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1994: Lettera al Patriarca Ecumenico Bartolomeo dalla Sacra Comunità del Monte Athos sulla dichiarazione di Balamand

Nel 1993 si tenne un incontro della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali a Balamand (Libano), dove fu redatta una dichiarazione sull’uniatismo. Uno dei tasselli del movimento ecumenico, la paneresia come la definì il teologo ortodosso e Santo Justin Popovitch.

La Dichiarazione di Balamand fu ampiamente contestata tra gli ortodossi. La seguente lettera al Patriarca Ecumenico Bartolomeo è stata scritto dalla Sacra Comunità del Monte Athos. Apparve originariamente in greco in Orthodoxos Typos, il 18 marzo, 1994, e fu tradotta in russo, serbo e inglese. La riproponiamo in una nostra traduzione in italiano.

8 dicembre 1993

[…]

Santissimo Padre e Maestro:

L’unione delle Chiese o, per essere precisi, l’unione degli eterodossi con la nostra Chiesa Ortodossa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica è auspicabile anche per noi affinché si compia la preghiera del Signore… affinché siano una cosa sola (Giovanni 17,21). In ogni caso la comprendiamo e attendiamo secondo l’interpretazione ortodossa. Come ci ricorda il professor John Romanides, “Cristo prega qui affinché i suoi discepoli e i loro discepoli possano, in questa vita, diventare una cosa sola nella visione della sua gloria (che Egli ha per natura dal Padre) quando diventeranno membri del suo Corpo, la Chiesa…” [1]

Per questo motivo, ogni volta che ci visitano cristiani eterodossi, ai quali offriamo amore e ospitalità in Cristo, siamo dolorosamente consapevoli che ci separiamo nella fede e, per questo, non possiamo avere la comunione ecclesiastica.

Lo scisma, la divisione tra ortodossi e non calcedoniani prima e tra ortodossi e occidentali poi, costituisce davvero una tragedia di fronte alla quale non dobbiamo tacere o compiacerci.

In questo contesto, quindi, apprezziamo gli sforzi compiuti con timore di Dio e in conformità con la Tradizione ortodossa che guardano ad un’unione che non può realizzarsi attraverso il silenzio o la minimizzazione delle dottrine ortodosse, o attraverso la tolleranza delle false dottrine degli eterodossi, perché non sarebbe un’unione nella Verità. E alla fine questo non sarebbe accettato dalla Chiesa né benedetto da Dio, perché, secondo il detto patristico, “Una cosa buona non è buona se non è realizzata in modo buono”.

Al contrario, porterebbe nuovi scismi e nuove divisioni e miserie nel corpo già [dis]unito[2] dell’Ortodossia. A questo punto vorremmo dire che di fronte ai grandi cambiamenti in atto nelle terre di presenza ortodossa, e di fronte a tante condizioni di instabilità su scala mondiale, l’Una, Santa, Cattolica e Apostolica, in in altre parole, la Chiesa Ortodossa avrebbe dovuto rafforzare la coesione delle Chiese locali e dedicarsi alla cura dei suoi membri colpiti dal terrore e alla loro stabilizzazione spirituale, da un lato e nella sua coscienza [come Chiesa Una Santa], dall’altro, avrebbe dovuto suonare la tromba del suo potere e della sua Grazia redentrice unici e manifestarli davanti all’umanità caduta.

In questo spirito, nella misura in cui il nostro ufficio monastico ce lo consente, seguiamo da vicino gli sviluppi del cosiddetto movimento e dialogo ecumenico. Notiamo che a volte la parola della Verità viene giustamente tenuta divisa e, a volte, si fanno compromessi e concessioni su questioni fondamentali della Fede.

I

Pertanto, le azioni e le dichiarazioni dei rappresentanti delle Chiese Ortodosse, inaudite fino ad oggi e del tutto contrarie alla nostra santa fede, ci hanno causato un profondo dolore.

Citeremo innanzitutto il caso di Sua Beatitudine [Parthenios], il Patriarca di Alessandria, il quale, in almeno due occasioni, ha affermato che noi cristiani dovremmo riconoscere Maometto come profeta. Fino ad oggi, tuttavia, nessuno gli ha chiesto di dimettersi, e questo Patriarca terribilmente incurante continua a presiedere la Chiesa di Alessandria come se non ci fosse nulla di sbagliato.

In secondo luogo, citiamo il caso del Patriarcato di Antiochia, che, senza una decisione pan-ortodossa, ha proceduto alla comunione ecclesiastica con i non calcedoniani [monofisiti]. Ciò è stato compiuto nonostante il fatto che un problema molto serio non sia stato ancora risolto. È proprio la non accettazione da parte di quest’ultimi dei Concili ecumenici successivi al Terzo e, in particolare, il Quarto, il Concilio di Calcedonia, che costituisce di fatto una base inamovibile dell’Ortodossia. Purtroppo anche in questo caso non abbiamo assistito ad una sola protesta da parte delle altre Chiese ortodosse.

La questione più grave, tuttavia, è il cambiamento inaccettabile nella posizione degli ortodossi che emerge dalla dichiarazione congiunta della commissione mista per il dialogo tra cattolici romani e ortodossi alla Conferenza di Balamand del giugno 1993. Hanno adottato posizioni antiortodosse, ed è soprattutto su questo che richiamiamo l’attenzione di Vostra Santità.

In primo luogo, dobbiamo confessare che le dichiarazioni che Vostra Santità ha fatto di tanto in tanto, secondo cui il movimento Uniate è un ostacolo insormontabile alla continuazione del dialogo tra ortodossi e cattolici romani, ci hanno finora tranquillizzato.

Ma il suddetto documento [di Balamand] dà l’impressione che le sue affermazioni vengano eluse. Inoltre, l’Unia riceve l’amnistia ed è invitata al tavolo del dialogo teologico nonostante la decisione contraria della Terza Conferenza Panortodossa di Rodi che richiedeva: “il ritiro completo dalle terre ortodosse da parte degli agenti e propagandisti uniati del Vaticano; l’incorporazione delle cosiddette Chiese uniate e la loro sottomissione sotto la Chiesa di Roma prima dell’inaugurazione del dialogo, perché Unia e dialogo allo stesso tempo sono inconciliabili”.

II

Santità, lo scandalo più grande, però, è causato dalle posizioni ecclesiologiche contenute nel documento. Ci riferiremo qui solo alle deviazioni fondamentali.

Al paragrafo 10 leggiamo:

La Chiesa cattolica… (che ha svolto un’opera missionaria contro gli ortodossi e) si è presentata come l’unica alla quale è stata affidata la salvezza. Per reazione, la Chiesa ortodossa, a sua volta, arrivò ad accettare la stessa visione secondo la quale solo in essa si poteva trovare la salvezza. Per assicurare la salvezza dei «fratelli separati» avvenne addirittura che i cristiani venissero ribattezzati e che alcune esigenze della libertà religiosa delle persone e del loro atto di fede fossero dimenticate. Questa prospettiva era quella verso la quale quel periodo mostrò poca sensibilità.

Come ortodossi, non possiamo accettare questo punto di vista. Non è stato per reazione contro l’Unia che la nostra Santa Chiesa Ortodossa ha cominciato a credere di possedere esclusivamente la salvezza, ma lo ha creduto prima che esistesse l’Unia, fin dai tempi dello Scisma, avvenuto per ragioni dogmatiche. La Chiesa Ortodossa non ha atteso la venuta dell’Unia per acquisire la coscienza di essere la continuazione incontaminata della Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica, perché ha sempre avuto questa autocoscienza, così come ha avuto la consapevolezza che il Papato era in eresia. Se non usò frequentemente il termine eresia, fu perché, secondo san Marco di Efeso, “I latini non sono solo scismatici, ma anche eretici. Tuttavia, la Chiesa ha taciuto su questo perché la loro razza è grande e più potente della nostra… e noi abbiamo voluto non cadere nel trionfalismo sui latini come eretici, ma accettare il loro ritorno e coltivare la fratellanza”.

