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Le diaconesse nella Chiesa primitiva erano simili alle donne mirofore

Fonte: Orthochristian.com, 23 maggio 2024

Cristo è risorto dai morti, con la morte ha vinto la morte e a chi giace nei sepolcri ha elargito la vita.

Oggi [domenica scorsa], seconda domenica dopo Pasqua, ricordiamo le Mirofore, le quali, come ci dicono le Sacre Scritture, si dedicarono al servizio del Signore Gesù Cristo. Lo seguirono, lo servirono e servirono i suoi discepoli.

Dopo che Dio creò Adamo e gli concesse l’autorità, creò Eva affinché fosse un aiuto per Adamo. Pertanto, Dio ha assegnato un servizio all’uomo e un altro servizio alla donna, in modo che si completassero a vicenda. La Chiesa ha seguito quest’ordine che Dio ha determinato per la sua creazione. Tuttavia, ai nostri giorni, stiamo assistendo ad un’inversione di questo ordine e a una distorsione del sistema che Dio ha stabilito fin dall’inizio della creazione.

Oggi assistiamo a una spinta verso il sacerdozio femminile negli ambienti ecclesiali, sia da parte del clero che dei laici. Recentemente abbiamo sentito parlare dell’ordinazione di una diaconessa nella Chiesa ortodossa dello Zimbabwe, che è sotto il Patriarcato di Alessandria. Questa diaconessa partecipa al servizio liturgico, legge le petizioni e amministra ai fedeli il corpo e il sangue del nostro Signore Gesù Cristo. Va notato che le diaconesse nella Chiesa primitiva erano simili alle donne mirofore, e il loro servizio era limitato ad assistere i vescovi nel battesimo delle donne e ungerle con il santo crisma, in modo che il vescovo non toccasse il corpo della donna. A quel tempo, molti convertiti al cristianesimo erano adulti. Tuttavia, man mano che il cristianesimo si diffuse più ampiamente all’interno dell’impero, la necessità di questo servizio diminuì, poiché il battesimo dei bambini divenne più comune di quello degli adulti. A quel punto nella Chiesa cessò l’ordinazione delle diaconesse.

Ora all’interno della Chiesa si promuovono strane pratiche che non hanno mai fatto parte della sua storia o tradizione. Tali ordinazioni sono innovazioni che equivalgono a un’eresia. Sentiamo voci che chiedono l’uguaglianza tra uomini e donne, come se la Chiesa avesse fatto un torto alle donne assegnando loro un ruolo specifico! Assistiamo a un’inversione di ruoli, a un’inversione di servizio. Dio, come ho detto all’inizio, ha assegnato a ciascuno il proprio ruolo, ma ora ognuno cerca di assumere il ruolo dell’altro. Assistiamo anche a una significativa promozione dell’omosessualità, del transgenderismo e dell’ordinazione delle donne da parte di chierici e laici ortodossi.

Vescovi e sacerdoti sono nominati da Dio servitori della sua parola e amministratori della Tradizione della Chiesa. Qualsiasi vescovo, sacerdote o laico che tradisce questa fiducia e distorce la fede della Chiesa e la Sacra Tradizione è un servitore di satana, non di Cristo. Non esiste una via di mezzo nel cristianesimo. Cristo disse: “O siete con me o con il diavolo”. Chiunque distorce la fede e la Tradizione e dissacra i santi sacramenti, come ha fatto il vescovo ortodosso dell’arcidiocesi americana sotto il Patriarcato ecumenico che ha battezzato i bambini adottati da una coppia dello stesso sesso, è un servitore di satana e un profanatore dei misteri della Chiesa.

Questo è ciò che sta accadendo ai nostri giorni e ci si aspetta che ne succedano ancora. Leggiamo nella Bibbia di un periodo di apostasia. Questa apostasia è un allontanamento dalla vera fede in Gesù Cristo, il vero Dio, e la promozione di un Cristo distorto. Quei vescovi e sacerdoti che promuovono un Cristo distorto sono servitori dei governanti di quest’epoca, servitori di un nuovo ordine mondiale che cerca di cambiare l’intero ordine della creazione, e servitori dello spirito dell’epoca che vuole modernizzare la Chiesa, la Chiesa celeste di Cristo, e trasformarla in un’istituzione mondana non diversa dalle altre istituzioni, organizzazioni e partiti mondani.

La Chiesa deve rimanere fedele a tutto ciò che ha ricevuto da Cristo, proprio come le Mirofore che non si discostarono dall’obbedienza di Cristo e non innovarono, ma servirono il Signore e i suoi Apostoli con tutte le loro forze. Gli Apostoli di Cristo predicarono e amministrarono i sacramenti, divenendo fondamento per la diffusione della Chiesa di Cristo.

Ognuno di noi deve confrontarsi con questo spirito mondano e satanico che cerca di distruggere tutta la Tradizione della Chiesa e i fondamenti della fede. Oggi assistiamo ad un pericoloso allontanamento dalla fede. Ancora più pericoloso è il silenzio. Qualsiasi vescovo ortodosso che tace su quanto sta accadendo è complice di questo atto. La missione primaria di un vescovo è preservare la fede, e se rimane in silenzio, è, volenti o nolenti, complice di questo tradimento. Coloro che vengono nominati custodi della fede diventano profanatori della fede e dei misteri della Chiesa, celebrando tutto ciò che contraddice la sacra Tradizione della Chiesa e diventando mercenari dello spirito del tempo.

Tutti coloro che contribuiscono a ciò non conoscono né vivono secondo la Tradizione. Vogliono una Chiesa che accetti tutte le eresie e le trasformazioni di questa epoca. Diventano così figli di uno spirito satanico e servitori di satana, che cerca di indebolire la Chiesa di Cristo per imporre il suo governo e la sua legge in questo mondo.

La Chiesa è rafforzata dalla sua fede e dalla conservazione della santa Tradizione. È così che rimane fedele a Cristo e si confronta con i governanti di quest’epoca. Ma se permetterà alle eresie di entrare e distruggere la fede, le porte dell’inferno lo supereranno. Questo è ciò che desiderano Satana e i suoi agenti, da parte di vescovi, sacerdoti e laici che hanno ceduto allo spirito del tempo.

Non lasciatevi influenzare da tutte queste cose derivanti dalla logica umana, che richiede solo un amore falso. Il vero amore è in Cristo ed è il frutto della vera fede in lui. Chi non crede in Gesù Cristo può amare solo se stesso. Chi ama Cristo sarà fedele a lui, ai suoi comandamenti e alla Tradizione della Chiesa. È così che amiamo Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, sottomettendo la nostra volontà alla volontà di Cristo e diventando servitori fedeli.




1994: Lettera al Patriarca Ecumenico Bartolomeo dalla Sacra Comunità del Monte Athos sulla dichiarazione di Balamand

Nel 1993 si tenne un incontro della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali a Balamand (Libano), dove fu redatta una dichiarazione sull’uniatismo. Uno dei tasselli del movimento ecumenico, la paneresia come la definì il teologo ortodosso e Santo Justin Popovitch.

La Dichiarazione di Balamand fu ampiamente contestata tra gli ortodossi. La seguente lettera al Patriarca Ecumenico Bartolomeo è stata scritto dalla Sacra Comunità del Monte Athos. Apparve originariamente in greco in Orthodoxos Typos, il 18 marzo, 1994, e fu tradotta in russo, serbo e inglese. La riproponiamo in una nostra traduzione in italiano.

8 dicembre 1993

[…]

Santissimo Padre e Maestro:

L’unione delle Chiese o, per essere precisi, l’unione degli eterodossi con la nostra Chiesa Ortodossa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica è auspicabile anche per noi affinché si compia la preghiera del Signore… affinché siano una cosa sola (Giovanni 17,21). In ogni caso la comprendiamo e attendiamo secondo l’interpretazione ortodossa. Come ci ricorda il professor John Romanides, “Cristo prega qui affinché i suoi discepoli e i loro discepoli possano, in questa vita, diventare una cosa sola nella visione della sua gloria (che Egli ha per natura dal Padre) quando diventeranno membri del suo Corpo, la Chiesa…” [1]

Per questo motivo, ogni volta che ci visitano cristiani eterodossi, ai quali offriamo amore e ospitalità in Cristo, siamo dolorosamente consapevoli che ci separiamo nella fede e, per questo, non possiamo avere la comunione ecclesiastica.

Lo scisma, la divisione tra ortodossi e non calcedoniani prima e tra ortodossi e occidentali poi, costituisce davvero una tragedia di fronte alla quale non dobbiamo tacere o compiacerci.

In questo contesto, quindi, apprezziamo gli sforzi compiuti con timore di Dio e in conformità con la Tradizione ortodossa che guardano ad un’unione che non può realizzarsi attraverso il silenzio o la minimizzazione delle dottrine ortodosse, o attraverso la tolleranza delle false dottrine degli eterodossi, perché non sarebbe un’unione nella Verità. E alla fine questo non sarebbe accettato dalla Chiesa né benedetto da Dio, perché, secondo il detto patristico, “Una cosa buona non è buona se non è realizzata in modo buono”.

Al contrario, porterebbe nuovi scismi e nuove divisioni e miserie nel corpo già [dis]unito[2] dell’Ortodossia. A questo punto vorremmo dire che di fronte ai grandi cambiamenti in atto nelle terre di presenza ortodossa, e di fronte a tante condizioni di instabilità su scala mondiale, l’Una, Santa, Cattolica e Apostolica, in in altre parole, la Chiesa Ortodossa avrebbe dovuto rafforzare la coesione delle Chiese locali e dedicarsi alla cura dei suoi membri colpiti dal terrore e alla loro stabilizzazione spirituale, da un lato e nella sua coscienza [come Chiesa Una Santa], dall’altro, avrebbe dovuto suonare la tromba del suo potere e della sua Grazia redentrice unici e manifestarli davanti all’umanità caduta.

In questo spirito, nella misura in cui il nostro ufficio monastico ce lo consente, seguiamo da vicino gli sviluppi del cosiddetto movimento e dialogo ecumenico. Notiamo che a volte la parola della Verità viene giustamente tenuta divisa e, a volte, si fanno compromessi e concessioni su questioni fondamentali della Fede.

I

Pertanto, le azioni e le dichiarazioni dei rappresentanti delle Chiese Ortodosse, inaudite fino ad oggi e del tutto contrarie alla nostra santa fede, ci hanno causato un profondo dolore.

Citeremo innanzitutto il caso di Sua Beatitudine [Parthenios], il Patriarca di Alessandria, il quale, in almeno due occasioni, ha affermato che noi cristiani dovremmo riconoscere Maometto come profeta. Fino ad oggi, tuttavia, nessuno gli ha chiesto di dimettersi, e questo Patriarca terribilmente incurante continua a presiedere la Chiesa di Alessandria come se non ci fosse nulla di sbagliato.

In secondo luogo, citiamo il caso del Patriarcato di Antiochia, che, senza una decisione pan-ortodossa, ha proceduto alla comunione ecclesiastica con i non calcedoniani [monofisiti]. Ciò è stato compiuto nonostante il fatto che un problema molto serio non sia stato ancora risolto. È proprio la non accettazione da parte di quest’ultimi dei Concili ecumenici successivi al Terzo e, in particolare, il Quarto, il Concilio di Calcedonia, che costituisce di fatto una base inamovibile dell’Ortodossia. Purtroppo anche in questo caso non abbiamo assistito ad una sola protesta da parte delle altre Chiese ortodosse.

La questione più grave, tuttavia, è il cambiamento inaccettabile nella posizione degli ortodossi che emerge dalla dichiarazione congiunta della commissione mista per il dialogo tra cattolici romani e ortodossi alla Conferenza di Balamand del giugno 1993. Hanno adottato posizioni antiortodosse, ed è soprattutto su questo che richiamiamo l’attenzione di Vostra Santità.

In primo luogo, dobbiamo confessare che le dichiarazioni che Vostra Santità ha fatto di tanto in tanto, secondo cui il movimento Uniate è un ostacolo insormontabile alla continuazione del dialogo tra ortodossi e cattolici romani, ci hanno finora tranquillizzato.

Ma il suddetto documento [di Balamand] dà l’impressione che le sue affermazioni vengano eluse. Inoltre, l’Unia riceve l’amnistia ed è invitata al tavolo del dialogo teologico nonostante la decisione contraria della Terza Conferenza Panortodossa di Rodi che richiedeva: “il ritiro completo dalle terre ortodosse da parte degli agenti e propagandisti uniati del Vaticano; l’incorporazione delle cosiddette Chiese uniate e la loro sottomissione sotto la Chiesa di Roma prima dell’inaugurazione del dialogo, perché Unia e dialogo allo stesso tempo sono inconciliabili”.

II

Santità, lo scandalo più grande, però, è causato dalle posizioni ecclesiologiche contenute nel documento. Ci riferiremo qui solo alle deviazioni fondamentali.

Al paragrafo 10 leggiamo:

La Chiesa cattolica… (che ha svolto un’opera missionaria contro gli ortodossi e) si è presentata come l’unica alla quale è stata affidata la salvezza. Per reazione, la Chiesa ortodossa, a sua volta, arrivò ad accettare la stessa visione secondo la quale solo in essa si poteva trovare la salvezza. Per assicurare la salvezza dei «fratelli separati» avvenne addirittura che i cristiani venissero ribattezzati e che alcune esigenze della libertà religiosa delle persone e del loro atto di fede fossero dimenticate. Questa prospettiva era quella verso la quale quel periodo mostrò poca sensibilità.

Come ortodossi, non possiamo accettare questo punto di vista. Non è stato per reazione contro l’Unia che la nostra Santa Chiesa Ortodossa ha cominciato a credere di possedere esclusivamente la salvezza, ma lo ha creduto prima che esistesse l’Unia, fin dai tempi dello Scisma, avvenuto per ragioni dogmatiche. La Chiesa Ortodossa non ha atteso la venuta dell’Unia per acquisire la coscienza di essere la continuazione incontaminata della Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica, perché ha sempre avuto questa autocoscienza, così come ha avuto la consapevolezza che il Papato era in eresia. Se non usò frequentemente il termine eresia, fu perché, secondo san Marco di Efeso, “I latini non sono solo scismatici, ma anche eretici. Tuttavia, la Chiesa ha taciuto su questo perché la loro razza è grande e più potente della nostra… e noi abbiamo voluto non cadere nel trionfalismo sui latini come eretici, ma accettare il loro ritorno e coltivare la fratellanza”.

Ma quando gli uniati e gli agenti di Roma furono scatenati contro di noi in Oriente per fare proselitismo tra gli ortodossi sofferenti con mezzi per lo più illegali, come fanno anche oggi, l’Ortodossia fu costretta a dichiarare quella verità, non a fini di proselitismo ma per proteggere il gregge.

San Fozio definisce ripetutamente il Filioque come un’eresia e i suoi credenti come cacodossi [credenti errati].

San Gregorio Palamas dice dell’occidentale Barlaam, che quando arrivò all’Ortodossia, “non accettò l’acqua santificante della nostra Chiesa… per cancellare le [sue] macchie dall’Occidente”. San Gregorio lo considera ovviamente un eretico bisognoso della grazia santificante per entrare nella Chiesa Ortodossa.

L’affermazione contenuta nel paragrafo in questione scarica ingiustamente la responsabilità sulla Chiesa ortodossa per alleggerire quella dei papisti. Quando gli ortodossi hanno calpestato la libertà religiosa degli uniati e dei cattolici romani battezzandoli contro la loro volontà? E se ci sono state delle eccezioni, gli ortodossi che hanno firmato il documento di Balamand dimenticano che coloro che sono stati ribattezzati contro la loro volontà erano discendenti degli ortodossi resi uniati con la forza, come è avvenuto in Polonia, Ucraina e Moldavia. (Vedi paragrafo 11)

Al paragrafo 13 leggiamo:

Infatti, soprattutto a partire dall’inizio delle Conferenze panortodosse e dal Concilio Vaticano II, la riscoperta e la valorizzazione della Chiesa come comunione, sia da parte degli ortodossi che dei cattolici, ha cambiato radicalmente prospettive e quindi atteggiamenti. Da entrambe le parti si riconosce che ciò che Cristo ha affidato alla sua Chiesa — professione di fede apostolica, partecipazione agli stessi sacramenti, soprattutto l’unico sacerdozio celebrante l’unico sacrificio di Cristo, la successione apostolica dei vescovi — non può essere proprietà esclusiva di una delle nostre Chiese. In questo contesto è chiaro che ogni forma di ribattesimo va evitata.

La nuova scoperta della Chiesa come comunione da parte dei cattolici romani ha, ovviamente, un certo significato per loro che non avevano via d’uscita dal dilemma della loro ecclesiologia totalitaria e, quindi, hanno dovuto rivolgere il loro sistema di pensiero al carattere comunitario della Chiesa. Così, accanto ad un estremo del totalitarismo, essi pongono l’altro della collegialità, sempre motivata sullo stesso piano antropocentrico. La Chiesa ortodossa, però, ha sempre avuto la coscienza di non essere una semplice comunione, ma una comunione teantropica o una «comunione di theosis [divinizzazione]», come dice san Gregorio Palamas nella sua omelia sulla processione dello Spirito Santo. Inoltre, la comunione della theosis non solo è sconosciuta, ma è anche inconciliabile con la teologia cattolica romana, che rifiuta [la dottrina delle] energie increate di Dio che formano e sostengono questa comunione.

Date queste verità, è con la più profonda tristezza che abbiamo confermato che questo paragrafo [13] rende la Chiesa Ortodossa uguale alla Chiesa cattolica romana che dimora nella cacodossia [credenza sbagliata].

Gravi differenze teologiche, come il Filioque, il primato e l’infallibilità papale, la grazia creata, ecc., ricevono l’amnistia e si sta forgiando un’unione senza accordo dogmatico.

Si verificano così le premonizioni che l’unione disegnata dal Vaticano, nella quale, come diceva san Marco di Efeso, “i volenterosi vengono involontariamente manipolati” (cioè gli ortodossi, che vivono oggi anche in circostanze ostili etnicamente e politicamente e sono prigioniera di nazioni di altre religioni), viene spinta a svolgersi senza accordo riguardo alle differenze dottrinali. Il progetto è che l’unione avvenga, nonostante le differenze, attraverso il riconoscimento reciproco dei Misteri e della successione apostolica di ciascuna Chiesa, e l’applicazione dell’intercomunione, limitata all’inizio e più ampia poi. Dopo di ciò, le differenze dottrinali possono essere discusse solo come opinioni teologiche.

Ma una volta avvenuta l’unione, che senso ha discutere di differenze teologiche? Roma sa che gli ortodossi non accetteranno mai i suoi insegnamenti estranei. L’esperienza lo ha dimostrato nei vari tentativi di unione fino ad oggi. Pertanto, nonostante le differenze, Roma sta costruendo un’unione e spera, da un punto di vista umanistico (come è sempre la sua prospettiva), che, come fattore più potente, col tempo assorbirà quello più debole, cioè l’Ortodossia. Padre John Romanides lo aveva presagito nel suo articolo “Il movimento uniate e l’ecumenismo popolare”, pubblicato su The Orthodox Witness, febbraio 1966.

Vorremmo porre queste domande agli ortodossi che hanno firmato questo documento:

Il Filioque, il primato e l’infallibilità [papale], il purgatorio, l’Immacolata Concezione e la grazia creata costituiscono una confessione apostolica? Nonostante tutto ciò, è possibile per noi ortodossi riconoscere come apostolica la fede e la confessione dei cattolici romani?

Queste gravi deviazioni teologiche di Roma costituiscono eresie oppure no?

Se lo sono, come sono stati descritti dai Concili e dai Padri ortodossi, non comportano l’invalidità dei Misteri e la successione apostolica di eterodossi e cacodossi di questo tipo?

È possibile che esista la pienezza della grazia dove non c’è la pienezza della verità?

È possibile distinguere il Cristo della Verità dal Cristo dei Misteri e dalla successione apostolica?

La successione apostolica è stata proposta innanzitutto dalla Chiesa come conferma storica della continua conservazione della sua verità. Ma quando la verità stessa viene distorta, che significato può avere una preservazione formulistica della successione apostolica? I grandi eresiarchi non avevano spesso questo tipo di successione esterna? Come è possibile che anch’essi siano considerati portatori di Grazia?

E come è possibile che due Chiese siano considerate “Chiese sorelle” non per la loro discendenza comune pre-scismatica, ma per la cosiddetta confessione comune, la grazia santificante e il sacerdozio nonostante le grandi differenze nei dogmi?

Chi tra gli ortodossi può accettare come vero successore degli Apostoli colui che è infallibile, colui che ha il primato di autorità per governare su tutta la Chiesa e per essere la guida religiosa e laica dello Stato Vaticano?

Non sarebbe questa una negazione della Fede e della Tradizione Apostolica?

Oppure i firmatari di questo documento non sono consapevoli del fatto che molti cattolici romani oggi gemono sotto i piedi del Papa (e del suo sistema ecclesiologico scolastico e centrato sull’uomo) e desiderano entrare nell’Ortodossia?

Come possono queste persone che sono tormentate spiritualmente e desiderano il santo Battesimo non essere accolte nell’Ortodossia perché si suppone che la stessa Grazia sia qui e là? Non dovremmo, a quel punto, rispettare la loro libertà religiosa, come richiede in un’altra circostanza la dichiarazione di Balamand, e concedere loro il battesimo ortodosso? Quale difesa presenteremo al Signore se neghiamo la pienezza della Grazia a coloro che, dopo anni di agonia e di ricerca personale, desiderano il santo Battesimo della nostra Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica?

Il paragrafo 14 del documento cita Papa Giovanni Paolo II: “L’impegno ecumenico delle Chiese sorelle d’Oriente e d’Occidente, fondato sul dialogo e sulla preghiera, è la ricerca della comunione perfetta e totale, che non è né assorbimento né fusione, ma incontro nella Verità e nella Amore.”

Ma come è possibile un’unione nella Verità quando le differenze nei dogmi vengono eluse ed entrambe le Chiese vengono descritte come sorelle nonostante le differenze?

La Verità della Chiesa è indivisibile perché è Cristo stesso. Ma quando ci sono differenze nei dogmi non può esserci unità in Cristo.

Da quello che sappiamo della storia della Chiesa, le Chiese erano chiamate Chiese sorelle quando avevano la stessa fede. La Chiesa ortodossa non è mai stata definita sorella di alcuna chiesa eterodossa, indipendentemente dal grado di eterodossia o cacodossia che manteneva.

Ci poniamo una domanda fondamentale: il sincretismo religioso e il minimalismo dottrinale – sottoprodotti della secolarizzazione e dell’umanesimo – hanno forse influenzato i firmatari ortodossi del documento?

È evidente che il documento adotta, forse per la prima volta da parte ortodossa, la posizione secondo cui due Chiese, quella ortodossa e quella cattolica romana, insieme costituiscono l’unica Santa Chiesa o sono due legittime espressioni di essa.

Sfortunatamente, è la prima volta che gli ortodossi accettano ufficialmente una forma della teoria dei rami.

Permetteteci di esprimere il nostro profondo dolore per questo in quanto questa teoria entra fino ad ora in stridente conflitto con la tradizione e la coscienza ortodossa.

Abbiamo molti testimoni della coscienza ortodossa che solo la nostra Chiesa costituisce l’Unica Santa Chiesa, e sono riconosciuti come autorità pan-ortodosse. Questi sono il:

1. Concilio di Costantinopoli, 1722;

2. Concilio di Costantinopoli, 1727;

3. Concilio di Costantinopoli, 1838;

4. Enciclica dei Quattro Patriarchi d’Oriente e loro sinodi. 1848;

5. Concilio di Costantinopoli, 1895.

Questi hanno decretato che solo la nostra Santa Chiesa Ortodossa costituisce l’Unica Santa Chiesa.

Il Concilio di Costantinopoli del 1895 riassume tutti i Concili precedenti:

L’Ortodossia, cioè la Chiesa d’Oriente, giustamente si vanta in Cristo di essere la Chiesa dei sette Concili ecumenici e dei primi nove secoli del cristianesimo e quindi di essere la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica, “colonna e baluardo della verità.”E l’attuale Chiesa Romana è la chiesa del modernismo e dell’adulterazione degli scritti dei Padri della Chiesa e della distorsione delle Sacre Scritture e dei decreti dei Santi Concili. Giustamente e a ragione è stato denunciato e viene denunciato finché persiste nel suo delirio. «Meglio una guerra lodevole», dice san Gregorio Nazianzeno, «che una pace separata da Dio».

