P. Seraphim Rose: Sono validi i sacramenti dei non ortodossi?
Potrebbe illustrarci la dottrina ortodossa del Santo Spirito in relazione alla realtà dei sacramenti non ortodossi: il Santo Spirito è presente in essi?
Il Santo Spirito è stato inviato da nostro Signore Gesù Cristo il giorno di Pentecoste, il cinquantesimo giorno dopo la sua Risurrezione, il decimo giorno dopo che Egli stesso è asceso al cielo per rimanere con la Chiesa fino alla fine dei tempi. Storicamente, c’è stata una sola Chiesa che Egli ha fondato.
Ora, alcune persone studiano la storia per trovare quella Chiesa. Per esempio, c’è un’intera storia della Chiesa in Uganda. Negli anni Venti (del XX secolo), due seminaristi ugandesi stavano studiando in un seminario anglicano e videro che la dottrina insegnata lì non era quella che conoscevano dagli scritti degli antichi Padri. Pensarono allora di guardare al cattolicesimo romano, che doveva essere la Chiesa antica. Nella loro “ricerca della vera Chiesa antica” (come loro stessi la chiamavano), andarono a studiare in un seminario cattolico romano e si accorsero che la dottrina con cui avevano familiarizzato differiva dall’insegnamento degli antichi Padri della Chiesa. Si chiesero: “Se la verità è cambiata qui, allora dove può essere quella giusta del Cristo?”. E così hanno sentito parlare della fede ortodossa e hanno fatto molta strada per trovare dove fosse.
All’inizio trovarono un uomo che si definiva ortodosso, ma era un comune ciarlatano che distribuiva qualcosa che sosteneva essere la Comunione. Quando un laico greco disse loro che c’era qualcosa di impuro in quell’uomo, se ne accorsero, si pentirono, rifiutarono l’inganno e ricominciarono a cercare. Il primo Vescovo ortodosso che incontrarono era un vescovo molto indegno e disse loro: “Non preoccupatevi. Tutte le religioni sono uguali; tornate dagli anglicani”. Ma non si lasciarono sedurre da questo. Alla fine trovarono un Vescovo ortodosso che insegnava correttamente la parola di verità, e allora divennero ortodossi. Così oggi la Chiesa si sta diffondendo in Africa: in Uganda, Kenya, Zaire, Tanzania, ecc. Abbiamo anche filmato le loro funzioni, che erano molto impressionanti. Hanno preso il canto greco bizantino e, senza cercare di cambiarlo (hanno semplicemente cantato nella loro lingua madre), il suono era molto sublime, con una sorta di sapore africano indigeno. Hanno fatto con il canto bizantino quello che un tempo i greci avevano fatto con l’antico canto ebraico.
Cioè, questi africani hanno fatto una ricerca storica e hanno scoperto che c’è una sola Chiesa che viene direttamente da Cristo e che insegna quello che insegnavano nell’antichità: è la Chiesa Ortodossa. Da un punto di vista storico, si può anche facilmente vedere che tutte le altre Chiese si sono separate dalla Chiesa Ortodossa: il cattolicesimo romano si è separato prima degli altri nell’XI secolo, quando la controversia sul ruolo del Papa nella Chiesa ha raggiunto il suo punto di svolta e il Papa ha rifiutato il dogma ortodosso, trascinando tutto l’Occidente dopo di lui nello scisma.
Fino ai nostri giorni, il Santo Spirito opera nell’Ortodossia. Nei gruppi protestanti occidentali moderni, qualsiasi cosa ci sia è raramente chiamata Comunione e quindi non si dovrebbe cercare la grazia del Santo Spirito in qualcosa che loro stessi non considerano Comunione. Naturalmente, il cattolicesimo romano e alcuni altri gruppi credono di avere la Comunione. Ma il punto è che la vera Comunione, così come Cristo l’ha creata, è solo nella Chiesa Ortodossa… Infatti, possiamo vedere storicamente che facciamo tutto come facevano nella Chiesa antica. Filippo, per esempio, portò l’eunuco al fiume e lo battezzò, senza dubbio nello stesso modo in cui lo facciamo noi: per immersione tre volte nel nome del Padre, del Figlio e del Santo Spirito. È per questo che l’Ortodossia è conosciuta come conservatrice: manteniamo consapevolmente le antiche tradizioni che provengono da Cristo, dagli Apostoli e dai primi Padri della Chiesa.
Può parlarci della posizione dell’Ortodossia nei confronti delle religioni non cristiane?
Cristo è venuto per illuminare l’umanità. Ci sono varie religioni al di fuori della sua Rivelazione, i loro seguaci sono sinceri, ma solo dove non c’è il culto del diavolo e l’anima cerca davvero di trovare il Signore. Insomma, prima che la gente senta parlare di Cristo, queste religioni possono essere buone per certi versi, ma non vi porteranno alla meta. L’obiettivo è la vita eterna e il Regno dei Cieli e il Signore si è incarnato per rivelarcelo. Cioè, il cristianesimo è l’unica verità. Si può vedere che ci sono vari elementi relativi di verità in altre religioni e spesso sono molto profondi, ma non aprono il Paradiso. Solo quando Cristo è venuto sulla terra e ha detto al ladrone: “Sarai con me in Paradiso” (Lc 23, 43), il Paradiso è stato effettivamente aperto agli uomini.
Ieromonaco Seraphim Rose di Platina – Arizona
La Dormizione (“Uspenie”, “Koimesis”) della nostra Santissima Signora Madre di Dio e Sempre Vergine Maria
Festa il 15 (28) agosto
Dopo l’Ascensione del Signore, la Madre di Dio rimase nelle cure dell’Apostolo Giovanni il Teologo, mentre durante i suoi viaggi visse nella casa dei suoi genitori, vicino al Monte Eleon (il Monte degli Ulivi, o Monte Oliveto). Fu una fonte di consolazione ed edificazione sia per gli Apostoli che per tutti i credenti. Conversando con loro, raccontò loro di eventi miracolosi: l’Annunciazione (Blagoveschenie), la Concezione (Zachatie) senza seme e senza contaminazione di Cristo nato da Lei, della Sua prima infanzia e di tutta la Sua vita terrena. E proprio come gli Apostoli, aiutò a piantare e rafforzare la Chiesa cristiana con la Sua presenza, il Suo discorso e le Sue preghiere. La riverenza degli Apostoli per la Santissima Vergine era straordinaria. Dopo aver ricevuto il Santo Spirito nel giorno straordinario della Pentecoste, gli Apostoli rimasero sostanzialmente a Gerusalemme per circa 10 anni, occupandosi della salvezza degli ebrei e desiderando inoltre vedere la Madre di Dio e ascoltare il Suo santo discorso. Molti dei nuovi illuminati nella fede vennero persino da terre lontane a Gerusalemme, per vedere e ascoltare la Purissima Madre di Dio. Durante il periodo della persecuzione, iniziata dal re Erode contro la giovane Chiesa di Cristo (Atti 12,1-3), la Santissima Vergine insieme all’Apostolo Giovanni il Teologo si ritirò nell’anno 43 a Efeso. La predicazione del Vangelo lì era toccata in sorte all’Apostolo Giovanni il Teologo. La Madre di Dio era allo stesso modo a Cipro con San Lazzaro (il Quattro Giorni-Sepolto), dove era vescovo. Era anche sul Sacro Monte Athos, di cui, come dice Santo Stefano Svyatogorets (cioè Santo Stefano del “Sacro Monte”), la Madre di Dio parlò profeticamente: “Questo posto mi sarà assegnato, datomi da Mio Figlio e dal Mio Dio. Sarò la Patrona di questo posto e l’Intercessore presso Dio per esso”. Il rispetto degli antichi Cristiani per la Madre di Dio era così grande, che conservarono ciò che potevano della Sua vita, ciò di cui potevano prendere nota riguardo ai Suoi detti e alle Sue azioni, e ci tramandarono persino i riguardi del Suo aspetto esteriore. Seguendo la tradizione – basata sulle parole dei sacerdoti martiri Dionigi l’Areopagita (+ 3 ottobre 96), Ignazio il Teoforo (+ 20 dicembre 107) – Sant’Ambrogio di Milano (Comm. 7 dicembre) ebbe modo di scrivere nella sua opera “Sulle vergini” riguardo alla Madre di Dio:
“Era la Vergine non solo di corpo, ma anche di anima, umile di cuore, circospetta nel parlare, saggia nella mente, non eccessivamente dedita al parlare, amante della lettura e del lavoro e prudente nel parlare. La sua regola di vita era: non offendere nessuno, avere buone intenzioni per tutti, rispettare gli anziani, non essere invidiosa degli altri, evitare di vantarsi, essere sana di mente e amare la virtù. Quando mai lanciò un insulto in faccia ai suoi genitori, quando fu in discordia con i suoi parenti? Quando mai si gonfiò arrogantemente davanti a una persona modesta, o rise dei deboli, o evitò gli indigenti?
Con Lei non c’era possibilità di abbagli, di parole sconvenienti, né di condotta impropria: era modesta nei movimenti del corpo, il suo passo era tranquillo e la sua voce schietta; – tale che il suo volto corporeo era un’espressione dell’anima e una personificazione della purezza. Tutti i suoi giorni era preoccupata del digiuno: dormiva solo quando necessario, e anche allora, quando il suo corpo era a riposo, era ancora vigile nello spirito, ripetendo nei suoi sogni ciò che aveva letto, o l’attuazione ponderata delle intenzioni proposte, o quelle pianificate ancora di nuovo. Era fuori casa solo per raggiungere la Chiesa, e solo in compagnia dei parenti. Altrimenti, appariva solo raramente fuori casa in compagnia di altri, ed era la sua migliore sorvegliante; altri potevano proteggerla solo nel corpo, ma Lei stessa custodiva il suo carattere”.
Secondo la tradizione, quella del compilatore della Storia della Chiesa Nicephoros Kallistos (XIV secolo), la Madre di Dio “era di statura media, o come altri suggeriscono, leggermente più della media; i suoi capelli erano dorati; i suoi occhi erano luminosi con pupille come olive lucide; le sue sopracciglia erano forti e moderatamente scure, il suo naso pronunciato e la sua bocca vibrante che esprimeva un dolce discorso; il suo viso non era né rotondo né angoloso, ma un po’ oblungo; il palmo delle sue mani e le dita erano allungate… Nella conversazione con gli altri conservava il decoro, senza diventare sciocca né agitata, e in effetti non si arrabbiava mai; senza artifici e diretta, non era eccessivamente preoccupata di se stessa, e lungi dal coccolarsi, era decisamente piena di umiltà. Riguardo agli abiti che indossava, era soddisfatta di avere colori naturali, il che è ancora oggi evidenziato dal suo sacro copricapo. Basti dire che una grazia speciale accompagnava tutte le sue azioni”. (Nicephoros Kallistos prese in prestito la sua descrizione dalla “Lettera a Teofilo sulle icone” di Sant’Epifanio di Cipro (+12 maggio 403). Le circostanze dell’Addormentarsi o Dormizione della Madre di Dio erano note nella Chiesa Ortodossa fin dai tempi apostolici. Già nel I secolo, il sacerdote martire Dionigi l’Areopagita scrisse della Sua “Dormizione”. Nel II secolo, il racconto dell’Assunzione corporea della Santissima Vergine Maria al Cielo si trova nelle opere di Melitone, vescovo di Sardi. Nel IV secolo, Sant’Epifanio di Cipro fa riferimento alla tradizione dell'”Addormentarsi” della Madre di Dio. Nel V secolo, Sant’Epifanio di Cipro, Patriarca di Gerusalemme, disse alla santa imperatrice bizantina Pulcheria: “Sebbene nella Sacra Scrittura non vi sia alcun resoconto sulle circostanze della Sua fine, sappiamo diversamente dalla tradizione più antica e credibile”. Questa tradizione in dettaglio era raccolta ed esposta nella storia della Chiesa di Niceforo Callisto durante il XIV secolo.
Al tempo della sua benedetta “Dormizione”, la Santissima Vergine Maria era di nuovo a Gerusalemme. La sua fama di Madre di Dio si era già diffusa in tutta la terra e aveva suscitato contro di Lei molti invidiosi e dispettosi, che volevano attentare alla sua vita; ma Dio la preservò dai nemici.
Giorno e notte trascorreva in preghiera. La Santissima Madre di Dio andava spesso al Santo Sepolcro del Signore e qui offriva incenso e piegava le ginocchia. Più di una volta i nemici del Salvatore cercarono di impedirle di visitare il suo luogo santo implorando il sommo sacerdote una guardia per la sorveglianza della Tomba del Signore. Ma la Santa Vergine Maria, invisibile a chiunque, continuò a pregare di fronte a loro. In una di queste visite al Golgota, l’Arcangelo Gabriele le apparve davanti e annunciò il suo imminente trasferimento da questa vita alla vita Celeste di beatitudine eterna. In pegno di ciò, l’Arcangelo le affidò un ramo di palma. Con queste notizie Celesti la Madre di Dio tornò a Betlemme con le tre ragazze che la assistevano (Sepphora, Evigea e Zoila). Quindi, convocò il Giusto Giuseppe di Arimatea e altri discepoli del Signore e raccontò loro del suo imminente Riposo (Uspenie). La Santissima Vergine pregò anche che il Signore facesse venire da Lei l’Apostolo Giovanni. E il Santo Spirito lo trasportò da Efeso, ponendolo proprio accanto a quel luogo, dove giaceva la Madre di Dio. Dopo la preghiera, la Santissima Vergine offrì incenso e Giovanni udì una voce dal Cielo che chiudeva la sua preghiera con la parola “Amen”. La Madre di Dio notò che questa voce accompagnava il rapido arrivo degli Apostoli e dei Discepoli e delle sante Potenze incorporee. I Discepoli, il cui numero allora era impossibile da contare, si radunarono insieme, – dice San Giovanni Damasceno, – come nuvole e aquile, per ascoltare la Madre di Dio. Nel vedersi l’un l’altro, i Discepoli si rallegrarono, ma nella loro confusione si chiedevano l’un l’altro perché il Signore li avesse riuniti insieme in un unico luogo. San Giovanni il Teologo, salutandoli con lacrime di gioia, disse che per la Madre di Dio era iniziato il tempo del riposo del Signore. Entrati dalla Madre di Dio, la videro augustamente distesa sul lettuccio e piena di felicità spirituale. I discepoli la salutarono, e poi raccontarono di essere stati miracolosamente trasportati dai loro luoghi di predicazione. La Santissima Vergine Maria glorificò Dio, in quanto aveva ascoltato la sua preghiera e adempiuto il desiderio del suo cuore, e cominciò a parlare della sua fine imminente. Durante il tempo di questa conversazione anche l’apostolo Paolo apparve in modo miracoloso insieme ai suoi discepoli: Dionigi l’Areopagita, il meraviglioso Ieroteo e Timoteo e altri tra i Settanta Discepoli. Il Santo Spirito li aveva radunati tutti insieme, in modo che potessero essere degni della benedizione della Purissima Vergine Maria e tanto più opportunamente per provvedere alla sepoltura della Madre del Signore. Ognuno di loro Ella lo chiamò per nome, li benedisse e li esaltò nella loro fede e nelle loro difficoltà nella predicazione del Vangelo di Cristo, e a ciascuno augurò la beatitudine eterna e pregò con loro per la pace e il benessere del mondo intero.
Seguì la terza ora, quando doveva verificarsi l’Uspenie-Riposo della Madre di Dio. Una moltitudine di candele ardeva. I santi Discepoli con canti circondavano il letto della malattia felicemente adornato e su di esso giaceva la Purissima Vergine e Madre di Dio. Pregava in previsione della sua dipartita e dell’arrivo del suo desiderato Figlio e Signore. Improvvisamente la Luce inesprimibile della Gloria Divina brillò, di fronte alla quale le candele ardenti impallidivano al confronto. Tutti coloro che videro si spaventarono. Seduto in cima, come immerso nei raggi della Luce indescrivibile, c’era Cristo, il Re della Gloria stesso disceso, circondato da schiere di Angeli e Arcangeli e altre Potenze Celesti, insieme alle anime degli antenati e dei profeti, che in precedenza avevano predetto della Santissima Vergine Maria. Vedendo il Figlio, la Madre di Dio esclamò: “L’anima mia magnifica il mio Signore, e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua ancella” – e, alzandosi dal letto per incontrare il Signore, si inchinò a Lui. E il Signore le ordinò di entrare nelle dimore della Vita Eterna. Senza alcuna sofferenza fisica, come in un sonno felice, la Santissima Vergine Maria abbandonò la sua anima nelle mani del suo Figlio e Dio.
Poi iniziò un gioioso canto angelico. Accompagnando l’anima pura della promessa sposa di Dio e con riverente timore per la Regina del Cielo, gli Angeli esclamarono: “Salve, o Piena di Grazia, il Signore è con Te, benedetta sei Tu fra le donne! Perché ecco, è la Regina, la Fanciulla di Dio che viene, solleva le porte e con l’Eterno-Esistente sollevate la Madre della Luce; perché da Lei è giunta la salvezza a tutta la razza umana. Su di Lei è impossibile guardare e a Lei è impossibile rendere il dovuto onore” (verso dello Stikherion su “Signore, ho gridato”). Le porte celesti furono sollevate e incontrando l’anima della Santissima Madre di Dio, i Cherubini e i Serafini con gioia La glorificarono. Il volto aggraziato della Madre di Dio era raggiante della gloria della verginità divina e dal Suo corpo trasudava fragranza.