Ma quando gli uniati e gli agenti di Roma furono scatenati contro di noi in Oriente per fare proselitismo tra gli ortodossi sofferenti con mezzi per lo più illegali, come fanno anche oggi, l’Ortodossia fu costretta a dichiarare quella verità, non a fini di proselitismo ma per proteggere il gregge.

San Fozio definisce ripetutamente il Filioque come un’eresia e i suoi credenti come cacodossi [credenti errati].

San Gregorio Palamas dice dell’occidentale Barlaam, che quando arrivò all’Ortodossia, “non accettò l’acqua santificante della nostra Chiesa… per cancellare le [sue] macchie dall’Occidente”. San Gregorio lo considera ovviamente un eretico bisognoso della grazia santificante per entrare nella Chiesa Ortodossa.

L’affermazione contenuta nel paragrafo in questione scarica ingiustamente la responsabilità sulla Chiesa ortodossa per alleggerire quella dei papisti. Quando gli ortodossi hanno calpestato la libertà religiosa degli uniati e dei cattolici romani battezzandoli contro la loro volontà? E se ci sono state delle eccezioni, gli ortodossi che hanno firmato il documento di Balamand dimenticano che coloro che sono stati ribattezzati contro la loro volontà erano discendenti degli ortodossi resi uniati con la forza, come è avvenuto in Polonia, Ucraina e Moldavia. (Vedi paragrafo 11)

Al paragrafo 13 leggiamo:

Infatti, soprattutto a partire dall’inizio delle Conferenze panortodosse e dal Concilio Vaticano II, la riscoperta e la valorizzazione della Chiesa come comunione, sia da parte degli ortodossi che dei cattolici, ha cambiato radicalmente prospettive e quindi atteggiamenti. Da entrambe le parti si riconosce che ciò che Cristo ha affidato alla sua Chiesa — professione di fede apostolica, partecipazione agli stessi sacramenti, soprattutto l’unico sacerdozio celebrante l’unico sacrificio di Cristo, la successione apostolica dei vescovi — non può essere proprietà esclusiva di una delle nostre Chiese. In questo contesto è chiaro che ogni forma di ribattesimo va evitata.

La nuova scoperta della Chiesa come comunione da parte dei cattolici romani ha, ovviamente, un certo significato per loro che non avevano via d’uscita dal dilemma della loro ecclesiologia totalitaria e, quindi, hanno dovuto rivolgere il loro sistema di pensiero al carattere comunitario della Chiesa. Così, accanto ad un estremo del totalitarismo, essi pongono l’altro della collegialità, sempre motivata sullo stesso piano antropocentrico. La Chiesa ortodossa, però, ha sempre avuto la coscienza di non essere una semplice comunione, ma una comunione teantropica o una «comunione di theosis [divinizzazione]», come dice san Gregorio Palamas nella sua omelia sulla processione dello Spirito Santo. Inoltre, la comunione della theosis non solo è sconosciuta, ma è anche inconciliabile con la teologia cattolica romana, che rifiuta [la dottrina delle] energie increate di Dio che formano e sostengono questa comunione.

Date queste verità, è con la più profonda tristezza che abbiamo confermato che questo paragrafo [13] rende la Chiesa Ortodossa uguale alla Chiesa cattolica romana che dimora nella cacodossia [credenza sbagliata].

Gravi differenze teologiche, come il Filioque, il primato e l’infallibilità papale, la grazia creata, ecc., ricevono l’amnistia e si sta forgiando un’unione senza accordo dogmatico.

Si verificano così le premonizioni che l’unione disegnata dal Vaticano, nella quale, come diceva san Marco di Efeso, “i volenterosi vengono involontariamente manipolati” (cioè gli ortodossi, che vivono oggi anche in circostanze ostili etnicamente e politicamente e sono prigioniera di nazioni di altre religioni), viene spinta a svolgersi senza accordo riguardo alle differenze dottrinali. Il progetto è che l’unione avvenga, nonostante le differenze, attraverso il riconoscimento reciproco dei Misteri e della successione apostolica di ciascuna Chiesa, e l’applicazione dell’intercomunione, limitata all’inizio e più ampia poi. Dopo di ciò, le differenze dottrinali possono essere discusse solo come opinioni teologiche.

Ma una volta avvenuta l’unione, che senso ha discutere di differenze teologiche? Roma sa che gli ortodossi non accetteranno mai i suoi insegnamenti estranei. L’esperienza lo ha dimostrato nei vari tentativi di unione fino ad oggi. Pertanto, nonostante le differenze, Roma sta costruendo un’unione e spera, da un punto di vista umanistico (come è sempre la sua prospettiva), che, come fattore più potente, col tempo assorbirà quello più debole, cioè l’Ortodossia. Padre John Romanides lo aveva presagito nel suo articolo “Il movimento uniate e l’ecumenismo popolare”, pubblicato su The Orthodox Witness, febbraio 1966.

Vorremmo porre queste domande agli ortodossi che hanno firmato questo documento:

Il Filioque, il primato e l’infallibilità [papale], il purgatorio, l’Immacolata Concezione e la grazia creata costituiscono una confessione apostolica? Nonostante tutto ciò, è possibile per noi ortodossi riconoscere come apostolica la fede e la confessione dei cattolici romani?

Queste gravi deviazioni teologiche di Roma costituiscono eresie oppure no?

Se lo sono, come sono stati descritti dai Concili e dai Padri ortodossi, non comportano l’invalidità dei Misteri e la successione apostolica di eterodossi e cacodossi di questo tipo?

È possibile che esista la pienezza della grazia dove non c’è la pienezza della verità?

È possibile distinguere il Cristo della Verità dal Cristo dei Misteri e dalla successione apostolica?

La successione apostolica è stata proposta innanzitutto dalla Chiesa come conferma storica della continua conservazione della sua verità. Ma quando la verità stessa viene distorta, che significato può avere una preservazione formulistica della successione apostolica? I grandi eresiarchi non avevano spesso questo tipo di successione esterna? Come è possibile che anch’essi siano considerati portatori di Grazia?

E come è possibile che due Chiese siano considerate “Chiese sorelle” non per la loro discendenza comune pre-scismatica, ma per la cosiddetta confessione comune, la grazia santificante e il sacerdozio nonostante le grandi differenze nei dogmi?

Chi tra gli ortodossi può accettare come vero successore degli Apostoli colui che è infallibile, colui che ha il primato di autorità per governare su tutta la Chiesa e per essere la guida religiosa e laica dello Stato Vaticano?

Non sarebbe questa una negazione della Fede e della Tradizione Apostolica?

Oppure i firmatari di questo documento non sono consapevoli del fatto che molti cattolici romani oggi gemono sotto i piedi del Papa (e del suo sistema ecclesiologico scolastico e centrato sull’uomo) e desiderano entrare nell’Ortodossia?

Come possono queste persone che sono tormentate spiritualmente e desiderano il santo Battesimo non essere accolte nell’Ortodossia perché si suppone che la stessa Grazia sia qui e là? Non dovremmo, a quel punto, rispettare la loro libertà religiosa, come richiede in un’altra circostanza la dichiarazione di Balamand, e concedere loro il battesimo ortodosso? Quale difesa presenteremo al Signore se neghiamo la pienezza della Grazia a coloro che, dopo anni di agonia e di ricerca personale, desiderano il santo Battesimo della nostra Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica?

Il paragrafo 14 del documento cita Papa Giovanni Paolo II: “L’impegno ecumenico delle Chiese sorelle d’Oriente e d’Occidente, fondato sul dialogo e sulla preghiera, è la ricerca della comunione perfetta e totale, che non è né assorbimento né fusione, ma incontro nella Verità e nella Amore.”

Ma come è possibile un’unione nella Verità quando le differenze nei dogmi vengono eluse ed entrambe le Chiese vengono descritte come sorelle nonostante le differenze?

La Verità della Chiesa è indivisibile perché è Cristo stesso. Ma quando ci sono differenze nei dogmi non può esserci unità in Cristo.

Da quello che sappiamo della storia della Chiesa, le Chiese erano chiamate Chiese sorelle quando avevano la stessa fede. La Chiesa ortodossa non è mai stata definita sorella di alcuna chiesa eterodossa, indipendentemente dal grado di eterodossia o cacodossia che manteneva.