I rappresentanti delle Chiese ortodosse hanno dichiarato le stesse cose alle conferenze del Consiglio ecumenico delle Chiese. Tra loro c’erano illustri teologi ortodossi, come padre George Florovsky. Così, alla Conferenza di Lund del 1952, si dichiarò:

Siamo venuti qui non per giudicare le altre Chiese, ma per aiutarle a vedere la verità, per illuminare il loro pensiero in modo fraterno, informandole sugli insegnamenti della Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, cioè la Chiesa Greco-Ortodossa , che è inalterato rispetto al periodo apostolico.

A Evanston nel 1954:

In conclusione, siamo obbligati a dichiarare la nostra profonda convinzione che solo la Santa Chiesa Ortodossa ha preservato “la fede una volta trasmessa ai santi” in tutta la sua pienezza e purezza. E questo non per qualche nostro merito umano, ma perché Dio si compiace di custodire il suo tesoro in vasi di creta…

E a Nuova Delhi nel 1961:

L’unità è stata spezzata ed è necessario riconquistarla. Per l’Ortodossia la Chiesa Ortodossa non è una Confessione, non una delle tante o una tra le tante. Per gli ortodossi la Chiesa ortodossa è la Chiesa. La Chiesa ortodossa ha la percezione e la coscienza che la sua struttura interna e il suo insegnamento coincidono con il kerygma apostolico e con la tradizione della Chiesa antica e indivisa. La Chiesa ortodossa esiste nella successione ininterrotta e continua del ministero sacramentale, della vita sacramentale e della fede. La successione apostolica dell’ufficio episcopale e del ministero sacramentale, per gli ortodossi, è veramente una componente essenziale e, per questo, un elemento necessario dell’esistenza di tutta la Chiesa. Secondo la sua convinzione interiore e la consapevolezza delle circostanze, la Chiesa Ortodossa occupa una posizione speciale e straordinaria nella cristianità divisa come portatrice e testimone della tradizione dell’antica Chiesa indivisa, da cui provengono le attuali denominazioni cristiane attraverso riduzione e separazione.

Potremmo qui riportare anche le testimonianze dei più illustri e riconosciuti teologi ortodossi. Ci limiteremo a uno, il defunto padre Dumitru Stăniloae, un teologo distinto non solo per la sua saggezza ma per l’ampiezza e la mentalità ortodossa della prospettiva ecumenica.

In molti punti del suo notevole libro, Verso un ecumenismo ortodosso, fa riferimento a temi rilevanti per la dichiarazione congiunta [di cui si discute qui] e rende testimonianza ortodossa. Attraverso di esso, quindi, si mostrerà il disaccordo tra le posizioni assunte nel documento e la fede ortodossa:

“Senza unità di fede e senza comunione nello stesso Corpo e Sangue del Verbo Incarnato, non potrebbe esistere una tale Chiesa, né potrebbe esistere una Chiesa nel senso pieno della parola”.

“Nel caso di chi entra nella piena comunione di fede con i membri della Chiesa Ortodossa e ne diventa membro, si intende per economia [dispensazione] dare validità a un Mistero precedentemente compiuto fuori della Chiesa”.

“Dal punto di vista cattolico romano, la Chiesa non è tanto un organismo spirituale guidato da Cristo quanto piuttosto un’organizzazione nomocanonica che, anche nelle migliori circostanze, vive non a livello divino ma soprannaturale [3] grazia creata.”

«Nella conservazione di questa unità, un ruolo indispensabile è svolto dall’unità della fede, perché questa lega integralmente le membra a Cristo e tra loro».

“Coloro che non confessano Cristo tutto e integro, ma solo alcune parti di Lui, non possono raggiungere una comunione completa né con la Chiesa né tra loro”.

“Come è possibile che i cattolici si uniscano agli ortodossi in una comune eucaristia quando credono che l’unità deriva più dal Papa che dalla Santa Eucaristia? Può scaturire dal Papa l’amore per il mondo, cioè l’amore che scaturisce dal Cristo della Santa Eucaristia?”

“C’è un crescente riconoscimento del fatto che l’Ortodossia, come corpo completo di Cristo, si protende in modo concreto per accogliere le parti che erano separate”.

È evidente che non possono esistere due corpi completi di Cristo.

III

Santità, c’è da chiedersi perché gli ortodossi procedono a fare queste concessioni mentre i cattolici romani non solo persistono ma rafforzano la loro ecclesiologia incentrata sul Papa.

È un dato di fatto che il Concilio Vaticano II [1963] non solo ha trascurato di minimizzare il primato e l’infallibilità [del Papa], ma li ha anzi amplificati. Secondo il defunto professor John Karmiris, “Nonostante il fatto che il Concilio Vaticano II abbia coperto le familiari affermazioni latine sul dominio monarchico assoluto del Papato con il manto della collegialità dei vescovi, non solo tali affermazioni non sono state diminuite; al contrario, sono state rafforzate da questo Concilio. L’attuale Papa [Giovanni XXIII] non esita a promuoverli, anche in tempi inopportuni, con molta enfasi».

E l’Enciclica del Papa, “Ai Vescovi della Chiesa Cattolica” (28 maggio 1992), riconosce solo Roma come chiesa “cattolica” e il Papa come unico vescovo “cattolico”. La Chiesa di Roma e il suo vescovo costituiscono l'”essenza” di tutte le altre Chiese. Inoltre, ogni Chiesa locale e il suo vescovo costituiscono semplicemente espressione della “presenza” e dell’“autorità” diretta del vescovo di Roma e della sua Chiesa, che determina dall’interno l’identità ecclesiale di ogni Chiesa locale.

Secondo questo documento papale, poiché le Chiese ortodosse rifiutano di sottomettersi al Papa, non portano affatto il carattere della Chiesa e sono semplicemente viste come “Chiese parziali”. “Verdienen der titer teilkirchen.”

La stessa ecclesiologia è espressa nella Guida Ecumenica (“una guida per l’applicazione dei principi e dell’agenda riguardanti l’ecumenismo”) della Chiesa Cattolica Romana, presentata dal cardinale Cassidy all’incontro dei vescovi cattolici romani (10-15 maggio 1993, un mese prima di Balamand), alla presenza di non cattolici e addirittura ortodossi.

La Guida ecumenica sottolinea che i cattolici romani «mantengono la ferma convinzione che la Chiesa singolare di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, la quale è retta dal successore di Pietro e da vescovi con lui in comunione», in quanto il «Collegio dei Vescovi ha come capo il Vescovo di Roma, successore di Pietro».

Nello stesso documento, si dicono molte cose belle sulla necessità di sviluppare un dialogo ecumenico e un’educazione ecumenica – ovviamente per confondere le acque e allontanare gli ingenui ortodossi con quell’efficace metodo di unità ideato dal Vaticano, cioè di sottomissione a Roma.

Il metodo, secondo La Guida Ecumenica, è il seguente:

I criteri stabiliti per la collaborazione ecumenica sono, da un lato, il riconoscimento reciproco del battesimo e la collocazione dei simboli comuni della fede nella vita liturgica empirica; e, dall’altro, la collaborazione nell’educazione ecumenica, nella preghiera comune e nella cooperazione pastorale affinché si possa passare dal conflitto alla convivenza, dalla convivenza alla collaborazione, dalla collaborazione alla condivisione, dalla condivisione alla comunione.

Tali documenti, tuttavia, pieni di ipocrisia, sono generalmente accolti come positivi dagli ortodossi.

Siamo rattristati nel constatare che la dichiarazione congiunta si fonda sul suddetto ragionamento cattolico romano. A causa di questi recenti sviluppi in tali termini, tuttavia, cominciamo a chiederci se coloro che sostengono che i vari dialoghi siano dannosi per l’Ortodossia non siano dopo tutto giustificati.

Santissimo Padre e Despota, in termini umani, per mezzo di quella dichiarazione congiunta i cattolici romani sono riusciti a ottenere un certo riconoscimento ortodosso come legittima continuazione dell’Unica Santa Chiesa con la pienezza della Verità, della Grazia, del Sacerdozio, dei Misteri e della Successione Apostolica .

Ma questo successo va a loro discapito perché toglie loro la possibilità di riconoscere e pentirsi della loro grave ecclesiologia e malattia dottrinale. Per questo motivo le concessioni degli ortodossi non sono filantropiche. Non sono per il bene né dei cattolici romani né degli ortodossi. Saltano dalla speranza del Vangelo (Col 1,23) di Cristo, unico Dio-Uomo, al Papa, uomo-Dio e idolo dell’umanesimo occidentale.

Per il bene dei cattolici romani e del mondo intero, la cui unica speranza è l’Ortodossia pura, siamo obbligati a non accettare mai l’unione o la descrizione della Chiesa cattolica romana come “Chiesa sorella”, o il Papa come vescovo canonico di Roma. , o la “Chiesa” di Roma come avente successione apostolica, sacerdozio e misteri canonici senza la loro rinuncia [da parte dei papisti] espressamente dichiarata al Filioque, all’infallibilità e al primato del Papa, alla grazia creata e al resto delle loro cacodossie. Perché non considereremo mai queste differenze senza importanza o semplici opinioni teologiche, ma come differenze che sviliscono irrevocabilmente il carattere teantropico della Chiesa e introducono blasfemie.

Sono tipiche le seguenti decisioni del Vaticano II:

Il Romano Pontefice, successore di Pietro, è fonte e fondamento permanente e visibile dell’unità dei vescovi e della moltitudine dei fedeli.

Questa sottomissione religiosa della volontà e della mente deve manifestarsi in modo speciale davanti all’autentico magistero del Romano Pontefice, anche quando questi non parla ex cathedra.

Il Romano Pontefice, capo del collegio dei vescovi, in virtù del suo ufficio, possiede l’infallibilità quando, confermando i suoi fratelli (Lc 23,32) come pastore e sommo maestro di tutti i fedeli, dichiara un insegnamento mediante un atto di definizione riguardante la fede o la morale. Per questo giustamente si dice che i decreti del Papa sono di natura irreversibile e non soggetti a dispensa da parte della Chiesa, in quanto sono stati pronunciati con la collaborazione dello Spirito Santo… Di conseguenza, i decreti del Papa non sono soggetti a nessun’altra approvazione, a nessun altro appello, a nessun altro giudizio. Il Romano Pontefice, infatti, non esprime la sua opinione come privato, ma come il massimo maestro della Chiesa universale, sul quale poggia personalmente il dono dell’infallibilità della Chiesa stessa e che propone e custodisce l’insegnamento della fede cattolica.

Nell’esercizio della sua responsabilità di vicario di Cristo e pastore di tutta la Chiesa, il Romano Pontefice ha nella Chiesa la più piena, alta e universale autorità, che gli è sempre conferito il potere di esercitare liberamente… Non può esistere un potere del Concilio Ecumenico se non sarà convalidato o almeno accolto dal successore di Pietro. La convocazione, la presidenza e l’approvazione delle decisioni dei Concili sono prerogativa del Romano Pontefice.

Tutti questi insegnamenti, Santità, non arrivano alle orecchie ortodosse come una bestemmia contro lo Spirito Santo e contro il Divino Costruttore della Chiesa, Gesù Cristo, l’unico Capo eterno e infallibile della Chiesa, dal quale solo scaturisce l’unità della Chiesa? Ciò non contraddice completamente l’ecclesiologia ortodossa centrata sul Vangelo e centrata sul Dio-Uomo, ispirata dallo Spirito Santo? Non subordinano forse l’Uomo-Dio all’uomo?

Come possiamo fare concessioni o coesistere con un tale spirito senza perdere la nostra fede e salvezza?

Rimanendo fedeli a tutto ciò che abbiamo ricevuto dai nostri Santi Padri, non accetteremo mai l’attuale “Chiesa” romana come co-rappresentante con la nostra della Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica.

Riteniamo necessario che tra le differenze teologiche si sottolinei la distinzione tra l’essenza e l’energia di Dio, e che le energie divine sono increate, perché se si crea la grazia, come sostengono i cattolici romani, viene annullata la salvezza e la theosis dell’uomo e la Chiesa cessa di essere una comunione di theosis e degenera in un’istituzione nomocanonica.

Profondamente addolorati nella nostra anima per tutto quanto sopra, ricorriamo a te, nostro Padre Spirituale. E con il più profondo rispetto, vi invitiamo e vi imploriamo, nella vostra caratteristica comprensione e sensibilità pastorale, di prendere in mano questa gravissima questione e di non accettare il documento [di Balamand], e in generale di intraprendere ogni azione possibile per evitare le indesiderabili conseguenze che avrebbe per l’unità pan-ortodossa se per caso alcune Chiese lo adottassero.

Inoltre, chiediamo le vostre preghiere sante e obbedienti a Dio affinché anche noi, umili abitanti e monaci della Sacra Montagna, in questo tempo di confusione spirituale, di compromesso, di secolarizzazione e di ottundimento della nostra acutezza dottrinale, possiamo rimanere fedeli fino alla morte a ciò che ci è stato trasmesso dai nostri Santi Padri come forma di dottrina (Rm 6,17), qualunque cosa possa costarci.

Con il più profondo rispetto veneriamo la tua santa mano destra.

Firmato da: Tutti i Rappresentanti e Presidenti dei Venti Sacri Monasteri del Sacro Monte Athos

PS. Si noti che questa lettera è stata inviata anche alle Chiese che hanno partecipato al dialogo teologico e sono, quindi, direttamente interessate, e alle restanti Chiese per tenerle informate.


Note finali

1. Per completare il pensiero dell’autore continuiamo qui il brano: «…che si sarebbe formato nella Pentecoste e i cui membri dovevano essere illuminati e glorificati in questa vita… Così intendono questa preghiera i Padri. Non è certamente una preghiera per l’unione delle chiese… che non hanno la minima comprensione della glorificazione (theosis) e di come arrivarvi in ​​questa vita.” Dalla confutazione dell’Accordo di Balamand da parte del celebre teologo ortodosso, p. John S. Romanides, Professore di Teologia, Scuola Teologica Ortodossa San Giovanni Damasceno (Antiochia), Balamand, Libano; Professore Emerito, Univ. di Salonicco, Grecia; ex professore di teologia ortodossa, scuola teologica greco-ortodossa della Santa Croce, Brookline, MA

2. Nel testo greco apparso in Orthodox Typos c’è un evidente errore tipografico e questa parola era semplicemente “unito”, sebbene il contesto della frase completa implichi chiaramente la parola “disunito”.

3. Nel contesto occidentale qui, il soprannaturale di cui l’uomo sperimenta o partecipa, come la grazia creata, si riferisce a qualcosa che non è increato: «Ciò che è ricevuto nella creatura deve essere esso stesso creato». Enciclopedia Cattolica, vol. 13, New York, 1967, pag. 815.

Il testo completo della Dichiarazione di Balamand dal titolo: L’UNIATISMO METODO DI UNIONE DEL PASSATO
E LA RICERCA ATTUALE DELLA PIENA COMUNIONE, Balamand (Libano) 23 giugno 1993




PASQUA: Tutte le creature di Dio, animali e uccelli, lodano il Signore!

Nei giorni pasquali la vita è piena di gioia, e anche le altre creature di Dio, animali e uccelli, lodano il Signore in questi giorni! Questa storia è avvenuta il 24 aprile 2020, durante la processione della croce, che si è svolta con la benedizione dell’arcivescovo Sophrony di Mogilev e Mstislavl della Chiesa ortodossa bielorussa.

Coloro che hanno partecipato alla processione della croce ricordano che ad un certo punto si è unito alla colonna un pellegrino insolito, una cicogna bianca. In Bielorussia fin dall’antichità le cicogne sono state considerate “uccelli della pace”. Il numero dei loro enormi nidi aumenta ogni anno e la gente del posto tratta con cura i “cittadini del cielo” deboli o feriti.

I partecipanti allo straordinario evento hanno ricordato con gioia il “pellegrino alato”. Mentre il corteo camminava tra i campi primaverili che si risvegliavano, da qualche parte apparve una cicogna. Facendo un cerchio sopra la processione della croce, cominciò a scendere, come se sbirciasse sull’icona Belynichi della Santissima Theotokos.

Dopodiché la cicogna scese e camminò avanti! “Cristo è risorto dai morti, calpestando la morte con la morte e donando la vita a coloro che sono nei sepolcri!” i pellegrini cantavano di gioia, mentre l’uccello alto e maestoso si pavoneggiava accanto a loro.

La meravigliosa cicogna camminò in processione insieme ai fedeli lungo il bordo della strada fino a Belynichi, per oltre sette miglia! Quando il “pellegrino alato” rimase leggermente indietro, perché i fedeli camminavano a passo regolare, volò fino al punto in cui venivano portati gli stendardi, e poi riprese a camminare!

I partecipanti al corteo della Croce erano preoccupati per la vita della cicogna quando l’uccello volò nella zona di traffico. L’auto della polizia stradale che ha accompagnato il corteo della Croce ha addirittura fermato più volte il traffico, in modo che le auto non travolgessero accidentalmente l'”adoratore alato”. Allora tutti lo pregarono di attraversare o di volare sul lato sicuro della strada e di proseguire con la colonna, e la cicogna obbedì.

Ma tutti i tentativi dei partecipanti alla processione della croce di convincere la cicogna a riposare furono vani: l’uccello camminava senza sosta, senza paura né delle persone, né delle macchine o dei camion che passavano. La cosa durò più di quattro ore.

Quando fecero l’ultima sosta nel bosco, a poco più di un miglio dal paese, il “pellegrino” miracoloso rimase, circondato dalla gente, ad ascoltare preghiere e canti pasquali. Poi si è avvicinato direttamente all’icona Belynichi della Madre di Dio, si inchinò davanti ad essa e, secondo testimoni oculari, toccò con riverenza l’icona altamente venerata con la punta del becco. Dopo questa pausa, la cicogna procedette come parte della processione della croce verso la sua destinazione finale.

Era già buio quando i pellegrini raggiunsero la città. La cicogna prese il volo e, facendo un giro d’onore, come se benedicesse il popolo, volò via… Questa è una lezione della sconfinata devozione e fiducia in Dio e nella Sua Purissima Madre che un coraggioso uccello insegnò ai pellegrini. Ogni cosa che respira lodi il Signore (Sal 150,3). Cristo è risorto!

Svetlana Rybakova

Monastero Sretenskij

09/05/2024

Fonte: https://orthochristian.com/160089.html




L’ANTICRISTO STA ARRIVANDO IN GEORGIA

dell’Archimandrita Lazar (Abashidze)

Nella nostra Chiesa, i fedeli e anche una parte del clero predicano l’avvicinarsi di una “illuminazione” o rinascita religiosa. Dicono che sta arrivando un momento luminoso per i cristiani, che negli ultimi tempi apocalittici l’anticristo regnerà in tutto il mondo, ma non entrerà mai in Georgia, ecc.

Per quanto forse rapiti da questi sogni piacevoli e dolci, preoccupati di riordinare esteriormente chiese e luoghi di ispirazione (in attesa di quell’epoca meravigliosa), un gran numero di clero e laici nemmeno se ne accorgono (o forse non vogliono accorgersene), come lo spirito dell’anticristo sta entrando in Georgia e affondando radici più profonde nelle anime delle persone, iniziando il suo regno in tutti gli strati della vita.

Ad esempio, nelle scuole vengono introdotti programmi di “educazione sessuale”, mentre vengono cancellati i corsi di storia nazionale: enormi somme di denaro affluiscono in Georgia, dal seno stesso di Satana in Europa, per introdurre questi programmi!

Cosa significa questo? Chiunque studi attentamente questo progetto chiamato “educazione sessuale”, o guardi i nuovi libri di testo, vedrà chiaramente il desiderio del loro creatore: che un bambino fin dai primi anni inizi ad apprendere ogni sorta di depravazione sessuale. Il loro obiettivo è trasformare la ricerca del piacere lussurioso nello scopo principale della vita.

Sta iniziando una terribile e crudele persecuzione contro la coscienza umana, i valori morali e la spiritualità.

Ma perché i politici mondiali ne hanno bisogno? Perché non badano a spese, spendono ingenti somme di denaro per comprare la coscienza sia dei genitori che dei figli?

Perché ora, in tutto il mondo, è in corso un lavoro attivo per aprire la strada all’anticristo, e a capo di tutti questi programmi ci sono gli stessi poteri oscuri.

Ritengono della massima importanza preparare una sorta di ordine mondiale generale; cioè, preparare le persone ad avere tutti gli stessi interessi, tutti gli stessi desideri, tutti gli stessi impulsi, perché solo allora sarà possibile introdurre un leader mondiale e avere il controllo su tutta l’umanità. Solo allora il diavolo potrà realizzare il suo antico sogno: che tutta l’umanità lo adori come il signore dio.

Per fare ciò devono cancellare tutto dalle persone: l’individualità, il pensiero elevato e una vita comune di idee e spiritualità.

Un immorale che non conosce la propria patria, che non conosce l’esperienza e le ricchezze spirituali dei suoi antenati, che non cerca altro che piaceri passeggeri, che vive solo per il presente: questo è il miglior materiale possibile per creare masse che possano essere soggetti passivamente all’opinione comune a favore del nuovo ordine mondiale.

Una persona che si lascia controllare rigorosamente, che non ha idee, non ha anima. Sarà pronto a liberarsi di tutte queste cose per amore della libertà da tutto: dalla sua coscienza, dalla vergogna, dalle restrizioni morali. Sarà pronto a pagare per la libertà, a peccare per amore dei diritti, a compiacere la carne con i benefici di questo “paradiso terrestre” e a godersi le comodità materiali tecnologiche senza sentire alcun rimorso di coscienza.

Con tutto ciò si presuppone che questa persona debba rimanere religiosa: l’anticristo desidera che gli uomini si inchinino e non solo davanti a un uomo di talento, ma davanti alla divinità.

Dietro di lui ci sono gli spiriti delle tenebre, che ardono di sete di adorazione divina.

Ma questa religiosità deve essere laica (libera da qualsiasi influenza da parte della Chiesa), non conoscendo alcuna Verità, ma solo un surrogato mistico che somigli vagamente alla verità.

Quindi, per creare questa nuova società, sono necessari tre fattori: religiosità ecumenica (religione senza grazia), immoralità (una persona che ha perso la coscienza), e una rottura con il legame tra lui e la sua precedente cultura morale e spirituale (una società senza storia).

Il terzo fattore è necessario perché il sentimento nazionale, spesso ricevuto dagli antenati, arricchisce l’uomo con la vera saggezza, gli insegna a ritornare ai suoi padri e a seguire quei valori spiritualmente elevati e morali che essi hanno sempre apprezzato. Ma questo solido fondamento – la base della saggezza e della moralità – deve essere distrutto.

Così una persona comincia ad assomigliare ad una foglia strappata dalle sue stesse radici, che volteggia nelle acque turbolente e fangose ​​insieme a migliaia di altri come lui giù nell’abisso oscuro.

Se questo programma verrà accettato nelle nostre scuole, i georgiani verranno bruciati alla radice dalle fiamme dell’inferno!

Tra pochi decenni, in Georgia si imboccherà la strada di Sodoma e Gomorra, e senza dubbio finirà per condividerne il destino. Non è un caso che cerchino di nutrire i più piccoli con questo semplice veleno, per avvelenare le loro anime. Stanno scommettendo seriamente sulla nuova generazione.

Ora tutto dipende da noi; e la cosa più terrificante è che le persone tacciono. I sacerdoti e il clero tacciono e solo raramente si sente una voce di avvertimento. Se non gridano al pericolo imminente, se non protestano, se non incitano i cristiani a combattere questo male, se non riportano alla ragione con leggi severe coloro che hanno apostatato da Cristo, allora la porta sarà spalancata e il tappeto srotolato affinché l’anticristo entri in Georgia.

Il timore di Dio è l’inizio della saggezza (Sal 110). E la liberazione dalla paura è l’inizio della follia di massa!

Archimandrita Lazar (Abashidze)
FONTE: Pravoslavie.ru

13/04/2016




Le riflessioni dell’Anziano athonita Gabriel di Karyes sull’uomo contemporaneo

Le riflessioni dell’anziano athonita Gabriel di Karyes sulle persone moderne e sulla nostra vita complessa.

–  Anziano, il padre Seraphim ci ha posto una domanda difficile sulla vita ecclesiale: cosa accadrebbe se i Kollyvades* fossero vivi adesso o se San Paisios il Santo fosse ancora vivo ai nostri tempi?