Miracolosa fu la vita della Vergine Purissima, e meraviglioso fu il Suo Riposo, come canta la Santa Chiesa: “In Te, o Regina, il Dio di tutti ha compiuto un miracolo, che trascende le leggi della natura. Proprio come nel parto Egli ha preservato la Tua verginità, così anche nella tomba Egli ha preservato il Tuo corpo dalla decomposizione” (Canone 1, Ode 6, Tropario 1). Dando un bacio al corpo purissimo con riverenza e timore, i Discepoli a loro volta ne furono benedetti e colmati di grazia e gioia spirituale. Attraverso la grande glorificazione della Santissima Madre di Dio, l’onnipotente potere di Dio guarì i malati, che con fede e amore toccarono il sacro giaciglio. Piangendo la loro separazione sulla terra dalla Madre di Dio, gli Apostoli si accinsero a seppellire il Suo corpo purissimo. I santi Apostoli Pietro, Paolo, Giacomo e altri dei 12 Apostoli portarono la bara funebre sulle loro spalle e su di essa giaceva il corpo della sempre Vergine Maria. San Giovanni il Teologo andava in testa con lo splendente ramo di palma del Paradiso e gli altri santi e una moltitudine di fedeli accompagnavano la bara funebre con candele e turiboli, cantando canti sacri. Questa solenne processione andava dal quartiere di Sion attraverso tutta Gerusalemme fino al Giardino del Getsemani.
Con l’inizio della processione, all’improvviso apparve sul corpo purissimo della Madre di Dio e su tutti coloro che la accompagnavano una vasta e splendente nuvola circolare, come una corona, e al coro degli Apostoli si unì il coro degli Angeli. Si udì il canto delle Potenze Celesti, che glorificavano la Madre di Dio, che riecheggiava quello delle voci mondane. Questo cerchio di cantori e di splendore Celesti si muoveva nell’aria e accompagnava la processione fino al luogo stesso della sepoltura. Gli abitanti increduli di Gerusalemme, sorpresi dalla straordinaria grandiosa processione funebre e irritati dagli onori accordati alla Madre di Gesù, denunciarono ciò ai sommi sacerdoti e agli scribi. Ardenti di invidia e di vendetta verso tutto ciò che ricordava loro Cristo, mandarono i loro servi a interrompere la processione e a dare alle fiamme il corpo della Madre di Dio. Una folla inferocita e soldati si mossero contro i cristiani, ma la corona eterea, che accompagnava la processione nell’aria, si abbassò a terra e come un muro la recintò. Gli inseguitori udirono i passi e il canto, ma non riuscirono a vedere nessuno di coloro che accompagnavano la processione. E in effetti molti di loro furono colpiti dalla cecità. Il sacerdote ebreo Aftonia, per dispetto e odio verso la Madre di Gesù di Nazareth, voleva rovesciare la bara funebre, su cui giaceva il corpo della Santissima Vergine Maria, ma un Angelo di Dio gli tagliò invisibilmente le mani, che avevano toccato la bara. Vedendo tale prodigio, Aftonia si pentì e con fede confessò la maestà della Madre di Dio. Ricevette la guarigione e si unì alla folla che accompagnava il corpo della Madre di Dio, e divenne uno zelante seguace di Cristo. Quando la processione raggiunse il Giardino del Getsemani, allora tra il pianto e il lamento iniziò l’ultimo bacio al corpo completamente puro. Solo verso sera gli Apostoli riuscirono a metterlo nella tomba e a sigillare l’ingresso della grotta con una grande pietra. Per tre giorni non lasciarono il luogo di sepoltura, durante questo periodo pregarono e salmodiarono incessantemente. Per la saggia provvidenza di Dio, l’Apostolo Tommaso era destinato a non essere presente alla sepoltura della Madre di Dio. Arrivato tardi il terzo giorno al Getsemani, si sdraiò nella grotta sepolcrale e con lacrime amare espresse ad alta voce il suo desiderio, che gli fosse concessa un’ultima benedizione della Madre di Dio e che potesse avere un ultimo addio con Lei. Gli Apostoli, per sincera pietà nei suoi confronti, decisero di aprire la tomba e di concedergli il conforto di venerare i resti santi della Sempre Vergine Maria. Ma dopo aver aperto la tomba, vi trovarono solo i teli della tomba e furono così convinti dell’ascesa corporea o assunzione della Santissima Vergine Maria al Cielo.
La sera dello stesso giorno, quando gli Apostoli si erano riuniti in una casa per rifocillarsi con il cibo, la Madre di Dio stessa apparve loro e disse: “Rallegratevi! Io sono con voi – per tutta la lunghezza dei giorni”. Ciò rallegrò così tanto gli Apostoli e tutti coloro che erano con loro, che presero una porzione del pane, messa da parte durante il pasto in memoria del Salvatore (“la porzione del Signore”), ed esclamarono anche: “Santissima Madre di Dio, aiutaci”. (Questo segna l’inizio del rito di offerta di una “Panagia” (“Tutta Santa”) – l’usanza di offrire durante i pasti una porzione di pane in onore della Madre di Dio, che anche al giorno d’oggi viene fatta nei monasteri). La fascia della Madre di Dio e il suo abito sacro, – conservati con riverenza e distribuiti sulla faccia della terra a pezzi – sia in passato che nel presente hanno operato miracoli. Le sue numerose icone ovunque escono con effusioni di segni e guarigioni, e il suo corpo santo – assunto in cielo, testimonia del nostro futuro modo di vivere in esso. Il suo corpo non fu lasciato alle casuali vicissitudini del mondo transitorio, ma fu ancor più incomparabilmente esaltato dalla sua gloriosa ascesa al cielo.
La festa della Dormizione della Santissima Madre di Dio è celebrata con speciale solennità nel Getsemani, nel luogo della sua sepoltura. In nessun altro luogo c’è un tale dolore del cuore per la separazione dalla Madre di Dio e in nessun altro luogo un tale sollevamento, persuaso della sua intercessione per il mondo.
La città santa di Gerusalemme è separata dal Monte degli Ulivi dalla valle di Cedron su Giosafat. Ai piedi del Monte degli Ulivi è situato il Giardino del Getsemani, dove gli ulivi danno frutto ancora oggi.
Il santo Antenato di Dio Gioacchino si fece seppellire all’età di 80 anni, alcuni anni dopo l’Ingresso (“Vvedenie vo Khram”) della Santissima Vergine Maria nel Tempio di Gerusalemme (Comm. 21 novembre). Sant’Anna, rimasta vedova, si trasferì da Nazareth a Gerusalemme e visse vicino al Tempio. A Gerusalemme acquistò due proprietà: la prima alle porte del Getsemani e la seconda nella valle di Giosafat. Nel secondo luogo costruì una cripta per il riposo dei membri della sua famiglia e dove anche lei stessa fu sepolta con Gioacchino. E fu lì nel Giardino del Getsemani che il Salvatore spesso pregava con i suoi discepoli.
Il corpo purissimo della Madre di Dio fu sepolto nel cimitero di famiglia. Con la sua sepoltura i cristiani onorarono anche con riverenza il sepolcro della Madre di Dio e costruirono in questo luogo una Chiesa. All’interno della Chiesa era conservato il prezioso lenzuolo funebre che avvolgeva il suo corpo purissimo e profumato. Il santo Patriarca di Gerusalemme Giovenale (420-458) attestò davanti all’imperatore Marciano (450-457) l’autenticità della tradizione sull’assunzione miracolosa della Madre di Dio al cielo, e inviò anche all’imperatrice, Santa Pulcheria (+ 453, Comm. 10 settembre), i teli funebri della Madre di Dio, che aveva preso dalla sua tomba. Santa Pulcheria poi pose questi teli funebri all’interno della Chiesa di Blakhernae. Si sono conservate testimonianze che alla fine del VII secolo una Chiesa sopraelevata era situata in cima alla Chiesa sotterranea della Dormizione della Santissima Madre di Dio e che dal suo alto campanile si poteva vedere la cupola della Chiesa della Resurrezione del Signore. Tracce di questa Chiesa non si vedono più. E nel IX secolo vicino alla Chiesa sotterranea del Getsemani fu costruito un monastero, in cui più di 30 monaci praticavano l’ascesi.
Una grande distruzione colpì la Chiesa nell’anno 1009 dal saccheggiatore dei luoghi santi, Hakim. Cambiamenti radicali, le cui tracce rimangono al giorno d’oggi, si verificarono anche sotto i crociati nell’anno 1130. Durante i secoli XI-XII scomparve da Gerusalemme il pezzo di pietra scavata, su cui il Salvatore aveva pregato la notte del Suo tradimento. Questo pezzo di pietra del VI secolo era stato situato all’interno della basilica del Getsemani. Ma nonostante la distruzione e i cambiamenti, la pianta cruciforme originale della Chiesa è stata preservata. All’ingresso della Chiesa lungo i lati dei cancelli di ferro si trovano quattro colonne di marmo. Per entrare nella chiesa, è necessario scendere una scalinata di 48 gradini. Al 23° gradino sul lato destro c’è una cappella in onore dei santi Antenati di Dio Gioacchino e Anna insieme alle loro tombe, e sul lato sinistro opposto – la cappella del Giusto Giuseppe, il Promesso Sposo, con la sua tomba. La cappella sul lato destro appartiene alla Chiesa Ortodossa, e quella sul lato sinistro – alla Chiesa Armeno-Gregoriana (dal 1814).
P. Seraphim Rose: CRISTIANI E NON CRISTIANI ADORANO LO STESSO DIO?
“Ebrei e islamici, così come i cristiani…. queste tre varietà di identico monoteismo, parlano con il linguaggio più autentico e antico, con voci audaci e sicure. Perché il nome dello stesso Dio, invece di generare un’opposizione inconciliabile, non dovrebbe portare al rispetto reciproco, alla comprensione e alla coesistenza pacifica? La menzione di un solo e medesimo Dio, di un solo e medesimo Padre, senza i pregiudizi della controversia teologica, non potrebbe forse condurci con positività a un giorno in cui scopriremo con evidenza quanto con difficoltà che siamo figli di un solo e medesimo Padre e che siamo tutti fratelli?”. (Papa Paolo VI, La Croix, 11 agosto 1970)
Giovedì 2 aprile 1970, a Ginevra, ebbe luogo un grande evento religioso. In occasione della seconda conferenza dell’“Associazione delle Religioni Unite”, i rappresentanti di dieci grandi religioni furono invitati a riunirsi nella Cattedrale di San Pietro. Questa “preghiera comune” si basava sulla seguente motivazione. Vediamo ora se questa formulazione è valida alla luce di San Pietro. Se consideriamo la verità di questo versetto alla luce della Scrittura.
Per spiegare meglio la questione, ci limiteremo a tre religioni che, in sequenza storica, sono in relazione tra loro nel seguente ordine: ebraismo, cristianesimo, islam. Queste tre religioni hanno un’origine comune come adoratori del Dio di Abramo. È opinione diffusa che, nella misura in cui i loro seguaci si considerano il seme di Abramo (gli ebrei e i musulmani nella carne, i cristiani nello spirito), il Dio per tutti loro è il Dio di Abramo e che le tre religioni adorano (ciascuna a modo suo, naturalmente) lo stesso Dio! Questo Dio comune è la base per l’unità e la “comprensione reciproca” su cui si possono stabilire “relazioni fraterne”, come sottolinea il grande Rabbino Dr. Shafran, parafrasando il salmo: “Oh, quanto è bello vedere i fratelli seduti insieme…” (cfr. Sal 132,1).
In questa linea di pensiero, la nozione di Gesù Cristo come Dio e Uomo, Figlio eterno del Padre senza inizio, la sua incarnazione, la sua croce, la sua gloriosa risurrezione e la sua seconda e grandiosa venuta diventano dettagli secondari che non possono impedire il “gemellaggio” con coloro che lo considerano un “semplice profeta” (secondo il Corano) o un “figlio di una prostituta” (secondo il Talmud)! Ragionando in questo modo, metteremmo sullo stesso piano Gesù di Nazareth e Maometto. Non so quale cristiano degno di essere chiamato tale sia capace di far entrare nella sua mente pensieri del genere.
Si potrebbe dire che queste tre religioni, avendo fatto molta strada nel loro sviluppo, potrebbero giungere a un consenso sul fatto che Gesù Cristo è una persona eccezionale e che è stato mandato da Dio. Ma per noi cristiani, se Gesù Cristo non è Dio, allora non possiamo accettarlo né come “profeta” né come “inviato da Dio”, ma solo come il più grande impostore, che si è dichiarato “Figlio di Dio” e quindi si è equiparato a Dio! (Mc 14,61-62). A livello sovraconfessionale, l’approccio ecumenico a questo problema riconosce come vera in egual misura la dottrina cristiana del Dio triplice e il monoteismo dell’ebraismo, dell’islam, dell’antico eretico Sabellio, dei moderni antitrinitari e probabilmente delle sette degli Illuminati. Non si potrebbe quindi parlare di Tre Persone in un’unica Divinità, ma di una Persona distinta che, secondo l’opinione di alcuni, non cambia, e secondo altri cambia con successo “maschera” (Padre-Figlio-Spirito)! E dopo tutto questo, qualcuno continuerà a insistere che si tratta dello “stesso Dio”! Qualcuno potrebbe ingenuamente dire che “nonostante tutto queste religioni hanno un punto in comune perché tutte e tre professano Dio Padre”! Secondo la Santa Fede Ortodossa questo è ridicolo. Noi diamo sempre “gloria alla Santa, Unica, Vivificante e Indissolubile Trinità”. Come potremmo separare il Padre dal Figlio quando Gesù Cristo dice: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Chiunque neghi il Figlio non ha il Padre (1 Gv 2, 23).
Ma anche se accettiamo che tutte e tre le religioni chiamino Dio Padre, per chi è veramente Padre? Per gli ebrei e i musulmani è il Padre degli uomini nella creazione, mentre per noi cristiani è innanzitutto, prima della creazione del mondo (Gv 17,24), il Padre del nostro Signore Gesù Cristo (Ef 1,3) e, attraverso Cristo, è nostro Padre perché ci ha adottati (Ef 1,4-5), nella redenzione. Cosa c’è dunque in comune tra la paternità divina del cristianesimo e quella delle altre religioni? Altri obietteranno che “sia gli Ebrei attraverso Isacco che gli Agariti (musulmani) attraverso Agar sono discendenti del vero adoratore di Dio, Abramo”. Su questo punto, però, è opportuno chiarire alcuni punti. Abramo adorava proprio la SS. Trinità, e non il Dio primitivo e impersonale delle religioni monoteiste. In San Paolo, il Signore apparve ad Abramo nel bosco di Mamre, mentre egli sedeva alla porta della sua tenda nel calore del giorno. Alzò gli occhi e guardò: ed ecco che tre uomini stavano in piedi di fronte a lui. Quando li vide, corse loro incontro dalla porta della sua tenda, si prostrò davanti a loro e disse: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo…» (Gn 18,1-3). In quale forma Abramo onorò Dio? In una forma impersonale o nella forma della Trinità divina? Noi cristiani ortodossi onoriamo questa manifestazione veterotestamentaria della Santa Trinità nella festa di Pentecoste. In questo giorno, decoriamo i nostri templi con rami che simboleggiano le antiche querce e ci inchiniamo davanti all’icona dei Tre Angeli proprio come fece Abramo, il nostro antenato! La nostra discendenza secondo la carne da Abramo rimarrebbe irrilevante se non fossimo rinati alla sua fede attraverso l’acqua del Battesimo. La fede di Abramo era la fede in Gesù Cristo, come dichiara il Signore stesso: «Abramo, tuo padre, si rallegrò nel vedere il mio giorno, vide e si rallegrò» (Gv 8,56). Tale era anche la fede del re profeta Davide, che sentì il Padre parlare dal cielo al suo Figlio unigenito: «Il Signore disse al mio Signore» (Sal 109,1; At 2,34). La stessa fede fu condivisa dai tre giovani nella fornace ardente, che furono salvati dal Figlio di Dio (Dn 3,92), e dal santo profeta Daniele, al quale furono rivelate in visione le due nature di Gesù Cristo nel mistero dell’incarnazione, quando il Figlio dell’uomo andò verso l’Antico dei giorni (Dn 7,13). È per questo che il Signore si rivolse al seme di Abramo, biologicamente innegabile, con le parole: se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo (Gv 8,39), e queste “opere” consistono nel credere in Colui che Egli ha mandato (Gv 6,29).
Chi sono i figli di Abramo? I figli di Isacco secondo la carne o i figli di Agar l’egiziana; Isacco o Ismaele? Vediamo cosa dice la Scrittura. Le promesse furono fatte ad Abramo e alla sua discendenza. Non è detto “e alla discendenza”, come a molti, ma come a uno solo: “e alla tua discendenza”, che è Cristo (Gal 3,16). Ma se siete di Cristo, allora siete la discendenza di Abramo e siete eredi secondo la promessa (Gal 3,29). Pertanto, solo attraverso Gesù Cristo Abramo è diventato padre di molte nazioni (Gen 17,5; Rm 4,17). Dopo tali promesse e assicurazioni, ha importanza la discendenza carnale da Abramo? La discendenza di Abramo è costituita da coloro che professano Cristo, i figli di Cristo. Secondo San Paolo, il seme o discendenza di Abramo è la discendenza di Cristo. Il seme o discendente di Abramo è Isacco, ma solo come tipo di Gesù Cristo. A differenza di Ismaele, figlio della schiava Agar (Gen 16,11), Isacco nacque in “libertà”, in modo soprannaturale da una madre sterile e in età avanzata, a dispetto delle leggi della natura, proprio come il nostro Salvatore nacque miracolosamente da una vergine. Isacco salì sul Monte Moriah portando la legna per il fuoco sacrificale, proprio come Gesù salì sul Calvario portando sulle spalle la croce sacrificale. Un angelo ha liberato Isacco dalla morte e un angelo ha anche rimosso la pietra dalla tomba per mostrare che il Cristo risorto non era più lì. In un momento di preghiera, Isacco incontrò Rebecca nel campo e la portò nella tenda di sua madre, Sara, proprio come Gesù Cristo incontrerà la sua Chiesa sulle nuvole per portarla nelle schiere celesti, la Nuova Gerusalemme, la patria più desiderabile.