Ci poniamo una domanda fondamentale: il sincretismo religioso e il minimalismo dottrinale – sottoprodotti della secolarizzazione e dell’umanesimo – hanno forse influenzato i firmatari ortodossi del documento?

È evidente che il documento adotta, forse per la prima volta da parte ortodossa, la posizione secondo cui due Chiese, quella ortodossa e quella cattolica romana, insieme costituiscono l’unica Santa Chiesa o sono due legittime espressioni di essa.

Sfortunatamente, è la prima volta che gli ortodossi accettano ufficialmente una forma della teoria dei rami.

Permetteteci di esprimere il nostro profondo dolore per questo in quanto questa teoria entra fino ad ora in stridente conflitto con la tradizione e la coscienza ortodossa.

Abbiamo molti testimoni della coscienza ortodossa che solo la nostra Chiesa costituisce l’Unica Santa Chiesa, e sono riconosciuti come autorità pan-ortodosse. Questi sono il:

1. Concilio di Costantinopoli, 1722;

2. Concilio di Costantinopoli, 1727;

3. Concilio di Costantinopoli, 1838;

4. Enciclica dei Quattro Patriarchi d’Oriente e loro sinodi. 1848;

5. Concilio di Costantinopoli, 1895.

Questi hanno decretato che solo la nostra Santa Chiesa Ortodossa costituisce l’Unica Santa Chiesa.

Il Concilio di Costantinopoli del 1895 riassume tutti i Concili precedenti:

L’Ortodossia, cioè la Chiesa d’Oriente, giustamente si vanta in Cristo di essere la Chiesa dei sette Concili ecumenici e dei primi nove secoli del cristianesimo e quindi di essere la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica, “colonna e baluardo della verità.”E l’attuale Chiesa Romana è la chiesa del modernismo e dell’adulterazione degli scritti dei Padri della Chiesa e della distorsione delle Sacre Scritture e dei decreti dei Santi Concili. Giustamente e a ragione è stato denunciato e viene denunciato finché persiste nel suo delirio. «Meglio una guerra lodevole», dice san Gregorio Nazianzeno, «che una pace separata da Dio».

I rappresentanti delle Chiese ortodosse hanno dichiarato le stesse cose alle conferenze del Consiglio ecumenico delle Chiese. Tra loro c’erano illustri teologi ortodossi, come padre George Florovsky. Così, alla Conferenza di Lund del 1952, si dichiarò:

Siamo venuti qui non per giudicare le altre Chiese, ma per aiutarle a vedere la verità, per illuminare il loro pensiero in modo fraterno, informandole sugli insegnamenti della Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, cioè la Chiesa Greco-Ortodossa , che è inalterato rispetto al periodo apostolico.

A Evanston nel 1954:

In conclusione, siamo obbligati a dichiarare la nostra profonda convinzione che solo la Santa Chiesa Ortodossa ha preservato “la fede una volta trasmessa ai santi” in tutta la sua pienezza e purezza. E questo non per qualche nostro merito umano, ma perché Dio si compiace di custodire il suo tesoro in vasi di creta…

E a Nuova Delhi nel 1961:

L’unità è stata spezzata ed è necessario riconquistarla. Per l’Ortodossia la Chiesa Ortodossa non è una Confessione, non una delle tante o una tra le tante. Per gli ortodossi la Chiesa ortodossa è la Chiesa. La Chiesa ortodossa ha la percezione e la coscienza che la sua struttura interna e il suo insegnamento coincidono con il kerygma apostolico e con la tradizione della Chiesa antica e indivisa. La Chiesa ortodossa esiste nella successione ininterrotta e continua del ministero sacramentale, della vita sacramentale e della fede. La successione apostolica dell’ufficio episcopale e del ministero sacramentale, per gli ortodossi, è veramente una componente essenziale e, per questo, un elemento necessario dell’esistenza di tutta la Chiesa. Secondo la sua convinzione interiore e la consapevolezza delle circostanze, la Chiesa Ortodossa occupa una posizione speciale e straordinaria nella cristianità divisa come portatrice e testimone della tradizione dell’antica Chiesa indivisa, da cui provengono le attuali denominazioni cristiane attraverso riduzione e separazione.

Potremmo qui riportare anche le testimonianze dei più illustri e riconosciuti teologi ortodossi. Ci limiteremo a uno, il defunto padre Dumitru Stăniloae, un teologo distinto non solo per la sua saggezza ma per l’ampiezza e la mentalità ortodossa della prospettiva ecumenica.

In molti punti del suo notevole libro, Verso un ecumenismo ortodosso, fa riferimento a temi rilevanti per la dichiarazione congiunta [di cui si discute qui] e rende testimonianza ortodossa. Attraverso di esso, quindi, si mostrerà il disaccordo tra le posizioni assunte nel documento e la fede ortodossa:

“Senza unità di fede e senza comunione nello stesso Corpo e Sangue del Verbo Incarnato, non potrebbe esistere una tale Chiesa, né potrebbe esistere una Chiesa nel senso pieno della parola”.

“Nel caso di chi entra nella piena comunione di fede con i membri della Chiesa Ortodossa e ne diventa membro, si intende per economia [dispensazione] dare validità a un Mistero precedentemente compiuto fuori della Chiesa”.

“Dal punto di vista cattolico romano, la Chiesa non è tanto un organismo spirituale guidato da Cristo quanto piuttosto un’organizzazione nomocanonica che, anche nelle migliori circostanze, vive non a livello divino ma soprannaturale [3] grazia creata.”

«Nella conservazione di questa unità, un ruolo indispensabile è svolto dall’unità della fede, perché questa lega integralmente le membra a Cristo e tra loro».

“Coloro che non confessano Cristo tutto e integro, ma solo alcune parti di Lui, non possono raggiungere una comunione completa né con la Chiesa né tra loro”.

“Come è possibile che i cattolici si uniscano agli ortodossi in una comune eucaristia quando credono che l’unità deriva più dal Papa che dalla Santa Eucaristia? Può scaturire dal Papa l’amore per il mondo, cioè l’amore che scaturisce dal Cristo della Santa Eucaristia?”

“C’è un crescente riconoscimento del fatto che l’Ortodossia, come corpo completo di Cristo, si protende in modo concreto per accogliere le parti che erano separate”.

È evidente che non possono esistere due corpi completi di Cristo.

III

Santità, c’è da chiedersi perché gli ortodossi procedono a fare queste concessioni mentre i cattolici romani non solo persistono ma rafforzano la loro ecclesiologia incentrata sul Papa.

È un dato di fatto che il Concilio Vaticano II [1963] non solo ha trascurato di minimizzare il primato e l’infallibilità [del Papa], ma li ha anzi amplificati. Secondo il defunto professor John Karmiris, “Nonostante il fatto che il Concilio Vaticano II abbia coperto le familiari affermazioni latine sul dominio monarchico assoluto del Papato con il manto della collegialità dei vescovi, non solo tali affermazioni non sono state diminuite; al contrario, sono state rafforzate da questo Concilio. L’attuale Papa [Giovanni XXIII] non esita a promuoverli, anche in tempi inopportuni, con molta enfasi».

E l’Enciclica del Papa, “Ai Vescovi della Chiesa Cattolica” (28 maggio 1992), riconosce solo Roma come chiesa “cattolica” e il Papa come unico vescovo “cattolico”. La Chiesa di Roma e il suo vescovo costituiscono l'”essenza” di tutte le altre Chiese. Inoltre, ogni Chiesa locale e il suo vescovo costituiscono semplicemente espressione della “presenza” e dell’“autorità” diretta del vescovo di Roma e della sua Chiesa, che determina dall’interno l’identità ecclesiale di ogni Chiesa locale.

Secondo questo documento papale, poiché le Chiese ortodosse rifiutano di sottomettersi al Papa, non portano affatto il carattere della Chiesa e sono semplicemente viste come “Chiese parziali”. “Verdienen der titer teilkirchen.”