–  Cosa farebbe adesso San Paisios il Santo? Sì, sappiamo che i testimoni sul Monte Athos e le persone che gli hanno parlato sono ancora vivi. Ad esempio, te lo dirò. Una volta padre Nikodimos Pilato andò da padre Paisios e gli disse: “Anziano, sei condannato come ecumenista”. L’anziano Paisio si alzò: “Sono un ecumenista!?” Era ancora a Stavronikita. Padre Dositheos me lo ha detto e padre Nikodimos Pilato glielo ha detto.

Cosa farebbero i Kollyvades adesso? Sai, adesso è un momento molto interessante. Sono arrivati ​​gli stessi tempi scandalosi dei tempi dei Kollyvades. In effetti, l’epoca storica è molto simile.

In generale, poche persone conoscono oramai i Kollyvades. E molti non sanno che allora furono contrastati dai padri, che pensavano al contrario dei Kollyvades e nella loro inimicizia arrivarono al punto di uccidere diverse persone. Questo, ovviamente, non è pubblicizzato. E poi i Kollyvades si riunirono nella cella di San Nikodemos l’Aghiorita. A questo incontro parteciparono molti dei santi presenti: san Nicodemo il santo, il monaco Atanasio del Pario e altri anziani. Decisero che se questa guerra o inimicizia ha già raggiunto il punto dell’omicidio, allora è un male. Che non avevano paura per le proprie vite essendo pronti a sacrificarle, ma per prevenire tali crimini sull’Athos, decisero di lasciare il Monte Athos. E se ne andarono.

Gli anziani si stabilirono nelle Cicladi e salvarono molte isole dall’espansione cattolica.

La storia ci insegna che secondo l’opinione del popolo questo non era giusto, ma con la Provvidenza di Dio si è scoperto che questo esilio è stato molto utile, è diventato una benedizione per il popolo greco.

Quindi studiate l’età dei Kollyvades e pensate.

Il nostro moderno santo Anziano Ambrogio ha detto che nel prossimo futuro moriranno 2 milioni di greci. Ma non ha detto il motivo. Cosa potrebbero essere se non i vaccini? Le donne uccidono i loro bambini non ancora nati e le cellule di questi bambini uccisi vengono utilizzate nei vaccini: questo è un grande peccato.

Sì, la nostra situazione adesso è brutta e sarà ancora peggiore se non ci pentiamo. La chiave di tutto è il pentimento. Il nostro Dio non può perdonarci con la forza, senza il nostro pentimento. È impossibile. Per perdonare dobbiamo esercitare la nostra volontà.

Vi farò un esempio tratto dai Niniviti, gli abitanti della città di Ninive, che diedero l’esempio a tutto il mondo antico. Si pentirono sinceramente in tutta la città, si imposero il digiuno, anche il bestiame fu costretto a digiunare. E cosa potrebbe rispondere Dio a ciò? Naturalmente li perdonò e non distrusse la città.

Ed ecco cos’altro ti dirò. Dice il Signore nel Vangelo: “L’albero si riconosce dai suoi frutti”. Un albero cattivo non può dare frutti buoni. L’uomo viene riconosciuto allo stesso modo. Dimmi, se sei un uomo di Dio, dopotutto diamo la libertà anche agli animali, perché mi vaccini con la forza? Mi stai licenziando dal lavoro e non ti importa nemmeno che potrei uccidermi? È un uomo di Dio quello che fa questo?

Ricorda: Dio non ci salverà senza pentimento.

E vi ricordo anche un passo delle Scritture. Quando il Signore scese sulla terra prima del diluvio, disse: “Il mio spirito non rimarrà sempre con l’uomo, perché egli è carne“. Cosa significa essere “carne”? Ciò significa che sono diventati solo carne, hanno perso lo spirito. E se disse queste parole allora, cosa direbbe ora di noi, della nostra società deviante?

Gli abitanti di Sodoma e Gomorra, che il Signore semplicemente bruciò come insetti, non erano semplicemente empi, ma estremamente empi. I Sodomiti commisero peccati terribili, ma non li legalizzarono. E ora legalizziamo il peccato. Questo non è mai successo nella storia umana.

Basato su materiale dal Portale informativo del Monte Athos. 

NOTA:* I Kollyvades erano membri di un movimento interno alla Chiesa Ortodossa che ebbe inizio nella seconda metà del XVIII secolo nella comunità monastica del Monte Athos e che si batté per il ripristino delle pratiche tradizionali in opposizione a innovazioni ingiustificate e che si trasformò inaspettatamente in una movimento di rinascita spirituale.




P. George Metallinos: Unificazione dei calendari nella differenza dei Dogmi

“L’argomento non è quello dei calendari: sono dogmi e teologia contrastanti che portano a celebrazioni separate della Pasqua”


dall’Arciprete George Metallinos

La risurrezione di Cristo non solo è il fondamento incrollabile della nostra fede (“Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede” [1 Corinzi 15,17] ), ma richiama anche alla mente la tragica divisione del mondo cristiano della nostra epoca.

Lo scopo del dialogo ecumenico o intercristiano è proprio quello di rimuovere questa divisione e ripristinare l’unità. Negli ambienti ecumenici, infatti, la celebrazione comune della Pasqua è considerata un passo essenziale in questa direzione.

La decisione di cambiare calendario (1923-1924) – decisione affrettata e non pan-ortodossa – portò alla comune celebrazione cristiana del Natale (e delle Feste inamovibili), ma non a quella della Pasqua (e delle Feste mobili), che continua ad essere determinato nel mondo ortodosso sulla base del vecchio calendario giuliano.

Una recente Enciclica patriarcale (n. 150/26 maggio 1995) solleva la questione della necessità di “determinare” “una data comune per la celebrazione della Grande Festa della Pasqua da parte di tutti i cristiani”, promuovendo così un percorso unionista. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, alcune costanti storiche e teologiche fondamentali che determinano in modo decisivo il significato delle feste cristiane (della Chiesa) e la nostra esperienza liturgica di esse, come nel caso della Pasqua:

(a) Molti ortodossi sostengono giustamente che l’impedimento a celebrare le feste contemporaneamente ai non ortodossi non è la differenza nei calendari, ma la differenza nel dogma e nella teologia; vale a dire, la nostra non convergenza su questioni di fede, dato, in particolare, che la “fede” nell’ininterrotta Tradizione cristiana, che continua nell’Ortodossia, non è una semplice – superficiale o scolastica – accettazione di certe “verità” disincarnate carattere assoluto, ma, piuttosto, partecipazione ad uno stile di vita tramandato dagli Apostoli e dai Padri, che porta a fare esperienza dello Spirito Santo.

Questa esperienza, quando formulata in parole, costituisce la fede della Chiesa come Corpo del Signore. Così dobbiamo intendere l’ingiunzione canonica della Chiesa – a partire dal Primo Sinodo ecumenico, che, nel 325 d.C., risolse la questione della celebrazione della Pasqua una volta per tutte fino ai giorni nostri: «non festeggiare con gli ebrei», il che equivale, oggi, a «non festeggiare con gli eterodossi».

Questo non è frutto di bigottismo religioso, ma espressione di una sana e attiva autocoscienza ecclesiastica. Per questo motivo, già nel 1582, l’Oriente ortodosso rifiutò il “Nuovo” Calendario, non per ragioni scientifiche, ma ecclesiologiche, poiché l’introduzione di questo calendario fu collegata sia dagli occidentali che dai nostri stessi unionisti all’imposizione di un’osservanza simultanea delle feste come facilitazione (di fatto) dell’unione “dal basso” (su base ampia).

Questo spirito trovò espressione nella controversa Enciclica del 1920, che proponeva «l’adozione di un unico calendario per la celebrazione simultanea delle principali feste cristiane da parte di tutte le Chiese».

Non ci soffermeremo, qui, sul fatto che questa Enciclica pone sullo stesso piano l’Ortodossia e la non-Ortodossia. Ricorderemo però che, se da un lato ha certamente aperto la strada all’ecumenismo, dall’altro è servito a provocare la genesi della questione “vecchio calendarista”, che resta un’esperienza tragica e traumatica nel corpo della Chiesa ortodossa e dovrebbe, per questo stessa ragione, da risolvere prima di qualsiasi soluzione parziale o più ampia nell’ambito del dialogo “ecumenico”.

(b) La precondizione della comune «celebrazione delle feste cristiane» non è l’accordo sul calendario o gli accordi diplomatici e giuridici, ma «l’unità della fede e la comunione dello Spirito Santo»; cioè l’adesione ad una concezione del cristianesimo come un “ospedale spirituale” (San Giovanni Crisostomo), cioè come ospedale esistenziale e sociale e come metodo di terapia.

L’ideologizzazione del cristianesimo o la sua formulazione accademica – malattie derivanti dal dialogo ecumenico – non solo non ci conducono all’unità che desideriamo, ma anzi ce ne allontanano. L’unità e l’unione che culminano nella Sacra Mensa e nel Santo Calice richiedono l'”unanimità” nella fede e nell’insieme della vita cristiana; cioè l’accettazione della Tradizione Apostolica nella sua totalità e l’incorporazione in essa.

È proprio per questa ragione che il culto e la tradizione liturgica da soli non costituiscono una base di unità, come credono ampiamente, ma erroneamente, coloro che sono impegnati nel dialogo ecumenico. Il culto e la partecipazione al culto non sono efficaci in termini soteriologici, al di fuori del contesto sopra menzionato di una tradizione ecclesiologica comune. La preghiera perenne del credente ortodosso è per “la restaurazione e la riunione degli erranti” al Corpo di Cristo, l’Unica Chiesa (Liturgia di San Basilio Magno) .

In questo modo si giustifica la forza anfidromica dell’affermazione di san Paolo, che abbiamo citato all’inizio: «Se la risurrezione di Cristo è il fondamento della nostra fede, allora la fede autentica è l’unica precondizione per la partecipazione alla risurrezione. come il più grande evento della nostra salvezza in Cristo.”

L’arciprete Giorgio Metallinos è stato un sacerdote della Chiesa di Grecia e professore di teologia dell’Università di Atene. Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Kathimerini.




P. Justin Popovic, Sulla convocazione del Grande Concilio della Chiesa Ortodossa, 1977 (ITA – ENG)

P. Justin Popovich

La seguente lettera è stata indirizzata dall’archimandrita serbo P. Justin Popovic di beata memoria, padre spirituale del monastero di Celie Valjevo (Jugoslavia), al vescovo Jovan di Sabac e alla gerarchia serba il 7 maggio 1977, con la richiesta di trasmettere questa lettera al Santo Sinodo e al Consiglio dei Vescovi della Chiesa Ortodossa Serba. La sua rilevanza non è diminuita con il passare degli anni… e forse è aumentata alla luce dei recenti avvenimenti che stanno scuotendo la cattolicità Ortodossa. Si vede bene come alcuni temi, ancora oggi centrali e divisivi, abbiano avuto una lunga gestazione nella storia. La teologia del Padre Justin ci illumina sui veri principi ecclesiologici della Santa Ortodossia che non possono essere scambiati “per un piatto di lenticchie” a pena della stessa salvezza dell’uomo e del mondo.


Non molto tempo fa a Chambesy, vicino a Ginevra, ha avuto luogo la “Prima Conferenza preconciliare” (21-28 novembre 1976). Dopo aver letto e studiato gli atti e le risoluzioni di questo convegno, pubblicati dal “Segretariato per la preparazione del Santo e Grande Concilio della Chiesa Ortodossa” a Ginevra, sento nella mia coscienza l’urgente necessità evangelica, come membro del La Santa e Cattolica Chiesa Ortodossa, anche se come suo più umile servo, di rivolgermi a Vostra Grazia e, attraverso di Lei, al Santo Sinodo dei Vescovi della Chiesa Serba, con questa esposizione che deve esprimere le mie dolorose considerazioni per il futuro Concilio. Prego Vostra Grazia e i Reverendissimi Vescovi di ascoltarmi con zelo evangelico e di ascoltare questo grido di una coscienza ortodossa, che, grazie a Dio, non è né sola né isolata nel mondo ortodosso quando si parla di quel concilio.

1. Dai verbali e dalle risoluzioni della “Prima Conferenza preconciliare”, che, per qualche motivo sconosciuto, si è tenuta a Ginevra, dove è difficile trovare anche solo poche centinaia di fedeli ortodossi, risulta chiaro che questa conferenza ha preparato e ha ordinato un nuovo catalogo di temi per il futuro “Gran Concilio” della Chiesa Ortodossa. Questa non era una di quelle “Conferenze pan-ortodosse”, come quelle che si tenevano a Rodi e successivamente altrove; né è stato il “Pro-Sinodo”, che è stato all’opera finora; si trattava del “Primo Convegno preconciliare”, che avviava la preparazione diretta alla celebrazione di un concilio ecumenico. Inoltre, questo convegno non ha iniziato i suoi lavori sulla base del “Catalogo dei temi, il concilio deve essere “di breve durata” e occuparsi di “un numero limitato di argomenti”; inoltre, secondo le parole del metropolita Meliton, “il Concilio deve approfondire le questioni scottanti che ostacolano il normale funzionamento del sistema che collega le Chiese locali in una sola Chiesa ortodossa…” (“Atti”, p. 55) Tutto ciò obbliga a chiedersi: cosa significa? Perché tutta questa fretta nella preparazione? Dove ci porterà tutto questo? 

2. La questione della preparazione e della celebrazione di un nuovo concilio ecumenico della Chiesa ortodossa non è né nuova né recente in questo ultimo secolo della storia della Chiesa. La questione era già stata proposta durante la vita dello sfortunato patriarca di Costantinopoli, Meletios Metaxakis – il celebre e presuntuoso modernista, riformatore e autore di scismi all’interno dell’Ortodossia – al suo Congresso pan-ortodosso tenutosi a Costantinopoli nel 1923. Fu raccomandato che il concilio si tenesse nella città di Nis nel 1925, ma poiché Nis non si trovava nel territorio del Patriarcato ecumenico, il concilio non fu convocato, probabilmente proprio per questo motivo. In generale, a quanto pare, Costantinopoli ha ipotizzato il monopolio della “Pan-Ortodossia”, di tutti i “Congressi”, delle “Conferenze”, “Pro-sinodi” e “concili”. Più tardi, nel 1930, presso il monastero di Vatopedi, ebbe luogo la Commissione preparatoria delle Chiese ortodosse. Essa definì il catalogo degli argomenti per il futuro pro-sinodo ortodosso, che avrebbe dovuto preludere al concilio ecumenico.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale fu la volta del Patriarca Atenagora di Costantinopoli con le sue Conferenze Panortodosse a Rodi (sempre esclusivamente nel territorio del Patriarcato di Costantinopoli). Il primo di essi, nel 1961, prevedeva la preparazione di un Concilio pan-ortodosso a condizione che fosse convocato un pro-sinodo, e confermava un catalogo di temi già preparato dal Patriarcato di Costantinopoli: otto capitoli interi con quasi quaranta argomenti principali e il doppio dei paragrafi e sottoparagrafi.

Dopo le Conferenze di Rodi II e III (1963 e 1964), nel 1966 si tenne la Conferenza di Belgrado. Dapprima questa fu chiamata Quarta Conferenza Panortodossa (Glasnik della Chiesa Ortodossa Serba, n. 10, 1966 e documenti in greco pubblicati sotto questo titolo), ma in seguito fu ridotta dal Patriarcato di Costantinopoli al grado di Inter-Commissione Ortodossa, affinché la conferenza successiva, tenutasi nel “territorio” di Costantinopoli (il Centro Ortodosso del Patriarcato Ecumenico a Chambesy-Ginevra) nel 1968, potesse essere acclamata al suo posto come Quarta Conferenza Pan-Ortodossa. In questa conferenza, a quanto pare, i suoi impazienti organizzatori si sono affrettati ad abbreviare il percorso verso il concilio, poiché dall’enorme catalogo di Rodi (il loro lavoro, tuttavia, e di nessun altro) hanno preso solo i primi sei argomenti e hanno definito una nuova procedura di lavoro. Allo stesso tempo è stata varata una nuova istituzione: la Commissione preparatoria interortodossa, indispensabile per il coordinamento dei lavori sui temi. Inoltre è stata istituita la Segreteria per la Preparazione del Concilio; si trattava infatti di un vescovo di Costantinopoli a cui venne assegnato l’incarico, con sede nella suddetta Ginevra – nello stesso tempo furono respinte le proposte di includere nel Segretariato altri membri ortodossi. Questa commissione preparatoria e il Segretariato, per desiderio di Costantinopoli, si riunirono a Chambésy nel giugno 1971. In tale riunione esaminarono e approvarono all’unanimità gli abstract dei sei argomenti selezionati, che successivamente furono pubblicati in diverse lingue e presentati, come tutto il precedente lavoro di preparazione al concilio, alle critiche spietate dei teologi ortodossi. Le critiche dei teologi ortodossi (tra cui il mio Memorandum inviato a suo tempo per Vostra Grazia e, con l’approvazione di Vostra Grazia, al Santo Sinodo dei Vescovi, e successivamente approvato da molti teologi ortodossi e pubblicato in varie lingue del mondo ortodosso) sembrano spiegare perché la decisione della Commissione preparatoria di Ginevra di convocare nel 1972 la Prima Conferenza preconciliare per la revisione del catalogo di Rodi, di fatto non fu rispettata quell’anno, e la conferenza ebbe luogo solo con grande ritardo.

Questa Prima Conferenza Preconciliare si tenne solo nel novembre del 1976, sempre, ovviamente, sul “territorio” costantinopolitano, nel suddetto centro di Chambesy, vicino a Ginevra. Come risulta dagli atti e dalle risoluzioni, appena pubblicati e da me attentamente studiati, questo convegno ha riesaminato il catalogo di Rodi a tal punto che le delegazioni partecipanti ai lavori delle varie commissioni hanno scelto all’unanimità solo dieci temi per il concilio (dei sei originari solo tre figuravano nell’elenco!), mentre una trentina di temi, scelti non all’unanimità, furono riservati allo “studio particolare nelle singole Chiese” sotto forma di “problematiche della Chiesa ortodossa” (un concetto del tutto estraneo all’Ortodossia). In futuro questi temi potrebbero diventare oggetto di “esami ortodossi” e magari essere inseriti nel catalogo. Come già affermato, questo convegno ha modificato il processo e la metodologia di elaborazione dei temi e dei lavori preparatori del concilio che, ripeto, secondo gli organizzatori sia di Costantinopoli che di altri luoghi, dovrebbero svolgersi “al più presto possibile”. Da tutto ciò risulta chiaro ad ogni cristiano ortodosso che il Primo Convegno preconciliare non ha proposto nulla di sostanzialmente nuovo, ma continua piuttosto a condurre gli animi ortodossi e le coscienze di molti in labirinti sempre nuovi costituiti da ambizioni personali. Questo è il motivo per cui, a quanto pare, il Concilio ecumenico è in preparazione dal 1923, e il motivo per cui al momento si desidera realizzarlo in fretta.

3. Tutte le “problematiche” contemporanee riguardanti i temi del futuro concilio, l’incertezza e la mutevolezza della loro invenzione, la loro determinazione, la loro “catalogazione” artificiale, così come tutti i nuovi cambiamenti e “revisioni”, dimostrano ad ogni vera coscienza ortodossa una sola cosa: che al momento non ci sono problemi seri o urgenti che giustifichino la convocazione e la celebrazione di un nuovo concilio ecumenico della Chiesa ortodossa. E se tuttavia esistesse un tema degno di essere oggetto della convocazione e della celebrazione di un concilio ecumenico, non è noto ai presenti promotori, organizzatori e redattori di tutti i suddetti “Convegni” con i loro precedenti e attuali “cataloghi”. Se così non fosse, come spiegare allora che, a partire dall’incontro di Costantinopoli del 1923, passando per Rodi nel 1961 e fino a Ginevra nel 1976, le “tematiche” e le “problematiche” del futuro concilio siano state costantemente cambiate? Le modifiche riguardano il numero, l’ordine, i contenuti e gli stessi criteri impiegati per il Catalogo dei Temi che dovrà costituire l’opera di questo grande e unico corpo ecclesiastico che è il Santo Concilio Ecumenico della Chiesa Ortodossa, come è stato e come deve essere. In realtà, tutto ciò manifesta e sottolinea non solo la consueta incoerenza, ma anche un’evidente incapacità di comprendere la natura dell’Ortodossia da parte di coloro che attualmente, nell’attuale situazione, e in tal modo imporrebbe il loro “Concilio” alle Chiese ortodosse – un’ignoranza e un’incapacità di sentire o comprendere ciò che un vero concilio ecumenico ha significato e significa sempre per la Chiesa ortodossa e per il pleroma dei suoi fedeli che portano il nome di CristoPerché se percepissero e si rendessero conto di questo, saprebbero innanzitutto che mai nella storia e nella vita della Chiesa ortodossa un singolo concilio, per non parlare di un evento così eccezionale e pieno di grazia (come la stessa Pentecoste) come un concilio ecumenico, ha cercato e inventato argomenti in questo modo artificiale per i suoi lavori e le sue sessioni; – mai sono state convocate conferenze, congressi, pro-sinodi e altre riunioni artificiali, sconosciute alla tradizione conciliare ortodossa, e in realtà prese in prestito da organizzazioni occidentali estranee alla Chiesa di Cristo.

La realtà storica è perfettamente chiara: i santi Concili dei Santi Padri, convocati da Dio, sempre, sempre avevano davanti a sé una, o al massimo due o tre questioni poste dall’estrema gravità delle grandi eresie e scismi che snaturavano la fede ortodossa. La fede ha lacerato la Chiesa e ha messo seriamente in pericolo la salvezza delle anime umane, la salvezza del popolo di Dio ortodosso e dell’intera creazione di Dio. Pertanto, i concili ecumenici hanno sempre avuto un carattere cristologico, soteriologico, ecclesiologico, il che significa che il loro unico e centrale tema – la loro Buona Novella – è sempre stato il Dio-Uomo Gesù Cristo e la nostra salvezza in Lui, la nostra divinizzazione in Lui. Sì, Lui, il Figlio di Dio, unigenito e consustanziale, incarnato; Lui – l’eterno Capo del Corpo della Chiesa per la salvezza e la divinizzazione dell’uomo; Lui – interamente nella Chiesa per la grazia dello Spirito Santo, per la vera fede in Lui, per la fede ortodossa.

Questo è il tema veramente ortodosso, apostolico e patristico, il tema immortale della Chiesa del Dio-Uomo, per tutti i tempi, passati, presenti e futuri. Soltanto questo potrà essere l’oggetto di un eventuale futuro concilio ecumenico della Chiesa ortodossa, e non un qualche catalogo scolastico-protestante di argomenti che non hanno alcuna relazione essenziale con la vita spirituale e l’esperienza dell’Ortodossia apostolica nel corso dei secoli, poiché non è altro che un serie di teoremi anemici e umanistici. L’eterna cattolicità della Chiesa ortodossa e di tutti i suoi concili ecumenici consiste nella Persona onnicomprensiva dell’Uomo-Dio, il Signore Cristo. Questa è la realtà centrale e universale, il tema dei Concili ortodossi, questo è il mistero e la realtà unici del Dio-Uomo, sul quale si edifica e si sostiene la Chiesa Ortodossa di Cristo con tutti i concili ecumenici e tutta la sua realtà storica. Su questo fondamento dobbiamo costruire, anche oggi, davanti al cielo e alla terra, e non sui temi scolastico-protestanti e umanistici utilizzati dai delegati o delegazioni ecclesiastiche di Costantinopoli o di Mosca, che in questo momento storico amaro e critico si presentano come “leader e rappresentanti” della Chiesa ortodossa nel mondo.

4. Dagli atti dell’ultima Conferenza preconciliare di Ginevra, come in situazioni simili precedenti, risulta chiaro che le delegazioni ecclesiastiche di Costantinopoli e di Mosca differiscono poco tra loro rispetto ai problemi e ai temi posti come oggetto del lavorare per il futuro consiglio. Hanno gli stessi argomenti, quasi lo stesso linguaggio, la stessa mentalità, simili ambizioni. Ciò, tuttavia, non è una sorpresa. Chi rappresentano infatti in questo momento, quale Chiesa e quale popolo di Dio? La gerarchia costantinopolitana in quasi tutti i raduni pan-ortodossi è composta principalmente da metropoliti e vescovi titolari, da pastori senza greggi e senza responsabilità pastorale concreta davanti a Dio e al proprio gregge vivente. Chi rappresentano e chi rappresenteranno al futuro consiglio? Tra i rappresentanti ufficiali del Patriarcato ecumenico non ci sono vescovi delle isole greche dove si trovano veri greggi ortodossi; non ci sono vescovi diocesani greci provenienti dall’Europa o dall’America, per non parlare di altri vescovi – russi, americani, giapponesi, africani, che hanno grandi greggi ortodossi ed eccellenti teologi ortodossi. D’altra parte, l’attuale delegazione del Patriarcato di Mosca rappresenta davvero la santa e martire grande Chiesa russa e i milioni dei suoi martiri e confessori conosciuti solo da Dio? A giudicare da ciò che queste delegazioni dichiarano e difendono, ovunque si rechino fuori dall’Unione Sovietica, non rappresentano né esprimono il vero spirito e l’atteggiamento della Chiesa ortodossa russa e del suo fedele gregge ortodosso, poiché il più delle volte queste delegazioni mettono le cose di Cesare prima delle cose di Dio. Il comandamento scritturale, tuttavia, è diverso: “Sottomettetevi piuttosto a Dio che agli uomini” (Atti 5:29).