No! I cristiani e i non cristiani non adorano lo stesso Dio! La conoscenza del Padre è possibile solo attraverso il Figlio – nessuno viene al Padre se non per mezzo di me; chi ha visto me ha visto il Padre (Gv 14,6-9). Il nostro Dio è il Dio incarnato, che abbiamo visto con i nostri occhi… e che le nostre mani hanno toccato (1 Gv 1,1). “L’immateriale diventa materiale per la nostra salvezza”, dice San Giovanni. Ma quando si è rivelato agli ebrei e ai musulmani di oggi? Su quali basi possiamo supporre che essi conoscano Dio? Se hanno una conoscenza di Dio al di fuori di Gesù Cristo, allora la sua incarnazione, morte e risurrezione sono state vane! Secondo le parole di Cristo, non hanno ancora raggiunto il Padre. Hanno alcune idee sul Padre, ma queste idee non contengono la piena rivelazione di Dio data agli uomini attraverso Gesù Cristo. Per noi cristiani, Dio è incomprensibile, inconcepibile, indescrivibile e immateriale, come dice San Paolo. San Basilio il Grande afferma: “Per la nostra salvezza, è diventato (nella misura in cui siamo in unione con Lui) comprensibile, descrivibile e materiale attraverso il mistero dell’incarnazione di Suo Figlio. Gloria a Lui nei secoli dei secoli. Amen!”. Ecco perché San Cipriano di Cartagine afferma che per colui al quale la Chiesa non è Madre, Dio non è nemmeno Padre!
Che Dio ci preservi dall’apostasia e dalla venuta dell’Anticristo, i cui segni di avvicinamento aumentano ogni giorno di più. Che ci preservi da grandi mali che anche gli eletti non saranno in grado di sopportare senza la Sua grazia. E che Dio ci conservi nel “piccolo gregge”, “scelto secondo l’elezione della grazia”, affinché, come Abramo, possiamo godere della luce divina, attraverso le preghiere della Beata Vergine Maria e Madre di Dio, di tutte le potenze celesti, testimoni e profeti, martiri, gerarchi, evangelisti e confessori che sono rimasti fedeli fino alla morte, versando il loro sangue per Cristo, e dalle preghiere di coloro che ci hanno rigenerato attraverso il Vangelo di Gesù Cristo e l’acqua del Battesimo. Noi siamo i loro figli e, pur essendo deboli, peccatori e indegni, non tenderemo le nostre mani al dio di un altro! Amin!”.
Ieromonaco Seraphim Rose di Platina
1994: Lettera al Patriarca Ecumenico Bartolomeo dalla Sacra Comunità del Monte Athos sulla dichiarazione di Balamand
Nel 1993 si tenne un incontro della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali a Balamand (Libano), dove fu redatta una dichiarazione sull’uniatismo. Uno dei tasselli del movimento ecumenico, la paneresia come la definì il teologo ortodosso e Santo Justin Popovitch.
La Dichiarazione di Balamand fu ampiamente contestata tra gli ortodossi. La seguente lettera al Patriarca Ecumenico Bartolomeo è stata scritto dalla Sacra Comunità del Monte Athos. Apparve originariamente in greco in Orthodoxos Typos, il 18 marzo, 1994, e fu tradotta in russo, serbo e inglese. La riproponiamo in una nostra traduzione in italiano.
8 dicembre 1993
[…]
Santissimo Padre e Maestro:
L’unione delle Chiese o, per essere precisi, l’unione degli eterodossi con la nostra Chiesa Ortodossa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica è auspicabile anche per noi affinché si compia la preghiera del Signore… affinché siano una cosa sola (Giovanni 17,21). In ogni caso la comprendiamo e attendiamo secondo l’interpretazione ortodossa. Come ci ricorda il professor John Romanides, “Cristo prega qui affinché i suoi discepoli e i loro discepoli possano, in questa vita, diventare una cosa sola nella visione della sua gloria (che Egli ha per natura dal Padre) quando diventeranno membri del suo Corpo, la Chiesa…” [1]
Per questo motivo, ogni volta che ci visitano cristiani eterodossi, ai quali offriamo amore e ospitalità in Cristo, siamo dolorosamente consapevoli che ci separiamo nella fede e, per questo, non possiamo avere la comunione ecclesiastica.
Lo scisma, la divisione tra ortodossi e non calcedoniani prima e tra ortodossi e occidentali poi, costituisce davvero una tragedia di fronte alla quale non dobbiamo tacere o compiacerci.
In questo contesto, quindi, apprezziamo gli sforzi compiuti con timore di Dio e in conformità con la Tradizione ortodossa che guardano ad un’unione che non può realizzarsi attraverso il silenzio o la minimizzazione delle dottrine ortodosse, o attraverso la tolleranza delle false dottrine degli eterodossi, perché non sarebbe un’unione nella Verità. E alla fine questo non sarebbe accettato dalla Chiesa né benedetto da Dio, perché, secondo il detto patristico, “Una cosa buona non è buona se non è realizzata in modo buono”.
Al contrario, porterebbe nuovi scismi e nuove divisioni e miserie nel corpo già [dis]unito[2] dell’Ortodossia. A questo punto vorremmo dire che di fronte ai grandi cambiamenti in atto nelle terre di presenza ortodossa, e di fronte a tante condizioni di instabilità su scala mondiale, l’Una, Santa, Cattolica e Apostolica, in in altre parole, la Chiesa Ortodossa avrebbe dovuto rafforzare la coesione delle Chiese locali e dedicarsi alla cura dei suoi membri colpiti dal terrore e alla loro stabilizzazione spirituale, da un lato e nella sua coscienza [come Chiesa Una Santa], dall’altro, avrebbe dovuto suonare la tromba del suo potere e della sua Grazia redentrice unici e manifestarli davanti all’umanità caduta.
In questo spirito, nella misura in cui il nostro ufficio monastico ce lo consente, seguiamo da vicino gli sviluppi del cosiddetto movimento e dialogo ecumenico. Notiamo che a volte la parola della Verità viene giustamente tenuta divisa e, a volte, si fanno compromessi e concessioni su questioni fondamentali della Fede.
I
Pertanto, le azioni e le dichiarazioni dei rappresentanti delle Chiese Ortodosse, inaudite fino ad oggi e del tutto contrarie alla nostra santa fede, ci hanno causato un profondo dolore.
Citeremo innanzitutto il caso di Sua Beatitudine [Parthenios], il Patriarca di Alessandria, il quale, in almeno due occasioni, ha affermato che noi cristiani dovremmo riconoscere Maometto come profeta. Fino ad oggi, tuttavia, nessuno gli ha chiesto di dimettersi, e questo Patriarca terribilmente incurante continua a presiedere la Chiesa di Alessandria come se non ci fosse nulla di sbagliato.
In secondo luogo, citiamo il caso del Patriarcato di Antiochia, che, senza una decisione pan-ortodossa, ha proceduto alla comunione ecclesiastica con i non calcedoniani [monofisiti]. Ciò è stato compiuto nonostante il fatto che un problema molto serio non sia stato ancora risolto. È proprio la non accettazione da parte di quest’ultimi dei Concili ecumenici successivi al Terzo e, in particolare, il Quarto, il Concilio di Calcedonia, che costituisce di fatto una base inamovibile dell’Ortodossia. Purtroppo anche in questo caso non abbiamo assistito ad una sola protesta da parte delle altre Chiese ortodosse.
La questione più grave, tuttavia, è il cambiamento inaccettabile nella posizione degli ortodossi che emerge dalla dichiarazione congiunta della commissione mista per il dialogo tra cattolici romani e ortodossi alla Conferenza di Balamand del giugno 1993. Hanno adottato posizioni antiortodosse, ed è soprattutto su questo che richiamiamo l’attenzione di Vostra Santità.
In primo luogo, dobbiamo confessare che le dichiarazioni che Vostra Santità ha fatto di tanto in tanto, secondo cui il movimento Uniate è un ostacolo insormontabile alla continuazione del dialogo tra ortodossi e cattolici romani, ci hanno finora tranquillizzato.
Ma il suddetto documento [di Balamand] dà l’impressione che le sue affermazioni vengano eluse. Inoltre, l’Unia riceve l’amnistia ed è invitata al tavolo del dialogo teologico nonostante la decisione contraria della Terza Conferenza Panortodossa di Rodi che richiedeva: “il ritiro completo dalle terre ortodosse da parte degli agenti e propagandisti uniati del Vaticano; l’incorporazione delle cosiddette Chiese uniate e la loro sottomissione sotto la Chiesa di Roma prima dell’inaugurazione del dialogo, perché Unia e dialogo allo stesso tempo sono inconciliabili”.
II
Santità, lo scandalo più grande, però, è causato dalle posizioni ecclesiologiche contenute nel documento. Ci riferiremo qui solo alle deviazioni fondamentali.
Al paragrafo 10 leggiamo:
La Chiesa cattolica… (che ha svolto un’opera missionaria contro gli ortodossi e) si è presentata come l’unica alla quale è stata affidata la salvezza. Per reazione, la Chiesa ortodossa, a sua volta, arrivò ad accettare la stessa visione secondo la quale solo in essa si poteva trovare la salvezza. Per assicurare la salvezza dei «fratelli separati» avvenne addirittura che i cristiani venissero ribattezzati e che alcune esigenze della libertà religiosa delle persone e del loro atto di fede fossero dimenticate. Questa prospettiva era quella verso la quale quel periodo mostrò poca sensibilità.
Come ortodossi, non possiamo accettare questo punto di vista. Non è stato per reazione contro l’Unia che la nostra Santa Chiesa Ortodossa ha cominciato a credere di possedere esclusivamente la salvezza, ma lo ha creduto prima che esistesse l’Unia, fin dai tempi dello Scisma, avvenuto per ragioni dogmatiche. La Chiesa Ortodossa non ha atteso la venuta dell’Unia per acquisire la coscienza di essere la continuazione incontaminata della Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica, perché ha sempre avuto questa autocoscienza, così come ha avuto la consapevolezza che il Papato era in eresia. Se non usò frequentemente il termine eresia, fu perché, secondo san Marco di Efeso, “I latini non sono solo scismatici, ma anche eretici. Tuttavia, la Chiesa ha taciuto su questo perché la loro razza è grande e più potente della nostra… e noi abbiamo voluto non cadere nel trionfalismo sui latini come eretici, ma accettare il loro ritorno e coltivare la fratellanza”.
Ma quando gli uniati e gli agenti di Roma furono scatenati contro di noi in Oriente per fare proselitismo tra gli ortodossi sofferenti con mezzi per lo più illegali, come fanno anche oggi, l’Ortodossia fu costretta a dichiarare quella verità, non a fini di proselitismo ma per proteggere il gregge.
San Fozio definisce ripetutamente il Filioque come un’eresia e i suoi credenti come cacodossi [credenti errati].
San Gregorio Palamas dice dell’occidentale Barlaam, che quando arrivò all’Ortodossia, “non accettò l’acqua santificante della nostra Chiesa… per cancellare le [sue] macchie dall’Occidente”. San Gregorio lo considera ovviamente un eretico bisognoso della grazia santificante per entrare nella Chiesa Ortodossa.
L’affermazione contenuta nel paragrafo in questione scarica ingiustamente la responsabilità sulla Chiesa ortodossa per alleggerire quella dei papisti. Quando gli ortodossi hanno calpestato la libertà religiosa degli uniati e dei cattolici romani battezzandoli contro la loro volontà? E se ci sono state delle eccezioni, gli ortodossi che hanno firmato il documento di Balamand dimenticano che coloro che sono stati ribattezzati contro la loro volontà erano discendenti degli ortodossi resi uniati con la forza, come è avvenuto in Polonia, Ucraina e Moldavia. (Vedi paragrafo 11)
Al paragrafo 13 leggiamo:
Infatti, soprattutto a partire dall’inizio delle Conferenze panortodosse e dal Concilio Vaticano II, la riscoperta e la valorizzazione della Chiesa come comunione, sia da parte degli ortodossi che dei cattolici, ha cambiato radicalmente prospettive e quindi atteggiamenti. Da entrambe le parti si riconosce che ciò che Cristo ha affidato alla sua Chiesa — professione di fede apostolica, partecipazione agli stessi sacramenti, soprattutto l’unico sacerdozio celebrante l’unico sacrificio di Cristo, la successione apostolica dei vescovi — non può essere proprietà esclusiva di una delle nostre Chiese. In questo contesto è chiaro che ogni forma di ribattesimo va evitata.
La nuova scoperta della Chiesa come comunione da parte dei cattolici romani ha, ovviamente, un certo significato per loro che non avevano via d’uscita dal dilemma della loro ecclesiologia totalitaria e, quindi, hanno dovuto rivolgere il loro sistema di pensiero al carattere comunitario della Chiesa. Così, accanto ad un estremo del totalitarismo, essi pongono l’altro della collegialità, sempre motivata sullo stesso piano antropocentrico. La Chiesa ortodossa, però, ha sempre avuto la coscienza di non essere una semplice comunione, ma una comunione teantropica o una «comunione di theosis [divinizzazione]», come dice san Gregorio Palamas nella sua omelia sulla processione dello Spirito Santo. Inoltre, la comunione della theosis non solo è sconosciuta, ma è anche inconciliabile con la teologia cattolica romana, che rifiuta [la dottrina delle] energie increate di Dio che formano e sostengono questa comunione.
Date queste verità, è con la più profonda tristezza che abbiamo confermato che questo paragrafo [13] rende la Chiesa Ortodossa uguale alla Chiesa cattolica romana che dimora nella cacodossia [credenza sbagliata].
Gravi differenze teologiche, come il Filioque, il primato e l’infallibilità papale, la grazia creata, ecc., ricevono l’amnistia e si sta forgiando un’unione senza accordo dogmatico.
Si verificano così le premonizioni che l’unione disegnata dal Vaticano, nella quale, come diceva san Marco di Efeso, “i volenterosi vengono involontariamente manipolati” (cioè gli ortodossi, che vivono oggi anche in circostanze ostili etnicamente e politicamente e sono prigioniera di nazioni di altre religioni), viene spinta a svolgersi senza accordo riguardo alle differenze dottrinali. Il progetto è che l’unione avvenga, nonostante le differenze, attraverso il riconoscimento reciproco dei Misteri e della successione apostolica di ciascuna Chiesa, e l’applicazione dell’intercomunione, limitata all’inizio e più ampia poi. Dopo di ciò, le differenze dottrinali possono essere discusse solo come opinioni teologiche.
Ma una volta avvenuta l’unione, che senso ha discutere di differenze teologiche? Roma sa che gli ortodossi non accetteranno mai i suoi insegnamenti estranei. L’esperienza lo ha dimostrato nei vari tentativi di unione fino ad oggi. Pertanto, nonostante le differenze, Roma sta costruendo un’unione e spera, da un punto di vista umanistico (come è sempre la sua prospettiva), che, come fattore più potente, col tempo assorbirà quello più debole, cioè l’Ortodossia. Padre John Romanides lo aveva presagito nel suo articolo “Il movimento uniate e l’ecumenismo popolare”, pubblicato su The Orthodox Witness, febbraio 1966.
Vorremmo porre queste domande agli ortodossi che hanno firmato questo documento:
Il Filioque, il primato e l’infallibilità [papale], il purgatorio, l’Immacolata Concezione e la grazia creata costituiscono una confessione apostolica? Nonostante tutto ciò, è possibile per noi ortodossi riconoscere come apostolica la fede e la confessione dei cattolici romani?
Queste gravi deviazioni teologiche di Roma costituiscono eresie oppure no?
Se lo sono, come sono stati descritti dai Concili e dai Padri ortodossi, non comportano l’invalidità dei Misteri e la successione apostolica di eterodossi e cacodossi di questo tipo?
È possibile che esista la pienezza della grazia dove non c’è la pienezza della verità?
È possibile distinguere il Cristo della Verità dal Cristo dei Misteri e dalla successione apostolica?
La successione apostolica è stata proposta innanzitutto dalla Chiesa come conferma storica della continua conservazione della sua verità. Ma quando la verità stessa viene distorta, che significato può avere una preservazione formulistica della successione apostolica? I grandi eresiarchi non avevano spesso questo tipo di successione esterna? Come è possibile che anch’essi siano considerati portatori di Grazia?
E come è possibile che due Chiese siano considerate “Chiese sorelle” non per la loro discendenza comune pre-scismatica, ma per la cosiddetta confessione comune, la grazia santificante e il sacerdozio nonostante le grandi differenze nei dogmi?
Chi tra gli ortodossi può accettare come vero successore degli Apostoli colui che è infallibile, colui che ha il primato di autorità per governare su tutta la Chiesa e per essere la guida religiosa e laica dello Stato Vaticano?
Non sarebbe questa una negazione della Fede e della Tradizione Apostolica?
Oppure i firmatari di questo documento non sono consapevoli del fatto che molti cattolici romani oggi gemono sotto i piedi del Papa (e del suo sistema ecclesiologico scolastico e centrato sull’uomo) e desiderano entrare nell’Ortodossia?
Come possono queste persone che sono tormentate spiritualmente e desiderano il santo Battesimo non essere accolte nell’Ortodossia perché si suppone che la stessa Grazia sia qui e là? Non dovremmo, a quel punto, rispettare la loro libertà religiosa, come richiede in un’altra circostanza la dichiarazione di Balamand, e concedere loro il battesimo ortodosso? Quale difesa presenteremo al Signore se neghiamo la pienezza della Grazia a coloro che, dopo anni di agonia e di ricerca personale, desiderano il santo Battesimo della nostra Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica?
Il paragrafo 14 del documento cita Papa Giovanni Paolo II: “L’impegno ecumenico delle Chiese sorelle d’Oriente e d’Occidente, fondato sul dialogo e sulla preghiera, è la ricerca della comunione perfetta e totale, che non è né assorbimento né fusione, ma incontro nella Verità e nella Amore.”
Ma come è possibile un’unione nella Verità quando le differenze nei dogmi vengono eluse ed entrambe le Chiese vengono descritte come sorelle nonostante le differenze?