La stessa ecclesiologia è espressa nella Guida Ecumenica (“una guida per l’applicazione dei principi e dell’agenda riguardanti l’ecumenismo”) della Chiesa Cattolica Romana, presentata dal cardinale Cassidy all’incontro dei vescovi cattolici romani (10-15 maggio 1993, un mese prima di Balamand), alla presenza di non cattolici e addirittura ortodossi.

La Guida ecumenica sottolinea che i cattolici romani «mantengono la ferma convinzione che la Chiesa singolare di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, la quale è retta dal successore di Pietro e da vescovi con lui in comunione», in quanto il «Collegio dei Vescovi ha come capo il Vescovo di Roma, successore di Pietro».

Nello stesso documento, si dicono molte cose belle sulla necessità di sviluppare un dialogo ecumenico e un’educazione ecumenica – ovviamente per confondere le acque e allontanare gli ingenui ortodossi con quell’efficace metodo di unità ideato dal Vaticano, cioè di sottomissione a Roma.

Il metodo, secondo La Guida Ecumenica, è il seguente:

I criteri stabiliti per la collaborazione ecumenica sono, da un lato, il riconoscimento reciproco del battesimo e la collocazione dei simboli comuni della fede nella vita liturgica empirica; e, dall’altro, la collaborazione nell’educazione ecumenica, nella preghiera comune e nella cooperazione pastorale affinché si possa passare dal conflitto alla convivenza, dalla convivenza alla collaborazione, dalla collaborazione alla condivisione, dalla condivisione alla comunione.

Tali documenti, tuttavia, pieni di ipocrisia, sono generalmente accolti come positivi dagli ortodossi.

Siamo rattristati nel constatare che la dichiarazione congiunta si fonda sul suddetto ragionamento cattolico romano. A causa di questi recenti sviluppi in tali termini, tuttavia, cominciamo a chiederci se coloro che sostengono che i vari dialoghi siano dannosi per l’Ortodossia non siano dopo tutto giustificati.

Santissimo Padre e Despota, in termini umani, per mezzo di quella dichiarazione congiunta i cattolici romani sono riusciti a ottenere un certo riconoscimento ortodosso come legittima continuazione dell’Unica Santa Chiesa con la pienezza della Verità, della Grazia, del Sacerdozio, dei Misteri e della Successione Apostolica .

Ma questo successo va a loro discapito perché toglie loro la possibilità di riconoscere e pentirsi della loro grave ecclesiologia e malattia dottrinale. Per questo motivo le concessioni degli ortodossi non sono filantropiche. Non sono per il bene né dei cattolici romani né degli ortodossi. Saltano dalla speranza del Vangelo (Col 1,23) di Cristo, unico Dio-Uomo, al Papa, uomo-Dio e idolo dell’umanesimo occidentale.

Per il bene dei cattolici romani e del mondo intero, la cui unica speranza è l’Ortodossia pura, siamo obbligati a non accettare mai l’unione o la descrizione della Chiesa cattolica romana come “Chiesa sorella”, o il Papa come vescovo canonico di Roma. , o la “Chiesa” di Roma come avente successione apostolica, sacerdozio e misteri canonici senza la loro rinuncia [da parte dei papisti] espressamente dichiarata al Filioque, all’infallibilità e al primato del Papa, alla grazia creata e al resto delle loro cacodossie. Perché non considereremo mai queste differenze senza importanza o semplici opinioni teologiche, ma come differenze che sviliscono irrevocabilmente il carattere teantropico della Chiesa e introducono blasfemie.

Sono tipiche le seguenti decisioni del Vaticano II:

Il Romano Pontefice, successore di Pietro, è fonte e fondamento permanente e visibile dell’unità dei vescovi e della moltitudine dei fedeli.

Questa sottomissione religiosa della volontà e della mente deve manifestarsi in modo speciale davanti all’autentico magistero del Romano Pontefice, anche quando questi non parla ex cathedra.

Il Romano Pontefice, capo del collegio dei vescovi, in virtù del suo ufficio, possiede l’infallibilità quando, confermando i suoi fratelli (Lc 23,32) come pastore e sommo maestro di tutti i fedeli, dichiara un insegnamento mediante un atto di definizione riguardante la fede o la morale. Per questo giustamente si dice che i decreti del Papa sono di natura irreversibile e non soggetti a dispensa da parte della Chiesa, in quanto sono stati pronunciati con la collaborazione dello Spirito Santo… Di conseguenza, i decreti del Papa non sono soggetti a nessun’altra approvazione, a nessun altro appello, a nessun altro giudizio. Il Romano Pontefice, infatti, non esprime la sua opinione come privato, ma come il massimo maestro della Chiesa universale, sul quale poggia personalmente il dono dell’infallibilità della Chiesa stessa e che propone e custodisce l’insegnamento della fede cattolica.

Nell’esercizio della sua responsabilità di vicario di Cristo e pastore di tutta la Chiesa, il Romano Pontefice ha nella Chiesa la più piena, alta e universale autorità, che gli è sempre conferito il potere di esercitare liberamente… Non può esistere un potere del Concilio Ecumenico se non sarà convalidato o almeno accolto dal successore di Pietro. La convocazione, la presidenza e l’approvazione delle decisioni dei Concili sono prerogativa del Romano Pontefice.

Tutti questi insegnamenti, Santità, non arrivano alle orecchie ortodosse come una bestemmia contro lo Spirito Santo e contro il Divino Costruttore della Chiesa, Gesù Cristo, l’unico Capo eterno e infallibile della Chiesa, dal quale solo scaturisce l’unità della Chiesa? Ciò non contraddice completamente l’ecclesiologia ortodossa centrata sul Vangelo e centrata sul Dio-Uomo, ispirata dallo Spirito Santo? Non subordinano forse l’Uomo-Dio all’uomo?

Come possiamo fare concessioni o coesistere con un tale spirito senza perdere la nostra fede e salvezza?

Rimanendo fedeli a tutto ciò che abbiamo ricevuto dai nostri Santi Padri, non accetteremo mai l’attuale “Chiesa” romana come co-rappresentante con la nostra della Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica.

Riteniamo necessario che tra le differenze teologiche si sottolinei la distinzione tra l’essenza e l’energia di Dio, e che le energie divine sono increate, perché se si crea la grazia, come sostengono i cattolici romani, viene annullata la salvezza e la theosis dell’uomo e la Chiesa cessa di essere una comunione di theosis e degenera in un’istituzione nomocanonica.

Profondamente addolorati nella nostra anima per tutto quanto sopra, ricorriamo a te, nostro Padre Spirituale. E con il più profondo rispetto, vi invitiamo e vi imploriamo, nella vostra caratteristica comprensione e sensibilità pastorale, di prendere in mano questa gravissima questione e di non accettare il documento [di Balamand], e in generale di intraprendere ogni azione possibile per evitare le indesiderabili conseguenze che avrebbe per l’unità pan-ortodossa se per caso alcune Chiese lo adottassero.

Inoltre, chiediamo le vostre preghiere sante e obbedienti a Dio affinché anche noi, umili abitanti e monaci della Sacra Montagna, in questo tempo di confusione spirituale, di compromesso, di secolarizzazione e di ottundimento della nostra acutezza dottrinale, possiamo rimanere fedeli fino alla morte a ciò che ci è stato trasmesso dai nostri Santi Padri come forma di dottrina (Rm 6,17), qualunque cosa possa costarci.

Con il più profondo rispetto veneriamo la tua santa mano destra.

Firmato da: Tutti i Rappresentanti e Presidenti dei Venti Sacri Monasteri del Sacro Monte Athos

PS. Si noti che questa lettera è stata inviata anche alle Chiese che hanno partecipato al dialogo teologico e sono, quindi, direttamente interessate, e alle restanti Chiese per tenerle informate.