Inoltre, è corretto, è ortodosso avere tali rappresentanze delle Chiese ortodosse nei vari incontri panortodossi a Rodi o a Ginevra? I rappresentanti di Costantinopoli che hanno avviato questo sistema di rappresentanza delle Chiese ortodosse nei concili e coloro che accettano questo principio che, secondo la loro teoria, è in accordo con il “sistema delle Chiese locali autocefale e autonome” – hanno dimenticato che tale principio contraddice la tradizione conciliare dell’Ortodossia. Purtroppo questo principio di rappresentanza è stato accettato rapidamente e da tutti gli altri ortodossi: a volte silenziosamente, a volte con proteste votate, ma dimenticando che la Chiesa ortodossa, per sua natura e per la sua costituzione dogmaticamente immutabile, è episcopale e centrata nei vescovi. Perché il vescovo e i fedeli raccolti attorno a lui sono espressione e manifestazione della Chiesa come Corpo di Cristo, soprattutto nella santa Liturgia: la Chiesa è apostolica e cattolica solo in virtù dei suoi vescovi, in quanto sono capi di veri unità ecclesiastiche, le diocesi. Allo stesso tempo, le altre forme storicamente successive e variabili di organizzazione ecclesiastica della Chiesa ortodossa: metropoli, arcidiocesi, patriarcati, pentarchie, autocefalie, autonomie, ecc., per quante possano essere o saranno, possono avere o fare, non hanno un significato determinante e decisivo nel sistema conciliare della Chiesa ortodossa. Inoltre, essi possono costituire un ostacolo al corretto funzionamento del principio conciliare se ostacolano e rifiutano il carattere e la struttura episcopale della Chiesa e delle Chiese. Qui, senza dubbio, si trova la differenza principale tra l’ecclesiologia ortodossa e quella papale.

Se è così, come possono essere rappresentate secondo il principio della delega, cioè con lo stesso numero di delegati, ad esempio, la Chiesa ceca e quella rumena? O, ancor più, i Patriarcati di Russia e di Costantinopoli? Quali gruppi di fedeli rappresentano i primi vescovi e quali i secondi? Negli ultimi tempi il Patriarcato di Costantinopoli ha prodotto una moltitudine di vescovi e metropoliti, quasi tutti titolari e fittizi. È possibile che si tratti di una misura preparatoria per garantire al futuro “Concilio ecumenico”, con la sua moltitudine di titoli, la maggioranza dei voti per le ambizioni neo-papali del Patriarcato di Costantinopoli? D’altro canto, le Chiese apostolicamente zelanti nel lavoro missionario, come la Metropolia americana, la Chiesa russa all’estero, la Chiesa giapponese e altri non possono avere un solo rappresentante!

Dov’è in tutto ciò il principio cattolico dell’Ortodossia? Che tipo di concilio ecumenico sarà questo della Chiesa Ortodossa di Cristo? Già alla Conferenza di Ginevra, Ignatios, metropolita di Laodicea e rappresentante del Patriarcato di Antiochia, aveva affermato con tristezza: “Percepisco un disagio, perché si danneggia l’esperienza conciliare che è il fondamento della Chiesa ortodossa”.

5. Tuttavia, Costantinopoli e alcuni altri non vedono l’ora di convocare il “concilio”. È innanzitutto in accordo con i loro desideri e con le loro insistenza che la Prima Conferenza preconciliare di Ginevra ha deciso che “il Concilio debba essere convocato al più presto possibile”, che questo Concilio debba essere “di breve durata” e che debba “prendere in considerazione un piccolo numero di argomenti.” E vengono citati i dieci temi scelti. I primi quattro temi sono: la diaspora; la questione dell’autocefalia ecclesiastica e le condizioni per la sua proclamazione; l’autonomia e la sua proclamazione; i dittici, cioè l’ordine di precedenza tra le Chiese ortodosse.

L’obiettività evangelica obbliga a notare che la condotta del presidente della Conferenza preconciliare, il metropolita Meliton, è stata dispotica e inadatta a un concilio. Ciò emerge chiaramente da ogni pagina degli atti pubblicati del convegno. Lì si afferma chiaramente e in maniera trasparente che “questo Santo e Grande Concilio della Chiesa Ortodossa che si sta preparando non deve essere considerato come unico, escludendo l’ulteriore convocazione di altri Santi e Grandi Concili” (“Atti”, pp. 18, 20, 50, 55, 60).

Di fronte a tutto ciò, una coscienza evangelicamente sensibile non può fare a meno di porsi la domanda scottante: qual è il vero fine di un concilio convocato così frettolosamente e in modo così prepotente?

Reverendissimi Vescovi, non riesco a liberarmi dall’impressione e dalla convinzione che tutto ciò indichi il segreto desiderio di alcune note personalità del Patriarcato di Costantinopoli: che il primo in onore dei Patriarcati ortodossi imponga le sue idee e procedure a tutte le Chiese ortodosse autocefale , e in generale sul mondo ortodosso e sulla diaspora ortodossa, e sancire tale intenzione neopapista mediante un “concilio ecumenico”. Per questo motivo, tra i dieci temi selezionati per il concilio sono stati inseriti, anzi sono i primi, proprio quei temi che rivelano l’intenzione di Costantinopoli di sottomettere a sé l’intera diaspora ortodossa – e cioè il mondo intero! e di garantirsi il diritto esclusivo di concedere l’autocefalia e l’autonomia in generale a tutte le Chiese ortodosse del mondo, presenti e future, e allo stesso tempo di determinarne l’ordine e il rango a propria discrezione (questo è esattamente ciò che implica la questione dei dittici, perché non riguardano solo l'”ordine di commemorazione liturgica”, ma anche l’ordine di precedenza nei concili, ecc.)

Mi inchino con riverenza davanti alle conquiste secolari della Grande Chiesa di Costantinopoli, e davanti alla sua croce attuale, che non è né piccola né facile, che, secondo la natura delle cose, è la croce di tutta la Chiesa – poiché, come dice L’Apostolo: “Quando un membro soffre, tutto il corpo soffre”. Riconosco inoltre il rango canonico e il primo posto in onore di Costantinopoli tra le Chiese ortodosse locali, che sono uguali in onore e diritti. Ma non sarebbe conforme al Vangelo se a Costantinopoli, a causa delle difficoltà in cui si trova ora, si permettesse di portare l’intera ortodossia sull’orlo del baratro, come avvenne nello pseudoconcilio di Firenze, oppure canonizzare e dogmatizzare particolari forme storiche che, in un dato momento, possano trasformarsi da ali in pesanti catene, legando la Chiesa e la sua presenza trasfigurante nel mondo. Siamo franchi: la condotta dei rappresentanti di Costantinopoli negli ultimi decenni è stata caratterizzata dalla stessa malsana inquietudine, dalla stessa condizione spiritualmente malata che portò la Chiesa al tradimento e alla disgrazia di Firenze nel XV secolo. (Né la condotta della stessa Chiesa sotto il giogo turco è stata un esempio di tutti i tempi. Sia il giogo fiorentino che quello turco erano pericolosi per l’Ortodossia.) Con la differenza che oggi la situazione è ancora più inquietante: un tempo Costantinopoli era un organismo vivo con milioni di fedeli: seppe superare senza indugio la crisi provocata dai corsi esterni come anche la tentazione di sacrificare la fede e il Regno di Dio per i beni di questo mondo. Oggi, però, ha solo metropoliti senza fedeli, vescovi che non hanno nessuno da guidare (cioè senza diocesi), che tuttavia desiderano controllare i destini dell’intera Chiesa. Oggi non deve, non può esserci una nuova Firenze! Né la situazione attuale può essere paragonata alle difficoltà del giogo turco. Lo stesso ragionamento vale per il Patriarcato di Mosca. Si permetterà che le sue difficoltà o quelle di altre Chiese locali sotto il comunismo ateo determinino il futuro dell’Ortodossia? 

Le sorti della Chiesa non sono né possono più essere nelle mani dell’imperatore bizantino o di qualunque altro sovrano. Non è il controllo di un patriarca o di alcuno dei potenti di questo mondo, nemmeno in quello della “Pentarchia” o delle “autocefalie” (intese in senso stretto). Per la potenza di Dio la Chiesa è cresciuta fino a diventare una moltitudine di Chiese locali con milioni di fedeli, molti dei quali ai nostri giorni hanno suggellato con il loro sangue la loro successione apostolica e la fedeltà all’Agnello. E nuove Chiese locali sembrano sorgere all’orizzonte, come quella giapponese, quella africana e quella americana, e la loro libertà nel Signore non deve essere tolta da nessuna “super-Chiesa” di tipo papale (cfr Canone 8, III Concilio Ecumenico), poiché ciò significherebbe un attacco all’essenza stessa della Chiesa. Senza il loro concorso è inconcepibile la soluzione di qualsiasi questione ecclesiastica di rilevanza ecumenica, per non parlare della soluzione delle questioni che li riguardano immediatamente, cioè il problema della diaspora. La secolare lotta dell’Ortodossia contro l’assolutismo romano è stata una lotta proprio per la libertà della Chiesa locale in quanto cattolica e conciliare, completa e integra in se stessa. Dobbiamo oggi percorrere la strada della prima e caduta Roma, o di qualche “seconda” o “terza” simile ad essa? Dobbiamo credere che Costantinopoli, che nelle persone dei suoi santi e grandi gerarchi, del suo clero e del suo popolo, si è opposta così coraggiosamente nei secoli passati al protezionismo e all’assolutismo romano, si stia oggi preparando a ignorare le tradizioni conciliari dell’Ortodossia e a scambiarle con il surrogato neopapale di una “seconda”, “terza” o altra sorta di Roma?

6. Venerabilissimi Padri! Tutti gli ortodossi vedono e si rendono conto di quanto sia importante, quanto sia significativa oggi la questione della diaspora ortodossa sia per la Chiesa ortodossa in generale che per tutte le Chiese ortodosse individualmente. Si può risolvere questa questione, come vogliono Costantinopoli o Mosca, senza fare riferimento, senza la partecipazione dei fedeli ortodossi, pastori e teologi della stessa diaspora, che ogni giorno aumenta? Il problema della diaspora, senza dubbio, è una questione ecclesiale di eccezionale importanza; è una questione che è emersa per la prima volta nella storia con tanta forza e significato. Per la sua soluzione ci sarebbe davvero motivo di convocare un concilio veramente ecumenico a cui partecipino veramente tutti i vescovi ortodossi di tutte le Chiese ortodosse. Un’altra questione che, a nostro avviso, potrebbe e dovrebbe essere esaminata in un autentico concilio ecumenico della Chiesa ortodossa è quella dell’ecumenismo. Si tratta, propriamente, di una questione ecclesiologica che riguarda la Chiesa come unità e organismo teandrico, unità e organismo che sono messi in dubbio dal sincretismo ecumenico contemporaneo. È anche legata alla questione dell’uomo, per il quale il nichilismo delle ideologie contemporanee, soprattutto atee, ha scavato una fossa senza speranza di resurrezione. Entrambe le questioni possono essere risolte correttamente e in modo ortodosso solo procedendo dai fondamenti teandrici degli antichi e veri concili ecumenici. Per il momento, tuttavia, lascio da parte questi problemi per non appesantire questo appello con nuove discussioni e per non ampliarlo eccessivamente.

La questione della diaspora è, quindi, allo stesso tempo grave ed estremamente importante nell’Ortodossia contemporanea. Tuttavia, esistono attualmente le condizioni che garantirebbero che la sua soluzione in concilio sia corretta, ortodossa e secondo l’insegnamento dei Santi Padri? È possibile, infatti, che ci sia una rappresentanza libera e reale di tutte le Chiese ortodosse in un concilio ecumenico senza che influenze esterne le disturbino? I rappresentanti di molti, soprattutto delle Chiese sotto regimi militanti atei, sono davvero in grado di esprimere e difendere i principi ortodossi? Può una Chiesa che rinnega i propri martiri essere un autentico confessore della Croce del Golgota, ovvero portatrice dello spirito e della coscienza conciliare della Chiesa di Cristo? Prima che si tenga un concilio, chiediamoci se sarà possibile che in essa parli la coscienza di milioni di nuovi martiri, resi bianchi dal sangue dell’Agnello. L’esperienza della storia insegna che ogni volta che la Chiesa viene crocifissa, ciascuno dei suoi membri è chiamato a soffrire per la sua Verità, e a non dibattere problemi artificiali o cercare false risposte a domande vere – “pescando in acque torbide” per soddisfare le ambizioni personali. Non ricordiamo che finché le persecuzioni della Chiesa durarono, non furono convocati concili ecumenici – il che non significa che la Chiesa di Dio in quei tempi non vivesse o non funzionasse in modo conciliare. Al contrario, l’epoca delle persecuzioni fu il suo periodo più ricco di frutti. E quando in seguito si riunì il Primo Concilio Ecumenico, si riunirono anche i confessori con le loro ferite e cicatrici, i vescovi provati dal fuoco della sofferenza, che allora potevano testimoniare liberamente di Cristo come Dio e Signore. Il loro spirito sarà presente anche in questo momento? In altre parole, i vescovi del nostro tempo che sono simili ai martiri saranno presenti al concilio che si sta preparando, in modo che questo concilio possa pensare secondo lo Spirito Santo e parlare e decidere secondo Dio, e che in esso non siano ascoltati soprattutto coloro che non sono liberi dall’influenza delle potenze di questo mondo? Consideriamo, ad esempio, il gruppo di vescovi della Chiesa russa fuori dalla Russia che, con tutta la loro debolezza umana, portano su di sé i vincoli del Signore e della Chiesa russa che è fuggita nel deserto dalle persecuzioni non inferiori a quelle di Diocleziano: questi vescovi sono stati esclusi in anticipo da Mosca e Costantinopoli dalla partecipazione al concilio, e in questo modo condannati al silenzio. Pensiamo a quei vescovi della Russia e di altri Paesi apertamente atei che non potranno partecipare liberamente al concilio, né parlare e prendere decisioni liberamente; ad alcuni di loro non sarà nemmeno permesso di partecipare al concilio. Per non parlare dell’impossibilità per loro o per le loro Chiese di prepararsi in modo degno per un’occasione così grande e significativa. Non è questa una prova più che sufficiente del fatto che al concilio la coscienza della Chiesa martire e la coscienza del pleroma ecclesiastico saranno entrambe silenziose, che ai loro rappresentanti non sarà permesso nemmeno di entrare – come è successo con uno dei più illustri testimoni della Chiesa perseguitata all’assemblea di Nairobi (mi riferisco in particolare a Solzhenitsyn)?

Possiamo lasciare da parte la questione di quanto possa essere morale o addirittura normale che in un momento in cui il Signore Gesù Cristo e la fede in Lui sono crocifissi in modo più terribile che mai, i Suoi seguaci debbano decidere chi sarà il primo tra loro. In un tempo in cui Satana cerca non solo il corpo ma l’anima stessa dell’uomo e del mondo, quando l’umanità è minacciata di autodistruzione, è morale e normale che i discepoli di Cristo si occupino delle stesse domande (e allo stesso modo) delle ideologie anticristiane contemporanee – ideologie che vendono il Pane della Vita per un piatto di lenticchie?

Tenendo presente tutto ciò e dolorosamente consapevole della situazione della Chiesa ortodossa contemporanea e del mondo in generale – che non è sostanzialmente cambiata dal mio ultimo appello al Santo Consiglio dei Vescovi (maggio 1971) la mia coscienza mi obbliga ancora una volta a rivolgermi con insistenza e supplica al Santo Sinodo episcopale della Chiesa serba martirizzata: la nostra Chiesa serba si astenga dal partecipare ai preparativi del “concilio ecumenico”, anzi dal partecipare al concilio stesso. Perché se questo concilio, Dio non voglia, dovesse effettivamente realizzarsi, ci si può aspettare solo un tipo di risultato: scismi, eresie e la perdita di molte anime. Considerando la questione dal punto di vista dell’esperienza apostolica, patristica e storica della Chiesa, un tale concilio, invece di guarire, non farà altro che aprire nuove ferite nel corpo della Chiesa e infliggerle nuovi problemi e nuove disgrazie.

Mi raccomando alla preghiera santa e apostolica dei Padri del Santo Sinodo dei Vescovi della Chiesa Ortodossa Serba.

L’indegno archimandrita Justin
(padre spirituale del monastero di Chelie)

Vigilia della festa di San Giorgio, 1977 Monastero di Chelie, Valjevo (Jugoslavia)

ENGLISH VERSION

On a Summoning of the Great Council of the Orthodox Church

Archimandrite Justin Popovich

The following letter was addressed by Archimandrite Dr. Justin Popovic of blessed memory, spiritual father of the monastery of Celie Valjevo (Yugoslavia), to Bishop Jovan of Sabac and the Serbian hierarchy on May 7, 1977, with the request to transmit this letter to the Holy Synod and the Council of Bishops of the Serbian Orthodox Church. Its relevance has not diminished with the passing years… and perhaps has increased in the light of the recent scandalous and unOrthodox events on Mount Athos.

Not long ago in Chambesy, near Geneva, the “First Pre-Conciliar Conference” took place (November 21-28, 1976). After reading and studying the acts and resolutions of this conference, published by the “Secretariat for the Preparation of the Holy and Great Council of the Orthodox Church” in Geneva, I feel in my conscience the urgent, evangelical necessity, as a member of the Holy and Catholic Orthodox Church, even though its humblest servant, to turn to Your Grace and, through you, to the Holy Council of Bishops of the Serbian Church, with this exposition that must express my grievous considerations for the future council. I beg Your Grace and the Most Reverend Bishops to hear me with evangelical zeal and to listen to this cry of an Orthodox conscience, which, thanks be to God, is neither alone nor isolated in the Orthodox world whenever there is mention of that council.

1. From the minutes and resolutions of the “First Pre-Conciliar Conference,” which, for some unknown reason, was held in Geneva, where it is difficult to find even a few hundred Orthodox faithful, it is clear that this conference prepared and ordained a new catalogue of topics for the future “Great Council” of the Orthodox Church. This was not one of those “Pan-Orthodox Conferences,” such as were held on Rhodes and subsequently elsewhere; nor was it the “Pro-Synod,” which has been at work until now; this was the “First Pre-Conciliar Conference,” initiating the direct preparation for the celebration of an ecumenical council. Moreover, this conference did not begin its work on the foundation of the “Catalogue of Topics,” established at the first Pan-Orthodox Conference in 1961 on Rhodes and unelaborated up until 1971, instead it compiled a revision of this catalogue and set forth its own new “Catalogue of Topics” for the council. Apparently, however, not even this catalogue is definitive, for it will very likely again be altered and supplemented. Lately, the Conference has also reconsidered the methodology formerly adopted in the planning and final preparation of topics for the council. It abbreviated this entire process in view of its haste and urgency to summon the council as soon as possible. For, according to the explicit declaration of Metropolitan Meliton, presiding chairman of the Conference, the Patriarchate of Constantinople and certain others “are hastening to summon” and celebrate the future council: the council must be “of short duration” and occupy itself with “a limited number of topics”; moreover, in the words of Metropolitan Meliton, “The Council must delve into the burning questions that obstruct the normal functioning of the system linking up the local Churches, into the one, single Orthodox Church…” (“Acts,” p.55) All of this obliges us to ask: what does it mean? Why all this haste in the preparation? Where is all of this going to lead us?

2. The questions of the preparation and celebration of a new ecumenical council of the Orthodox Church is neither new nor recent in this century of the history of the Church. The matter was already proposed during the lifetime of that hapless Patriarch of Constantinople, Meletios Metaxakis – the celebrated and presumptuous modernist, reformer, and author of schisms within Orthodoxy – at his Pan-Orthodox Congress held in Constantinople in 1923. (At this time it was recommended that the council be held in the city of Nis in 1925, but since Nis was not in the territory of the Ecumenical Patriarchate, the council was not convened, probably for that very reason. In general, as it appears, Constantinople has assumed the monopoly of “Pan-Orthodoxy,” of all the “Congresses,” “Conferences,” “Pro-Synods” and “Councils.”) Later on, in 1930, at the monastery of Vatopedi, the Preparatory Commission of the Orthodox Churches took place. It defined the Catalogue of Topics for the Future Orthodox Pro-Synod, which should have been the prelude to the ecumenical council.

After the Second World War came the turn of Patriarch Athenagoras of Constantinople with his Pan-Orthodox Conferences on Rhodes (again, exclusively in the territory of the Patriarchate of Constantinople). The first of them, in 1961, called for the preparation of a Pan-Orthodox Council on condition that a pro-synod be summoned, and it confirmed a catalogue of topics which had already been prepared by the Patriarchate of Constantinople: eight full chapters with nearly forty primary topics and twice again as many paragraphs and subparagraphs.

After the Rhodes Conferences II and III (1963 and 1964), in 1966 the Belgrade Conference was held. At first this was called the Fourth Pan-Orthodox Conference (Glasnik of the Serbian Orthodox Church, No. 10, 1966 and documents in Greek published under this title), but later it was reduced by the Patriarchate of Constantinople to the grade of an Inter-Orthodox Commission, so that the succeeding conference, held in Constantinopolitan “territory” (the Orthodox Centre of the Ecumenical Patriarchate at Chambesy-Geneva) in 1968, might be acclaimed the Fourth Pan-Orthodox Conference in its place. At this conference, apparently, its impatient organizers hastened to shorten the path to the council, for from the enormous catalogue of Rhodes (their own work, however, and nobody else’s) they took only the first six topics and defined a new procedure of work. At the same time there was established a new institution: the Inter-Orthodox Preparatory Commission, indispensable for the coordination of work on the topics. Moreover, the Secretariat for the Preparation of the Council was also established; in fact, this meant a bishop of Constantinople who was assigned the task, with his seat at the above-named Geneva – at the same time proposals for including other Orthodox members in the Secretariat were rejected. This preparatory commission and the Secretariat, by wish of Constantinople held a meeting at Chambesy in June, 1971. At this meeting they examined and unanimously approved abstracts of the selected six topics, which subsequently were published in several languages and submitted, like all the previous work in preparation for the council, to the merciless criticism of Orthodox theologians. The criticisms of the Orthodox theologians (among them my Memorandum sent at that time through Your Grace and, with Your Grace’s approval, to the Holy Council of Bishops, and subsequently approved by many Orthodox theologians and published in various languages in the Orthodox world) apparently explain why the decision of the Preparatory Commission of Geneva to convene in 1972 the First Pre-Conciliar Conference for the revision of the catalogue of Rhodes, was in fact not observed that year, and the conference took place only with great delay.

This First Pre-Conciliar Conference was held only in November of 1976, again, of course, on Constantinopolitan “territory” at the above-named centre in Chambesy, near Geneva. As is clear from the acts and resolutions, only now just published, and which I have carefully studied, this conference re-examined the catalogue of Rhodes to such an extent that the delegations participating in the work of the various committees unanimously chose only ten topics for the council (only three of the original six were included in the list!), while about thirty topics, not unanimously chosen, were set aside for “particular study in the individual Churches” in the form of “problematics of the Orthodox Church” (a concept entirely alien to Orthodoxy). In the future these topics could become the subject of “Orthodox examinations” and perhaps be included in the catalogue. As already stated, this conference altered the process and methodology of elaborating the topics and the preparatory work of the council which, I repeat, according to the organizers from both Constantinople and other places, should take place “as soon as possible.” From all this, it is clear to every Orthodox Christian that the First Pre-Conciliar Conference has not come up with anything substantially new, but continues rather to lead Orthodox souls as well as the consciences of many into ever new labyrinths constituted by personal ambitions. This is the reason why, it would seem, the ecumenical council has been in preparation since 1923, and why at the present time it is desired to bring it to a hasty realization.