La Verità della Chiesa è indivisibile perché è Cristo stesso. Ma quando ci sono differenze nei dogmi non può esserci unità in Cristo.
Da quello che sappiamo della storia della Chiesa, le Chiese erano chiamate Chiese sorelle quando avevano la stessa fede. La Chiesa ortodossa non è mai stata definita sorella di alcuna chiesa eterodossa, indipendentemente dal grado di eterodossia o cacodossia che manteneva.
Ci poniamo una domanda fondamentale: il sincretismo religioso e il minimalismo dottrinale – sottoprodotti della secolarizzazione e dell’umanesimo – hanno forse influenzato i firmatari ortodossi del documento?
È evidente che il documento adotta, forse per la prima volta da parte ortodossa, la posizione secondo cui due Chiese, quella ortodossa e quella cattolica romana, insieme costituiscono l’unica Santa Chiesa o sono due legittime espressioni di essa.
Sfortunatamente, è la prima volta che gli ortodossi accettano ufficialmente una forma della teoria dei rami.
Permetteteci di esprimere il nostro profondo dolore per questo in quanto questa teoria entra fino ad ora in stridente conflitto con la tradizione e la coscienza ortodossa.
Abbiamo molti testimoni della coscienza ortodossa che solo la nostra Chiesa costituisce l’Unica Santa Chiesa, e sono riconosciuti come autorità pan-ortodosse. Questi sono il:
1. Concilio di Costantinopoli, 1722;
2. Concilio di Costantinopoli, 1727;
3. Concilio di Costantinopoli, 1838;
4. Enciclica dei Quattro Patriarchi d’Oriente e loro sinodi. 1848;
5. Concilio di Costantinopoli, 1895.
Questi hanno decretato che solo la nostra Santa Chiesa Ortodossa costituisce l’Unica Santa Chiesa.
Il Concilio di Costantinopoli del 1895 riassume tutti i Concili precedenti:
L’Ortodossia, cioè la Chiesa d’Oriente, giustamente si vanta in Cristo di essere la Chiesa dei sette Concili ecumenici e dei primi nove secoli del cristianesimo e quindi di essere la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica, “colonna e baluardo della verità.”E l’attuale Chiesa Romana è la chiesa del modernismo e dell’adulterazione degli scritti dei Padri della Chiesa e della distorsione delle Sacre Scritture e dei decreti dei Santi Concili. Giustamente e a ragione è stato denunciato e viene denunciato finché persiste nel suo delirio. «Meglio una guerra lodevole», dice san Gregorio Nazianzeno, «che una pace separata da Dio».
I rappresentanti delle Chiese ortodosse hanno dichiarato le stesse cose alle conferenze del Consiglio ecumenico delle Chiese. Tra loro c’erano illustri teologi ortodossi, come padre George Florovsky. Così, alla Conferenza di Lund del 1952, si dichiarò:
Siamo venuti qui non per giudicare le altre Chiese, ma per aiutarle a vedere la verità, per illuminare il loro pensiero in modo fraterno, informandole sugli insegnamenti della Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, cioè la Chiesa Greco-Ortodossa , che è inalterato rispetto al periodo apostolico.
A Evanston nel 1954:
In conclusione, siamo obbligati a dichiarare la nostra profonda convinzione che solo la Santa Chiesa Ortodossa ha preservato “la fede una volta trasmessa ai santi” in tutta la sua pienezza e purezza. E questo non per qualche nostro merito umano, ma perché Dio si compiace di custodire il suo tesoro in vasi di creta…
E a Nuova Delhi nel 1961:
L’unità è stata spezzata ed è necessario riconquistarla. Per l’Ortodossia la Chiesa Ortodossa non è una Confessione, non una delle tante o una tra le tante. Per gli ortodossi la Chiesa ortodossa è la Chiesa. La Chiesa ortodossa ha la percezione e la coscienza che la sua struttura interna e il suo insegnamento coincidono con il kerygma apostolico e con la tradizione della Chiesa antica e indivisa. La Chiesa ortodossa esiste nella successione ininterrotta e continua del ministero sacramentale, della vita sacramentale e della fede. La successione apostolica dell’ufficio episcopale e del ministero sacramentale, per gli ortodossi, è veramente una componente essenziale e, per questo, un elemento necessario dell’esistenza di tutta la Chiesa. Secondo la sua convinzione interiore e la consapevolezza delle circostanze, la Chiesa Ortodossa occupa una posizione speciale e straordinaria nella cristianità divisa come portatrice e testimone della tradizione dell’antica Chiesa indivisa, da cui provengono le attuali denominazioni cristiane attraverso riduzione e separazione.
Potremmo qui riportare anche le testimonianze dei più illustri e riconosciuti teologi ortodossi. Ci limiteremo a uno, il defunto padre Dumitru Stăniloae, un teologo distinto non solo per la sua saggezza ma per l’ampiezza e la mentalità ortodossa della prospettiva ecumenica.
In molti punti del suo notevole libro, Verso un ecumenismo ortodosso, fa riferimento a temi rilevanti per la dichiarazione congiunta [di cui si discute qui] e rende testimonianza ortodossa. Attraverso di esso, quindi, si mostrerà il disaccordo tra le posizioni assunte nel documento e la fede ortodossa:
“Senza unità di fede e senza comunione nello stesso Corpo e Sangue del Verbo Incarnato, non potrebbe esistere una tale Chiesa, né potrebbe esistere una Chiesa nel senso pieno della parola”.
“Nel caso di chi entra nella piena comunione di fede con i membri della Chiesa Ortodossa e ne diventa membro, si intende per economia [dispensazione] dare validità a un Mistero precedentemente compiuto fuori della Chiesa”.
“Dal punto di vista cattolico romano, la Chiesa non è tanto un organismo spirituale guidato da Cristo quanto piuttosto un’organizzazione nomocanonica che, anche nelle migliori circostanze, vive non a livello divino ma soprannaturale [3] grazia creata.”
«Nella conservazione di questa unità, un ruolo indispensabile è svolto dall’unità della fede, perché questa lega integralmente le membra a Cristo e tra loro».
“Coloro che non confessano Cristo tutto e integro, ma solo alcune parti di Lui, non possono raggiungere una comunione completa né con la Chiesa né tra loro”.
“Come è possibile che i cattolici si uniscano agli ortodossi in una comune eucaristia quando credono che l’unità deriva più dal Papa che dalla Santa Eucaristia? Può scaturire dal Papa l’amore per il mondo, cioè l’amore che scaturisce dal Cristo della Santa Eucaristia?”
“C’è un crescente riconoscimento del fatto che l’Ortodossia, come corpo completo di Cristo, si protende in modo concreto per accogliere le parti che erano separate”.
È evidente che non possono esistere due corpi completi di Cristo.
III
Santità, c’è da chiedersi perché gli ortodossi procedono a fare queste concessioni mentre i cattolici romani non solo persistono ma rafforzano la loro ecclesiologia incentrata sul Papa.
È un dato di fatto che il Concilio Vaticano II [1963] non solo ha trascurato di minimizzare il primato e l’infallibilità [del Papa], ma li ha anzi amplificati. Secondo il defunto professor John Karmiris, “Nonostante il fatto che il Concilio Vaticano II abbia coperto le familiari affermazioni latine sul dominio monarchico assoluto del Papato con il manto della collegialità dei vescovi, non solo tali affermazioni non sono state diminuite; al contrario, sono state rafforzate da questo Concilio. L’attuale Papa [Giovanni XXIII] non esita a promuoverli, anche in tempi inopportuni, con molta enfasi».
E l’Enciclica del Papa, “Ai Vescovi della Chiesa Cattolica” (28 maggio 1992), riconosce solo Roma come chiesa “cattolica” e il Papa come unico vescovo “cattolico”. La Chiesa di Roma e il suo vescovo costituiscono l'”essenza” di tutte le altre Chiese. Inoltre, ogni Chiesa locale e il suo vescovo costituiscono semplicemente espressione della “presenza” e dell’“autorità” diretta del vescovo di Roma e della sua Chiesa, che determina dall’interno l’identità ecclesiale di ogni Chiesa locale.
Secondo questo documento papale, poiché le Chiese ortodosse rifiutano di sottomettersi al Papa, non portano affatto il carattere della Chiesa e sono semplicemente viste come “Chiese parziali”. “Verdienen der titer teilkirchen.”
La stessa ecclesiologia è espressa nella Guida Ecumenica (“una guida per l’applicazione dei principi e dell’agenda riguardanti l’ecumenismo”) della Chiesa Cattolica Romana, presentata dal cardinale Cassidy all’incontro dei vescovi cattolici romani (10-15 maggio 1993, un mese prima di Balamand), alla presenza di non cattolici e addirittura ortodossi.
La Guida ecumenica sottolinea che i cattolici romani «mantengono la ferma convinzione che la Chiesa singolare di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, la quale è retta dal successore di Pietro e da vescovi con lui in comunione», in quanto il «Collegio dei Vescovi ha come capo il Vescovo di Roma, successore di Pietro».
Nello stesso documento, si dicono molte cose belle sulla necessità di sviluppare un dialogo ecumenico e un’educazione ecumenica – ovviamente per confondere le acque e allontanare gli ingenui ortodossi con quell’efficace metodo di unità ideato dal Vaticano, cioè di sottomissione a Roma.
Il metodo, secondo La Guida Ecumenica, è il seguente:
I criteri stabiliti per la collaborazione ecumenica sono, da un lato, il riconoscimento reciproco del battesimo e la collocazione dei simboli comuni della fede nella vita liturgica empirica; e, dall’altro, la collaborazione nell’educazione ecumenica, nella preghiera comune e nella cooperazione pastorale affinché si possa passare dal conflitto alla convivenza, dalla convivenza alla collaborazione, dalla collaborazione alla condivisione, dalla condivisione alla comunione.
Tali documenti, tuttavia, pieni di ipocrisia, sono generalmente accolti come positivi dagli ortodossi.
Siamo rattristati nel constatare che la dichiarazione congiunta si fonda sul suddetto ragionamento cattolico romano. A causa di questi recenti sviluppi in tali termini, tuttavia, cominciamo a chiederci se coloro che sostengono che i vari dialoghi siano dannosi per l’Ortodossia non siano dopo tutto giustificati.
Santissimo Padre e Despota, in termini umani, per mezzo di quella dichiarazione congiunta i cattolici romani sono riusciti a ottenere un certo riconoscimento ortodosso come legittima continuazione dell’Unica Santa Chiesa con la pienezza della Verità, della Grazia, del Sacerdozio, dei Misteri e della Successione Apostolica .
Ma questo successo va a loro discapito perché toglie loro la possibilità di riconoscere e pentirsi della loro grave ecclesiologia e malattia dottrinale. Per questo motivo le concessioni degli ortodossi non sono filantropiche. Non sono per il bene né dei cattolici romani né degli ortodossi. Saltano dalla speranza del Vangelo (Col 1,23) di Cristo, unico Dio-Uomo, al Papa, uomo-Dio e idolo dell’umanesimo occidentale.
Per il bene dei cattolici romani e del mondo intero, la cui unica speranza è l’Ortodossia pura, siamo obbligati a non accettare mai l’unione o la descrizione della Chiesa cattolica romana come “Chiesa sorella”, o il Papa come vescovo canonico di Roma. , o la “Chiesa” di Roma come avente successione apostolica, sacerdozio e misteri canonici senza la loro rinuncia [da parte dei papisti] espressamente dichiarata al Filioque, all’infallibilità e al primato del Papa, alla grazia creata e al resto delle loro cacodossie. Perché non considereremo mai queste differenze senza importanza o semplici opinioni teologiche, ma come differenze che sviliscono irrevocabilmente il carattere teantropico della Chiesa e introducono blasfemie.
Sono tipiche le seguenti decisioni del Vaticano II:
Il Romano Pontefice, successore di Pietro, è fonte e fondamento permanente e visibile dell’unità dei vescovi e della moltitudine dei fedeli.
Questa sottomissione religiosa della volontà e della mente deve manifestarsi in modo speciale davanti all’autentico magistero del Romano Pontefice, anche quando questi non parla ex cathedra.
Il Romano Pontefice, capo del collegio dei vescovi, in virtù del suo ufficio, possiede l’infallibilità quando, confermando i suoi fratelli (Lc 23,32) come pastore e sommo maestro di tutti i fedeli, dichiara un insegnamento mediante un atto di definizione riguardante la fede o la morale. Per questo giustamente si dice che i decreti del Papa sono di natura irreversibile e non soggetti a dispensa da parte della Chiesa, in quanto sono stati pronunciati con la collaborazione dello Spirito Santo… Di conseguenza, i decreti del Papa non sono soggetti a nessun’altra approvazione, a nessun altro appello, a nessun altro giudizio. Il Romano Pontefice, infatti, non esprime la sua opinione come privato, ma come il massimo maestro della Chiesa universale, sul quale poggia personalmente il dono dell’infallibilità della Chiesa stessa e che propone e custodisce l’insegnamento della fede cattolica.
Nell’esercizio della sua responsabilità di vicario di Cristo e pastore di tutta la Chiesa, il Romano Pontefice ha nella Chiesa la più piena, alta e universale autorità, che gli è sempre conferito il potere di esercitare liberamente… Non può esistere un potere del Concilio Ecumenicose non sarà convalidato o almeno accolto dal successore di Pietro. La convocazione, la presidenza e l’approvazione delle decisioni dei Concili sono prerogativa del Romano Pontefice.
Tutti questi insegnamenti, Santità, non arrivano alle orecchie ortodosse come una bestemmia contro lo Spirito Santo e contro il Divino Costruttore della Chiesa, Gesù Cristo, l’unico Capo eterno e infallibile della Chiesa, dal quale solo scaturisce l’unità della Chiesa? Ciò non contraddice completamente l’ecclesiologia ortodossa centrata sul Vangelo e centrata sul Dio-Uomo, ispirata dallo Spirito Santo? Non subordinano forse l’Uomo-Dio all’uomo?
Come possiamo fare concessioni o coesistere con un tale spirito senza perdere la nostra fede e salvezza?
Rimanendo fedeli a tutto ciò che abbiamo ricevuto dai nostri Santi Padri, non accetteremo mai l’attuale “Chiesa” romana come co-rappresentante con la nostra della Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica.
Riteniamo necessario che tra le differenze teologiche si sottolinei la distinzione tra l’essenza e l’energia di Dio, e che le energie divine sono increate, perché se si crea la grazia, come sostengono i cattolici romani, viene annullata la salvezza e la theosis dell’uomo e la Chiesa cessa di essere una comunione di theosis e degenera in un’istituzione nomocanonica.
Profondamente addolorati nella nostra anima per tutto quanto sopra, ricorriamo a te, nostro Padre Spirituale. E con il più profondo rispetto, vi invitiamo e vi imploriamo, nella vostra caratteristica comprensione e sensibilità pastorale, di prendere in mano questa gravissima questione e di non accettare il documento [di Balamand], e in generale di intraprendere ogni azione possibile per evitare le indesiderabili conseguenze che avrebbe per l’unità pan-ortodossa se per caso alcune Chiese lo adottassero.
Inoltre, chiediamo le vostre preghiere sante e obbedienti a Dio affinché anche noi, umili abitanti e monaci della Sacra Montagna, in questo tempo di confusione spirituale, di compromesso, di secolarizzazione e di ottundimento della nostra acutezza dottrinale, possiamo rimanere fedeli fino alla morte a ciò che ci è stato trasmesso dai nostri Santi Padri come forma di dottrina (Rm 6,17), qualunque cosa possa costarci.
Con il più profondo rispetto veneriamo la tua santa mano destra.
Firmato da: Tutti i Rappresentanti e Presidenti dei Venti Sacri Monasteri del Sacro Monte Athos
PS. Si noti che questa lettera è stata inviata anche alle Chiese che hanno partecipato al dialogo teologico e sono, quindi, direttamente interessate, e alle restanti Chiese per tenerle informate.
Note finali
1. Per completare il pensiero dell’autore continuiamo qui il brano: «…che si sarebbe formato nella Pentecoste e i cui membri dovevano essere illuminati e glorificati in questa vita… Così intendono questa preghiera i Padri. Non è certamente una preghiera per l’unione delle chiese… che non hanno la minima comprensione della glorificazione (theosis) e di come arrivarvi in questa vita.” Dalla confutazione dell’Accordo di Balamand da parte del celebre teologo ortodosso, p. John S. Romanides, Professore di Teologia, Scuola Teologica Ortodossa San Giovanni Damasceno (Antiochia), Balamand, Libano; Professore Emerito, Univ. di Salonicco, Grecia; ex professore di teologia ortodossa, scuola teologica greco-ortodossa della Santa Croce, Brookline, MA
2. Nel testo greco apparso in Orthodox Typos c’è un evidente errore tipografico e questa parola era semplicemente “unito”, sebbene il contesto della frase completa implichi chiaramente la parola “disunito”.
3. Nel contesto occidentale qui, il soprannaturale di cui l’uomo sperimenta o partecipa, come la grazia creata, si riferisce a qualcosa che non è increato: «Ciò che è ricevuto nella creatura deve essere esso stesso creato». Enciclopedia Cattolica, vol. 13, New York, 1967, pag. 815.
Il testo completo della Dichiarazione di Balamand dal titolo: L’UNIATISMO METODO DI UNIONE DEL PASSATO E LA RICERCA ATTUALE DELLA PIENA COMUNIONE, Balamand (Libano) 23 giugno 1993
San Giovanni Damasceno: L’incarnazione del Verbo
di San Giovanni Damasceno
Pertanto l’uomo soggiacque all’invidia del diavolo: infatti il demonio invidioso e odiatore del bene, caduto in basso a causa della sua ribellione, non sopportava che noi ottenessimo i beni di sopra, e perciò egli il mentitore adescò il misero con la speranza della divinità; e avendolo innalzato all’altezza della sua sollevazione, lo menò giù verso l’abisso di caduta simile al suo.