Note finali

1. Per completare il pensiero dell’autore continuiamo qui il brano: «…che si sarebbe formato nella Pentecoste e i cui membri dovevano essere illuminati e glorificati in questa vita… Così intendono questa preghiera i Padri. Non è certamente una preghiera per l’unione delle chiese… che non hanno la minima comprensione della glorificazione (theosis) e di come arrivarvi in ​​questa vita.” Dalla confutazione dell’Accordo di Balamand da parte del celebre teologo ortodosso, p. John S. Romanides, Professore di Teologia, Scuola Teologica Ortodossa San Giovanni Damasceno (Antiochia), Balamand, Libano; Professore Emerito, Univ. di Salonicco, Grecia; ex professore di teologia ortodossa, scuola teologica greco-ortodossa della Santa Croce, Brookline, MA

2. Nel testo greco apparso in Orthodox Typos c’è un evidente errore tipografico e questa parola era semplicemente “unito”, sebbene il contesto della frase completa implichi chiaramente la parola “disunito”.

3. Nel contesto occidentale qui, il soprannaturale di cui l’uomo sperimenta o partecipa, come la grazia creata, si riferisce a qualcosa che non è increato: «Ciò che è ricevuto nella creatura deve essere esso stesso creato». Enciclopedia Cattolica, vol. 13, New York, 1967, pag. 815.

Il testo completo della Dichiarazione di Balamand dal titolo: L’UNIATISMO METODO DI UNIONE DEL PASSATO
E LA RICERCA ATTUALE DELLA PIENA COMUNIONE, Balamand (Libano) 23 giugno 1993




CURINGA: IL MONASTERO E IL PLATANO

Nel periodo magno-greco la polis di Curinga si chiamava Laconia, posta tra le città greche di Hipponion e Temesa. L’antico nome probabilmente richiamava quello della corrispondente regione greca oggi denominata Peloponneso (sudorientale). In effetti molti dei toponimi esistenti in questa zona ed in tutta la Calabria sono di chiara derivazione ellenistica.

Di particolare rilievo storico ed archeologico il Monastero di S. Elia, edificio risalente all’anno mille che è situato nella frazione Corda che si affaccia sul Golfo di S. Eufemia.

Il complesso architettonico comprende i resti del “Sancta Sanctorum”, un vano a pianta quadrata chiuso da una cupola in buono stato di conservazione.

Sono anche visibili i resti della navata e dell’antico cenobio. Il monastero, eretto da monaci provenienti dall’Oriente, era costituito dalla Chiesa munita di una notevole abside sormontata da una cupola in pietra, con evidenti richiami all’architettura armena. Nell’interno dell’abside, alla base della cupola, esiste un fregio a carattere curvilineo. Più in basso, tra il quadrato e il cilindro si trova una fascia di blocchi di pietra arenaria scolpita con un bellissimo motivo “a treccia”, con nastro concavo a “bottone” convesso. Gli scavi del 1991 hanno permesso di individuare all’interno del complesso la cella del priore, il corridoio centrale e il cellare. Tra gli altri locali è venuta alla luce, al piano terra, la Cappella di S. Elia. [https://www.comune.curinga.cz.it/novita/la-storia-di-curinga/]

Secondo alcuni studi, mentre il monastero ascenderebbe all’anno 1000 d.C., la cupola risulterebbe più tardiva e forse costruita intorno al 1600 così come testimonia la treccia decorativa al suo interno e lo stemma dei Caracciolo e Loffredo, apposto sull’arco che collegava l’antica chiesa rettangolare di cui oggi rimangono solo le creste dei muri perimetrali.

Dall’analisi strutturale eseguita sulle murature del complesso monastico, sembra sia possibile tuttavia riconoscere almeno cinque distinte fasi di vita, la più antica delle quali risalirebbe presumibilmente a epoca pre-normanna. (vedi documento sotto pubblicato)

Vista aerea su Google Maps

Legato a questo luogo monastico è la storia del Platano millenario. Il platano orientale è un grande albero deciduo originario del Mediterraneo orientale e dell’Asia occidentale, con areale esteso sino all’Afghanistan. In Italia è spontaneo in Sicilia e nell’Italia meridionale. L’esemplare che si trova a Curinga è alto 31,5 metri, largo oltre 12 metri, con una cavità nel tronco ampia più di 3 metri. Questo maestoso albero vanta una storia di oltre mille anni, ma le sue radici potrebbero risalire a tempi più antichi. L’ipotesi più accreditata e che sia stato piantato proprio da qualche monaco proveniente dall’Oriente quando giunse in Calabria nel IX secolo, appartenente allo stesso gruppo che edificò le prime fondamenta dell’eremo poi divenuto monastero. Per secoli, il platano è stato luogo di incontro per contadini e pastori, oltre che luogo di riparo contro le intemperie e nascondiglio per i briganti. Infatti, grazie al suo tronco completamente cavo, al suo interno possono raggrupparsi fino a dieci persone.

Benché già i greci contribuirono alla sua diffusione in Italia del Sud, come raccontano fonti antiche, la specie potrebbe essere giunta in Italia in tempi precedenti, paleointrodotta dall’uomo o senza necessariamente il vettore uomo, come specie trans-jonica e anfi-adriatica, al pari di tantissime altre specie viventi che connotano i regni del vivente del sud Italia, nelle varie vicissitudini geologiche e climatiche del passato, nelle quali si ebbero anche periodi con il livello del mare molto più basso dell’attuale e l’emersione conseguente di maggiori ponti di terra tra Balcani e Penisola italiana. (FONTE WEB)

Distribuzione del Platano Orientale

ALTRI DOCUMENTI





IL MONACHESIMO A MATERA IN BASILICATA

“Le grotte della Murgia materana sono state l’habitat ideale per i monaci eremiti che le hanno abitate nei secoli. Sono circa 155 ad oggi le chiese rupestri presenti tra la città e il circondario: cripte, monasteri, basiliche ipogee, santuari, testimonianze preziosissime di questa presenza.

È durante l’Alto Medioevo che la Basilicata diventa base ideale del monachesimo. Lontani dalla chiesa istituzionale e improntati sulla ricerca introspettiva dell’uomo, i monaci trovarono nelle grotte della Murgia un luogo sicuro dalle persecuzioni dell’iconoclastia, e anche un interessante modo per isolarsi nella preghiera e condurre una vita ascetica. Queste grotte, scavate nella roccia tufacea, sono testimonianze della comunità di monaci benedettini e bizantini nelle quali vivevano e pregavano. Nel tempo si sono intrecciati gli stili e alcune grotte e Chiese rupestri di impostazione architettonica latina, presentano elementi bizantini e viceversa, contaminandosi a vicenda.

Nella loro vita semplice ed essenziale, i monaci hanno impreziosito questi ambienti lasciando ai posteri testimonianze artistiche di grande pregio: i cicli cristologici, l’iconografia mariana, gli apostoli, l’Arcangelo Michele, i santi orientali e occidentali, elementi scultorei, altari, i luoghi delle penitenze, i giacigli utilizzati per dormire.

Tra le varie chiese rupestri, spicca per i suoi affreschi del X secolo ben conservati, la Cripta del Peccato Originale, che ripropone alcune scene della Genesi.

Il fenomeno del monachesimo proseguì per molti secoli, addirittura fino al Rinascimento. Dopodiché la gran parte delle chiese venne utilizzata per altri scopi: ricovero per animali, cantine e altro ancora”.

NOTA: foto da un nostro recente viaggio a Matera




ARCIVESCOVO JOHN MAXIMOVITCH: Il declino del Patriarcato di Costantinopoli

dell’Arcivescovo JOHN MAXIMOVITCH

Introduzione del traduttore

La carriera e le affermazioni anti-Ortodosse del defunto Patriarca Atenagora di triste memoria sono state così eclatanti che forse hanno contribuito a oscurare il fatto che l’apostasia di quest’uomo è stata solo il culmine di un lungo e profondo processo di allontanamento dalla Fede ortodossa di un’intera Chiesa ortodossa locale. La promessa del nuovo Patriarca Demetrios di “seguire le orme del nostro grande Predecessore … nel perseguire l’unità cristiana” e di istituire “dialoghi” con l’Islam e con altre religioni non cristiane, riconoscendo “il benedetto e santo Papa di Roma Paolo VI, primo tra i pari all’interno della Chiesa universale”. (Discorso di Intronizzazione) – non fa che confermare questa constatazione e rivela gli abissi in cui la Chiesa di Costantinopoli è caduta ai nostri giorni.