3. All the contemporary “problematics” concerning the topics of the future council, the uncertainty and mutability of their invention, their determination, their artificial “cataloguing,” as well as all the new changes and “revisions”, demonstrate to every true Orthodox conscience one thing only: that at the present time there are no serious or pressing problems that would justify the convening and celebration of a new ecumenical council of the Orthodox Church. And if, nevertheless, a topic should exist, worthy of being the object of the convocation and celebration of an ecumenical council, it is unknown to the present initiators, organizers and editors of all the above-mentioned “Conferences” with their previous and present “catalogues.” If this were not the case, then how is it to be explained that, beginning with the meeting in Constantinople in 1923, continuing through Rhodes in 1961 and up to Geneva in 1976, the “thematics” and “problematics” of the future council have been constantly changed? The alterations extend to the number, order, contents and the very criteria employed for the Catalogue of Topics that is to constitute the work of this great and unique ecclesiastical body – the Holy Ecumenical Council of the Orthodox Church, as it has been and as it must be. In reality, all of this manifests and underscores not only the usual lack of consistency, but also an obvious incapacity and failure to understand the nature of Orthodoxy on the part of those who at the present time, in the current situation, and in such a manner would impose their “Council” on the Orthodox Churches – an ignorance and inability to feel or to comprehend what a true ecumenical council has meant and always means for the Orthodox Church and for the pleroma of its faithful who bear the name of Christ. For if they sensed and realized this, they would first of all know that never in the history and life of the Orthodox Church has a single council, not to mention such an exceptional, grace-filled event (like Pentecost itself) as an ecumenical council, sought and invented topics in this artificial way for its work and sessions; – never have there been summoned such conferences, congresses, pro-synods, and other artificial gatherings, unknown to the Orthodox conciliar tradition, and in reality borrowed from Western organisations alien to the Church of Christ.

Historical reality is perfectly clear: the holy Councils of the Holy Fathers, summoned by God, always, always had before them one, or at the most two or three questions set before them by the extreme gravity of great heresies and schisms that distorted the Orthodox Faith, tore asunder the Church and seriously placed in danger the salvation of human souls, the salvation of the Orthodox people of God, and of the entire creation of God. Therefore, the ecumenical councils always had a Christological, soteriological, ecclesiological character, which means that their sole and central topic – their Good News – was always the God-Man Jesus Christ and our salvation in Him, our deification in Him. Yes, He – the Son of God, only-begotten and consubstantial, incarnate; He – the eternal Head of the Body of the Church for the salvation and deification of man; He – wholly in the Church by the grace of the Holy Spirit, by true faith in Him, by the Orthodox Faith.

This is the truly Orthodox, apostolic and patristic theme, the immortal theme of the Church of the God-Man, for all times, past, present and future. This alone can be the subject of any future possible ecumenical council of the Orthodox Church, and not some scholastic-protestant catalogue of topics having no essential relation to the spiritual life and experience of apostolic Orthodoxy down the ages, since it is nothing more than a series of anemic, humanistic theorems. The eternal catholicity of the Orthodox Church and of all her ecumenical councils consists in the all-embracing Person of the God-Man, the Lord Christ. This is the central and universal reality, the theme of Orthodox Councils, this is the unique mystery and reality of the God-Man, upon which the Orthodox Church of Christ is built and sustained with all ecumenical councils and all her historical reality. Upon this foundation we are to build, even today, in the sight of heaven and earth, and not upon the scholastic-protestant and humanistic topics employed by the ecclesiastical delegates or delegations of Constantinople or Moscow, who at this bitter and critical moment of history present themselves as the “leaders and representatives” of the Orthodox Church in the world.

4. From the acts of the last Pre-Conciliar Conference in Geneva, as in similar situations previously, it is clear that the ecclesiastical delegations of Constantinople and Moscow differ little from one another with respect to the problems and themes set forth as the subject of work for the future council. They have the same topics, almost the same language, the same mentality, similar ambitions. This, however, is no surprise. Whom do they in fact represent at the present moment, what Church and what people of God? The Constantinopolitan hierarchy at almost all the pan-Orthodox gatherings consists primarily of titular metropolitans and bishops, of pastors without flocks and without concrete pastoral responsibility before God and their own living flock. Whom do they represent and whom will they represent at the future council? Among the official representatives of the Ecumenical Patriarchate there are no hierarchs from the Greek islands where real Orthodox flocks are to be found; there are no Greek diocesan bishops from Europe or America, not to mention other bishops – Russian, American, Japanese, African, who have large Orthodox flocks and excellent Orthodox theologians. On the other hand, does the present delegation of the Moscow Patriarchate in fact represent the holy and martyred great Church of Russia and the millions of her martyrs and confessors known only to God? Judging from what these delegations declare and defend, wherever they travel outside the Soviet Union, they neither represent nor express the true spirit and attitude of the Russian Orthodox Church and its faithful Orthodox flock, for more often than not these delegations put the things of Caesar before the things of God. The scriptural commandment, however, is otherwise: “Submit yourselves rather to God than to men” (Acts 5:29).

Moreover, is it correct, is it Orthodox to have such representations of the Orthodox Churches at various pan Orthodox gatherings on Rhodes or in Geneva? The representatives of Constantinople who began this system of representation of Orthodox Churches at the councils and those who accept this principle which, according to their theory, is in accord with the “system of autocephalous and autonomous” local Churches – they have forgotten that such a principle in fact contradicts the conciliar tradition of Orthodoxy. Unfortunately this principle of representation was accepted quickly and by all the other Orthodox: sometimes silently, sometimes with voted protests, but forgetting that the Orthodox Church, in its nature and its dogmatically unchanging constitution is episcopal and centred in the bishops. For the bishop and the faithful gathered around him are the expression and manifestation of the Church as the Body of Christ, especially in the Holy Liturgy: the Church is Apostolic and Catholic only by virtue of its bishops, insofar as they are the heads of true ecclesiastical units, the dioceses. At the same time, the other, historically later and variable forms of church organisation of the Orthodox Church: the metropolias, archdioceses, patriarchates, pentarchias, autocephalies, autonomies, etc., however many there may be or shall be, cannot have and do not have a determining and decisive significance in the conciliar system of the Orthodox Church. Furthermore, they may constitute an obstacle in the correct functioning of the conciliar principle if they obstruct and reject the episcopal character and structure of the Church and of the Churches. Here, undoubtedly, is to be found the primary difference between Orthodox and papal ecclesiology.

If this is so, then how can there be represented according to the delegation principle, that is by the same number of delegates, for example, the Czech and Romanian Churches? Or to an even greater extent, the Patriarchates of Russia and Constantinople? What groups of faithful do the first bishops represent and what the second? Recently the Patriarchate of Constantinople has produced a multitude of bishops and metropolitans, almost all of them titular and fictitious. Is it possible that this is a preparatory measure to guarantee at the future “Ecumenical Council” by their multitude of titles the majority of votes for the neo-papal ambitions of the Patriarchate of Constantinople? On the other hand, the Churches apostolically zealous in missionary work, such as the American Metropolia, the Russian Church Abroad, the Japanese Church and others are not allowed a single representative!

Where in all this is the Catholic principle of Orthodoxy? What sort of ecumenical council of the Orthodox Church of Christ will this be? Already at the Geneva Conference, Ignatios, Metropolitan of Laodicea and representative of the Patriarchate of Antioch, sadly affirmed: “I sense uneasiness, for harm is being done the conciliar experience which is the foundation of the Orthodox Church.”

5. Nevertheless, Constantinople and some others cannot wait to summon the “council.” It is primarily in accordance with their wishes and insistence that the First Pre-Conciliar Conference in Geneva decided that “the council should be summoned as soon as possible,” that this council must be “of short duration,” and that it should “take for consideration a small number of topics.” And the ten chosen topics are cited. The first four topics are: the diaspora; the question of ecclesiastical autocephaly and the conditions for its proclamation; autonomy and its proclamation; the diptychs – that is, the order of precedence among the Orthodox Churches.

Evangelical objectivity obliges one to note that the conduct of the presiding chairman at the Pre-Conciliar Conference, Metropolitan Meliton, was despotic and unbefitting a council. This is clear from every page of the published acts of the conference. There it is clearly and plainly stated that, “This Holy and Great Council of the Orthodox Church which is being prepared must not be regarded as unique, excluding the further summoning of other Holy and Great Councils” (“Acts,” pp. 18, 20, 50, 55, 60).

In view of all this, an evangelically sensitive conscience cannot help but ask the burning question: what is the real end of a council summoned in such haste and in such a highhanded manner?

Most Reverend Bishops, I cannot free myself from the impression and conviction that all this points to the secret desire of certain known persons of the Patriarchate of Constantinople: that the first in honour of Orthodox Patriarchates force its ideas and procedures on all the Autocephalous Orthodox Churches, and in general upon the Orthodox world and the Orthodox diaspora, and sanction such a neo-papist intention by an “ecumenical council.” For this reason, among the ten topics selected for the council there have been inserted, indeed are the first, just those topics that reveal the intention of Constantinople to submit to herself the entire Orthodox diaspora – and that means the entire world! and to guarantee for herself the exclusive right to grant autocephaly and autonomy in general to all the Orthodox Churches in the world, both present and future, and at the same time to determine their order and rank at her own discretion (this is exactly what the question of the diptychs implies, for they concern not only the “order of liturgical commemoration” but the order of precedence at councils, etc.).

I bow in reverence before the age-old achievements of the Great Church of Constantinople, and before her present cross which is neither small nor easy, which, according to the nature of things, is the cross of the entire Church – for, as the Apostle says, “When one member suffers, the whole body suffers.” Moreover, I acknowledge the canonical rank and first place in honour of Constantinople among the local Orthodox Churches, which are equal in honour and rights. But it would not be in keeping with the Gospel if Constantinople, on account of the difficulties in which she now finds herself, were allowed to bring the whole of Orthodoxy to the brink of the abyss, as once occurred at the pseudo-council of Florence, or to canonize and dogmatize particular historical forms which, at a given moment, might transform themselves from wings into heavy chains, binding the Church and her transfiguring presence in the world. Let us be frank: the conduct of the representatives of Constantinople in the last decades has been characterized by the same unhealthy restlessness, by the same spiritually ill condition as that which brought the Church to the betrayal and disgrace of Florence in the 15th Century. (Nor was the conduct of the same Church under the Turkish yoke an example of all times. Both the Florentine and the Turkish yokes were dangerous for Orthodoxy.) With the difference that today the situation is even more ominous: formerly Constantinople was a living organism with millions of faithful – she was able to overcome without delay the crisis brought about by external courses as well as the temptation to sacrifice the faith and the Kingdom of God for the goods of this world. Today, however, she has only metropolitans without faithful, bishops who have no one to lead (i.e. without dioceses), who nonetheless wish to control the destinies of the entire Church. Today there must not, there cannot be a new Florence! Nor can the present situation be compared with the difficulties of the Turkish yoke. The same reasoning applies to the Moscow Patriarchate. Are its difficulties or the difficulties of other local Churches under godless communism to be allowed to determine the future of Orthodoxy?

The fate of the Church neither is nor can be any longer in the hands of the Byzantine emperor or any other sovereign. It is not the control of a patriarch or any of the mighty of this world, not even in that of the “Pentarchy” or of the “autocephalies” (understood in the narrow sense). By the power of God the Church has grown up into a multitude of local Churches with millions of faithful, many of whom in our days have sealed their apostolic succession and faithfulness to the Lamb with their blood. And new local Churches appear to be rising on the horizon, such as the Japanese, the African and the American, and their freedom in the Lord must not be removed by any “super-Church” of the papal type (cf. Canon 8, III Ecumenical Council), for this would signify an attack on the very essence of the Church. Without their concurrence the solution of any ecclesiastical question of ecumenical significance is inconceivable, not to mention the solutions to questions that immediately concern them, i.e. the problem of the diaspora. The age-old struggle of Orthodoxy against Roman absolutism was a struggle for just such freedom of the local Church as catholic and conciliar, complete and whole in itself. Are we today to travel the road of the first and fallen Rome, or of some “second” or “third” similar to it? Are we to believe that Constantinople, which in the persons of its holy and great hierarchs, its clergy and its people, so boldly opposed for centuries past the Roman protectionism and absolutism, is today preparing to ignore the conciliar traditions of Orthodoxy and to exchange them for the neo-papal surrogate of a “second,” “third” or other sort of Rome?

6. Most Venerable Fathers! All the Orthodox behold and realise how important, how significant today is the question of the Orthodox diaspora both for the Orthodox Church in general and for all the Orthodox Churches individually. Can this question be decided, as Constantinople or Moscow desires, without referring to, without the participation of the Orthodox faithful, pastors and theologians of the diaspora itself, which is increasing every day? The problem of the diaspora, without doubt, is a church question of exceptional importance; it is a question that has risen to the surface for the first time in history with such force and significance. For its solution there would be cause indeed to convoke a truly ecumenical council in which all the Orthodox bishops of all the Orthodox Churches would truly participate. Another question that, in our view, could and should be considered at an authentic ecumenical council of the Orthodox Church is the question of ecumenism. This, properly speaking, is an ecclesiological question concerning the Church as theandric unity and organism, a unity and organism that are placed in doubt by contemporary ecumenical syncretism. It is also related to the question of man, for whom the nihilism of contemporary, and especially atheistic, ideologies has dug a grave without hope of resurrection. Both questions can be resolved correctly and in an Orthodox manner only by proceeding from the theandric foundations of the ancient and true ecumenical councils. For the present, however, I leave these problems aside so as not to overburden this appeal with new discussions and expand it unduly.

The question of the diaspora is, then, both grievous and extremely important in contemporary Orthodoxy. However, do the conditions at present exist that would guarantee its solution in council as correct, Orthodox, and according to the teaching of the Holy Fathers? Is it possible, indeed, for there to be a free and real representation of all the Orthodox Churches at an ecumenical council without outside influence disturbing them? Are the representatives of many, especially of the Churches under militantly atheistic regimes, really able to express and defend Orthodox principles? Can a Church that denies her own martyrs be an authentic confessor of the Cross of Golgotha, or a bearer of the spirit and conciliar consciousness of the Church of Christ? Before a council takes place, let us ask ourselves whether it will be possible for the consciences of millions of new martyrs, made white by the blood of the Lamb, to speak out in it. The experience of history teaches that whenever the Church is crucified, each of her members is called upon to suffer for her Truth, and not to debate artificial problems or to look for false answers to real questions – “fishing in muddied waters” in order to satisfy personal ambitions. Shall we not remember that so long as the persecutions of the Church endured, no ecumenical councils were convened – which does not mean that the Church of God in those times did not live or function in a conciliar fashion. Quite the contrary, the age of the persecutions was its period of richest fruits. And when afterwards the First Ecumenical Council gathered, there gathered also the confessors with their wounds and scars, the bishops tried in the fire of suffering, who then could freely testify concerning Christ as God and Lord. Will their spirit be present also at this time? In other words, will the bishops of our own age who are similar to the martyrs be present at the council that is now preparing, so that this council might think in accordance with the Holy Spirit and speak and decide according to God, and that there not be heard in it primarily those who are not free from the influence of the powers of this world? Let us consider, for example, the group of bishops of the Russian Church Outside of Russia who, for all their human weakness, bear upon themselves the bonds of the Lord and of the Russian Church that has fled into the wilderness from the persecutions in no way inferior to those of Diocletian: these bishops have been excluded in advance by Moscow and Constantinople from participation in the council, and in this way condemned to silence. Let us think of those bishops of Russia and of other openly atheistic countries who will be unable to participate freely in the council or to speak and make decisions freely; some of them will not even be allowed to attend the council. Not to mention the impossibility of them or their Churches preparing in a worthy manner for so great and significant an occasion. Is this not more than sufficient proof that at the council the conscience of the martyred Church and the conscience of the ecclesiastical pleroma will both be silent, that their representatives will not be allowed even to enter – such as occurred with one of the most illustrious witnesses of the persecuted Church at the assembly in Nairobi (I refer specifically to Solzhenitsyn)?

We may leave aside the question of how moral or even normal it may be that at a time in which the Lord Jesus Christ and faith in Him are crucified in more terrible fashion than ever before, His followers should be deciding who will be first among them. At a time in which Satan is seeking not only the body but the very soul of man and the world, when mankind is threatened with self-destruction, is it moral and normal that the disciples of Christ should be occupied with the same questions (and in the same way) as the contemporary anti-Christian ideologies – ideologies that sell the Bread of Life for a mess of pottage?

Keeping all this in mind and painfully aware of the situation of the contemporary Orthodox Church and of the world in general – which has not substantially changed since my last appeal to the Holy Council of Bishops (May, 1971) my conscience once more obliges me to turn with insistence and beseeching to the Holy Council of Bishops of the martyred Serbian Church: let our Serbian Church abstain from participating in the preparations for the “ecumenical council,” indeed from participating in the council itself. For should this council, God forbid, actually come to pass, only one kind of result can be expected from it: schisms, heresies and the loss of many souls. Considering the question from the point of view of the apostolic and patristic and historical experience of the Church, such a council, instead of healing, will but open up new wounds in the body of the Church and inflict upon her new problems and new misfortunes.

I recommend myself to the holy and apostolic prayers of the Fathers of the Holy Council of Bishops of the Serbian Orthodox Church.

The unworthy Archimandrite Justin
(Spiritual father of the monastery of Chelie)

Eve of the Feast of St. George, 1977 Monastery of Chelie, Valjevo (Yugoslavia)




Quando l’uomo è contaminato e quando è purificato?

Il santo padre Paisios diceva: “Vedi la brocca? La parte superiore è pulita, ma verso il basso, dove tocca terra, prende qualcosa come della muffa. Così è l’uomo: finché si aggrappa alla terra e alle cose terrene, è contaminato, mentre se sale al cielo, è purificato”

È un fatto che quasi tutti i Padri della Chiesa, vecchi e giovani, si sono serviti di esempi del mondo sensibile per aiutare l’uomo a comprendere le realtà spirituali. Perché molto spesso ciò che è vero nel sensibile e nel materiale è vero in una certa misura anche nello spirituale. Il santo Porfirio, ad esempio, parlava dell’amore umano, che fa pensare e volgere l’uomo incessantemente verso l’oggetto del suo amore. Per dire che così anche l’uomo dovrebbe orientarsi verso Dio «con tutta l’anima, il cuore e l’intelletto». Così fa San Paisios nel passaggio sopra. Usa un semplice esempio, la brocca d’acqua, per ricordarci una verità chiave della vita spirituale: ciò a cui l’uomo si aggrappa, ciò che diventa e assorbe, questo gli porterà i risultati corrispondenti. Ci si aggrappa alle cose terrene e materiali? Inizierà a infettarsi. Ci si aggrappa alle celesti e spirituali? La sua anima inizierà a essere purificata, il che significa inizierà a essere fatto spazio nel suo cuore affinché la grazia di Dio trovi “un luogo” in cui dimorare – “beati i puri di cuore perché vedranno Dio”.

E l’esempio della brocca è diretto: il contatto del suo fondo con la terra crea la muffa, la sua parte superiore si mantiene pulita. Il santo rende a suo modo ciò che la parola di Dio e la tradizione ecclesiastica predicano: “guarda le cose di lassù, cerca le cose di lassù, non quelle della terra” (S. Paolo). E questo perché, creati da Dio «a sua immagine e somiglianza», abbiamo come nostra fisiologia l’incessante e amoroso orientamento verso Dio: «Ama il Signore Dio tuo con tutta la tua anima, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze». Cosa è più naturale, infatti, per l’essere che è stato creato per “somigliare” al suo Dio (S. Sofronio Athonita), che è uscito da Lui, in Lui sta ed esiste, tende verso di Lui, dall’avere i suoi occhi spirituali incessantemente e fermamente diretti alla sua radice e fonte? “I miei occhi sono sempre rivolti al Signore” dice l’uomo ispirato dallo Spirito di Dio. Per questo al centro di tutti i misteri della Chiesa, la Divina Liturgia, si sente l’esortazione del sacerdote: «In alto i nostri cuori», perché il popolo fedele possa rispondere «Sono rivolti al Signore», e quindi la beata prosecuzione: «Rendiamo grazie al Signore». In altre parole, non c’è modo per una persona, specialmente per il credente, di poter vivere spiritualmente, di esistere spiritualmente come membro di Cristo, senza il costante impulso del suo cuore ad essere dove si trova il Signore. 

Allora, quando le preoccupazioni di questo mondo, molto più le sue tentazioni e distrazioni, distolgono il cristiano da questa “visione” del volto di Cristo, ecco sì, la “muffa” spirituale, cioè la cattiveria e il peccato, comincia a crescere e a coltivare un ambiente marcio per la sua anima, quindi il Malvagio comincerà ad avere il “sopravvento” con tutto l'”accompagnamento” della sua presenza: ansia, tristezza, tumulto, disordine, inferno. E il santo Aghiorita non vuole intendere certo che un cristiano nel mondo, ma anche un monaco, non debba occuparsi delle cose di questo mondo – necessariamente avendo un corpo ci occuperemo anche di esse. Il punto è, come osserva, non affezionarsi a loro, non lasciarsi assorbire totalmente dal diventare come gli atei che hanno cancellato Dio dalla loro vita. E come si ottiene questo risultato? Solo quando il credente è caratterizzato dalla vera fede, che gli apre gli occhi per vedere tutte le cose del mondo “in Dio”. “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” nota l’apostolo Paolo, mostrando la realtà profonda più importante, che “Dio dà la vita e il respiro e ogni cosa” all’uomo e a tutto il creato.