Dunque in questo modo l’uomo era stato abbindolato dall’assalto dell’iniziatore del male e non aveva custodito il comando del Creatore, si era denudato della grazia, si era spogliato della confidenza in Dio, si era rivestito della scabrosità di una vita miserevole (questo indicano infatti le foglie di fico), si era cinto della condizione di morte, ossia della mortalità e della grossezza della carne (infatti questo indica il vestimento delle pelli morte), era stato bandito dal paradiso secondo il giusto giudizio di Dio, era stato condannato alla morte ed era stato assoggettato alla corruzione. Ma il Compassionevole, che gli aveva dato l’essere e gli aveva donato il ben-essere, non lo trascurò e anzi in un primo tempo lo ammaestrò e lo chiamò alla conversione in molti modi: con il gemito e il tremore, con il diluvio dell’acqua e la quasi totale rovina di tutta la stirpe, con la confusione e la divisione delle lingue, con la tutela degli angeli e con l’incendio delle città, con teofanie attraverso figure, con guerre, con vittorie, con sconfitte, con segni e con portenti, con varie potenze, con la legge, con i profeti. E attraverso queste cose lo scopo era la rimozione del peccato – che si era diffuso in molti modi, aveva asservito l’uomo e aveva ammassato sulla vita ogni specie di malvagità – e il ritorno dell’uomo al ben-essere.
D’altra parte, poiché a causa del peccato la morte era entrata nel mondo rovinando la vita umana come un animale selvaggio e feroce, di conseguenza era necessario che colui che si accingeva a riscattarla fosse senza peccato e non soggetto alla morte a causa di esso.
Ma anche era necessario che la natura fosse rinforzata e rinnovata e che con l’esempio concreto fosse indicata e insegnata la strada della vita, che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna: e perciò infine fu mostrato il grande mare dell’amore per l’uomo. Infatti lo stesso Creatore e Signore assume su di sé la lotta per la creatura da lui plasmata e diventa maestro con i fatti; e poiché il nemico inganna l’uomo con la speranza della divinità, ora viene ingannato con il dispiegamento della carne e contemporaneamente è mostrata la bontà, la sapienza, la giustizia e la potenza di Dio. È mostrata la bontà, perché egli non trascurò la debolezza della sua propria creatura, ma ebbe compassione di essa che era caduta e le stese la mano. È mostrata la giustizia, perché – dopo che l’uomo era stato sconfitto – egli non fece che un altro vincesse il tiranno, e non strappò l’uomo alla morte con la violenza, ma egli, il Buono e il Giusto, rese di nuovo vincitore colui che la morte aveva prima asservito attraverso il peccato, e salvò – cosa impossibile – il simile con il simile. Ed è mostrata la sapienza, poiché trovò la più conveniente soluzione dell’impossibilità: infatti con il beneplacito di Dio Padre il Figlio unigenito Verbo di Dio e Dio, che è nel seno di Dio Padre, consustanziale al Padre e al Santo Spirito, precedente al tempo, senza principio, che era in principio ed era presso Dio Padre ed era Dio, pur sussistendo nella forma di Dio abbassò i cieli e discese: e cioè, abbassando senza abbassamento la sua inabbassabile altezza, discende presso i suoi servi con una discesa indicibile e incomprensibile (infatti la sua discesa mostra proprio questo) e, pur essendo Dio perfetto, diventa uomo perfetto e compie la cosa più nuova di tutte le cose nuove, l’unica cosa nuova sotto il sole, attraverso cui si manifesta l’infinita potenza di Dio. Infatti che cosa può essere più grande del fatto che Dio diventa uomo? Senza mutamento il Verbo si fece carne dallo Spirito Santo e dalla santa semprevergine Maria Madre di Dio: e diventa mediatore fra Dio e gli uomini, non per volontà, o per desiderio o per congiunzione di un uomo, e neanche per una generazione compiuta col piacere, essendo stato concepito nel seno immacolato della Vergine per opera dello Spirito Santo e secondo la prima nascita di Adamo. E si fa obbediente al Padre per sanare la nostra disobbedienza con l’aggiunta di ciò che è simile a noi e proviene da noi, essendo diventato per noi modello dell’obbedienza senza cui non è possibile ottenere la salvezza. Infatti l’angelo del Signore fu mandato alla santa Vergine, discendente dalla tribù di Davide: «È noto infatti che il Signore nostro è germogliato da Giuda», «e di questa tribù nessuno si accostò all’altare», come dice il divino Apostolo (e intorno a ciò diremo poi più accuratamente). E portando a lei l’annunzio disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». Ella fu turbata dal discorso, e l’angelo disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio, e genererai un figlio e lo chiamerai Gesù. Infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Perciò anche il nome «Gesù» significa «salvatore». E poiché ella dubitava: «Come ciò mi avverrà? Poiché non conosco uomo», l’angelo di nuovo le disse: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà da te sarà santo e chiamato Figlio di Dio». Ed ella a lui: «Ecco la serva del Signore: avvenga a me secondo la tua parola».
Quindi, dopo il consenso della santa Vergine lo Spirito Santo venne su di lei secondo la parola del Signore che l’angelo aveva proferito, purificandola, fornendole una facoltà ricevitrice della divinità del Verbo e, insieme, anche generatrice. E allora la Sapienza e la Potenza in sé sussistente di Dio Altissimo, il Figlio di Dio consustanziale al Padre, stese la sua ombra su di lei, a guisa di seme divino, e dal sangue casto e purissimo di lei si costituì una carne animata da un’anima razionale e intelligente, primizia della nostra massa: non mediante un seme ma per creazione per mezzo del Santo Spirito, e non completandosi la forma per aggiunte poco alla volta ma essendosi compiuta in una sola volta. Lo stesso Verbo di Dio fece da ipostasi alla carne: infatti il Verbo di Dio non si unì a una carne precedentemente sussistente per se stessa ma, avendo preso dimora nel seno della santa Vergine senza esserne circoscritto, fece sussistere nella sua propria ipostasi dal sangue casto della semprevergine una carne animata da un’anima razionale e intelligente, e assunse la primizia della nostra massa, egli stesso il Verbo diventando ipostasi per la carne. Cosicché questa contemporaneamente fu carne e contemporaneamente carne di Dio Verbo, contemporaneamente carne animata, razionale e intelligente e contemporaneamente carne animata, razionale e intelligente di Dio Verbo.
Perciò noi non diciamo un uomo diventato Dio, ma un Dio diventato uomo. Infatti Colui che per natura era Dio completo, il medesimo diventò uomo completo, non essendosi mutato nella sua natura né avendo realizzato illusoriamente il suo piano, ma essendosi unito secondo l’ipostasi alla carne che egli aveva assunto dalla santa Vergine – animata di ragione e di intelligenza e avente in lui il suo essere: senza confusione, senza cambiamento e senza divisione, senza mutare la natura della sua divinità nella sostanza della carne oppure la sostanza della sua carne nella natura della sua divinità, e anche senza costituire una sola natura composta insieme dalla sua natura divina e dalla natura umana che egli aveva assunto.
Delle due nature
In realtà, le nature si unirono l’una con l’altra senza mutamento e senza alterazione, senza che la natura divina si allontanasse dalla sua propria semplicità e senza che la natura umana si mutasse in quella della divinità o indietreggiasse alla non-esistenza, e senza che dalle due nascesse una sola natura composta. Infatti la natura composta non può risultare consustanziale né all’una né all’altra fra quelle da cui essa è stata costituita, perché da cose diverse ne sorge un’altra diversa: come, ad es., il corpo – che è composto dai quattro elementi – non può essere detto consustanziale al fuoco né è chiamato fuoco, e neanche è detto aria, o acqua, o terra, e non è consustanziale ad alcuna di queste. E quindi se, conformemente agli eretici, dopo l’unione il Cristo fosse risultato di una sola natura composta, di conseguenza si sarebbe mutato da natura semplice in natura composta, e non sarebbe più consustanziale al Padre – che è di natura semplice – e neanche a sua madre (giacché questa non è composta da divinità e umanità): inoltre non sarebbe nella divinità e neanche nell’umanità, e non sarebbe chiamato né Dio né uomo ma soltanto Cristo: e la parola «Cristo» non sarebbe nome della persona ma dell’unica natura conforme alla loro opinione. Invece noi insegniamo che il Cristo non è di una sola natura composta e non è derivante da cose diverse che diventano un’altra cosa – come dall’anima e dal corpo l’uomo, oppure come il corpo dai quattro elementi –, ma è derivante da cose diverse le medesime: infatti proclamiamo che, composto dalla divinità dall’umanità, egli il medesimo è ed è detto Dio perfetto e uomo perfetto, da due e in due nature. Diciamo il nome «Cristo» come proprio dell’ipostasi, ma non lo diciamo unilateralmente bensì come significante delle due nature. Infatti egli stesso unse se stesso: come Dio, ungendo il corpo con la sua divinità, ma essendo unto in quanto uomo: infatti egli è questo e quello. E l’unzione dell’umanità fu la divinità. Infatti se il Cristo fosse consustanziale al Padre essendo di una sola natura composta, allora anche il Padre sarebbe composto, e consustanziale alla carne: il che è assurdo e colmo di ogni bestemmia. D’altra parte, come una sola natura sarebbe capace di accogliere opposte differenze essenziali? Come è possibile che una stessa natura sia nel medesimo tempo creata e increata, mortale e immortale, circoscritta e incircoscritta? Inoltre se – affermando Cristo di una sola natura – la dicono semplice, allora o lo riconoscono soltanto Dio, e introducono la sua in-umanizzazione come un’illusione, oppure lo riconoscono semplice uomo, conformemente a Nestorio. E dove starebbe «ciò che è perfetto in divinità» e «ciò che è perfetto in umanità»? E se dicono che dopo l’unione il Cristo è di una sola natura composta, in quale momento diranno che egli è di due nature? Infatti è chiaro a chiunque che prima dell’unione Cristo sarebbe stato di una sola natura. In effetti questo è ciò che produce l’errore agli eretici, e cioè il dire che la natura e l’ipostasi sono la medesima cosa. Poiché noi diciamo che una è la natura degli uomini, bisogna sapere che noi non lo diciamo pensando alla definizione dell’anima e del corpo: infatti sarebbe impossibile dire che l’anima e il corpo, confrontati fra loro, sono di un’unica natura. Ma poiché le ipostasi degli uomini – che sono moltissime – ricevono tutte la medesima definizione della natura (infatti esse sono composte tutte di anima e di corpo, e tutte partecipano della natura dell’anima e posseggono la sostanza del corpo), diciamo una sola natura per la comune specie delle moltissime e differenti ipostasi, mentre è chiaro che a sua volta ogni ipostasi porta con sé due nature e si compie in due nature, cioè quella dell’anima e quella del corpo. Invece, in riguardo a nostro Signore Gesù Cristo non è possibile pensare a una specie comune. Infatti non ci fu, né c’è, né mai ci sarà un altro Cristo di divinità e di umanità, egli che è il medesimo, Dio perfetto e uomo perfetto in divinità e in umanità. E quindi non è possibile dire una sola natura in riguardo al Signore nostro Gesù Cristo. Perciò diciamo che l’unione è avvenuta da due nature perfette, quella divina e quella umana: non per impastamento, o per confusione, o per mescolanza, come dissero Dioscoro scacciato da Dio, Eutiche, Severo e la loro empia compagnia; e neanche facciale, oppure relativa, o per dignità, o per identità di volontà, o per uguaglianza di onore, o per omonimia, o secondo il beneplacito, come dissero Nestorio odioso a Dio, Teodoro di Mopsuestia e la loro diabolica adunanza; ma invece per composizione e cioè secondo l’ipostasi, senza mutamenti, senza confusione, senza divisione e senza separazione. E confessiamo una sola ipostasi dell’incarnato Figlio di Dio in due nature che sono perfette, dicendo la medesima ipostasi della sua divinità e della sua umanità e proclamando che le due nature sono conservate in lui dopo l’unione: non ponendole ciascuna per sé e a parte, ma unite fra loro in una sola ipostasi composta. Infatti diciamo essenziale l’unione, e cioè vera e non per apparenza; e inoltre «essenziale» non come se le due nature compissero una sola natura composta, ma perché esse sono unite veramente tra di loro nell’unica ipostasi composta del Figlio di Dio. E anche definiamo che la loro differenza essenziale è conservata integra: infatti ciò che era stato creato rimase creato e l’increato rimase increato, il mortale rimase mortale e l’immortale rimase immortale, il circoscritto rimase circoscritto e l’incircoscritto rimase incircoscritto, il visibile rimase visibile e l’invisibile rimase invisibile: «l’uno risplende con i miracoli, l’altro soccombe alle violenze». Il Verbo si appropria le cose umane (infatti è suo tutto ciò che è della sua santa carne) e partecipa alla carne ciò che è suo proprio, secondo il principio dello scambio – attraverso la compenetrazione delle parti fra di loro e attraverso l’unione secondo l’ipostasi – e proprio perché era uno e il medesimo Colui che «operava» le cose divine e le cose umane «in ciascuna forma secondo la comunanza reciproca». Perciò anche il Signore della gloria è detto essere stato crocifisso, benché la sua natura non soffrisse, e il Figlio dell’uomo è confessato essere nel cielo prima della passione, come disse proprio il Signore. Infatti era uno e il medesimo il Signore della gloria e colui che per natura e realmente nacque «Figlio dell’uomo», e cioè uomo: e noi riconosciamo i miracoli e le sofferenze, anche se secondo un operava miracoli e secondo l’altro egli il medesimo sottostava alle sofferenze. Infatti sappiamo che, come una sola è la sua ipostasi, d’altra parte è anche conservata integra la differenza essenziale delle nature. E come si conserverebbe integra la differenza, se non si conservassero integre le cose che hanno la differenza fra loro? Infatti la differenza è differenza di cose che differiscono. E quindi seguendo il principio essenziale per il quale le nature del Cristo differiscono fra loro – e cioè il principio relativo alla sostanza – noi diciamo che egli partecipa con gli estremi: secondo la divinità, con il Padre e con lo Spirito; secondo l’umanità con la madre e con tutti gli uomini: giacché il medesimo è consustanziale secondo la divinità con il Padre e con lo Spirito, e secondo l’umanità con la madre e con tutti gli uomini. Ma d’altra parte, seguendo il principio per il quale le sue nature si uniscono noi diciamo che egli differisce sia dal Padre e dallo Spirito, sia dalla madre e dagli altri uomini: infatti le sue nature si uniscono per l’ipostasi, avendo esse un’unica ipostasi composta, secondo la quale egli differisce sia dal Padre e dallo Spirito sia dalla madre e da noi.
San Giovanni Damasceno, la Fede Ortodossa, Libro III, cap. I-II-III
PROSPETTIVA ORTODOSSA SULL’IMMACOLATA CONCEZIONE
L’8 dicembre 1854, Papa Pio IX dichiarò un dogma nella Chiesa cattolica romana chiamato Immacolata Concezione. Ogni anno, dalla memoria di questo dogma, si celebra una festa in onore della sua promulgazione. È un giorno di festa molto importante per i cattolici ed è un evento significativo il fatto che molte chiese e scuole siano chiamate Immacolata Concezione. Ma cosa dichiara questo dogma?
Essa afferma: Dichiariamo, pronunciamo e definiamo che la dottrina secondo la quale la Beatissima Vergine Maria, nel primo momento del suo concepimento, per grazia e privilegio singolari concessi da Dio Onnipotente, in considerazione dei meriti di Gesù Cristo, il Salvatore del genere umano, è stato preservato immune da ogni macchia del peccato originale, è una dottrina rivelata da Dio e pertanto da credere fermamente e costantemente da tutti i fedeli.
Fondamentalmente, il dogma dell’Immacolata Concezione si fonda sulla teologia del peccato originale della Chiesa latina. Tra i numerosi Padri latini che hanno trattato questo argomento, sant’Agostino di Ippona ha affermato che l’umanità eredita la colpa del peccato originale. Questa era la sua argomentazione a favore della Chiesa latina a favore del battesimo dei bambini. I neonati dovrebbero essere battezzati il più presto possibile per lavare via la colpa del peccato originale.
Tuttavia, la Chiesa ortodossa ha una posizione diversa. San Giovanni Crisostomo sosteneva che lo scopo del battesimo non era quello di lavare il peccato originale ma piuttosto di unirsi a Cristo. Il nostro battesimo è la nostra prima morte in cui moriamo al peccato e risorgiamo con Cristo.
Quando il sacerdote tiene in braccio un bambino al battesimo, subito prima dell’immersione, significa Cristo sulla croce. L’immersione nell’acqua significa la Sua discesa nell’Ade e i Suoi tre giorni nella tomba. Quando il sacerdote solleva il bambino dal fonte battesimale significa la sua risurrezione.
L’Ortodossia insegna che l’umanità non eredita la colpa del peccato originale ma piuttosto la sua conseguenza che è la morte. Ereditiamo la nostra natura decaduta e il peccato perché siamo mortali. Ancora una volta, questa è una conseguenza del peccato originale commesso dai nostri antenati, Adamo ed Eva.
Le differenze in teologia si basano sull’interpretazione di Romani 5:12. La Vulgata usata dalla Chiesa Cattolica Romana si traduce in inglese dal latino come: Pertanto, come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato in questo mondo e per il peccato la morte: e così la morte è passata su tutti gli uomini, nei quali tutti hanno peccato.
D’altra parte, il testo greco tradotto in inglese, afferma correttamente: Dunque, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la morte, e così la morte è passata a tutti gli uomini, a causa della quale tutti hanno peccato.
“Per questo” si riferisce alla morte. Pertanto, è a causa della morte che l’umanità pecca. “In chi” nella traduzione precedente implica che in qualche modo tutti hanno peccato in Adamo, cioè ereditano la colpa del peccato di Adamo.