Va notato che il titolo di “Ecumenico” fu conferito al Patriarca di Costantinopoli in seguito al trasferimento della sede dell’Impero Romano in questa città nel IV secolo; il Patriarca divenne quindi il Vescovo della città che era il centro dell’ecumene o del mondo civilizzato. Purtroppo, nel XX secolo la gloriosa sede di Costantinopoli, avendo perso da tempo la sua gloria terrena, ha cercato a buon mercato di riacquistare prestigio imboccando due nuovi percorsi “ecumenici”: ha aderito al “movimento ecumenico”, che si basa su un universalismo anticristiano; e, a imitazione dell’apostata Roma, si è sforzata di assoggettare le altre Chiese ortodosse alla sua e di fare del suo Patriarca una sorta di Papa dell’Ortodossia.

L’articolo che segue, che fa parte di una relazione sulle Chiese Autocefale, fatto dall’Arcivescovo Giovanni al Secondo Sobor di Tutta la Diaspora della Chiesa russa all’Estero, tenutasi in Jugoslavia nel 1938, dà lo sfondo storico dell’attuale stato del Patriarcato di Costantinopoli. Potrebbe sembrare benissimo come fosse stato scritto oggi, dopo quasi 35 anni, a parte alcuni piccoli punti che sono cambiati da allora, per non parlare degli atti e delle dichiarazioni “ecumeniche” più spettacolari del Patriarcato negli ultimi anni, che sono serviti a trasformarlo dal “pietoso spettacolo” qui descritto in uno dei principali centri mondiali dell’anti-Ortodossia.

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“Il primato tra le Chiese ortodosse spetta alla Chiesa della Nuova Roma, Costantinopoli, che fa capo a un Patriarca che ha il titolo di ecumenico, e per questo è essa stessa chiamata Patriarcato ecumenico, che territorialmente raggiunse il culmine del suo sviluppo alla fine del XVIII secolo.

A quel tempo vi era inclusa tutta l’Asia Minore, tutta la penisola balcanica (eccetto il Montenegro), insieme alle isole adiacenti, poiché le altre Chiese indipendenti della penisola balcanica erano state abolite ed erano entrate a far parte del Patriarcato ecumenico.

Il Patriarca ecumenico aveva ricevuto dal sultano turco, ancor prima della presa di Costantinopoli da parte dei turchi, il titolo di Millet Bash, cioè capo del popolo, ed era considerato il capo di tutta la popolazione ortodossa dell’Impero turco . Ciò, tuttavia, non ha impedito al governo turco di rimuovere i patriarchi per qualsiasi motivo e di indire nuove elezioni, riscuotendo allo stesso tempo una grossa tassa dal neoeletto patriarca.

Apparentemente quest’ultima circostanza ebbe una grande importanza nel cambiamento dei patriarchi da parte dei turchi, e quindi avvenne spesso che essi ammettessero nuovamente sul trono patriarcale un patriarca che avevano rimosso, dopo la morte di uno o più dei suoi successori. Così, molti patriarchi occuparono più volte la loro sede, e ogni ascesa fu accompagnata dalla riscossione di una tassa speciale da parte dei turchi.

Per recuperare la somma pagata al momento della sua ascesa al trono patriarcale, un patriarca faceva una colletta presso i metropoliti a lui subordinati, e questi, a loro volta, raccoglievano presso il clero a loro subordinato. Questo modo di provvedere alle finanze ha lasciato un’impronta nell’intero ordine della vita del Patriarcato.

Nel Patriarcato era altrettanto evidente la “Grande Idea” greca, cioè il tentativo di restaurare Bisanzio, dapprima in senso culturale, ma poi anche politico. Per questo motivo in tutti gli incarichi importanti furono assegnate persone fedeli a questa idea, e per la maggior parte greci della parte di Costantinopoli chiamata Fanar, dove si trovava anche il Patriarcato. Quasi sempre le sedi episcopali erano occupate da greci, anche se nella penisola balcanica la popolazione era prevalentemente slava.

All’inizio del XIX secolo iniziò un movimento di liberazione tra i popoli balcanici, che lottavano per liberarsi dall’autorità dei turchi. Sorsero gli stati di Serbia, Grecia, Romania e Bulgaria, dapprima semi-indipendenti e poi completamente indipendenti dalla Turchia.

Parallelamente si procedette anche alla formazione di nuove Chiese locali separate dal Patriarcato ecumenico. Anche se controvoglia, sotto l’influenza delle circostanze, i Patriarchi ecumenici permisero l’autonomia delle Chiese nei principati vassalli, e più tardi riconobbero la piena indipendenza delle Chiese in Serbia, Grecia e Romania.

Solo la questione bulgara era complicata da un lato a causa dell’impazienza dei bulgari, che non avevano ancora raggiunto l’indipendenza politica, e dall’altro grazie all’inflessibilità dei greci. L’ostinata dichiarazione di autocefalia bulgara sulla fondazione del firmano del Sultano non fu riconosciuta dal Patriarcato, e in un certo numero di diocesi fu istituita una gerarchia parallela.

I confini delle Chiese appena formate coincidevano con i confini dei nuovi Stati, che crescevano continuamente a spese della Turchia, acquisendo allo stesso tempo nuove diocesi dal Patriarcato. Tuttavia, nel 1912, quando iniziò la guerra dei Balcani, il Patriarcato ecumenico contava circa 70 metropoli e diversi vescovadi.

La guerra del 1912-13 strappò alla Turchia una parte significativa della penisola balcanica con grandi centri spirituali come Salonicco e Athos. La Grande Guerra del 1914-18 privò per un certo periodo la Turchia dell’intera Tracia e della costa dell’Asia Minore con la città di Smirne, che furono successivamente perse dalla Grecia nel 1922 dopo la fallita marcia dei Greci su Costantinopoli.

Qui il Patriarca ecumenico non poteva così facilmente sottrarre alla sua autorità le diocesi strappate alla Turchia, come era stato fatto in precedenza. Si parlava già di alcuni luoghi che fin dall’antichità erano stati sotto l’autorità spirituale di Costantinopoli. Ciò nonostante, il Patriarca ecumenico nel 1922 riconobbe l’annessione alla Chiesa serba di tutte le zone entro i confini della Jugoslavia; acconsentì all’inclusione nella Chiesa di Grecia di alcune diocesi dello Stato greco, conservando però la sua giurisdizione sull’Athos; e nel 1937 riconobbe anche l’autocefalia della piccola Chiesa albanese, che in origine non aveva riconosciuto.

I confini del Patriarcato ecumenico e il numero delle sue diocesi erano notevolmente diminuiti. Nello stesso tempo il Patriarcato ecumenico perse di fatto anche l’Asia Minore, pur restando nella sua giurisdizione. In conformità con il trattato di pace tra Grecia e Turchia del 1923, si verificò uno scambio di popolazione tra queste potenze, tanto che tutta la popolazione greca dell’Asia Minore dovette trasferirsi in Grecia.

Le città antiche, che un tempo avevano un grande significato nelle questioni ecclesiastiche e gloriose nella loro storia ecclesiastica, rimasero senza un solo abitante della fede ortodossa. Allo stesso tempo, il Patriarca ecumenico ha perso il suo significato politico in Turchia, poiché Kemal Pasha lo ha privato del titolo di capo del popolo.

Attualmente, sotto i confini della Turchia, sotto il Patriarcato Ecumenico, oltre all’Athos con le località circostanti della Grecia, ci sono cinque diocesi. Il Patriarca è estremamente ostacolato nell’esercizio dei suoi indiscutibili diritti nel governo della Chiesa entro i confini della Turchia, dove è considerato un normale suddito-funzionario turco, essendo inoltre sotto la supervisione del governo.