Di conseguenza, quando il credente attraverso la sua pratica impara a vedere con questo sguardo “doppio” il mondo, sé stesso, i suoi simili, tutto, cioè a vedere nell’”ovvio” la presenza del Creatore, in tutti gli edifici e le creazioni, allora si porta davvero alla bocca della brocca, “considera le cose di lassù”, sceglie costantemente con suo Padre, si sente come un bambino tra le braccia di sua madre. E lì, naturalmente, non c’è spazio per la crescita della “muffa”, perché la luce del volto del Signore diviene come “fuoco consumante” ogni passione e ogni moto malvagio dell’anima. In questo stato dinamico del credente, che afferma che «non abbiamo vissuto in una città, ma abbiamo cercato il futuro», l’uomo diventa dimora di Dio stesso, da cui si sforza di non cadere mai. Ma anche nel caso in cui cada in qualche modo…

Originale: https://www.pemptousia.gr/2023/07/pote-molinete-ke-pote-katharizete-o-anthropos/




SINODALITÀ E PRIMATO NEI PRIMI DUE MILLENNI

Proponiamo in questo articolo due documenti frutto della “Commissione internazionale mista per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa”. Il tema degli approfondimenti fatti a Chieti nel 2016 e di recente ad Alessandria, è il rapporto tra sinodalità e primato nei primi due millenni e fino ad oggi. Pur stigmatizzando lo spirito intrinsecamente non ortodosso dell’ecumenismo che, nato in seno al protestantesimo, mira ad un’unità superficiale che preservi le diversità anche teologico-dogmatiche tra le Chiese, proponiamo questi studi solo per un interesse storico culturale e per comprendere la metodologia attraverso cui si svolgono questi incontri e si analizzano i dati storico-teologici. Al netto degli usi provenienti dalle naturali differenze culturali dei popoli, il portato dogmatico che sta alla base della fede rivelata dal Dio-Uomo “una volta per sempre” (Giuda 1,3) non può essere messo in discussione. La fede apostolica è l’unico tesoro da preservare. Per questo motivo i “teologi” e gli storici non possono partire dalle situazioni contingenti per adattare i canoni, ma al contrario sono le situazioni contingenti a doversi adattare alla verità dei canoni ben interpretati, secondo lo stesso Spirito da cui furono promulgati. Non è la Verità che deve adattarsi alla Chiesa ma è la Chiesa che sorge e si adatta sulla Verità che è Cristo. Se questo principio ci è chiaro allora possiamo leggere ‘criticamente’ i seguenti articoli che fissano alcuni passaggi fondamentali nella storia dei canoni e dell’ecclesiologia. Documenti importanti proprio perché passano da una discussione plurale che prova a fare chiarezza della verità storica. Non possiamo non sottolineare come, però, soprattutto il secondo documento, è quasi completamente incentrato sulle varie evoluzioni che ci sono state nei secoli nella Chiesa Cattolica Romana e come altresì, anche se quasi nascostamente, tra le pieghe del discorso, ammetta una maggiore continuità dell’ecclesiologia Ortodossa rispetto alle origini cristiane.  Afferma il primo documento: “Sin dai primordi, la Chiesa una esisteva come molte Chiese locali. La comunione (koinonía) dello Spirito santo (cfr. 2 Corinzi, 13, 13) era vissuta sia in seno a ogni Chiesa locale sia nelle relazioni tra di loro come unità nella diversità. Sotto la guida dello Spirito (cfr. Giovanni, 16, 13) la Chiesa sviluppò modelli d’ordine e pratiche varie, conformemente alla sua natura di «popolo che fonda la sua unità nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo». La sinodalità è una qualità fondamentale della Chiesa nel suo insieme. Come ha detto san Giovanni Crisostomo: «“Chiesa” significa sia assemblea [sýstema] sia sinodo [sýnodos]». L’espressione deriva dalla parola “concilio” (sýnodos in greco, concilium in latino), che denota in primo luogo un’assemblea di vescovi, sotto la guida dello Spirito santo, per la deliberazione e l’azione comuni nella cura della Chiesa. In senso lato, si riferisce alla partecipazione attiva di tutti i fedeli alla vita e alla missione della Chiesa. Il termine primato si riferisce all’essere primo (primus, prótos). Nella Chiesa il primato appartiene al suo Capo, Gesù Cristo, «principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato [protéuon] su tutte le cose» (Colossesi, 1, 18)”. Si poteva anche chiudere qui la discussione…ma si sa gli studiosi sono prolissi e purtroppo spesso tendono a piegare ai propri scopi la Verità piuttosto che farsi discepoli e uditori della Parola. Il Capo del Corpo che è la Chiesa è Cristo ed il centro la fede da Lui rivelata. Nessuno, come dice l’Apostolo Paolo, né un angelo, né un altro Apostolo e neanche lui stesso possono porre un fondamento diverso dalla fede rivelata dal Dio-Uomo, Colui che è con noi fino alla fine dei tempi. I Vescovi non sono infallibili prolungatori della rivelazione ma, secondo il significato della parola greca, sorveglianti, custodi della rivelazione divina. Non c’è dunque altro fondamento di quella Roccia che è Cristo e su cui siamo chiamati a costruire la nostra casa affinché non crolli ma resista alle intemperie, alle mareggiate e agli eventi avversi che il mondo ed i suoi valori rappresentano. In assenza di questa fede incrollabile nel Signore Vivente, l’uomo tende ad abbarbicarsi ad ogni puntello mondano che possa ispirargli una qualsiasi forma di stabilità, fiducia, sicurezza; puntello instabile perché piantato nelle sabbie mobili di questo mondo. In assenza di questa fede incrollabile sorgono i Vicari, i Super Apostoli, l’esser di Cefa o di Paolo o di Apollo (1 Cor 1,10-12)

Commissione internazionale mista per il dialogo teologico

tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa

SINODALITÀ E PRIMATO NEL PRIMO MILLENNIO:
VERSO UNA COMUNE COMPRENSIONE
NEL SERVIZIO ALL’UNITÀ DELLA CHIESA[1]

Chieti, 21 settembre 2016

«Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi.
E la nostra comunione è con il Padre e con il figlio suo, Gesù Cristo.
Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1 Giovanni, 1, 3-4).

1. La comunione ecclesiale nasce direttamente dall’incarnazione del Verbo eterno di Dio, secondo la benevolenza (eudokía) del Padre, per mezzo dello Spirito santo. Cristo, venuto sulla terra, ha fondato la Chiesa come suo corpo (cfr. 1 Corinzi, 12, 12-27). L’unità esistente tra le persone della Trinità si riflette nella comunione (koinonía) dei membri della Chiesa tra loro. Così, come ha affermato san Massimo il Confessore, la Chiesa è un éikon della santissima Trinità[2]. Durante l’ultima cena Gesù Cristo ha pregato il Padre: «Custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi» (Giovanni, 17, 11). Questa unità trinitaria è manifestata nella santa Eucaristia, dove la Chiesa prega Dio Padre per Gesù Cristo nello Spirito santo.

2. Sin dai primordi, la Chiesa una esisteva come molte Chiese locali. La comunione (koinonía) dello Spirito santo (cfr. 2 Corinzi, 13, 13) era vissuta sia in seno a ogni Chiesa locale sia nelle relazioni tra di loro come unità nella diversità. Sotto la guida dello Spirito (cfr. Giovanni, 16, 13) la Chiesa sviluppò modelli d’ordine e pratiche varie, conformemente alla sua natura di «popolo che fonda la sua unità nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo»[3].

3. La sinodalità è una qualità fondamentale della Chiesa nel suo insieme. Come ha detto san Giovanni Crisostomo: «“Chiesa” significa sia assemblea [sýstema] sia sinodo [sýnodos][4]». L’espressione deriva dalla parola “concilio” (sýnodos in greco, concilium in latino), che denota in primo luogo un’assemblea di vescovi, sotto la guida dello Spirito santo, per la deliberazione e l’azione comuni nella cura della Chiesa. In senso lato, si riferisce alla partecipazione attiva di tutti i fedeli alla vita e alla missione della Chiesa.

4. Il termine primato si riferisce all’essere primo (primusprótos). Nella Chiesa il primato appartiene al suo Capo, Gesù Cristo, «principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato [protéuon] su tutte le cose» (Colossesi, 1, 18). La tradizione cristiana mostra chiaramente che, nell’ambito della vita sinodale della Chiesa a vari livelli, un vescovo è stato riconosciuto come il “primo”. Gesù Cristo associa questo essere “primo” con il servizio (diakonía): «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Marco, 9, 35).

5. Nel secondo millennio, la comunione è stata spezzata tra Oriente e Occidente. Sono stati compiuti molti sforzi per ripristinare la comunione tra cattolici e ortodossi, ma senza successo. La Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, nel suo lavoro costante per superare le divergenze teologiche, ha esaminato il rapporto tra sinodalità e primato nella vita della Chiesa. Le diverse comprensioni di queste realtà hanno svolto un ruolo importante nella divisione tra ortodossi e cattolici. Pertanto, è essenziale cercare di giungere a una comprensione comune di queste realtà interrelate, complementari e inscindibili.

6. Al fine di giungere a questa comprensione comune di primato e sinodalità, è necessario riflettere sulla storia. Dio si rivela nella storia. È particolarmente importante compiere insieme una lettura teologica della storia della liturgia della Chiesa, della spiritualità, delle istituzioni e dei canoni, che hanno sempre una dimensione teologica.

7. La storia della Chiesa nel primo millennio è fondamentale. Malgrado alcune fratture temporanee, all’epoca i cristiani d’Oriente e d’Occidente vivevano in comunione e, in quel contesto, furono costituite le strutture essenziali della Chiesa. Il rapporto tra sinodalità e primato assunse diverse forme, che possono offrire agli ortodossi e ai cattolici una guida fondamentale nei loro sforzi per ripristinare oggi la piena comunione.

La Chiesa locale

8. La Chiesa una, santa cattolica e apostolica della quale Cristo è il capo è presente oggi nella sinassi eucaristica di una Chiesa locale sotto il suo vescovo. È lui che presiede (proestós). Nella sinassi liturgica, il vescovo rende visibile la presenza di Gesù Cristo. Nella Chiesa locale (vale a dire nella diocesi), i molti fedeli e il clero sotto l’unico vescovo sono uniti tra di loro in Cristo e sono in comunione con lui in ogni aspetto della vita della Chiesa, specialmente nella celebrazione dell’Eucaristia. Come insegnava sant’Ignazio di Antiochia, «dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c’è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica [katholiké ekklesía][5]». Ogni Chiesa locale celebra in comunione con tutte le altre Chiese locali che confessano la vera fede e celebrano la stessa Eucaristia. Quando un presbitero presiede l’Eucaristia, il vescovo locale viene sempre ricordato in segno di unità della Chiesa locale. Nell’Eucaristia, il proestós e la comunità sono interdipendenti: la comunità non può celebrare l’Eucaristia senza un proestós, e il proestós, a sua volta, deve celebrare con una comunità.

9. Questa interrelazione di proestós o vescovo e comunità è un elemento costitutivo della vita della Chiesa locale. Insieme al clero, che collabora al suo ministero, il vescovo locale agisce in mezzo ai fedeli, che sono il gregge di Cristo, quale garante e servitore dell’unità. Quale successore degli apostoli, egli esercita la sua missione come impegno di servizio e di amore, custodendo la sua comunità e guidandola, come suo capo, verso un’unità sempre più profonda con Cristo nella verità, conservando la fede apostolica attraverso la predicazione del Vangelo e la celebrazione dei sacramenti.

10. Poiché il vescovo è il capo della sua Chiesa locale, egli rappresenta la sua Chiesa dinanzi alle altre Chiese locali e nella comunione di tutte le Chiese. Allo stesso modo rende questa comunione presente nella sua Chiesa. È questo un principio fondamentale di sinodalità.

La comunione regionale delle Chiese

11. Ci sono prove in abbondanza che i vescovi nella Chiesa dei primordi erano consapevoli di avere una responsabilità comune per la Chiesa nel suo insieme. Come ha detto san Cipriano, c’è «un solo episcopato, diffuso in una moltitudine armonica di molti vescovi[6]». Questo vincolo di unità era espresso nel requisito che almeno tre vescovi partecipassero all’ordinazione (cheirotonía) di un nuovo vescovo[7]; era anche evidente negli incontri multipli di vescovi in concili o sinodi per discutere di questioni comuni di dottrina (dógmadidaskalía) e di prassi, nonché nei loro frequenti scambi epistolari e nelle visite reciproche.

12. Già durante i primi quattro secoli si formarono diversi raggruppamenti di diocesi in regioni particolari. Il prótos, il primo tra i vescovi della regione, era il vescovo della prima sede, la metropoli, e il suo ufficio di metropolita era sempre legato alla sua sede. I concili ecumenici attribuirono alcune prerogative (presbéiapronomíadíkaia) al metropolita, sempre nel quadro della sinodalità. Così, il primo concilio ecumenico (Nicea, 325), pur chiedendo a tutti i vescovi di una provincia la loro partecipazione personale o il consenso scritto a una elezione e consacrazione episcopale — atto sinodico per eccellenza — attribuiva al metropolita la convalida (kýros) dell’elezione di un nuovo vescovo[8]. Il quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451) ricordò di nuovo i diritti (díkaia) del metropolita — insistendo sul fatto che questo ufficio fosse ecclesiale e non politico[9] — proprio come il settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787)[10].

13. Il Canone apostolico 34 propone una descrizione canonica della correlazione tra il prótos e gli altri vescovi di ogni regione [éthnos]: «I vescovi di ciascuna nazione debbono riconoscere colui che è il primo [prótos] tra di loro, e considerarlo il loro capo [kephalé], e non fare nulla di importante senza il suo consenso [gnóme]; ciascun vescovo può soltanto fare ciò che riguarda la sua diocesi [paroikía] e i territori che dipendono da essa. Ma il primo [prótos] non può fare nulla senza il consenso di tutti. Poiché in questo modo la concordia [homónoia] prevarrà, e Dio sarà lodato per mezzo del Signore nello Spirito santo»[11].

14. L’istituzione della metropoli è una forma di comunione regionale tra Chiese locali. In seguito si svilupparono altre forme, vale a dire i patriarcati comprendenti diverse metropoli. Sia il metropolita sia il patriarca erano vescovi diocesani con pieni poteri episcopali nelle loro diocesi. Nelle questioni legate alle loro rispettive metropoli o nei patriarcati, però, dovevano agire in accordo con gli altri vescovi. Questo modo di agire è alla radice delle istituzioni sinodiche nel senso stretto del termine, come il sinodo regionale dei vescovi. Questi sinodi venivano convocati e presieduti dal metropolita o dal patriarca. Lui e gli altri vescovi agivano in mutua complementarità ed erano responsabili dinanzi al sinodo.

La Chiesa a livello universale

15. Tra il quarto e il settimo secolo, si iniziò a riconoscere l’ordine (táxis) delle cinque sedi patriarcali, basato sui concili ecumenici e da essi sancito, con la sede di Roma al primo posto, esercitando un primato d’onore (presbéia tes timés), seguita da quella di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, in questo ordine preciso, secondo la tradizione canonica[12].

16. In Occidente, il primato della sede di Roma fu compreso, specialmente a partire dal quarto secolo, con riferimento al ruolo di Pietro tra gli apostoli. Il primato del vescovo di Roma tra i vescovi fu man mano interpretato come una prerogativa che gli apparteneva in quanto era successore di Pietro, primo tra gli apostoli[13]. Questa comprensione non fu adottata in Oriente, che aveva su questo punto un’interpretazione diversa delle Scritture e dei Padri. Il nostro dialogo potrà ritornare su tale questione in futuro.

17. Quando veniva eletto un nuovo patriarca in una delle cinque sedi della táxis, era prassi comune che inviasse una lettera a tutti gli altri patriarchi, annunciando la sua elezione e includendo una professione di fede. Tali “lettere di comunione” erano un’espressione profonda del vincolo canonico di comunione tra i patriarchi. Includendo il nome del nuovo patriarca, secondo il giusto ordine, nei dittici delle loro chiese, letti durante la liturgia, gli altri patriarchi riconoscevano la sua elezione. La táxis delle sedi patriarcali trovava la sua massima espressione nella celebrazione della santa Eucaristia. Ogni volta che due o più patriarchi si riunivano per celebrare l’Eucaristia, si ponevano secondo la táxis. Questa prassi manifestava la natura eucaristica della loro comunione.

18. A partire dal Primo concilio ecumenico (Nicea, 325), le questioni rilevanti riguardanti la fede e l’ordine canonico nella Chiesa furono discusse e risolte dai concili ecumenici. Anche se il vescovo di Roma non partecipò di persona a nessuno di quei concili, ogni volta fu rappresentato dai suoi legati o approvò le conclusioni conciliari post factum. La comprensione della Chiesa dei criteri per la recezione di un concilio come ecumenico si sviluppò nel corso del primo millennio. Per esempio, spinto da circostanze storiche, il settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787) descrisse in modo dettagliato i criteri così come erano intesi allora: la concordia (symphonía) dei capi delle Chiese, la cooperazione (synérgheia) del vescovo di Roma, e l’accordo degli altri patriarchi (symphronúntes). Un concilio ecumenico deve avere il proprio numero appropriato nella sequenza dei concili ecumenici e il suo insegnamento deve essere in sintonia con quello dei concili precedenti[14]. La recezione da parte della Chiesa nel suo insieme è sempre stato l’ultimo criterio dell’ecumenicità di un concilio.

19. Nei secoli sono stati rivolti numerosi appelli al vescovo di Roma, anche dall’Oriente, su questioni disciplinari, come la deposizione di un vescovo. Al sinodo di Sardica (343) fu fatto un tentativo di stabilire regole per questa procedura[15]. Sardica fu recepita al concilio in Trullo (692)[16]. I canoni di Sardica stabilivano che un vescovo che era stato condannato poteva fare appello al vescovo di Roma e che quest’ultimo, se lo riteneva opportuno, poteva ordinare un nuovo processo, che doveva essere svolto dai vescovi nella provincia limitrofa a quella del vescovo stesso. Appelli in materia disciplinare furono rivolti anche alla sede di Costantinopoli[17] e ad altre sedi. Tali appelli alle sedi maggiori furono sempre trattati in modo sinodico. Gli appelli al vescovo di Roma dall’Oriente esprimevano la comunione della Chiesa, ma il vescovo di Roma non esercitava un’autorità canonica sulle Chiese d’Oriente.

Conclusione

20. Per tutto il primo millennio, la Chiesa in Oriente e in Occidente fu unita nel preservare la fede apostolica, mantenere la successione apostolica dei vescovi, sviluppare strutture di sinodalità inscindibilmente legate al primato, e nella comprensione dell’autorità come servizio (diakonía) d’amore. Sebbene l’unità tra Oriente e Occidente sia a volte stata complicata, i vescovi di Oriente e Occidente erano consapevoli di appartenere alla Chiesa una.

21. Questa eredità comune di principi teologici, disposizioni canoniche e pratiche liturgiche del primo millennio rappresenta un punto di riferimento necessario e una potente fonte di ispirazione sia per i cattolici sia per gli ortodossi mentre cercano di curare la ferita della loro divisione all’inizio del terzo millennio. Sulla base di questa eredità comune, entrambi devono riflettere su come il primato, la sinodalità e l’interrelazione che esiste tra loro possono essere concepiti ed esercitati oggi ed in futuro.        

Traduzione dall’originale inglese da L’Osservatore Romano, 7 ottobre 2016.

Commissione internazionale mista per il dialogo teologico

tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa

SINODALITÀ E PRIMATO

NEL SECONDO MILLENNIO FINO AD OGGI [18]

Alessandria, 7 giugno 2023

Introduzione

0.1 A seguito di un attento studio della sinodalità e del primato nel primo millennio, il documento di Chieti afferma che: Fin dai tempi più antichi, l’unica Chiesa esisteva come molte chiese locali. La comunione (koinonia) dello Spirito Santo (cfr. 2Cor 13,13) è stata sperimentata sia all’interno di ciascuna chiesa locale sia nelle relazioni tra di esse come unità nella diversità. Sotto la guida dello Spirito (cfr. Gv 16,13), la Chiesa sviluppò modelli di ordinamento e pratiche diverse in conformità alla sua natura di “popolo portato all’unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”” (Chieti, 2; citando San Cipriano, De orat. dom. 23; PL 4, 536).

0.2 Il legame di unità era evidente nelle “molteplici riunioni dei vescovi in concili o sinodi per discutere in comune questioni di dottrina (dogma, didaskalia) e di pratica” (Chieti, 11). A livello universale, la comunione era favorita dalla cooperazione tra le cinque sedi patriarcali, ordinate secondo una taxis (cfr. Chieti, 15). Nonostante le numerose crisi, l’unità della fede e dell’amore è stata mantenuta attraverso la pratica della sinodalità e del primato (cfr. Chieti, 20).

0.3 Il presente documento considera la travagliata storia del secondo millennio in quattro periodi. Cerca di dare, per quanto possibile, una lettura comune di questa storia e offre agli ortodossi e ai cattolici romani una gradita opportunità di spiegarsi reciprocamente in vari punti del percorso, in modo da favorire la comprensione e la fiducia reciproche che sono prerequisiti essenziali per la riconciliazione all’inizio del terzo millennio. Il documento si conclude traendo insegnamenti dalla storia esaminata.

1. Dal 1054 al Concilio di Firenze (1438-1439)

1.1 All’inizio del secondo millennio, le difficoltà e le divergenze tra Oriente e Occidente furono esacerbate da fattori culturali e politici. Gli atti di scomunica del 1054 aggravarono l’allontanamento tra Oriente e Occidente. Le Chiese d’Oriente e d’Occidente si sforzarono di ristabilire la loro unità. Tuttavia, a seguito delle crociate, e in particolare della conquista di Costantinopoli da parte della quarta crociata (1204), la frattura del 1054 si aggravò tristemente.

1.2 La cosiddetta Riforma gregoriana, dal nome di Papa Gregorio VII (1073-1085), riuscì a porre fine alla nomina sistematica di vescovi e abati da parte del potere secolare. Furono ristabilite le elezioni canoniche, in modo che i capitoli delle cattedrali eleggessero i loro vescovi diocesani e i monasteri il loro abate. Allo stesso tempo, la riforma intendeva combattere gli abusi morali nella Chiesa e nella società occidentale. Questo processo di riforma fu guidato dal papato attraverso i tradizionali sinodi locali romani. Nel frattempo, il potere del papa si estese sempre più alla sfera temporale, dato che Gregorio riuscì persino a deporre l’imperatore Enrico IV. Si accentuò la responsabilità della Sede romana di preservare la Chiesa occidentale da interferenze estranee e abusi interni.

1.3 Di conseguenza, si sviluppò un’ecclesiologia più giuridica. Le “False Decretali” (IX secolo) e la falsa Donazione di Costantino (probabilmente dell’VIII secolo), che furono erroneamente ritenute autentiche, sottolinearono la centralità della figura del Papa nella Chiesa latina. I nuovi ordini mendicanti del XIII secolo, come i francescani e i domenicani, esenti dall’autorità episcopale, promossero una concezione del papato come affidatario della cura pastorale di tutta la Chiesa.

1.4  Dopo la controversia sulle investiture della fine dell’XI e dell’inizio del XII secolo, la Chiesa ingaggiò un’altra grande lotta con i poteri temporali per la direzione del mondo cristiano occidentale. Innocenzo III (1198-1216) consolidò la visione del papa come capo che governa l’intero corpo ecclesiale. Come successore di Pietro, il papa aveva la pienezza del potere (plenitudo potestatis) e la preoccupazione per tutte le Chiese (sollicitudo omnium ecclesiarum). I singoli vescovi erano chiamati a partecipare alla sua sollecitudine (in partem sollicitudinis), prendendosi cura delle proprie diocesi.

1.5  A quel tempo, nonostante lo sviluppo dottrinale del primato romano, la sinodalità era ancora evidente. I papi continuavano a governare la Chiesa latina con il sinodo romano, che riuniva i vescovi della provincia romana e quelli presenti a Roma. Il sinodo si riuniva normalmente due volte l’anno. I problemi venivano affrontati e discussi liberamente da tutti i partecipanti. Il papa, in quanto primus, prendeva la decisione finale. Non ci sono prove che il papa fosse vincolato da un voto, ma non ci sono nemmeno prove che il papa abbia preso una decisione finale contraria al parere del suo sinodo.

1.6  Nel corso del XII secolo, il ruolo del sinodo romano fu gradualmente sostituito dal concistoro, la riunione dei cardinali. I cardinali erano membri del clero romano, sette dei quali erano vescovi delle sedi suburbicarie della provincia di Roma. Il papa consultava regolarmente il concistoro. Con i decreti del 1059 e del 1179, il collegio cardinalizio ottenne il diritto esclusivo di eleggere il papa. Il fatto che i cardinali fossero vescovi suburbicari o dotati di un titolo presbiterale o diaconale romano sottolineava il fatto che la Chiesa di Roma e non qualsiasi altro organismo ha il diritto di eleggere il suo vescovo.

1.7  In Occidente esistevano sinodi provinciali, ma i papi convocavano anche concili generali, come i quattro Concili Lateranensi (1123, 1139, 1179, 1215) che continuarono la riforma della Chiesa in Occidente. La Costituzione 5 del IV Concilio Lateranense (1215) affermava che “la Chiesa romana… per disposizione del Signore ha un primato di potere ordinario su tutte le altre Chiese, in quanto è madre e maestra [mater et magistra] di tutti i fedeli di Cristo”. Lo stesso concilio invitava i greci a “conformarsi come figli obbedienti alla santa Chiesa romana, loro madre, affinché vi sia un solo gregge e un solo pastore” (Cost. 4). Questo appello non fu accolto.

1.8  Questo periodo di predominio papale coincise con le crociate, che inizialmente furono motivate da un appello dell’imperatore bizantino nel suo conflitto con i turchi selgiuchidi, ma che si svilupparono in un violento antagonismo tra latini e greci. A seguito della prima crociata (1095-1099), vennero istituiti un patriarca latino e una gerarchia latina ad Antiochia (1098) e a Gerusalemme (1099), al posto dei patriarcati greci o parallelamente ad essi. La terza crociata (1189-1192) stabilì una gerarchia latina a Cipro (1191) e, contrariamente ai canoni, abolì l’autocefalia della Chiesa di Cipro. I vescovi greci, ridotti da 15 a soli quattro, furono costretti a essere obbedienti alla Chiesa romana e a prestare giuramento ai rispettivi vescovi latini.

1.9 La quarta crociata (1204) portò al saccheggio di Costantinopoli e all’insediamento di gerarchie latine parallele nelle rimanenti antiche sedi della Chiesa greca. Pur avendo scoraggiato i veneziani dal conquistare Costantinopoli, papa Innocenzo III nominò successivamente un patriarca latino sia a Costantinopoli che ad Alessandria. Le decisioni del IV Concilio Lateranense (1215) furono imposte in particolare alle Chiese di Gerusalemme e Cipro. Il principio secondo cui i “greci” potevano mantenere i loro riti liturgici, ma dovevano accettare il vescovo di Roma come loro capo e commemorarlo, fu praticato soprattutto a Cipro (cfr. i sinodi latini di Limassol, 1220, e di Famagosta, 1222, e la Bolla Cypria di Papa Alessandro IV, 1260). In molti casi, il clero greco, considerato ormai come appartenente alla Chiesa latina, fu costretto a partecipare alle azioni liturgiche latine. L’atmosfera peggiorò con l’atteggiamento polemico dei teologi che denunciavano gli usi orientali come “errori dei greci”, o addirittura “errori dei greci scismatici”.