Quindi il dogma dell’Immacolata Concezione deriva dalla dottrina del peccato originale della Chiesa latina. Lo stesso vale per il dogma dell’Assunzione, emanato il 1° novembre 1950 da Papa Pio XII che affermava: Per l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, e per nostra propria autorità, pronunciamo, dichiariamo , e definirlo dogma divinamente rivelato: che l’Immacolata Madre di Dio, la sempre Vergine Maria, terminato il corso della sua vita terrena, fu assunta in anima e corpo alla gloria celeste.
Questo dogma lasciava incertezza sul fatto se la Vergine Maria avesse effettivamente avuto una morte fisica o se il Suo corpo e la Sua anima fossero stati assunti in cielo. La Chiesa ortodossa celebra la Dormizione della Theotokos, ovvero la convinzione che Ella morì di morte fisica ma che quando gli Apostoli aprirono la sua tomba il terzo giorno, era vuota. Così il suo corpo ascese al cielo. Se Maria fosse preservata libera dal Peccato Originale, quindi esente da esso, allora non sarebbe soggetta alla conseguenza di esso che è la morte. Ciò spiegherebbe l’idea che ella fu assunta in cielo in corpo e anima. La Chiesa ortodossa non sostiene tale convinzione, piuttosto sostiene che morì di morte fisica proprio come tutta l’umanità ma poiché il suo corpo era sacro, ascese al cielo.
Ci sono altre preoccupazioni riguardo al dogma dell’Immacolata Concezione. Se Maria fosse libera dal Peccato Originale, quindi purificata fin dalla Sua nascita affinché potesse partorire Gesù, allora sarebbe necessario che i suoi genitori fossero puri dal Peccato Originale e poi i loro genitori e così via. Se questo fosse vero, allora qual è il motivo dell’Incarnazione di Cristo?
Se tutti gli antenati dovessero essere purificati allora Cristo non avrebbe bisogno di incarnarsi e di vivere in mezzo a noi. C’è bisogno di redenzione tra i giusti? Ovviamente questo dogma non è accurato. Certamente Adamo ed Eva non erano puri perché il loro peccato era il Peccato Originale. Così Cristo si è incarnato ed è vissuto in mezzo a noi per annientare il peccato e salvarci.
Inoltre, se Maria fin dal grembo di sua madre fu preservata dalla grazia di Dio da ogni impurità e per essa grazia fu preservata dal peccato anche dopo la sua nascita, allora perché è più onorevole dei cherubini e senza paragone più gloriosa dei serafini? Se Lei, senza alcuno sforzo e senza avere alcuna tentazione, è rimasta pura, allora perché viene incoronata più di tutti gli altri? Non c’è vittoria senza prove e tribolazioni.
La Theotokos era altrettanto umana e soggetta alla tentazione del peccato come ognuno di noi. Tuttavia, non ha commesso alcun peccato personale. Fu grazie alla Sua purezza e rettitudine che fu ritenuta degna da Dio di essere la Theotokos, H Κεχαριτωμένη. Ci sono santi cattolici romani come Tommaso d’Aquino e Bernardo di Clarivaux che rifiutarono l’insegnamento dell’Immacolata Concezione. Quindi certamente c’è divisione anche all’interno della Chiesa latina con questo dogma.
Sebbene la Chiesa ortodossa non sostenga il dogma dell’Immacolata Concezione, celebra comunque la Concezione della Theotokos e di sua madre, Sant’Anna. Ciò che è miracoloso nel suo concepimento è che Gioacchino e Anna erano vecchi e senza figli da molti anni. Non avere figli era considerato una maledizione o una punizione di Dio nella cultura semitica. Eppure, nonostante Anna fosse sterile, a causa della fervida preghiera sia di Gioacchino che di Anna e della loro promessa di consacrare a Dio il loro figlio. Gioacchino e Anna trovarono grazia davanti al Signore che aprì il grembo di Anna e così ella diede alla luce Maria. Come sentiamo nell’Apolytikion della Festa:
Oggi i vincoli della mancanza di figli sono spezzati. Per aver ascoltato le preghiere di Gioacchino e Anna, Dio promise che contro ogni speranza avrebbero dato alla luce la Fanciulla di Dio. Da lei sarebbe nato Lui, l’Incircoscritto, quando si sarebbe fatto uomo, e sull’esempio dell’Angelo, ci comanda di invocarla: “Rallegrati, fanciulla piena di grazia, il Signore è con te”.
Si dice anche in una stichera dei Vespri della festa: Colui che fece sgorgare le acque dalla roccia, ha permesso al tuo seno di portare la sempre Vergine Maria, per mezzo della quale verrà la nostra salvezza.
Nell’Oikos del Mattutino della Festa sentiamo: Colui che mantenne la tua promessa e con la tua autorità diede a Sara un figlio, il grande Isacco, sebbene fosse molto vecchia; Tu, Dio Onnipotente, che hai aperto il grembo sterile di Anna, la madre del tuo profeta Samuele; guarda ora a me, accetta le mie preghiere e rispondi alle mie richieste”. Così disse piangendo la temperante e sterile Anna, e fu esaudita dal Benefattore. Perciò con gioia concepì la Vergine che portò il Logos divino, in modi che trapassano la parola e il pensiero…
Intercedi per tutti noi, o Madre della Theotokos, Sant’Anna!
P. Georgios Metallinos: Unificazione dei calendari nella differenza dei Dogmi
“L’argomento non è quello dei calendari: sono dogmi e teologia contrastanti che portano a celebrazioni separate della Pasqua”
dall’Arciprete Georgios Metallinos
La risurrezione di Cristo non solo è il fondamento incrollabile della nostra fede (“Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede” [1 Corinzi 15,17] ), ma richiama anche alla mente la tragica divisione del mondo cristiano della nostra epoca.
Lo scopo del dialogo ecumenico o intercristiano è proprio quello di rimuovere questa divisione e ripristinare l’unità. Negli ambienti ecumenici, infatti, la celebrazione comune della Pasqua è considerata un passo essenziale in questa direzione.
La decisione di cambiare calendario (1923-1924) – decisione affrettata e non pan-ortodossa – portò alla comune celebrazione cristiana del Natale (e delle Feste inamovibili), ma non a quella della Pasqua (e delle Feste mobili), che continua ad essere determinato nel mondo ortodosso sulla base del vecchio calendario giuliano.
Una recente Enciclica patriarcale (n. 150/26 maggio 1995) solleva la questione della necessità di “determinare” “una data comune per la celebrazione della Grande Festa della Pasqua da parte di tutti i cristiani”, promuovendo così un percorso unionista. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, alcune costanti storiche e teologiche fondamentali che determinano in modo decisivo il significato delle feste cristiane (della Chiesa) e la nostra esperienza liturgica di esse, come nel caso della Pasqua:
(a) Molti ortodossi sostengono giustamente che l’impedimento a celebrare le feste contemporaneamente ai non ortodossi non è la differenza nei calendari, ma la differenza nel dogma e nella teologia; vale a dire, la nostra non convergenza su questioni di fede, dato, in particolare, che la “fede” nell’ininterrotta Tradizione cristiana, che continua nell’Ortodossia, non è una semplice – superficiale o scolastica – accettazione di certe “verità” disincarnate carattere assoluto, ma, piuttosto, partecipazione ad uno stile di vita tramandato dagli Apostoli e dai Padri, che porta a fare esperienza dello Spirito Santo.
Questa esperienza, quando formulata in parole, costituisce la fede della Chiesa come Corpo del Signore. Così dobbiamo intendere l’ingiunzione canonica della Chiesa – a partire dal Primo Sinodo ecumenico, che, nel 325 d.C., risolse la questione della celebrazione della Pasqua una volta per tutte fino ai giorni nostri: «non festeggiare con gli ebrei», il che equivale, oggi, a «non festeggiare con gli eterodossi».
Questo non è frutto di bigottismo religioso, ma espressione di una sana e attiva autocoscienza ecclesiastica. Per questo motivo, già nel 1582, l’Oriente ortodosso rifiutò il “Nuovo” Calendario, non per ragioni scientifiche, ma ecclesiologiche, poiché l’introduzione di questo calendario fu collegata sia dagli occidentali che dai nostri stessi unionisti all’imposizione di un’osservanza simultanea delle feste come facilitazione (di fatto) dell’unione “dal basso” (su base ampia).
Questo spirito trovò espressione nella controversa Enciclica del 1920, che proponeva «l’adozione di un unico calendario per la celebrazione simultanea delle principali feste cristiane da parte di tutte le Chiese».
Non ci soffermeremo, qui, sul fatto che questa Enciclica pone sullo stesso piano l’Ortodossia e la non-Ortodossia. Ricorderemo però che, se da un lato ha certamente aperto la strada all’ecumenismo, dall’altro è servito a provocare la genesi della questione “vecchio calendarista”, che resta un’esperienza tragica e traumatica nel corpo della Chiesa ortodossa e dovrebbe, per questo stessa ragione, da risolvere prima di qualsiasi soluzione parziale o più ampia nell’ambito del dialogo “ecumenico”.
(b) La precondizione della comune «celebrazione delle feste cristiane» non è l’accordo sul calendario o gli accordi diplomatici e giuridici, ma «l’unità della fede e la comunione dello Spirito Santo»; cioè l’adesione ad una concezione del cristianesimo come un “ospedale spirituale” (San Giovanni Crisostomo), cioè come ospedale esistenziale e sociale e come metodo di terapia.
L’ideologizzazione del cristianesimo o la sua formulazione accademica – malattie derivanti dal dialogo ecumenico – non solo non ci conducono all’unità che desideriamo, ma anzi ce ne allontanano. L’unità e l’unione che culminano nella Sacra Mensa e nel Santo Calice richiedono l'”unanimità” nella fede e nell’insieme della vita cristiana; cioè l’accettazione della Tradizione Apostolica nella sua totalità e l’incorporazione in essa.
È proprio per questa ragione che il culto e la tradizione liturgica da soli non costituiscono una base di unità, come credono ampiamente, ma erroneamente, coloro che sono impegnati nel dialogo ecumenico. Il culto e la partecipazione al culto non sono efficaci in termini soteriologici, al di fuori del contesto sopra menzionato di una tradizione ecclesiologica comune. La preghiera perenne del credente ortodosso è per “la restaurazione e la riunione degli erranti” al Corpo di Cristo, l’Unica Chiesa (Liturgia di San Basilio Magno) .
In questo modo si giustifica la forza anfidromica dell’affermazione di san Paolo, che abbiamo citato all’inizio: «Se la risurrezione di Cristo è il fondamento della nostra fede, allora la fede autentica è l’unica precondizione per la partecipazione alla risurrezione. come il più grande evento della nostra salvezza in Cristo.”
L’arciprete Giorgio Metallinos è stato un sacerdote della Chiesa di Grecia e professore di teologia dell’Università di Atene. Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Kathimerini.
San Paisio Velichkovsky: il digiuno
Quella del Natale è l’altra lunga quaresima cui la Santa Madre Chiesa invita i suoi figli. Un periodo di preparazione, di distacco dalle cose del mondo, di conversione per l’accoglienza del Teantropo. Mai come oggi, nella nostra società secolarizzata, dove interessa solo il godimento individuale e l’appagamento egocentrico, è necessario fare esperienza della nostra finitezza per comprendere che c’è altro oltre noi stessi e dentro di noi. Da sempre la spiritualità ortodossa si basa sull’entrare in sé stessi, placare i tumulti della mente per purificare il nous e pacificare il cuore. La preghiera ed il digiuno sono certamente i mezzi, mai i fini, per diradare la nebbia e raffinare la mente per permettere l’ingresso della luce divina. Come in un lago increspato dal vento, come in una pozzanghera fangosa non è possibile vedere in trasparenza il fondo, così non è possibile ‘incontrare’ il nostro Dio unitrino se non spazzando via i nostri pensieri di vanagloria e le nostre pulsioni mondane. Preparandoci alla nascita storica del Signore nostro Gesù Cristo in un ameno rifugio in Betlemme, ci prepariamo ad accoglierlo nei nostri cuori purificati. Di seguito il lettore troverà uno scritto del Santo Paisio Velichkovsky che descrive il corretto modo di digiunare in questo tempo quaresimalesecondo i Santi Padri.
di San Paisio Velichkovsky(1722-1794)
“Chiamo digiuno il mangiare un po’ una volta al giorno. Alzarsi da tavola quando si è ancora affamati, prendere il cibo, il pane, il sale e l’acqua da bere, che le sorgenti stesse producono. Ecco il modo regale di ricevere il cibo; in effetti molti sono stati salvati per questo cammino, così ci hanno detto i Santi Padri. Astenersi dal cibo per un giorno, o due giorni, tre, quattro, cinque o una settimana, un uomo non può farlo sempre. Ma siccome ogni giorno si mangia pane e si beve, si può sempre fare così; solo che, dopo aver mangiato, si deve avere un po’ di fame affinché il corpo sia sottomesso allo spirito per capace di fatiche e sensibile ai movimenti mentali, e così che le passioni corporee siano vinte. Il digiuno completo non può mortificare le passioni corporee così come il cibo povero le mortifica. Alcuni digiunano per un po’ e poi si dedicano a cibi deliziosi, perché molti cominciano a digiunare oltre le loro forze e anche altri che fanno lavori pesanti e poi si indeboliscono per la mancanza di misura e l’irregolarità di questo lavoro e quindi cercano cibi gustosi e riposo per il rafforzamento del corpo. Agire così significa costruire e poi ancora distruggere, poiché il corpo per la magrezza dovuta al digiuno brama i dolci e cerca consolazione e i cibi dolci accendono le passioni. Ma se qualcuno si stabilisce una misura precisa di quanto cibo mangiare in un giorno, ne trarrà un grande profitto. Tuttavia, per quanto riguarda la quantità del cibo, bisogna stabilire come regola che sia tanto quanto è necessario per rafforzarsi. Una persona del genere può compiere ogni tipo di lavoro spirituale. Ma se qualcuno digiuna oltre questo limite, in un altro momento si consegnerà al riposo. Il lavoro ascetico secondo misura non ha prezzo. Infatti anche alcuni dei grandi Padri prendevano il cibo con misura e ogni cosa usavano a suo tempo, avendo in tutto misura: fatiche ascetiche, bisogni corporali, possedimenti in cella: tutto secondo una regola determinata e moderata. Pertanto i Santi Padri non comandano di cominciare a digiunare al di sopra delle proprie possibilità e di indebolirsi. Prendi come regola il mangiare tutti i giorni; quindi ci si può astenere in modo più deciso, ma se si digiuna più di così, come si potrà poi astenersi dal mangiare a sazietà e dal mangiare troppo? In nessun modo si potrà farlo. Un inizio così smisurato deriva o dalla vanagloria o da mancanza di comprensione, mentre la continenza è una delle virtù, che aiuta a sottomettere la carne. La fame e la sete sono date all’uomo per la purificazione del corpo, dalla preservazione dai pensieri impuri e dalle passioni lussuriose. Mangiare poco ogni giorno è un mezzo per raggiungere la perfezione, come hanno detto alcuni, e chi mangia ogni giorno ad un’ora determinata non si abbassa in alcun modo moralmente né subisce alcun danno all’anima. San Teodoro Studita loda queste persone nella sua istruzione del venerdì della prima settimana del Grande Digiuno, dove a conferma delle sue parole cita i santi Padri teofori e il Signore stesso. Così dobbiamo agire anche noi.
Il Signore sopportò un lungo digiuno, come fecero Mosè ed Elia, ma solo una volta. E alcuni altri talvolta, supplicando qualcosa al Creatore, si imponevano un certo tempo di digiuno, ma secondo le leggi naturali e l’insegnamento della Divina Scrittura. Dall’attività dei Santi, dalla vita del nostro Salvatore, e dalle regole di coloro che hanno vissuto nel buon ordine, risulta evidente che è splendido e proficuo essere sempre pronti e trovarsi nel lavoro ascetico, nel lavoro e nella resistenza; non indebolirsi però con digiuni smodati e non portare il corpo in uno stato di inattività. Se la carne è infiammata per la giovinezza, bisogna astenersi molto; ma se uno è infermo, bisogna prenderne molto o poco a secondo dalla sua condizione. Guarda e giudica in base alla tua infermità quanto puoi fare. Per ognuno c’è una misura e il maestro interiore è la coscienza; non tutti possono avere la stessa regola e la stessa fatica ascetica, perché alcuni sono forti e altri sono deboli. Alcuni sono come il ferro, altri come il rame, altri ancora come la cera. E così, trovando correttamente la propria misura, prendete il cibo una volta al giorno, esclusi il sabato, la domenica e le grandi feste del Signore. Un digiuno moderato e sensato è il fondamento e il capo di tutte le virtù. Si dovrebbe combattere il male come si combatte un leone e un serpente feroce, nell’infermità del corpo e nella povertà spirituale. Chi desidera che la sua mente sia salda contro i pensieri contaminanti dovrebbe affinare il suo corpo attraverso il digiuno.
Non è possibile, senza il digiuno, servire come sacerdote. Come è indispensabile respirare, lo è anche digiunare. Il digiuno, una volta entrato nell’anima, uccide nel profondo il peccato che vi risiede.
Dalla Piccola Filocalia Russa, vol. IV: San Paisius Velichkovsky, St. Herman Press, Platina,1994, p. 74-75.
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LA SINODALITA’ NELLA CHIESA APOSTOLICA
Partendo dalle parole scritte dal Santo Cirillo, Vescovo di Gerusalemme, nella sua diciassettesima catechesi rivolta ai catecumeni. vediamo come egli descriva il ruolo di Pietro, degli Apostoli e del Santo Spirito nella risoluzione di problemi dogmatici e di ortoprassi.
Nel paragrafo 27 della 17^ Catechesi, così San Cirillo definisce l’Apostolo Pietro: “In virtù del medesimo Spirito Santo operò anche Pietro, posto a capo degli apostoli e a custodia delle chiavi del regno dei cieli”.