Il governo turco, che interferisce in tutti gli aspetti della vita dei suoi cittadini, solo come privilegio speciale gli ha permesso, come anche il patriarca armeno, di portare i capelli lunghi e l’abito clericale, vietandolo al resto del clero. Il Patriarca non ha diritto di libera uscita dalla Turchia, e ultimamente il governo persegue con sempre maggiore insistenza il suo trasferimento nella nuova capitale Ankara (l’antica Ancyra), dove ormai non ci sono cristiani ortodossi, ma dove l’amministrazione con tutti i rami della vita governativa è concentrata.

Un tale abbassamento esteriore del gerarca della città di San Costantino, che un tempo era la capitale dell’ecumene , non ha fatto vacillare la riverenza nei suoi confronti tra i cristiani ortodossi, che venerano la sede dei SS. Crisostomo e Gregorio il Teologo.

Dall’alto di questa Sede il successore dei SS. Giovanni e Gregorio potrebbero guidare spiritualmente l’intero mondo ortodosso, se solo possedessero la loro fermezza nella difesa della rettitudine e della verità e l’ampiezza di vedute del recente Patriarca Gioacchino III.

Tuttavia al declino generale del Patriarcato ecumenico si è aggiunto l’indirizzo della sua attività dopo la Grande Guerra. Il Patriarcato ecumenico ha voluto compensare la perdita delle diocesi che hanno abbandonato la sua giurisdizione, così come la perdita del suo significato politico all’interno dei confini della Turchia, sottomettendo a sé aree dove finora non esisteva alcuna gerarchia ortodossa, e allo stesso modo le Chiese di quegli Stati dove il governo non è ortodosso.

Così, il 5 aprile 1922, il Patriarca Melezio designò un Esarca dell’Europa Centrale e Occidentale con il titolo di Metropolita di Thyateira con residenza a Londra; il 4 marzo 1923 lo stesso Patriarca consacrò l’archimandrita ceco Sabbatius arcivescovo di Praga e di tutta la Cecoslovacchia; il 15 aprile 1924 fu fondata una Metropolia dell’Ungheria e di tutta l’Europa Centrale con sede a Budapest, anche se lì esisteva già un vescovo serbo. In America fu istituito un arcivescovado sotto il trono ecumenico, poi nel 1924 fu fondata una diocesi in Australia con sede a Sydney. Nel 1938 l’India fu subordinata all’arcivescovo d’Australia.

Allo stesso tempo si è proceduto all’assoggettamento di singole parti della Chiesa ortodossa russa, staccate dalla Russia. Così, il 9 giugno 1923, il Patriarca ecumenico accettò nella sua giurisdizione la diocesi di Finlandia come Chiesa finlandese autonoma; il 23 agosto 1923 la Chiesa estone fu assoggettata allo stesso modo, il 13 novembre 1924 il patriarca Gregorio VII riconobbe l’autocefalia della Chiesa polacca sotto la supervisione del Patriarcato ecumenico, cioè l’autonomia.

Nel marzo del 1936 il Patriarca ecumenico accettò la Lettonia nella sua giurisdizione. Non limitandosi ad accogliere nella sua giurisdizione le Chiese delle regioni lontane dai confini della Russia, il patriarca Fozio accettò nella sua giurisdizione il metropolita Eulogio dell’Europa occidentale insieme alle parrocchie a lui subordinate, e il 28 febbraio 1937 un L’Arcivescovo della giurisdizione del Patriarca Ecumenico in America ha consacrato Vescovo Theodore-Bogdan Shpilko per la Chiesa Ucraina nel Nord America.

Così il Patriarca ecumenico è divenuto effettivamente «ecumenico» [universale] nell’ampiezza del territorio che teoricamente gli è soggetto. Quasi tutto il globo terrestre, ad eccezione dei piccoli territori dei tre Patriarcati e del territorio della Russia sovietica, secondo l’idea dei dirigenti del Patriarcato, rientra nella composizione del Patriarcato ecumenico.

Aumentando senza limiti il ​​loro desiderio di sottomettere a sé parti della Russia, i Patriarchi di Costantinopoli hanno cominciato addirittura a dichiarare l’incanonicità dell’annessione di Kiev al Patriarcato di Mosca e a dichiarare che la metropolia di Kiev della Russia meridionale, già esistente, dovrebbe essere soggetta a il Trono di Costantinopoli.

Un simile punto di vista non solo è chiaramente espresso nel Tomos del 13 novembre 1924 in relazione alla separazione della Chiesa polacca, ma è anche ampiamente promosso dai Patriarchi. Così, il vicario del metropolita Eulogius a Parigi, che fu consacrato con il permesso del patriarca ecumenico, ha assunto il titolo di Chersoneso; cioè il Chersoneso, che ora si trova nel territorio della Russia, è soggetto al Patriarca Ecumenico. Il prossimo passo logico per il Patriarcato ecumenico sarebbe quello di dichiarare l’intera Russia sotto la giurisdizione di Costantinopoli.

Tuttavia, l’effettiva potenza spirituale e persino gli effettivi confini dell’autorità non corrispondono di gran lunga a una simile autoesaltazione di Costantinopoli. Per non parlare del fatto che quasi ovunque l’autorità del Patriarca è del tutto illusoria e consiste per lo più nella conferma di vescovi eletti in varie sedi o nell’invio di essi da Costantinopoli, molte terre che Costantinopoli considera a sé soggette non hanno alcun gregge sotto la sua giurisdizione.

Anche l’autorità morale dei Patriarchi di Costantinopoli è caduta molto in basso data la loro estrema instabilità in materia ecclesiastica. Pertanto, il Patriarca Melezio IV organizzò un “Congresso pan-ortodosso”, con rappresentanti di varie chiese, che decretò l’introduzione del Nuovo Calendario.

Questo decreto, riconosciuto solo da una parte della Chiesa, introdusse uno spaventoso scisma tra i cristiani ortodossi. Il patriarca Gregorio VII riconobbe il decreto del concilio della Chiesa viva riguardante la deposizione del patriarca Tikhon, che poco prima il Sinodo di Costantinopoli aveva dichiarato “confessore”, e poi entrò in comunione con i “rinnovazionisti” in Russia, che continua fino ad oggi.

Insomma, il Patriarcato ecumenico, abbracciando in teoria quasi tutto l’universo ed estendendo di fatto la sua autorità solo su alcune diocesi, ed avendo in altri luoghi solo un controllo più superficiale e ricevendo per questo determinate entrate, perseguitato dal governo interno e non sostenuto da qualsiasi autorità governativa all’estero: aver perso il suo significato di pilastro della verità ed essere diventato esso stesso motivo di divisione, e allo stesso tempo posseduto da un esorbitante amore per il potere – rappresenta uno spettacolo pietoso che ricorda i periodi peggiori della storia storia della sede di Costantinopoli.

* San Giovanni Maximovich di Shanghai e San Francisco (Arcivescovo ortodosso-russo – 1896/1966) – Da Orthodox Word , vol. 8, n. 4 (45), luglio-agosto 1972, pp. 166-168, 174-175.

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Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

IL MONACHESIMO RUSSO TRA RINASCITA E COMUNISMO

24 ottobre – Memoria dei Venerabili Anziani di Optina

Fonte: foma.ru

In questo giorno, la Chiesa russa onora la memoria di tutti gli anziani Optina. Ma quali di essi ricordiamo veramente? Ebbene, forse, Sant’Ambrogio, in gran parte a causa dell’impressione che fece su Dostoevskij e Tolstoj. Anche se, per essere onesti, Dostoevskij non fu meno ispirato dall’esempio di San Tikhon di Zadonsk, e Tolstoj fu ispirato dalla comunicazione con l’anziano Joseph, che divenne il confessore di Optina dopo la morte di Ambrogio, e l’anziano Barsanuphius andò alla stazione di Astapovo con un offrirsi di accettare la sua confessione morente.

Da dove venivano gli anziani della Rus’?

Nel X secolo, insieme al cristianesimo, anche la Rus’ adottò l’esperienza spirituale degli antichi eremiti egiziani, che il monachesimo bizantino moltiplicò per 1000 anni. Ma nel XVI secolo, per ragioni esterne ed interne, questa scuola spirituale cominciò gradualmente ad essere dimenticata. E nel XVIII secolo, grazie ai decreti di Pietro I, Anna Ioannovna e Caterina II, i monasteri furono completamente spopolati. Solo gli anziani e i malati vi vivevano la vita, e talvolta tutti “si scatenavano” e il monastero veniva chiuso.