1.10  Nonostante queste prove, in Oriente c’era ancora chi coltivava buone relazioni ecclesiali e lavorava per il ripristino dell’unità. Grandi patriarchi con una profonda comprensione teologica, come Philotheos Kokkinos (1300 ca. – 1379), discepolo di Gregorio Palamas, esaminarono la possibilità di convocare un concilio ecumenico che fornisse una soluzione alle divisioni.

1.11 Durante il secondo millennio in Oriente, l’istituzione conciliare funzionava secondo i principi canonici del Canone Apostolico 34, dove il Patriarca di Costantinopoli come protos e i vescovi presenti a Costantinopoli partecipavano alle sessioni del Sinodo Endemousa. Attraverso il Sinodo di Endemousa, la Chiesa esprimeva una forma di sinodalità permanente in cui i patriarchi d’Oriente, presenti a Costantinopoli, o i loro rappresentanti, e altri vescovi venivano convocati dal Patriarca di Costantinopoli per prendere decisioni sinodali.

1.12 Dopo la restaurazione dell’impero bizantino a Costantinopoli nel 1261, fu possibile ricostruire le relazioni reciproche. Infatti, il Secondo Concilio di Lione (1274) proclamò un atto di unione che conteneva la professione di fede richiesta in precedenza da Papa Clemente IV (1267) e firmata dall’imperatore Michele VIII Palaiologos (nel febbraio 1274), accettando le rivendicazioni latine sulla processione dello Spirito Santo, sul primato papale e su altri punti controversi (ad esempio, il purgatorio, gli azimi). Si affermava che la Chiesa romana aveva “summum plenumque principatum” [il più alto e pieno primato] su tutta la Chiesa e che il successore di Pietro aveva ricevuto “plenam potestatem” [pienezza di potere] per governarla, essendo gli altri vescovi chiamati a condividere la sua sollecitudine. Questa professione fu rifiutata dalla Chiesa di Costantinopoli nel 1285.

1.13 Nel corso del XIV secolo sorse in Oriente la controversia sugli esicasti, provocata da Barlaam, un monaco calabrese. I monaci del Monte Athos delegarono San Gregorio Palamas a rispondere alle sfide di Barlaam. Nel corso del XIV secolo, quattro sinodi a Costantinopoli (1341, 1347, 1351 e 1368) difesero la distinzione tra l’essenza e l’energia increata di Dio, sviluppata da San Gregorio Palamas sulla base di Padri della Chiesa come San Basilio di Cesarea e San Massimo il Confessore. Questi eventi indicano il perdurare della pratica della sinodalità in Oriente.

1.14 Il XIV e il XV secolo furono testimoni di un cambiamento radicale nella sfera politica, che mise fine al predominio temporale papale. Il tentativo di papa Bonifacio VIII (1294-1303) di riaffermare la supremazia papale nell’ordine temporale con la bolla Unam Sanctam (1302) fu violentemente contrastato dal re di Francia, ponendo così fine alla pretesa papale di governare politicamente il mondo. A questo episodio seguì, pochi anni dopo, l’esilio del papato nella città francese di Avignone, dove i papi vissero per settant’anni sotto il controllo della monarchia francese.

1.15 Il caos derivante dall’elezione di due e poi tre papi provocò un profondo trauma nella Chiesa occidentale. Per risolvere la crisi, fu convocato un concilio generale a Costanza (1414-1418). Questo concilio, a cui parteciparono non solo vescovi e abati ma anche rappresentanti di organismi politici, sviluppò nel suo decreto, Haec sancta (1415), la tesi secondo cui la massima autorità nella Chiesa appartiene a un concilio generale, inteso come assemblea di vescovi e poteri secolari, in contraddizione con l’autorità del papa. Questa tesi è nota come “conciliarismo”. Il conciliarismo sovvertiva il ruolo canonico del primate nel sinodo e metteva in pericolo la libertà della Chiesa. Sottolineava la nuova idea che un concilio dovesse “rappresentare” tutte le categorie della società cristiana e che tale concilio, riunendosi ogni dieci anni, con il papa che eseguiva le sue decisioni, avrebbe governato la Chiesa. La prassi ecclesiale della sinodalità veniva così messa in discussione dalla nozione secolare di rappresentanza corporativa, un concetto tratto dal diritto romano secolare che conferiva personalità giuridica agli enti collettivi.

1.16 L’indebolimento dell’autorità papale offrì agli Stati l’opportunità di aumentare il loro controllo sulla Chiesa in Occidente. La sede romana fu costretta a firmare dei concordati che riconoscevano il diritto dei poteri politici di partecipare alla nomina dei vescovi. Tale accordo è esemplificato nella Prammatica Sanzione di Bourges (1438), che avallava il conciliarismo e preparava il terreno per il gallicanesimo (vedi sotto, 2.3). Il conciliarismo fu condannato nel V Concilio Lateranense (1512-1517) e definitivamente escluso dall’insegnamento del Concilio Vaticano I (1869-1870).

1.17 Il concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439) si riunì mentre era ancora in corso l’assemblea conciliarista di Basilea (1431-1449), respinta da papa Eugenio IV (1431-1447). Entrambi i partiti occidentali invitarono l’imperatore e il patriarca di Costantinopoli, ma in accordo con la pentarchia l’imperatore e il patriarca decisero di non andare a Basilea ma a Ferrara e poi a Firenze, dove era presente il papa. È anche vero che, sotto la pressione degli Ottomani e bisognosi di assistenza militare occidentale, l’imperatore e il patriarca riconobbero che il papa era in grado di generare un aiuto occidentale a favore di Costantinopoli. Il concilio affrontò i punti di disaccordo che erano sorti tra le due Chiese, principalmente: il Filioque, l’uso degli azimi per l’Eucaristia, il purgatorio, la visione beatifica dopo la morte e il primato papale. La bolla di unione, Laetentur coeli (1439), con una forte introduzione biblica, elogiava Cristo come capo e pietra angolare della Chiesa riunita.

1.18 L’obiettivo primario delle forti affermazioni di Firenze sul primato papale era il rifiuto della tesi conciliarista di Basilea. Il Concilio procedette con tre affermazioni: “la santa Sede Apostolica [Roma] e il romano pontefice hanno il primato su tutto il mondo”; “lo stesso romano pontefice è il successore del beato Pietro, … il capo di tutta la Chiesa, il padre e il maestro di tutti i cristiani”; “a lui, nella persona del beato Pietro, è stato dato da nostro Signore Gesù Cristo il pieno potere [plenam potestatem] di pascere, reggere  e governare [pascendi, regendi ac gubernandi] tutta la Chiesa”. Queste affermazioni furono accettate dai greci a tre condizioni, che furono inserite nel decreto: a) l’aggiunta della clausola “come è contenuto anche negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni”; b) la menzione delle altre sedi patriarcali della Pentarchia; e c) il mantenimento dei privilegi e dei diritti dei patriarchi (Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, DS, 1307-1308).

1.19 Per quanto riguarda tutte le questioni controverse, il concilio affermò che le differenze nella formulazione dottrinale o nella prassi canonica non intaccavano l’unità della fede. L’unione fu firmata dai greci sotto la pressione delle circostanze e successivamente non fu accolta dalla Chiesa greca. Fu ufficialmente respinta dal Concilio di Costantinopoli nel 1484, con la partecipazione dei quattro patriarcati orientali: Con il presente tomos sinodale annulliamo il concilio convocato a Firenze, la sua definizione [la bolla di unione] e le proposizioni in esso contenute, e dichiariamo con questo tomos che il concilio di Firenze è nullo” (Melloni-Paschalidis, Conciliorum Oecumenicorum Generaliumque Decreta, IV/1, 227).

2. Dalla Riforma al XVIII secolo

2.1 Due importanti novità hanno influenzato il rapporto tra sinodalità e primato nei secoli XVI-XVIII: la Riforma protestante e le unioni stabilite tra Roma e varie Chiese orientali. L’ascesa del protestantesimo portò a contatti con l’Oriente e persino a speranze di unione, almeno nella fase preliminare del loro incontro, anche se divise ulteriormente l’Occidente. La sinodalità era ancora praticata in Oriente in questo periodo difficile e le decisioni di diversi sinodi tenutisi in quel periodo mostrano quali fossero le questioni teologiche che separavano cattolici, ortodossi e protestanti. Il fenomeno delle unioni fu vissuto dagli ortodossi come una ferita e una minaccia, come causa di ulteriori divisioni in Oriente e come una forma di proselitismo.

2.2 Le obiezioni dei Riformatori furono riprese dal Concilio di Trento (1545-1563), che però non diede alcuna definizione di primato. Un consenso sul significato del primato e sui diritti del primate era irraggiungibile; le controtendenze episcopali si dimostrarono troppo forti, soprattutto in Francia. Mentre in alcune parti della Chiesa latina si continuava a praticare l’elezione dei vescovi da parte dei capitoli delle cattedrali, fu prescritto che i sinodi provinciali fossero istituiti e inviassero a Roma una lista di tre nomi, affinché il papa potesse scegliere e nominare i vescovi (sessione XXIV; Decretum de Reformatione, can. 1). Dopo Trento, il papato assunse la guida delle riforme tridentine e la Chiesa cattolica romana divenne sempre più centralizzata per quanto riguarda la dottrina, la liturgia e l’attività missionaria. Il papato fu un punto di riferimento importante nella controversia con il protestantesimo sulla vera fede e, a lungo andare, l’autorità papale fu rafforzata nel periodo post-tridentino. Il papato e l’impegno nei suoi confronti divennero un marcatore dell’identità confessionale cattolica romana contro il protestantesimo. Gli sforzi dei vecchi e dei nuovi ordini religiosi (ad esempio i gesuiti) per la riforma tridentina e per la controriforma nell’educazione umanistica e nella missione accrebbero l’autorità del papato.

2.3 Sinodi provinciali, finalizzati all’attuazione della riforma tridentina, si svolsero in Italia (ad esempio, Milano, 1566), nell’Impero tedesco (ad esempio, Salisburgo, 1569), in Francia (dal 1581) e nel Commonwealth polacco-lituano (Piotrków, 1589). Sotto pressione politica, i vescovi cattolici di molti regni cercarono una maggiore autonomia rispetto al primato papale. Queste tendenze episcopali (ad esempio il gallicanesimo in Francia, il febronianesimo in Germania) continuarono a sostenere il conciliarismo. La Rivoluzione francese portò infine alla caduta dell’Ancien Régime e alla distruzione della Chiesa di Stato, che in ultima analisi rafforzò i legami tra la Chiesa di Francia e Roma, poiché dopo il crollo del vecchio ordine solo il papato aveva l’autorità di riorganizzare la Chiesa (cfr. il Concordato con la Francia del 1801 e il Congresso di Vienna del 1814-1815).

2.4 Il sistema giuridico del Millet assegnava tutti gli ortodossi che vivevano nell’Impero Ottomano, a prescindere dalle considerazioni etniche, al Rum-Millet, dipendente dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli nelle questioni ecclesiastiche e civili. Ciò enfatizzava la posizione centrale di quest’ultimo all’interno della Chiesa ortodossa, nota già dall’ordinamento canonico, e ne accresceva l’importanza nei confronti degli altri antichi patriarcati. Nonostante questa nuova situazione, lo spirito della sinodalità fu comunque conservato. Vennero convocati concili dal patriarca ecumenico per risolvere questioni in modo sinodale, come il Concilio di Costantinopoli (1593), per confermare il titolo di patriarca concesso in precedenza al metropolita di Mosca; il Concilio di Iasi (1642), per giudicare la confessione di fede del metropolita di Kiev, Pietro Mohyla; e i due grandi concili di Costantinopoli (1638 e 1642). Altri sinodi furono convocati a Costantinopoli (1672, 1691) e dal patriarca Dositeo a Gerusalemme (1672), che condannò la Confessione di fede attribuita al patriarca ecumenico Cirillo Lukaris.

2.5 A partire dalla fine del XVI secolo, apparvero opere polemiche di autori sia orientali che occidentali, in particolare sul tema del primato papale. Successivamente, la questione del primato papale è stata affrontata in modo polemico o apologetico nelle decisioni sinodali orientali, nelle confessioni di fede e nei commentari canonici.

2.6 Tra il XVI e il XVIII secolo sono state stabilite diverse unioni tra le Chiese orientali e Roma. Le motivazioni di queste unioni sono sempre state contestate. Non si può escludere un genuino desiderio di unità della Chiesa. Spesso si intrecciano fattori religiosi e politici. Le unioni appaiono spesso come tentativi di fuga da situazioni locali sfavorevoli. Alcuni ruteni all’epoca del Commonwealth polacco-lituano si unirono a Roma al Sinodo di Brest (1596). Altre unioni avvennero in Croazia (1611), Uzhorod (1646), Transilvania (1700-1701) e Serbia (1777). Gli ortodossi di lingua albanese, fuggiti alla fine del XV secolo nell’Italia meridionale dopo la conquista turca, entrarono successivamente in comunione con Roma. Nel 1724, in occasione della vacanza della sede patriarcale di Antiochia, la comunità di Damasco elesse un patriarca filocattolico, che assunse il nome di Cirillo VI e fu riconosciuto dal Papa nel 1729, formando così la Chiesa cattolica melchita. Furono realizzate anche unioni con altre Chiese.

2.7 All’inizio del XVIII secolo, lo zar Pietro I (1689-1725) introdusse riforme in Russia in generale e nella Chiesa. Il patriarcato fu abolito (fino al 1917) e la Chiesa fu governata da un Santo Sinodo sotto la guida di un funzionario statale, l’Oberprokuror. Nel ristrutturare l’amministrazione della Chiesa, Pietro seguì i modelli protestanti. Le strutture sinodali prevalsero, ma sotto una forte influenza dello Stato.

3. Sviluppi del XIX secolo

3.1 Dopo la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, la situazione della Chiesa cattolica romana in Europa era precaria. I nuovi regimi politici, anche le monarchie restaurate, erano Stati laici che pretendevano di mantenere il controllo della Chiesa, proprio come avevano fatto i regimi precedenti. Un esempio è il concordato francese del 1801. In seguito, per evitare l’ingerenza dello Stato negli affari ecclesiastici, il papato adottò la dottrina della Chiesa come “società perfetta”, vale a dire che la Chiesa era una società indipendente, autonoma e sovrana nella propria sfera di competenza, proprio come lo Stato era sovrano negli affari temporali. La Chiesa sosteneva di essere investita di un sistema giuridico originale, cioè non derivato o conferito dallo Stato.

3.2 La lettera enciclica di Pio IX, In Suprema Petri Apostoli Sede (1848), sottolineava che “la suprema autorità dei Romani Pontefici” era sempre stata riconosciuta in Oriente e invitava gli ortodossi a tornare alla comunione con la Sede di Pietro. I patriarchi ortodossi di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme reagirono ed emisero la loro lettera enciclica patriarcale e sinodale del 1848, in cui, tra le altre questioni, si schieravano contro la supremazia papale.

3.3 Nel 1868, Papa Pio IX pubblicò una lettera per invitare tutti i vescovi ortodossi al Concilio Vaticano I, invito che fu declinato. Il patriarca ecumenico Gregorio VI disse alla delegazione papale che consegnò la lettera che la partecipazione dei vescovi ortodossi al Concilio “significherebbe una ripresa di vecchie dispute teologiche che accentuerebbero il disaccordo e riaprirebbero vecchie ferite”. Per il Patriarca Gregorio, la principale fonte di disaccordo era la natura dell’autorità del Papa.

3.4 Nel XIX secolo, la Chiesa ortodossa si trovò ad affrontare un’esacerbazione del nazionalismo e persino l’intenzione di integrarlo nella struttura dell’organizzazione ecclesiastica. Il Grande Concilio di Costantinopoli del 1872 condannò l’etnofiletismo, in occasione dello scisma bulgaro. Alla dissoluzione dell’Impero ottomano, i movimenti di emancipazione nazionale portarono alla formazione di Stati nazionali nei Balcani. Per esprimere e promuovere l’unità eucaristica della Chiesa in questa nuova situazione, il Patriarcato ecumenico concesse un tomos di autocefalia alle Chiese di Grecia (1850), Serbia (1879) e Romania (1885), secondo la tradizione canonica, e queste Chiese furono incluse nei dittici.

3.5 Il Concilio Vaticano I, tenutosi nel 1869-1870, ha prodotto due documenti: Pastor Aeternus (1870) sulla Chiesa, che definiva il primato e l’infallibilità papale, e Dei Filius (1870) sulla fede cattolica. Sono sorte molte tensioni tra cattolici e ortodossi riguardo all’insegnamento del Concilio sul papato. Occorre sottolineare due punti: in primo luogo, il Vaticano I chiamò la Pastor Aeternus la sua “prima” costituzione dogmatica sulla Chiesa di Cristo, perché era destinata a essere seguita da un’altra, la Tametsi Deus, che trattava in modo più completo dei vescovi e della Chiesa nel suo insieme. Tuttavia, il concilio fu aggiornato a causa dello scoppio della guerra franco-prussiana e la bozza di questo secondo documento non fu mai discussa. Il Concilio lasciò quindi la sua ecclesiologia sbilanciata; il suo insegnamento dogmatico sul papato non fu completato da quello sull’episcopato né contestualizzato da un insegnamento più ampio sulla Chiesa. In secondo luogo, l’insegnamento della Pastor Aeternus era fortemente influenzato dalle circostanze della Chiesa nell’Europa occidentale del XVIII e XIX secolo, dove si era assistito a una rinascita del conciliarismo sotto forma di gallicanesimo e febronianesimo (cfr. sopra, 2.3), che promuoveva l’autonomia delle Chiese nazionali, e a una conseguente tendenza da parte degli Stati a subordinare la Chiesa a loro. L’insegnamento del Concilio sul primato e sulla giurisdizione universale del Papa fu una risposta alla minaccia percepita all’unità e all’indipendenza della Chiesa.

3.6 Sebbene la Pastor Aeternus abbia insegnato che il Papa ha una giurisdizione episcopale ordinaria e immediata su tutta la Chiesa, ha tuttavia sottolineato che la potestà di ciascun vescovo è “affermata, confermata e rivendicata” dal Papa, e ha affermato che il “vincolo di unità” della Chiesa è quello della “comunione e della professione della stessa fede” (DS 3060-3061). Inoltre, la successiva dichiarazione dei vescovi tedeschi del 1875, approvata solennemente da Pio IX, insisteva, contro alcune interpretazioni dell’insegnamento conciliare, che il papato e l’episcopato sono entrambi “di istituzione divina” (DS 3115).

3.7 Per quanto riguarda l’infallibilità, il Concilio non ha definito l’infallibilità personale del Papa, ma la sua capacità, a certe condizioni, di proclamare infallibilmente la fede della Chiesa (DS 3074), e quando ha detto che tali definizioni ex cathedra sono “irreformabili di per sé, non per il consenso della Chiesa [ex sese, non autem ex consensu ecclesiae]” non ha separato il Papa dalla comunione e dalla fede della Chiesa, ma ha dichiarato che tali definizioni non hanno bisogno di ulteriori ratifiche. Si trattava di una risposta specifica al quarto articolo gallicano del 1682, che affermava che il giudizio del papa “non è irreformabile, almeno fino al consenso della Chiesa”.

3.8 Il Vaticano I rafforzò la tendenza prevalente nell’ecclesiologia occidentale dopo il Laterano IV, secondo la quale la Chiesa universale aveva la priorità sulle Chiese locali e possedeva una propria struttura al di sopra di queste ultime. Il papa non era semplicemente il vescovo della Chiesa locale di Roma, ma il pastore di tutta la Chiesa. Il Papa aveva giurisdizione su tutta la Chiesa, mentre i vescovi avevano giurisdizione sul loro gregge particolare.

3.9 L’insegnamento del Vaticano I sul primato papale di giurisdizione e infallibilità fu respinto da alcuni cattolici romani, che in seguito formarono la Chiesa vetero-cattolica. L’insegnamento provocò anche qualche reazione da parte delle Chiese cattoliche orientali, che però alla fine lo accettarono.

3.10 L’insegnamento del Vaticano I sul primato papale di giurisdizione su tutta la Chiesa e sull’infallibilità papale è stato considerato inaccettabile dalla Chiesa ortodossa. Tale ecclesiologia è per gli ortodossi un grave allontanamento dalla tradizione canonica dei Padri e dei Concili ecumenici, perché oscura la cattolicità di ogni Chiesa locale. Sulla scia del Concilio Vaticano I, gli argomenti addotti dagli ortodossi includevano, tra gli altri: che il capo di tutta la Chiesa non è un uomo mortale e peccatore, ma il Dio-uomo senza peccato e immortale Cristo; che San Pietro stesso non era un monarca né un potente, ma il primo tra gli apostoli; che la giurisdizione di ogni patriarca è geograficamente determinata dai sacri canoni, e che nessuno ha giurisdizione sulla Chiesa nel suo complesso. Sulla questione specifica dell’infallibilità, la Chiesa ortodossa riteneva inoltre che l’infallibilità appartenesse alla Chiesa nel suo insieme, come espresso dai concili ricevuti dall’intero popolo di Dio. Bisogna ammettere che questi argomenti sono stati spesso invocati in modo polemico e non in modo storico-critico.

3.11 La lettera apostolica di Papa Leone XIII, Orientalium Dignitas (1894), riconosceva i diritti distinti di tutte le Chiese orientali cattoliche e mostrava un approccio rispettoso nei confronti delle tradizioni orientali. La sua lettera enciclica Praeclara Gratulationis (1895) invitava tutti gli ortodossi all’unione con la Chiesa di Roma a condizione che riconoscessero il primato papale di giurisdizione. Il patriarca ecumenico Anthimus VII e il sinodo riunito intorno a lui scrissero una lettera patriarcale e sinodale nel 1895 per esprimere il loro parere fortemente negativo sull’uniatismo come metodo di proselitismo dei cristiani ortodossi. Rifiutarono anche l’invito di Papa Leone.

4. Il XX e il XXI secolo: Risorsa e avvicinamento

4.1 Nel XX secolo, i movimenti biblici, patristici e liturgici hanno portato a prestare maggiore attenzione all’insegnamento della Bibbia e dei Padri, nonché alla liturgia. Le relazioni cattolico-ortodosse hanno beneficiato di questo comune ritorno alle fonti (ressourcement).

4.2 Il concetto di “sobornost” è stato sviluppato nella Russia del XIX secolo da un gruppo di pensatori ortodossi chiamati slavofili come reazione al Santo Sinodo controllato dallo Stato, istituito dallo zar Pietro I nel 1721 (cfr. 2.7, sopra). Il termine deriva da sobor, che in slavo ecclesiastico significa “riunione” o “assemblea” o “sinodo” ecclesiale. Nel simbolo della fede, la parola greca katholikèn è tradotta in slavo ecclesiastico come sobornuyu. Gli slavofili intendevano con sobornost’ una qualità intrinseca di tutta la Chiesa: la sua cattolicità e la partecipazione di tutti i battezzati alla vita della Chiesa. L’idea della sobornost’ è evidente nella preparazione, nella composizione e nei processi decisionali del Concilio di Mosca (1917-1918), che ha coinvolto tutte le componenti della Chiesa. Sebbene sia stata criticata, in particolare per essere troppo influenzata da un ideale collettivista e per non aver dato il giusto riconoscimento alla gerarchia della Chiesa, la sobornost’ ha avuto un’importante influenza sull’ecclesiologia, sia ortodossa che cattolica, per la sua comprensione più conciliare della Chiesa come comunione (cfr. anche Ravenna, 5).

4.3 Nel XIX secolo, in Occidente, la Scuola di Tubinga ha promosso il concetto di Chiesa come comunione (communio) attraverso il recupero della tradizione patristica. Questa idea esprime la convinzione che la vita della Chiesa viene dall’alto e che la Chiesa è un’icona della Santa Trinità (ecclesia de Trinitate), per grazia dello Spirito Santo. È stata una base per il rinnovamento della riflessione ecclesiologica soprattutto nel XX secolo. In questa comprensione della Chiesa, c’è sia unità che diversità, come nella Santa Trinità, e questo si applica alla Chiesa in vari modi. La Chiesa nel suo insieme è il corpo di Cristo in cui ogni membro è dotato dallo Spirito per il bene del corpo e tutti sono legati dal vincolo dell’amore (cfr. 1Cor 12-13). La comunione dei santi (sancti) avviene attraverso la comunione dei santi doni (sancta) (cfr. 1Cor 10,16-17). Inoltre, l’unica Chiesa assume la forma di una comunione di Chiese locali, in ognuna delle quali è presente l’unica Chiesa universale, in modo tale che vi sia una mutua inabitazione tra il locale e l’universale e tra le stesse Chiese locali.