E’ dunque proprio di ogni sana teologia ortodossa considerare l’uomo Cefa come l’Apostolo Pietro, il primo e a capo degli Apostoli, detentore delle chiavi del Regno dei Cieli. Diversa è l’operazione postuma per cui lo stesso Pietro è divenuto con il tempo capostipite dei soli Vescovi che risiederanno in Roma, Capitale dell’Impero. Questa primazia apostolica – e sappiamo cosa Gesù insegna su chi vuole essere primo nella Chiesa – venne trasformata in primazia di comando: l’infallibilità propria del Santo Spirito fu trasferita all’Apostolo e quindi ai suoi successori. Vediamo.
Pietro, come sappiamo, aprì la porta della predicazione ai pagani, fatto inconsueto per persone di stirpe ebraica. Lo stesso Apostolo ebbe molte difficoltà umane per comprendere e accettare questa apertura tanto che il Signore dovette anticiparla con la nota visione della tovaglia piena di animali impuri che comandò di mangiare e lo stesso San Paolo dovette in merito redarguirlo nella storica diatriba. Per questo motivo il Signore dovette dire a Pietro, a modo di catechesi di preparazione all’incontro con il pagano Cornelio: “Non considerare impuro ciò che Dio ha purificato” (At 10,15) e dovette anche anticipare la discesa del Santo Spirito, prima ancora che quelle persone fossero battezzate.
«Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso; e i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, davano in esclamazioni meravigliati e stupiti che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo». (At 10,44)
Proprio per questa difficoltà tutta giudaica:
“Gli apostoli e i fratelli che si trovavano nella Giudea vennero a sapere che anche gli stranieri avevano ricevuto la Parola di Dio. E quando Pietro salì a Gerusalemme, i credenti circoncisi lo contestavano, dicendo: «Tu sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato con loro!» (At 11,1-3).
Vediamo, quindi, come il capo infallibile della Chiesa nascente venga contestato addirittura da semplici credenti di stirpe ebraica. Ma continuiamo il racconto. L’apertura della predicazione ai pagani fece molti proseliti nella città di Antiochia.
“Vedendo abbondante ad Antiochia la massa di credenti in Cristo, [Barnaba] vi fece venire Paolo di Tarso perché gli desse una mano nella comune battaglia. E quando essi ebbero istruite e aggregate in comunità le masse dei discepoli, avvenne il fatto che «ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani». Era un nome nuovo benché preannunziato dal Signore; perciò credo ci sia stato l’intervento dello Spirito Santo”. (dalla Catechesi 17^)
A lungo il problema della predicazione e del battesimo dei pagani tenne banco nella Chiesa nascente. Infatti creava disagio ai credenti ebrei il fatto che i pagani non fossero soggetti alle pratiche antiche della religione giudaica. Così spiega questa diatriba il Vescovo di Gerusalemme Cirillo:
“Il medesimo Spirito Santo, che ha stabilito in accordo col Padre e col Figlio una nuova alleanza con la Chiesa cattolica, ci ha anche resi liberi dai pesi insopportabili della Legge, dico da quelli che riguardavano l’astensione dagli alimenti profani e impuri, le prescrizioni dei sabati, dei noviluni, della circoncisione, delle aspersioni e dei sacrifici. Erano prescrizioni valevoli un tempo, che adombravano i beni futuri; ma giustamente soppresse, una volta subentrata all’ombra la verità. Essendo stata tale questione agitata ad Antiochia da quelli che dicevano necessarie la circoncisione e le costumanze mosaiche, furono mandati a dirimerla Paolo e Barnaba. Ma furono gli apostoli della nostra Gerusalemme che mandando una loro lettera liberarono tutto il mondo da ogni osservanza legale e tipologica”.
Nata le questione intorno alla legge mosaica e alle sue prescrizioni, risultava urgente trovare una soluzione condivisa. In questo frangente non ci si appellò direttamente a San Pietro che prima è stato qualificato dallo stesso Cirillo come “capo degli apostoli e custode delle chiavi del Regno dei Cieli”. Si rese urgente un incontro nella comunità Madre di Gerusalemme.
“Ora alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa dottrina: «Se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè, non potete esser salvi». Poiché Paolo e Barnaba si opponevano risolutamente e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Barnaba e alcuni altri di loro andassero a Gerusalemme dagli Apostoli e dagli Anziani per tale questione. […] Giunti poi a Gerusalemme, furono ricevuti dalla Chiesa, dagli Apostoli e dagli Anziani e riferirono tutto ciò che Dio aveva compiuto per mezzo loro”. (At 15,1)
Alla fine dell’assemblea in quel di Gerusalemme, lo stesso Cirillo dice che furono gli Apostoli, sempre collegialmente, ad inviare una lettera per risolvere lo scontro, ma vendiamo a chi intesta la decisione di questo primo concilio:
“e non se ne arrogarono per altro essi [gli Apostoli] l’autorità, ma proclamarono con uno scritto inviato per lettera: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia». Così dichiararono senza ambiguità che, seppure le parole erano state scritte da uomini del livello degli apostoli, la prescrizione era data al mondo dallo Spirito Santo. In questo senso la intesero Barnaba e Paolo con tutta la comunità, e in tal senso fu convalidata dall’uso di tutta la terra”. (dalla Catechesi 17^)
Per altro, queste uniche prescrizione imposte ai credenti provenienti dal paganesimo erano state suggerite durante l’assemblea da Giacomo, l’allora Vescovo della Chiesa Madre di Gerusalemme:
“Quand’essi ebbero finito di parlare, Giacomo aggiunse: «Fratelli, ascoltatemi. Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome. Con questo si accordano le parole dei profeti, come sta scritto:
Dopo queste cose ritornerò e riedificherò la tenda di Davide che era caduta; ne riparerò le rovine e la rialzerò, perché anche gli altri uomini cerchino il Signore e tutte le genti sulle quali è stato invocato il mio nome, dice il Signore che fa queste cose da lui conosciute dall’eternità.
Per questo io ritengo che non si debba importunare quelli che si convertono a Dio tra i pagani, ma solo si ordini loro di astenersi dalle sozzure degli idoli, dalla impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue. Mosè infatti, fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato nelle sinagoghe». (At 15,13-21)
Così si risolse la diatriba intorno alla conversione dei pagani, “lo Spirito Santo”, prima “e noi” anche e mai viceversa. Gesù Cristo è a Capo della Chiesa e la governa per il tramite del Santo Spirito. In epoche razionalistiche ed intellettualistiche come la nostra, questa realtà è troppo dura da digerire, all’esterno ma anche all’interno della Chiesa Universale.
P. Seraphim Rose: I Santi Padri della Spiritualità Ortodossa (II)
P. Seraphim Rosedi Platina
tratto da: The Orthodox Word, vol. 11, n. 1 (gennaio-febbraio 1975), p. 35-41.
I Santi Padri della Spiritualità Ortodossa
Parte II. Come leggere i Santi Padri
LA PRESENTE PATROLOGIA prenderà in esame i Padri della spiritualità ortodossa; pertanto, il suo scopo e i suoi fini sono piuttosto diversi dal corso ordinario di Patrologia nel seminario. Il nostro scopo in queste pagine sarà duplice:
Presentare il fondamento teologico ortodosso della vita spirituale: la natura e l’obiettivo della lotta spirituale, la visione patristica della natura umana, il carattere dell’attività della grazia divina e dello sforzo umano, ecc. .;
e dare l’insegnamento pratico su come vivere questa vita spirituale ortodossa, con una caratterizzazione degli stati spirituali, sia buoni che cattivi, che si possono incontrare o attraversare nella lotta spirituale. Pertanto, le questioni strettamente dogmatiche riguardanti la natura di Dio, la Santissima Trinità, l’Incarnazione del Figlio di Dio, la processione dello Spirito Santo e simili, saranno toccati solo quando questi riguardano questioni di vita spirituale; e molti Santi Padri i cui scritti trattano principalmente di queste questioni dogmatiche e che toccano solo secondariamente questioni di vita spirituale, per così dire, non verranno discussi affatto. In una parola, questo sarà principalmente uno studio dei Padri della Filocalia, quella raccolta di scritti spirituali ortodossi che fu composta agli albori dell’età contemporanea, poco prima dello scoppio della feroce Rivoluzione in Francia, i cui effetti finali stiamo assistendo ai nostri giorni di dominio ateo e anarchia.
Nel secolo attuale c’è stato un notevole aumento di interesse per la Filocalia e i suoi Santi Padri. In particolare, i Padri più recenti come San Simeone il Nuovo Teologo, San Gregorio il Sinaita e San Gregorio Palamas, hanno cominciato ad essere studiati e alcuni dei loro scritti sono stati tradotti e stampati in inglese e in altre lingue occidentali. Si potrebbe addirittura dire che in alcuni ambienti seminariali e accademici sono “diventati di moda“, in netto contrasto con il XIX secolo, quando non erano affatto “di moda” nemmeno nella maggior parte delle accademie teologiche ortodosse (a differenza dei migliori monasteri che conservarono sempre santi i loro ricordi e vissero attraverso i loro scritti).
Ma proprio questo fatto presenta un grande pericolo che occorre qui sottolineare. Il “diventare di moda” degli scritti spirituali più profondi non è affatto necessariamente una cosa positiva. In effetti, è molto meglio che i nomi di questi Padri rimangano del tutto sconosciuti piuttosto che siano semplicemente l’occupazione di studiosi razionalisti e “pazzi convertiti” che non traggono alcun beneficio spirituale da loro ma aumentano solo il loro insensato orgoglio di “conoscere meglio” riguardo loro più di chiunque altro o, peggio ancora, iniziano a seguire le istruzioni spirituali contenute nei loro scritti senza una preparazione sufficiente e senza alcuna guida spirituale. Tutto ciò, certo, non significa che chi ama la verità debba abbandonare la lettura dei Santi Padri; Dio non voglia! Ma significa che tutti noi – studiosi, monaci, o semplici laici – dobbiamo avvicinarci a questi Padri con il timore di Dio, con umiltà e con una grande sfiducia nella nostra saggezza e nel nostro giudizio. Ci avviciniamo a loro con lo scopo di imparare, e prima di tutto dobbiamo ammettere, dunque, che per questo motivo abbiamo bisogno di un insegnante. E gli insegnanti esistono: nei nostri tempi in cui gli Anziani portatori di Dio sono scomparsi, i nostri insegnanti devono essere quei Padri che, soprattutto nei tempi a noi vicini, ci hanno detto specificamente come leggere – e come non leggere – gli scritti ortodossi. sulla vita spirituale. Se lo stesso beato Paisius Velichkovsky, il compilatore della prima Filocalia slava, fu “preso da paura” quando apprese che tali libri sarebbero stati stampati e non più circolati sotto forma di manoscritti in alcuni pochi monasteri, allora quanto più dobbiamo avvicinarci a loro con timore e comprendere la causa della sua paura, affinché non si abbatta su di noi la catastrofe spirituale da lui prevista.
Il beato Paisius, nella sua lettera all’archimandrita Teodosio dell’Eremo di San Sofronio, [nota: dall’edizione di Optina della Vita e degli Scritti dell’anziano Paisius, pp. 265-267] scriveva: “Per quanto riguarda la pubblicazione a stampa dei libri patristici, sia in lingua greca che in lingua slava, sono colto da gioia e timore. Da gioia, perché non saranno consegnati all’oblio definitivo e gli zelatori potranno più facilmente acquisirli; da timore, perché sono spaventato e tremo per il fatto che vengano offerti, come se potessero essere venduti come gli altri libri, non solo ai monaci, ma anche a tutti i cristiani ortodossi, e per il fatto che questi ultimi, avendo studiato l’opera della preghiera mentale in modo autonomo, senza l’istruzione di coloro che sono esperti in essa, possano cadere nell’inganno, e per il fatto che a causa dell’inganno i vanitosi possano essere blasfemi contro quest’opera santa e irreprensibile, che è stata testimoniata da moltissimi grandi e Santi Padri … e che a causa delle blasfemie seguano dubbi sull’insegnamento dei nostri Padri portatori di Dio”. La pratica della Preghiera mentale di Gesù, continua il Beato Paisius, è possibile solo nelle condizioni di obbedienza monastica.
Pochi sono, a dire il vero, nei nostri ultimi tempi di debole lotta ascetica, che lottano per le vette della preghiera mentale (o addirittura sanno cosa potrebbe essere); ma gli avvertimenti del Beato Paisius e di altri Santi Padri valgono anche per le difficoltà minori di molti cristiani ortodossi oggi. Chiunque legga la Filocalia e altri scritti dei Santi Padri, e anche molte Vite di Santi, incontrerà passaggi sulla preghiera mentale, sulla visione divina, sulla divinizzazione e su altri stati spirituali elevati, ed è essenziale per il cristiano ortodosso sapere cosa dovrebbe pensare e sentire a riguardo.
Vediamo dunque cosa dicono i Santi Padri di questo, e del nostro approccio ai Santi Padri in generale.
Il Beato Macario Anziano di Optina (+ 1860) ritenne necessario scrivere uno speciale “Avvertimento a coloro che leggono libri patristici spirituali e desiderano praticare la Preghiera mentale di Gesù” [nota: nella raccolta Lettere ai monaci, Mosca, 1862, pp. 358-380 (in russo)]. Qui questo grande Padre quasi del nostro secolo ci dice chiaramente quale dovrebbe essere il nostro atteggiamento nei confronti di questi stati spirituali: «I santi e teofori Padri hanno scritto dei grandi doni spirituali non perché qualcuno si sforzi indiscriminatamente di riceverli, ma affinché coloro che non li hanno, sentendo parlare di doni e rivelazioni così eccelsi, ricevuti da coloro che ne furono degni, riconoscano la propria profonda infermità e grande insufficienza, e siano involontariamente inclini all’umiltà, che è più necessaria a chi cerca salvezza che tutte le altre opere e virtù.” Ancora, San Giovanni della Scala (VI secolo) scrive: “Come un povero, vedendo i tesori reali, tanto più riconosce la propria povertà; così anche lo spirito, leggendo i resoconti delle grandi imprese dei Santi Padri, involontariamente è tanto più umiliato nel suo modo di pensare” (Gradino 26,25). Pertanto, il nostro primo approccio agli scritti dei Santi Padri deve essere di umiltà.
Scrive ancora san Giovanni della Scala: «Ammirare le fatiche dei santi è cosa lodevole; emularli salva le anime; ma desiderare all’improvviso di divenire loro imitatori è insensato e impossibile» (Gradino 4,42). Sant’Isacco il Siro (VI secolo) insegna nella sua seconda Omelia (come riassunta dall’Anziano Macario di Optina, op. cit. , p .364): “Coloro che cercano nella preghiera dolci sensazioni spirituali con aspettativa, e soprattutto coloro che tendono prematuramente alla visione e alla contemplazione spirituale, cadono nell’inganno del nemico e nel regno delle tenebre e dell’oscurità della mente, essendo abbandonati dall’aiuto di Dio e consegnati ai demoni per scherno a causa della loro orgogliosa ricerca al di sopra della loro misura e del loro valore.” Dobbiamo quindi rivolgerci ai Santi Padri con l’umile intenzione di iniziare la vita spirituale dal gradino più basso e senza nemmeno sognare di raggiungere quegli stati spirituali elevati che sono totalmente al di là delle nostre capacità. San Nilo di Sora (+ 1508), grande Padre russo dei tempi più recenti, scrive nella sua Regola Monastica (cap. 2): «Che diremo di coloro che, nel loro corpo mortale, hanno gustato il cibo immortale, che sono stati trovati degni di ricevere in questa vita transitoria una parte delle gioie che ci attendono nella patria celeste?. .. Noi, gravati di molti peccati e preda di passioni, siamo indegni anche di udire tali parole. Tuttavia, riponendo la nostra speranza nella grazia di Dio, siamo incoraggiati a conservare nella nostra mente le parole delle Sacre Scritture, affinché possiamo almeno crescere nella consapevolezza del degrado in cui sguazziamo.”
Per aiutare il nostro umile intento di leggere i Santi Padri, dobbiamo iniziare con i libri patristici elementari, quelli che insegnano l'”ABC”. Un novizio di Gaza del VI secolo scrisse una volta al grande anziano chiaroveggente San Barsanufio, proprio nello spirito dell’inesperto studente ortodosso di oggi: “Ho dei libri dogmatici e quando li leggo sento che la mia mente si trasferisce dai pensieri appassionati alla contemplazione dei dogmi”. A questo il santo anziano rispose: “Non vorrei che ti occupassi di questi libri, perché esaltano la mente in alto; ma è meglio studiare le parole degli anziani che umiliano la mente in basso. Non ho detto questo per sminuire i libri dogmatici, ma vi do solo un consiglio, perché i cibi sono diversi”. (Domande e risposte, n. 544). Uno scopo importante di questa Patrologia sarà proprio quello di indicare quali libri patristici sono più adatti ai principianti e quali vanno lasciati in un secondo momento.
Ancora una volta diciamo che diversi libri patristici sulla vita spirituale sono adatti ai cristiani ortodossi nelle loro diverse condizioni di vita: ciò che è adatto soprattutto ai solitari non è direttamente applicabile ai monaci che vivono la vita comune; ciò che vale per i monaci in generale non avrà diretta rilevanza per i laici; e in ogni condizione il cibo spirituale adatto a chi ha una certa esperienza può risultare del tutto indigeribile per i principianti. Una volta che si è raggiunto un certo equilibrio nella vita spirituale mediante la pratica attiva dei comandamenti di Dio nell’ambito della disciplina della Chiesa ortodossa, con la lettura fruttuosa degli scritti più elementari dei Santi Padri e con la guida spirituale dei padri viventi, allora si può ricevere molto beneficio spirituale da tutti gli scritti dei Santi Padri, applicandoli alla propria condizione di vita. Il Vescovo Ignazio Brianchaninov ha scritto al rbiguardo: “Si è notato che i novizi non riescono mai ad adattare i libri alla loro condizione, ma sono invariabilmente attratti dalla tendenza del libro. Se un libro dà consigli sul silenzio e mostra l’abbondanza di frutti spirituali di chi è raccolto in un profondo silenzio, il principiante ha sempre un fortissimo desiderio di ritirarsi nella solitudine, in un deserto disabitato. Se un libro parla di obbedienza incondizionata sotto la direzione di un Padre portatore di Spirito, il principiante svilupperà inevitabilmente il desiderio della vita più severa nella completa sottomissione ad un Anziano. Dio non ha dato al nostro tempo nessuno di questi due modi di vita. (L’Arena , cap. 10). Ciò che il Vescovo Ignazio dice qui sui monaci si riferisce anche ai laici, tenendo conto delle diverse condizioni della vita laicale. Al termine di questa Introduzione verranno fatti commenti particolari riguardanti la lettura spirituale per i laici.
