della morte. A tal fine si scelse una madre, che egli stesso aveva fatto, la quale, conservando intatta l’integrità verginale, non dovesse fare altro che apprestare la sostanza corporea, in maniera che, rimanendo illesa dal contagio del seme umano fecondante, purezza e verità risiedessero nel nuovo uomo.

Dunque in Cristo, generato dal seno della Vergine, la natura nostra, per il fatto che mirabile è stata la sua nascita, non è indifferente. Egli è vero Dio e anche vero uomo; e in ambedue le nature non accoglie nulla di fittizio. “Il Verbo si è fatto carne” per elevazione della carne, non per difetto della divinità, la quale in tal modo ha diretto la sua potenza e bontà elevando ciò che è nostro con l’assumerlo e non ha perduto ciò che è suo nel comunicarlo. Secondo la profezia di David, in questa natività di Cristo “la fedeltà è fiorita dalla terra e la giustizia si è affacciata dal cielo”. In questa nascita si è adempiuto anche il cantico di Isaia: “Si apra la terra e produca la salvezza e faccia spuntare la giustizia”.

Difatti, la terra della umana carne, maledetta già in chi per primo peccò, in questo solo parto della santa Vergine germogliò un rampollo benedetto, estraneo alla corruzione della propria stirpe.

Ognuno si appropria la spirituale origine di Cristo nella rigenerazione; l’acqua del battesimo è per ogni uomo che viene rigenerato quasi un seno verginale, perché lo stesso Spirito Santo, che adombrò la Vergine, riempie la fonte. Il peccato che lì fu tolto dal santo concepimento, qui è cancellato dalla mistica lavanda.

4. – Dilettissimi, da questo mistero è molto lontano lo stravagante errore dei manichei, che non hanno alcuna parte alla rigenerazione di Cristo, perché negano che egli sia nato da Maria Vergine con nascita corporea. Essi non ritengono vera la sua natività e neppure ammettono la realtà della sua passione: così, non confessandolo veramente sepolto, negano che egli sia realmente risuscitato. Incamminatisi per la via scoscesa di una dottrina esecrabile, ove non sono che tenebre e precipizi, andando di gorgo in gorgo, scivolano nell’abisso della morte. Non possono trovare luogo saldo a cui aggrapparsi, costoro che, oltre alle malvagità, degne solo dell’approvazione diabolica, nel giorno più solenne della loro religione si rallegrano – l’abbiamo saputo dalla loro ultima confessione – della sporcizia dell’animo e del corpo, incuranti della integrità della fede e del pudore. In questo modo si riconoscono empi nella dottrina e osceni nei riti.

5. – Le altre eresie, dilettissimi, pur tutte meritevoli di condanna nelle loro differenze, hanno però qualche parte di vero. Ario, asserendo che il Figlio di Dio è inferiore al Padre e creatura, e credendo che lo Spirito Santo sia stato creato dal Figlio insieme alle altre creature, per la sua empietà andò in perdizione. Tuttavia, egli che non scorse l’eterna e immutabile divinità se non riducendo la Trinità all’unità della natura del Padre, non negò Dio. Macedonio, estraneo pure lui alla luce della verità, non ammise la divinità dello Spirito Santo; però confessò una e identica potenza nel Padre e nel Figlio. Sabellio, impigliato in un groviglio di errori, giudicò che l’unità di sostanza fosse senza alcuna distinzione nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo; perciò quello che doveva attribuire all’uguaglianza di natura, l’attribuì alla unicità di persona. Incapace di comprendere la vera Trinità, credette che sotto triplice nome fosse una e identica la persona. Fotino, ingannato dalla cecità della mente, confessò che Cristo era vero uomo della nostra stessa natura; però non credette che egli fosse Dio, nato da Dio prima dei secoli. Apollinare, privo di solida fede, in tal modo credette che il Figlio di Dio avesse assunto la vera natura della carne umana, ma asseriva che in quel corpo non vi era l’anima, perché era sostituita dalla divinità. Se continuiamo a elencare tutti gli errori che la fede cattolica ha condannati, in ciascuno si trova or questa or quella verità che può essere separata dalle tesi condannate. Invece nella dottrina scellerata dei manichei nulla si trova che possa essere giudicato accettabile.

6. – Ma voi, dilettissimi, ai quali nessun titolo posso rivolgere con più proprietà se non usando le parole di san Pietro apostolo “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione sacra, popolo tratto in salvo”, edificati sopra Cristo che è pietra incrollabile, innestati nel Signore, nostro Salvatore, attraverso la reale assunzione della nostra carne: perseverate saldi nella fede, che avete professato davanti a molti testimoni, nella quale, rinati mediante l’acqua e lo Spirito Santo, avete ricevuto il crisma della salvezza e il segno della vita eterna.

Se ora alcuno ci predicasse una verità diversa da quella che avete appreso, sia scomunicato. Non vogliate anteporre alla luminosa verità favole sacrileghe; e giudicate senza esitazione, diabolico e causa di morte, quanto leggete o ascoltate di contrario al simbolo cattolico e apostolico. Non vi traggano in inganno i simulati digiuni, che non giovano a purificare le anime ma a perderle. Coloro che li praticano assumono atteggiamenti di pietà e di castità per circondare con questo ingannevole velo le oscenità delle loro azioni, mentre dall’intimo di un cuore perverso scagliano strali per colpire i semplici, come dice il profeta: “per trafiggere al buio gli uomini retti”.

Grande protezione è la fede integra, la fede vera, in cui nulla può essere aggiunto e nulla tolto: se, infatti, non è una, non è fede. L’Apostolo in proposito dice: “Non c’è che un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Non esiste che un solo Dio e Padre di tutti, il quale è al di sopra di tutti, opera in tutti ed è in tutti”.

Attaccatevi a questa unità, dilettissimi, con incrollabile animo; e in essa “cercate la santità”. In essa soltanto è possibile obbedire ai comandi del Signore, perché “senza la fede è impossibile piacere a Dio”; senza di essa nulla è casto, nulla è santo, nulla è vivo; “il giusto, infatti, vive di fede”. Chi ha perduto la fede per inganno del diavolo, pur vivente, è già morto, perché, come per la fede si ha la santità, così per la fede vera si acquista la vita eterna. Dice infatti il Signore, nostro Salvatore: “La vita eterna è questa, che conoscano te, solo vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. Egli vi faccia progredire e perseverare fino alla meta, il quale vive e regna col Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli.

Amen.