4.4 Uno dei risultati più importanti del Risorgimento del XX secolo è l'”ecclesiologia eucaristica”, che vede la Chiesa locale riunita attorno al suo vescovo per la celebrazione dell’Eucaristia come una manifestazione di tutta la Chiesa (cfr. Ignazio, Smyrn. 8) e come punto di partenza e fulcro della riflessione ecclesiologica. Il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha insegnato che tale riunione è “la principale manifestazione della Chiesa” (Sacrosanctum Concilium, 41) e che il sacrificio eucaristico è “la fonte e il culmine di tutta la vita cristiana” (Lumen Gentium, 11; cfr. Sacrosanctum Concilium, 10). Il Concilio ha inoltre sottolineato l’importanza della Chiesa locale quando ha affermato che “il vescovo, segnato dalla pienezza del sacramento dell’Ordine, è “l’amministratore della grazia del supremo sacerdozio”, specialmente nell’Eucaristia, che egli offre o fa offrire, e per mezzo della quale la Chiesa vive e cresce continuamente” (Lumen Gentium, 26). Il Santo e Grande Concilio della Chiesa Ortodossa di Creta (2016) ha affermato che “la tradizione degli Apostoli e dei Padri” ha sempre sottolineato “l’indissolubile relazione sia tra l’intero mistero dell’Economia divina in Cristo e il mistero della Chiesa, sia tra il mistero della Chiesa e il mistero della santa Eucaristia, che viene continuamente confermato nella vita sacramentale della Chiesa attraverso l’operazione dello Spirito Santo” (Enciclica, I, 2). Inoltre, affermava che “ogni Chiesa locale, nel momento in cui offre la santa Eucaristia, è presenza e manifestazione locale dell’unica Chiesa santa, cattolica e apostolica” (Messaggio, 1). Questi due importanti concili devono essere attentamente considerati.

4.5 All’inizio del XX secolo, la Chiesa ortodossa si trovava ad affrontare molte sfide – ad esempio, per quanto riguarda le relazioni con gli altri cristiani, il proselitismo, la secolarizzazione e l’etnofiletismo – che portarono il Patriarcato ecumenico a cercare una più stretta collaborazione tra le Chiese ortodosse autocefale. Nel 1902, il Patriarca ecumenico Gioacchino III inviò un’enciclica patriarcale e sinodale alle Chiese ortodosse autocefale chiedendo il loro parere su una serie di argomenti, cercando di promuovere l’unità panortodossa. Le Chiese risposero positivamente. Nel 1920, il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico emanò una lettera enciclica intitolata “Alle Chiese di Cristo ovunque”, in cui si chiedeva una più stretta comunicazione e collaborazione intercristiana. Il Patriarcato ecumenico convocò anche una conferenza panortodossa a Costantinopoli nel 1923 e successivamente organizzò un incontro panortodosso nel monastero di Vatopedi sul Monte Athos (1930), che già elencava i temi da inserire nell’agenda del Santo e Grande Concilio. Questi sforzi furono interrotti soprattutto dalla Seconda guerra mondiale.

4.6 Il Patriarca ecumenico Atenagora convocò conferenze panortodosse (Rodi 1961, 1963 e 1964; Chambésy, Ginevra 1968) che stabilirono l’agenda del Santo e Grande Concilio. A Chambésy si tenne una serie di conferenze preconciliari per preparare i relativi documenti. In questo contesto, quattro Sinassi dei primati delle Chiese ortodosse autocefale (Costantinopoli 2008 e 2014, Chambésy 2016 e Creta 2016) hanno portato alla convocazione del Santo e Grande Concilio da parte del Patriarca ecumenico Bartolomeo con il consenso unanime dei primati delle Chiese ortodosse a Creta dal 19 al 27 giugno 2016. La riunione del Santo e Grande Concilio dimostra che “la Chiesa ortodossa esprime la sua unità e cattolicità “nel Concilio”. La conciliarità [cioè la sinodalità] pervade la sua organizzazione, il modo in cui vengono prese le decisioni e determina il suo cammino” (Messaggio, 1).

4.7 Tra le altre questioni ecclesiologiche, il Concilio Vaticano II trattò la questione di come si intende l’episcopato e di come si relaziona con il ministero papale, che era rimasta aperta al Vaticano I. Il Vaticano II integrò e completò l’insegnamento del Vaticano I, secondo cui il Papa aveva la suprema e piena autorità sulla Chiesa e che in determinate circostanze poteva proclamare infallibilmente la fede della Chiesa, affermando che anche il corpo dei vescovi (“collegio episcopale”), in unione con il suo capo, il Papa, esercita entrambe le prerogative (Lumen Gentium, 22, 25, rispettivamente). In questo modo è stato stabilito un maggiore equilibrio tra i vescovi e il papa. Il Concilio ha riaffermato la responsabilità dei vescovi non solo per le loro Chiese locali, ma per la Chiesa nel suo insieme (Lumen Gentium, 23), e ha sottolineato in particolare il significato di un concilio ecumenico, quando i vescovi agiscono insieme al Papa come “maestri e giudici della fede e dei costumi per la Chiesa universale” (Lumen Gentium, 25). Nel 1965, Papa Paolo VI istituì il Sinodo dei Vescovi come “Consiglio permanente dei vescovi per la Chiesa universale”, rappresentativo di “tutto l’episcopato cattolico”, che avrebbe assistito il Papa con funzione consultiva e propositiva (Lettera Apostolica Sollicitudo).

4.8 Nel gennaio 1964, Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora si incontrarono sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme. Il 7 dicembre 1965, penultimo giorno del Concilio Vaticano II, revocarono i reciproci anatemi del 1054 con una cerimonia simultanea in Vaticano e al Phanar. Nei loro scambi durante gli anni Sessanta, il Patriarca Atenagora e Papa Paolo VI iniziarono a usare la terminologia di “Chiese sorelle” nei confronti della Chiesa di Roma e della Chiesa di Costantinopoli. Il Vaticano II ha riconosciuto che le Chiese orientali “possiedono i veri sacramenti, soprattutto per successione apostolica, il sacerdozio e l’Eucaristia” (Unitatis redintegratio, 15), e ha sollecitato il dialogo con queste Chiese, prestando attenzione alle relazioni che esistevano tra esse e la Sede romana “prima della separazione” (Unitatis redintegratio, 14).

4.9 Nel 1995, Papa Giovanni Paolo II ha detto: “Se coloro che vogliono essere i primi sono chiamati a diventare i servi di tutti, allora il primato dell’amore si vedrà crescere dal coraggio di questa carità. Prego il Signore di ispirare, innanzitutto a me stesso e ai vescovi della Chiesa cattolica, azioni concrete come testimonianza di questa certezza interiore” (Orientale Lumen, 19). Ha anche espresso la disponibilità “a trovare un modo di esercitare il primato che, pur non rinunciando in alcun modo a ciò che è essenziale per la sua missione, sia tuttavia aperto a una nuova situazione”, e ha proposto una discussione, in particolare tra vescovi e teologi romano-cattolici e ortodossi, sull’esercizio del primato “per cercare insieme, naturalmente, le forme in cui questo ministero possa realizzare un servizio d’amore riconosciuto da tutti gli interessati” (Ut Unum Sint, 95). Papa Benedetto XVI e Papa Francesco hanno ripetuto regolarmente questo invito, ed entrambi hanno spesso invocato la descrizione di Sant’Ignazio di Antiochia della Chiesa di Roma come quella “che presiede nell’amore [agape]” (Ad Romanos, Proemium).

4.10 Papa Francesco ha sottolineato che la sinodalità è “un elemento costitutivo della Chiesa”. Il suo desiderio di “una Chiesa interamente sinodale” (Discorso per il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015) incoraggia fortemente la ricerca di una sinodalità più efficace nella Chiesa cattolica romana. Egli ha affermato che “nel dialogo con i nostri fratelli e sorelle ortodossi, noi cattolici abbiamo l’opportunità di conoscere meglio il significato della collegialità episcopale e la loro esperienza di sinodalità” (Lettera enciclica Evangelii Gaudium, 2013, 246).

Conclusione

5.1 Alcune questioni importanti complicano una comprensione autentica della sinodalità e del primato nella Chiesa. La Chiesa non è propriamente intesa come una piramide, con un primate che governa dall’alto, ma nemmeno come una federazione di Chiese autosufficienti. Il nostro studio storico della sinodalità e del primato nel secondo millennio ha mostrato l’inadeguatezza di entrambe queste visioni. Allo stesso modo, è chiaro che per i cattolici romani la sinodalità non è solo consultiva e per gli ortodossi il primato non è solo onorifico. Nel 1979, Papa Giovanni Paolo II e il Patriarca ecumenico Dimitrios dissero: “Il dialogo della carità… ha aperto la strada a una migliore comprensione delle nostre rispettive posizioni teologiche e quindi a nuovi approcci al lavoro teologico e a un nuovo atteggiamento nei confronti del passato comune delle nostre Chiese. Questa purificazione della memoria collettiva delle nostre Chiese è un risultato importante del dialogo della carità e una condizione indispensabile per il progresso futuro” (Dichiarazione congiunta, 30 novembre 1979). Cattolici e ortodossi devono continuare su questa strada per abbracciare un’autentica comprensione della sinodalità e del primato alla luce dei “principi teologici, delle disposizioni canoniche e delle pratiche liturgiche” (Chieti, 21) della Chiesa indivisa del primo millennio.

5.2 Il Concilio Vaticano II ha aperto nuove prospettive interpretando fondamentalmente il mistero della Chiesa come mistero di comunione. Oggi c’è uno sforzo crescente per promuovere la sinodalità a tutti i livelli della Chiesa cattolica romana. C’è anche la volontà di distinguere quello che potrebbe essere definito il ministero patriarcale del Papa all’interno della Chiesa occidentale o latina dal suo servizio primaziale nei confronti della comunione di tutte le Chiese, offrendo nuove opportunità per il futuro. Nella Chiesa ortodossa, la sinodalità e il primato sono praticati a livello panortodosso, secondo la tradizione canonica, attraverso la celebrazione di santi e grandi concili.

5.3 Sinodalità e primato devono essere visti come “realtà interconnesse, complementari e inseparabili” (Chieti, 5) da un punto di vista teologico (Chieti, 4, 17). Le discussioni puramente storiche non sono sufficienti. La Chiesa è profondamente radicata nel mistero della Santa Trinità e un’ecclesiologia eucaristica di comunione è la chiave per articolare una solida teologia della sinodalità e del primato.

5.4 L’interdipendenza tra sinodalità e primato è un principio fondamentale nella vita della Chiesa. È intrinsecamente legata al servizio dell’unità della Chiesa a livello locale, regionale e universale. Tuttavia, i principi devono essere applicati in contesti storici specifici e il primo millennio offre una guida preziosa per l’applicazione del principio appena citato (Chieti, 21). Ciò che si richiede nelle nuove circostanze è una nuova e corretta applicazione dello stesso principio regolatore.

5.5 Nostro Signore ha pregato perché i suoi discepoli “siano tutti una cosa sola” (Gv 17,21). Il principio della sinodalità-primato al servizio dell’unità deve essere invocato per rispondere ai bisogni e alle esigenze della Chiesa nel nostro tempo. Ortodossi e cattolici romani sono impegnati a trovare modi per superare l’alienazione e la separazione che si sono verificate durante il secondo millennio.

5.6 Dopo aver riflettuto insieme sulla storia del secondo millennio, riconosciamo che una lettura comune delle fonti può ispirare la pratica della sinodalità e del primato nel futuro. Osservando il mandato di nostro Signore di amarci gli uni gli altri come lui ci ha amati (Gv 13,34), è nostro dovere cristiano impegnarci per l’unità nella fede e nella vita.

Traduzione: Teandrico.it


[1] http://www.christianunity.va/content/unitacristiani/it/dialoghi/sezione-orientale/chiese-ortodosse-di-tradizione-bizantina/commissione-mista-internazionale-per-il-dialogo-teologico-tra-la/documenti-di-dialogo/2016-sinodalita-e-primato-nel-primo-millennio–verso-una-comune-.html

[2] Cfr. Massimo il Confessore, Mystagogia (pg 91, 663d).

[3] Cipriano, De oratione dominica, 23 (pl 4, 536).

[4] Cfr. Giovanni Crisostomo, Explicatio in psalmum 149 (pg 55, 493).

[5] Sant’Ignazio, Lettera agli smirnesi, VIII.

[6] Cipriano, Epistulae, 55, 24, 2; si veda anche De unitate, 5: episcopatus unus est cuius a singulis in solidum pars tenetur.

[7] Primo concilio ecumenico (Nicea, 325), canone iv: «Si abbia la massima cura che un vescovo sia istituito da tutti i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per sopravvenute difficoltà, o per la distanza, almeno tre, radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima per iscritto il consenso degli assenti, celebrino la consacrazione. La conferma [kýros] di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna provincia al vescovo metropolita». Cfr. anche Canone apostolico, 1: «Un vescovo deve essere consacrato da due o tre vescovi».

[8] Primo concilio ecumenico (Nicea, 325), canone IV; anche canone VI: «Se qualcuno è fatto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba esser vescovo».

[9] Quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451), canone XII: «Quelle città, però, che già avessero ricevuto con lettere imperiali l’onorifico titolo di metropoli godranno del solo onore, così pure il vescovo che governa quella Chiesa, salvi, naturalmente, i privilegi della vera [katà alétheian] metropoli».

[10] Settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787): il canone XI concede ai metropoliti il diritto di nominare gli economi delle loro diocesi suffraganee se i vescovi non provvedono a farlo.

[11] Cfr. concilio di Antiochia (327), canone IX: «È appropriato che i vescovi in ogni provincia [eparchía] sottostiano al vescovo che presiede la metropoli».

[12] Cfr. Primo concilio ecumenico (Nicea, 325), canone VI: «In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi [presbéia]»; Secondo concilio ecumenico (Costantinopoli, 381), canone III: «Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore [presbéia tes timés] dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma»; Quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451), canone XXVIII: «Giustamente i padri concessero privilegi [presbéia] alla sede dell’antica Roma, perché la città era città imperiale. Per lo stesso motivo i centocinquanta vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l’imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell’antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella» (questo canone non fu mai recepito in Occidente); cfr. Concilio in Trullo (692), canone XXXVI: «Rinnovando le disposizioni dei centocinquanta Padri riuniti nella città imperiale protetta da Dio, e quelle dei seicentotrenta che si sono riuniti a Calcedonia, decretiamo che la sede di Costantinopoli abbia uguali privilegi [presbéia] della sede dell’antica Roma, e sia tenuta in alto conto nelle questioni ecclesiali poiché questa sede è e deve essere seconda a essa. Dopo Costantinopoli viene la sede di Alessandria, poi quella di Antiochia e quindi la sede di Gerusalemme».

[13] Cfr. Girolamo, In Isaiam, 14, 53; Leone, Sermo 96, 2-3.

[14] Cfr. Settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787): J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XIII, 208d-209c.

[15] Cfr. sinodo di Sardica (343), canoni III e v.

[16] Cfr. concilio in Trullo, canone II. Similmente, il concilio di Fozio dell’861 accettò i canoni di Sardica come riconoscenti il diritto di cassazione del vescovo di Roma su casi già giudicati a Costantinopoli.

[17] Cfr. Quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451), canoni IX e XVII.

[18] http://www.christianunity.va/content/unitacristiani/en/dialoghi/sezione-orientale/chiese-ortodosse-di-tradizione-bizantina/commissione-mista-internazionale-per-il-dialogo-teologico-tra-la/documenti-di-dialogo/document-d-alexandrie—synodalite-et-primaute-au-deuxieme-mille.html




ANZIANO PORFIRIOS – Testimonianze ed esperienze: Cos’è un anziano?

Cos’è un’anziano?

Tratto, con riconoscenza, dal libro del vescovo Kallistos Ware “The Orthodox Way”. Rev. ed. St. Vladimir’s Seminary Press, 1995, pagg. 95-99.

L’anziano o “vecchio”, conosciuto in greco come Geron e in russo come Starets, non deve necessariamente essere vecchio di anni, ma è saggio nella sua esperienza della verità divina e benedetto dalla grazia della “paternità nello Spirito”, con il carisma di guidare gli altri sulla Via. Ciò che offre ai suoi figli spirituali non è principalmente un’istruzione morale o una regola di vita, ma una relazione personale. “Uno starets”, dice Dostoevskij, “è uno che prende la tua anima, la tua volontà, nella sua anima e nella sua volontà”. I discepoli di p. Zaccaria dicevano di lui: “È come se portasse il nostro cuore nelle sue mani”. Lo starets è l’uomo della pace interiore, al cui fianco migliaia di persone possono trovare la salvezza. Lo Spirito Santo gli ha dato, come frutto della sua preghiera e della sua abnegazione, il dono del discernimento o della discriminazione, che gli permette di leggere i segreti del cuore degli uomini; e così risponde non solo alle domande che gli altri gli pongono, ma spesso anche a quelle – spesso molto più fondamentali – che essi non hanno nemmeno pensato di porre. Insieme al dono del discernimento, egli possiede il dono della guarigione spirituale: il potere di risanare l’anima degli uomini, e talvolta anche il loro corpo. Questa guarigione spirituale non si ottiene solo con le sue parole di consiglio, ma anche con il suo silenzio e la sua stessa presenza. Per quanto importante sia il consiglio, molto più importante è la sua preghiera di intercessione. Egli rende integri i suoi figli pregando costantemente per loro, identificandosi con loro, accettando le loro gioie e i loro dolori come fossero suoi, prendendo sulle sue spalle il peso delle loro colpe o delle loro angosce. Nessuno può essere uno starets se non prega insistentemente per gli altri.

Se lo starets è un sacerdote, di solito il suo ministero di direzione spirituale è strettamente legato al sacramento della confessione. Ma uno starets in senso pieno, come descritto da Dostoevskij o esemplificato da p. Zaccaria, è più di un semplice sacerdote-confessore. Uno starets nel senso pieno del termine non può essere nominato tale da alcuna autorità superiore. Ciò che accade è che lo Spirito Santo, parlando direttamente al cuore del popolo cristiano, rende evidente che questa o quella persona è stata benedetta da Dio con la grazia di guidare e guarire gli altri. Il vero starets è in questo senso una figura profetica, non un funzionario istituzionale. Sebbene sia più comunemente un sacerdote-monaco, può anche essere un parroco sposato, o un monaco laico non ordinato al sacerdozio, o anche – ma questo è meno frequente – una suora, o un uomo o una donna laici che vivono nel mondo esterno. Se lo starets non è egli stesso un sacerdote, dopo aver ascoltato i problemi delle persone e averle consigliate, spesso le invia a un sacerdote per la confessione e l’assoluzione sacramentale.

Il rapporto tra bambino e padre spirituale varia molto. Alcuni visitano lo starets forse solo una o due volte nella vita, in un momento di particolare crisi, mentre altri sono in contatto regolare con il loro starets, vedendolo mensilmente o addirittura quotidianamente. Non si possono stabilire regole in anticipo; la relazione cresce da sola sotto la guida immediata dello Spirito.

Il rapporto è sempre personale. Lo starets non applica regole astratte imparate da un libro – come nella “casistica” del cattolicesimo della Controriforma – ma vede in ogni occasione particolare l’uomo o la donna che gli sta davanti e, illuminato dallo Spirito, cerca di trasmettere la volontà unica di Dio specificamente per questa persona. Per questo il vero starets comprende e rispetta il carattere distintivo di ciascuno, non sopprime la sua libertà interiore ma la rafforza. Non mira a suscitare un’obbedienza meccanica, ma conduce i suoi figli al punto di maturità spirituale in cui possono decidere da soli. A ciascuno mostra il suo vero volto, che prima gli era in gran parte nascosto; e la sua parola è creativa e vivificante, consentendo all’altro di realizzare compiti che prima sembravano impossibili. Ma tutto questo lo starets può ottenerlo solo perché ama ciascuno personalmente. Inoltre, il rapporto è reciproco: lo starets non può aiutare un’altra persona a meno che questa non desideri seriamente cambiare il suo stile di vita e non apra il suo cuore con amorevole fiducia allo starets. Chi si reca da uno starets in uno spirito di curiosità spirituale è probabile che torni a mani vuote, non impressionato.

Poiché il rapporto è sempre personale, uno stesso starets non può aiutare tutti allo stesso modo. Può aiutare solo coloro che sono stati specificamente inviati a lui dallo Spirito. Allo stesso modo, il discepolo non deve dire: “Il mio starets è migliore di tutti gli altri”. Dovrebbe dire solo: “Il mio starets è il migliore per me”. Nel guidare gli altri, il padre spirituale attende la volontà e la voce dello Spirito Santo. “Darò solo quello che Dio mi dice di dare”, diceva San Serafino. “Credo alla prima parola che mi arriva ispirata dallo Spirito Santo”. Ovviamente nessuno ha il diritto di agire in questo modo se non ha raggiunto, attraverso lo sforzo ascetico e la preghiera, una consapevolezza eccezionalmente intensa della presenza di Dio. Per chi non ha raggiunto questo livello, un simile comportamento sarebbe presuntuoso e irresponsabile.

P. Zaccaria parla negli stessi termini di San Serafino:

“A volte un uomo non sa nemmeno lui cosa dirà. Il Signore stesso parla attraverso le sue labbra. Bisogna pregare così: ‘O Signore, che tu viva in me, che tu parli attraverso di me, che tu agisca attraverso di me’. Quando il Signore parla attraverso le labbra di un uomo, allora tutte le parole di quell’uomo sono efficaci e tutto ciò che viene detto da lui si realizza. L’uomo che parla è lui stesso sorpreso di questo… Solo che non si deve fare affidamento sulla saggezza”.

Il rapporto tra padre spirituale e figlio si estende oltre la morte, fino al Giudizio Universale. P. Zaccaria rassicurava i suoi seguaci: “Dopo la morte sarò molto più vivo di adesso, quindi non affliggetevi quando morirò… Nel giorno del giudizio l’anziano dirà: Ecco me e i miei figli”. San Serafino chiese che queste straordinarie parole fossero incise sulla sua lapide:

Quando sarò morto, venite da me sulla mia tomba, e più spesso è meglio è. Qualunque cosa ci sia nella vostra anima, qualunque cosa vi sia accaduta, venite da me come quando ero vivo e, inginocchiandovi a terra, gettate tutte le vostre amarezze sulla mia tomba. Raccontatemi tutto e io vi ascolterò, e tutta l’amarezza

volerà via da voi. E come mi avete parlato quando ero vivo, fatelo anche ora. Perché io sono vivo e lo sarò per sempre.

Non tutti gli ortodossi hanno un proprio padre spirituale. Cosa dobbiamo fare se cerchiamo una guida e non la troviamo? Naturalmente è possibile imparare dai libri; che si abbia o meno uno starets, si guarda alla Bibbia per avere una guida costante. Ma la difficoltà con i libri è quella di sapere esattamente cosa è applicabile a me personalmente, in questo specifico momento del mio cammino. Oltre ai libri, oltre alla paternità spirituale, c’è anche la fratellanza o la sorellanza spirituale, l’aiuto che ci viene dato non dai maestri in Dio, ma dai nostri compagni di viaggio. Non dobbiamo trascurare le opportunità che ci vengono offerte in questa forma. Ma coloro che si impegnano seriamente nella Via devono anche fare ogni sforzo per trovare un padre nello Spirito Santo. Se cercano con umiltà, riceveranno senza dubbio la guida di cui hanno bisogno. Non che trovino spesso uno starets come San Serafino o Padre Zaccaria. Dobbiamo fare attenzione a non trascurare, nell’attesa di qualcosa di più spettacolare, l’aiuto che Dio ci sta offrendo. Qualcuno che agli occhi degli altri è insignificante, forse si rivelerà l’unico padre spirituale in grado di parlare a me, personalmente, con le parole di fuoco che ho bisogno di sentire.


Tradotto da Teandrico.it

Tratto dal sito OODE

https://www.oodegr.com/english/biblia/Porfyrios_Martyries_Empeiries/A4.htm

Published by the Holy Convent of the Transfiguration of the Saviour – Athens 1997

(con il permesso del Monastero ad OODE di pubblicare il libro in formato elettronico)

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