San Barsanufio indica in un’altra Risposta (n. 62) un’altra cosa molto importante per noi che ci avviciniamo ai Santi Padri in modo troppo accademico: «Chi ha cura della propria salvezza non dovrebbe affatto chiedere [agli Anziani, cioè leggere i libri patristici ] solo per acquisire la conoscenza, poiché la conoscenza gonfia (1 Cor 8,1), come dice l’Apostolo; ma è quanto mai opportuno interrogarsi sulle passioni e su come si deve vivere la propria vita, cioè come salvarsi; poiché questo è necessario e conduce alla salvezza. Pertanto, non bisogna leggere i Santi Padri per mera curiosità o come esercizio accademico, senza l’intenzione attiva di mettere in pratica ciò che insegnano, secondo il proprio livello spirituale. I “teologi” accademici moderni hanno dimostrato abbastanza chiaramente che è possibile avere molte informazioni astratte sui Santi Padri senza alcuna conoscenza spirituale. Di essi san Macario il Grande dice (Omelia 17,9): “Proprio come uno vestito di stracci da mendicante potrebbe vedersi nel sonno come un uomo ricco, ma svegliandosi dal sonno si vede di nuovo povero e nudo, così anche coloro che deliberano sulla vita spirituale sembrano parlare logicamente, ma poiché ciò di cui parlano non è verificato nella mente da alcun tipo di esperienza, potere e conferma, rimangono in una sorta di fantasia”.
Una prova per verificare se la nostra lettura dei Santi Padri sia accademica o reale è indicata da San Barsanufio nella sua risposta a un novizio che si sentiva altezzoso e orgoglioso quando parlava dei Santi Padri (Risposta n. 697): “Quando tu conversi sulla vita dei Santi Padri e sulle loro risposte, dovresti condannare te stesso, dicendo: Guai a me! Come posso parlare delle virtù dei Padri, mentre io stesso non ho acquisito nulla di simile e non ho fatto alcun progresso? E io vivo istruendo gli altri a loro vantaggio; come potrebbe non adempiersi in me la parola dell’Apostolo: Tu che insegni agli altri, non insegni a te stesso? ” (Rm 2,21). L’insegnamento dei Santi Padri deve essere di auto-rimprovero.
Infine, dobbiamo ricordare che lo scopo principale della lettura dei Santi Padri non è quello di darci una sorta di “godimento spirituale” o di confermarci nella nostra rettitudine o conoscenza superiore o stato “contemplativo”, ma esclusivamente di aiutarci nella pratica del sentiero attivo della virtù. Molti Santi Padri discutono della distinzione tra vita “attiva” e vita “contemplativa” (o, più propriamente, “noetica”), ed è bene qui sottolineare che non si tratta, come qualcuno potrebbe pensare, di una qualche artificiosa distinzione tra coloro che conducono una vita “ordinaria” di “Ortodossia esteriore” o di semplici “buone azioni”, e una vita “interiore” coltivata solo dai monaci o da qualche élite intellettuale; affatto. C’è solo una vita spirituale ortodossa, ed è vissuta da ogni lottatore ortodosso, sia monaco che laico, principiante o avanzato; “azione” o “pratica” (praxis in greco) è la via, e la “visione” (theoria) o “divinizzazione” è la fine. Quasi tutti gli scritti patristici si riferiscono alla vita dell’azione, non alla vita della visione; quando viene menzionata quest’ultima, è per ricordarci lo scopo delle nostre fatiche e delle nostre lotte, che in questa vita è gustato profondamente solo da alcuni dei grandi Santi, ma nella sua pienezza è conosciuto solo nell’era a venire. Anche gli scritti più elevati della Filocalia, come scrive il vescovo Teofane il Recluso nella prefazione dell’ultimo volume della Filocalia in lingua russa, “non hanno avuto in mente la vita noetica, ma quasi esclusivamente la vita attiva”.
Anche con questa introduzione, a dire il vero, il cristiano ortodosso che vive nel nostro secolo di conoscenza gonfiata non sfuggirà ad alcune delle trappole in agguato per chi desidera leggere i Santi Padri nel loro pieno significato e contesto ortodosso. Fermiamoci quindi qui, prima di iniziare la Patrologia vera e propria, ed esaminiamo brevemente alcuni degli errori che sono stati commessi dai lettori contemporanei dei Santi Padri, con l’intento di formarci un’idea ancora più chiara su come non leggere i Santi Padri . .
ENGLISH VERSION
The Holy Fathers of Orthodox Spirituality
Part II. How to Read the Holy Fathers
THE PRESENT PATROLOGY will present the Fathers of Orthodox spirituality;therefore, its scope and aims are rather different from the ordinary seminary course in Patrology. Our aim in these pages will be twofold: (1) To present the Orthodox theological foundation of spiritual life —the nature and goal of spiritual struggle, the Patristic view of human nature, the character of the activity of Divine grace and human effort, etc.; and (2) to give, the practical teaching on living this Orthodox spiritual life, with a characterization of the spiritual states, both good and bad, which one may encounter or pass through in the spiritual struggle. Thus, strictly dogmatic questions concerning the nature of God, the Holy Trinity, the Incarnation of the Son of God, the Procession of the Holy Spirit, and the like, will be touched on only as these are involved in questions of spiritual life; and many Holy Fathers whose writings deal principally with these dogmatic questions and which touch on questions of spiritual life only secondarily, as it were, will not be discussed at all. In a word, this will be primarily a study of the Fathers of the Philokalia, that collection of Orthodox spiritual writings which was made at the dawn of the contemporary age, just before the outbreak of the fierce Revolution in France whose final effects we are witnessing in our own days of atheist rule and anarchy.
In the present century there has been a noticeable increase of interest in the Philokalia and its Holy Fathers. In particular, the more recent Fathers such as St. Simeon the New Theologian, St. Gregory the Sinaite, and St. Gregory Palamas, have begun to be studied and a few of their writings translated and printed in English and other Western languages. One might even say that in some seminary and academic circles they have “come into fashion,” in sharp contrast to the 19th century, when they were not “in fashion” at all even in most Orthodox theological academies (as opposed to the best monasteries, which always preserved their memories as holy and lived by their writings).
But this very fact presents a great danger which must here be emphasized. The “coming into fashion” of the profoundest spiritual writings is by no means necessarily a good thing. In fact, it is far better that the names of these Fathers remain altogether unknown than that they be merely the occupation of rationalist scholars and “crazy converts” who derive no spiritual benefit from them but only increase their senseless pride at “knowing better” about them than anyone else, or—even worse—begin to follow the spiritual instructions in their writings without sufficient preparation and without any spiritual guidance. All of this, to be sure, does not mean that the lover of truth should abandon the reading of the Holy Fathers; God forbid! But it does mean that all of us—scholar, monk, or simple layman—must approach these Fathers with the fear of God, with humility, and with a great distrust of our own wisdom and judgment. We approach them in order to learn, and first of all we must admit that for this we require a teacher. And teachers do exist: in our times when the God-bearing Elders have vanished, our teachers must be those Fathers who, especially in the times close to us, have told us specifically how to read—and how not to read—the Orthodox writings on the spiritual life. If the Blessed Elder Paisius Velichkovsky himself, the compiler of the first Slavonic Philokalia, was “seized with fear” on learning that such books were to be printed and no longer circulated in manuscript form among some few monasteries, then how much the more must we approach them with fear and and understand the cause of his fear, lest there come upon us the spiritual catastrophe which he foresaw.
Blessed Paisius, in his letter to Archimandrite Theodosius of the St. Sophronius Hermitage,[1] wrote: “Concerning the publication in print of the Patristic books, both in the Greek and Slavonic languages, I am seized both with joy and fear. With joy, because they will not be given over to final oblivion, and zealots may the more easily acquire them; with fear, being frightened and trembling lest they be offered, as a thing which can be sold even like other books, not only to monks, but also to all Orthodox Christians, and lest these latter, having studied the work of mental prayer in a self-willed way, without instruction from those who are experienced in it, might fall into deception, and lest because of the deception the vain-minded might blaspheme against this holy and irreproachable work, which has been testified to by very many great Holy Fathers… and lest because of the blasphemies there follow doubt concerning the teaching of our God-bearing Fathers.” The practice of the mental Prayer of Jesus, Blessed Paisius continues, is possible only under the conditions of monastic obedience.
Few are they, to be sure, in our latter times of feeble ascetic struggle, who strive for the heights of mental prayer (or even know what this might be); but the warnings of Blessed Paisius and other Holy Fathers hold true also for the lesser struggles of many Orthodox Christians today. Anyone who reads the Philokalia and other writings of the Holy Fathers, and even many Lives of Saints, will encounter passages about mental prayer, about Divine vision, about deification, and about other exalted spiritual states, and it is essential for the Orthodox Christian to know what he should think and feel about these.
Let us, therefore, see what the Holy Fathers say of this, and of our approach to the Holy Fathers in general.
The Blessed Elder Macarius of Optina (+ 1860) found it necessary to write a special “Warning to those reading spiritual Patristic books and desiring to practice the mental Prayer of Jesus.” [2] Here this great Father almost of our own century tells us clearly what our attitude should be to these spiritual states: “The holy and God-bearing Fathers wrote about great spiritual gifts not so that anyone might strive indiscriminately to receive them, but so that those who do not have them, hearing about such exalted gifts and revelations which were received by those who were worthy, might acknowledge their own profound infirmity and great insufficiency, and might involuntarily be inclined to humility, which is more necessary for those seeking salvation than all other works and virtues.” Again, St. John of the Ladder (6th century) writes: “Just as a pauper, seeing the royal treasures, all the more acknowledges his own poverty; so also the spirit, reading the accounts of the great deeds of the Holy Fathers, involuntarily is all the more humbled in its way of thought” (Step 26:25). Thus, our first approach to the writings of the Holy Fathers must be one of humility.
Again, St. John of the Ladder writes: “To admire the labors of the Saints is praiseworthy; to emulate them is soul-saving; but to desire suddenly to become their imitators is senseless and impossible” (Step 4:42). St. Isaac the Syrian (6th century) teaches in his second Homily (as summarized by Elder Macarius of Optina, op. cit.,p. 364): “Those who seek in prayer sweet spiritual sensations with expectation, and especially those who strive prematurely for vision and spiritual contemplation, fall into the deception of the enemy and into the realm of darkness and the obscurity of the mind, being abandoned by the help of God and given over to demons for mockery because of their prideful seeking above their measure and worth.” Thus, we must come to the Holy Fathers with the humble intention of beginning the spiritual life at the lowest step,and not even dreaming of ourselves attaining those exalted spiritual states, which are totally beyond us. St. Nilus of Sora (+ 1508), a great Russian Father of more recent times, writes in his Monastic Rule (ch. 2), “What shall we say of those who, in their mortal body, have tasted immortal food, who have been found worthy to receive in this transitory life a portion of the joys that await us in our heavenly homeland?… We who are burdened with many sins and preyed upon by passions are unworthy even of hearing such words. Nevertheless, placing our hope in the grace of God, we are encouraged to keep the words of the holy writings in our minds, so that we may at least grow in awareness of the degradation in which we wallow.”
To aid our humble intention in reading the Holy Fathers, we must begin with the elementary Patristic books, those which teach the “ABCs.” A 6th-century novice of Gaza once wrote to the great clairvoyant Elder, St. Barsanuphius, much in the spirit of the inexperienced Orthodox student of today: “I have dogmatic books and when reading them I feel that my mind is transferred from passionate thoughts to the contemplation of dogmas.” To this the holy Elder replied: “I would not want you to be occupied with these books, because they exalt the mind on high; but it is better to study the words of the Elders which humble the mind downward. I have said this not in order to belittle the dogmatic books, but I only give you counsel; for foods are different.” (Questions and Answers, no. 544). An important purpose of this Patrology will be precisely to indicate which Patristic books are more suitable for beginners, and which should be left until later.
Again, different Patristic books on the spiritual life am suitable for Orthodox Christians in different conditions of life: that which is suitable especially for solitaries is not directly applicable to monks living the common life; that which applies to monks in general will not be directly relevant for laymen; and in every condition, the spiritual food which is suitable for those with some experience may be entirely indigestible for beginners. Once one has achieved a certain balance in spiritual life by means of active practice of God’s commandments within the discipline of the Orthodox Church, by fruitful reading of the more elementary writings of the Holy Fathers, and by spiritual guidance from living fathers—then one can receive much spiritual benefit from all the writings of the Holy Fathers, applying them to one’s own condition of life. Bishop Ignatius Brianchaninov has written concerning this: “It has been noticed that novices can never adapt books to their condition, but are invariably drawn by the tendency of the book. If a book gives counsels on silence and shows the abundance of spiritual fruits that are gathered in profound silence, the beginner invariably has the strongest desire to go off into solitude, to an uninhabited desert. If a book speaks of unconditional obedience under the direction of a Spirit-bearing Father, the beginner will inevitably develop a, desire for the strictest life in complete submission to an Elder. God has not given to our time either of these two ways of life. But the books of the Holy Fathers describing these states can influence a beginner so strongly that out of inexperience and ignorance he can easily decide to leave the place where he is living and where he has every convenience to work out his salvation and make spiritual progress by putting into practice the evangelical commandments, for an impossible dream of a perfect life pictured vividly and alluringly in his imagination.” Therefore, he concludes: “Do not trust your thoughts, opinions, dreams, impulses or inclinations, even though they offer you or put before you in an attractive guise the most holy monastic life” (The Arena, ch. 10). What Bishop Ignatius says here about monks refers also to laymen, with allowance made for the different conditions of lay life. Particular comments will be made at the end of this Introduction concerning spiritual reading for laymen.
St. Barsanuphius indicates in another Answer (no. 62) something else very important for us who approach the Holy Fathers much too academically: “One who is taking care for his salvation should not at all ask [the Elders, i.e., read Patristic books] for the acquiring only of knowledge, for knowledge puffeth up (I Cor. 8:1), as the Apostle says; but it is most fitting to ask about the passions and about how one should live one’s life, that is, how to be saved; for this is necessary, and leads to salvation.” Thus, one is not to read the Holy Fathers out of mere curiosity or as an academic exercise, without the active intention to practice what they teach, according to one’s spiritual level. Modern academic “theologians” have dearly enough demonstrated that it is possible to have much abstract information about the Holy Fathers without any spiritual knowledge at all. Of such ones St. Macarius the Great says (Homily 17:9): “Just as one clothed in beggarly garments might see himself in sleep as a rich man, but on waking from sleep again sees himself poor and naked, so also those who deliberate about the spiritual life seem to speak logically, but inasmuch as that of which they speak is not verified in the mind by any kind of experience, power, and confirmation, they remain in a kind of fantasy.”
One test of whether our reading of the Holy Fathers is academic or real is indicated by St. Barsanuphius in his answer to a novice who found that he became haughty and proud when speaking of the Holy Fathers (Answer no. 697): “When you converse about the life of the Holy Fathers and about their Answers, you should condemn yourself, saying: Woe is me! How can I speak of the virtues of the Fathers, while I myself have acquired nothing like that and have not advanced at all? And I live, instructing others for their benefit; how can there not be fulfilled in me the word of the Apostle: Thou that teachest another, teachest thou not thyself?“(Rom. 2:21.) Thus, one’s constant attitude toward the teaching of the Holy Fathers must be one of self-reproach.
Finally, we must remember that the whole purpose of reading the Holy Fathers is, not to give us some kind of “spiritual enjoyment” or confirm us in our own righteousness or superior knowledge or “contemplative” state, but solely to aid us in the practice of the active path of virtue. Many of the Holy Fathers discuss the distinction between the “active” and the “contemplative” (or, more properly, “noetic”) life, and it should be emphasized here that this does not refer, as some might think, to any artificial distinction between those leading the “ordinary” life of “outward Orthodoxy” or mere “good deeds,” and an “inward” life cultivated only by monastics or some intellectual elite; not at all. There is only one Orthodox spiritual life, and it is lived by every Orthodox struggler, whether monastic or layman, whether beginner or advanced; “action” or “practice” (praxis in Greek) is the way, and “Vision” (theoria)or “deification” is the end. Almost all the Patristic writings refer to the life of action, not the life of vision; when the latter is mentioned, it is to remind us of the goal of our labors and struggles, which in this life is tasted deeply only by a few of the great Saints, but in its fullness is known only in the age to come. Even the most exalted writings of the Philokalia, as Bishop Theophan the Recluse wrote in the preface of the final volume of the Russian-language Philokalia, “have had in view not the noetic, but almost exclusively the active life.”
Even with this introduction, to be sure, the Orthodox Christian living in our century of puffed-up knowledge will not escape some of the pitfalls lying in wait for one who wishes to read the Holy Fathers in their full Orthodox meaning and context. Therefore, let us stop here, before beginning the Patrology itself, and examine briefly some of the mistakes which have been made by contemporary readers of the Holy Fathers, with the intention of thereby forming a yet dearer notion of how not to read the Holy Fathers.
Endnotes
1. From the Optina Edition of the Life and Writings of Elder Paisius, pp, 265-267.
2. In his collected Letters to Monks, Moscow, 1862, pp. 358-380 (in Russian).
From The Orthodox Word, Vol. 11, No.1 (Jan.-Feb.., 1975), 35-41.