Una relazione sinodale afferma: “Ci sono pochissimi monaci nei monasteri e, tra quelli disponibili, molti sono completamente incapaci di servire nel sacerdozio e in altre obbedienze monastiche”. Gli abati consideravano la loro posizione una fonte di reddito e l’ubriachezza divenne una piaga comune…

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo
Processione religiosa rurale per Pasqua. V.Perov, 1861

Il monachesimo cessò di essere un ideale: gli strati superiori della società furono trascinati dalle idee dell’Illuminismo portate dall’Occidente e tutti i tipi di sette si diffusero tra la gente comune. Nel 1796, l’abate del monastero di Valaam, Nazarius, si lamentò del vagabondaggio generale dei monaci. E il metropolita Gabriele di San Pietroburgo fu costretto a ordinare ufficialmente “che i monaci non vagassero per i cortili”.

Ma fu allora, a metà del XVIII secolo, che in Russia iniziò una rinascita spirituale, alle cui origini c’erano due forti personalità: l’archimandrita Paisy Velichkovsky, che fece rivivere l’antico insegnamento monastico sulla preghiera spirituale, e il metropolita Gabriel (Petrov), che prese sotto la sua tutela i monasteri dove il suo insegnamento poteva diventare base della vita monastica. E tra questi, uno dei primi fu il Santo Eremo di Vvedenskaya Kozelskaya Optina.

Anziani di Optina: chi sono?

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Il monaco Leone divenne il primo anziano Optina. Dopo aver completato la scuola monastica nel monastero di Cholna con l’anziano Theodore, uno studente di Paisius Velichkovsky, che fece rivivere l’antica esperienza ascetica basata sui manoscritti trovati sul Monte Athos, arrivò a Optina Pustyn nel 1829 con sei studenti e presto divenne il confessore del monastero. L’anzianità di padre Leo durò 12 anni e portò grandi benefici: i suoi studenti glorificarono Optina e costrinsero molti in Russia a scoprire un’Ortodossia completamente diversa, che loro, battezzati dalla nascita, a quanto pare, non conoscevano.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Il monaco Macario frequentò anche la scuola monastica con uno studente di Paisius Velichkovsky, l’anziano Atanasio, nell’eremo di Ploshchanskaya, e trasferendosi ad Optina nel 1834, divenne uno studente spirituale dell’anziano Leone. Fu attraverso le sue opere che intorno al monastero fu creata un’intera galassia di editori e traduttori di letteratura spirituale, di cui la Russia ortodossa aveva tanto bisogno, e il legame tra gli anziani Optina e l’intellighenzia russa fu rafforzato.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Il Monaco Mosè, chiamato ad Optina per creare il monastero di San Giovanni Battista, divenne presto l’igumeno del monastero stesso, e da quel momento iniziò la sua crescita spirituale e la sua gloria. Fu sotto di lui che nacque la figura dello staretz nell’Eremo di Optina: fu lui a invitare l’anziano Leone al monastero, a nominare l’anziano Macario confessore dei fratelli, e sotto di lui il futuro anziano Ambrogio frequentò la scuola teologica con gli anziani come novizio  Durante il suo servizio, il monastero pubblicò 16 volumi di letteratura patristica. Optina Pustyn – il titolo con cui è passata alla storia – è il frutto delle sue fatiche.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Il monaco Antonio , il fratello minore del monaco Mosè, venne con lui all’Optina Pustyn nel 1821 per fondare un luogo di ritiro appartato nel monastero. E nel 1825, dopo che suo fratello fu nominato igumeno del monastero, fu nominato a capo del suo monastero e iniziò a radunarvi padri saggi nella vita monastica e forti nelle azioni spirituali. In vecchiaia, affetto da una grave malattia, l’anziano Antonio intensificò il suo ascetismo e accettò lo schema.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Anche prima della tonsura, sant’Ilarione stava cercando un monastero in cui sarebbe voluto rimanere per il resto della sua vita e, dopo aver visitato molti monasteri, scelse Optina Pustyn. Qui trovò anche gli anziani maestri di vita spirituale: Leone e Macario, presso i quali rimase come assistente di cella per 20 anni, fino alla sua morte nel 1860. Prima della sua morte, l’anziano Macario benedisse Ilarione affinché intraprendesse il servizio di anziano e tre anni dopo divenne il capo del monastero e il confessore generale del monastero. Portò questa obbedienza per 10 anni. L’anziano conosceva in anticipo il giorno della sua morte e prese lo schema sei mesi prima.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Il Venerabile Ambrogio, discepolo degli anziani Leone e Macario, assistente di quest’ultimo nell’editoria. Grazie al suo talento spirituale unico, durante il suo servizio fece di Optina Pustyn il centro spirituale di tutta la Russia. Dallo scrittore di Pietroburgo Dostoevskij alla vecchia contadina andarono da lui per chiedere consiglio e pregare. Il filosofo Vasily Rozanov ha scritto di lui: “Tutti si innalzano nello spirito solo guardandolo (…) Le persone con più principi lo hanno visitato e nessuno ha detto nulla di negativo. L’oro è passato attraverso il fuoco dello scetticismo e non si è offuscato”.

Per più di 30 anni Ambrogio compì l’impresa di anziano e prima della sua morte si occupò anche del monastero femminile di Shamordino, a 12 verste da Optina.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Il monaco Anatoly il Vecchio (Zertsalov) venne a Optina Pustyn come voto, essendo stato guarito dalla tisi. L’anziano Macario divenne dapprima il suo padre spirituale e, dopo la sua morte, l’anziano Ambrogio, che per primo mandò Anatoly all’albergo del monastero per consolare le persone in lutto, poi iniziò ad addestrarlo come assistente e nel 1874 lo benedisse per accettare l’incarico di igumeno del monastero. Quando morì, gli affidò la guida spirituale del monastero di Shamordino.

Lo stesso monaco Ambrogio testimoniò del grande potere della preghiera dell’anziano Anatoly: “Gli furono date tali preghiera e grazia come quelle che vengono date a uno su mille”. E prendeva così da vicino il dolore degli altri che la testa e il cuore cominciarono a dolergli. Con poche parole sapeva come consolare un’anima addolorata, avvertire attentamente delle prove imminenti e prepararsi alla morte imminente. Sopravvisse all’anziano Ambrogio di soli 2 anni.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Il monaco Isacco (Antimonov) arrivò a Optina già un uomo maturo, all’età di 37 anni. Divenne novizio dell’anziano Macario e lui, morente, lo consegnò all’anziano Ambrogio. E nel 1862, dopo la morte del rettore del monastero, l’anziano Mosé, padre Isacco divenne il suo successore per più di 30 anni. Sotto di lui, il monastero divenne uno dei monasteri più prosperi della Russia. Sotto di lui furono rafforzate le tradizioni degli staretz e di stretta obbedienza ai confessori di tutti i fratelli, indipendentemente dal grado e dalla posizione gerarchica. Isacco sopravvisse al suo anziano solo 3 anni.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Il monaco Giuseppe venne dagli anziani ad Optina su consiglio di sua sorella-monaca e fu assegnato come assistente di cella all’anziano Ambrogio. Col passare del tempo, iniziò sempre più a inviare visitatori a Giuseppe per chiedere consiglio e, dopo la morte dell’anziano, assunse le responsabilità di igumeno del monastero, confessore dei fratelli Optina e delle sorelle di Shamordin. Per dodici anni esercitò questa obbedienza, finché nel 1905 si indebolì a causa di una malattia. L’anziano Giuseppe morì nel 1911, sorprendendo tutti i presenti al funerale con il fatto che anche nella bara la sua mano era morbida e calda, come quella di una persona vivente.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Il monaco Barsanufio ebbe una brillante carriera militare fino all’età di 46 anni. Quando il colonnello Pavel Plikhankov, dopo aver letto un articolo sull’anziano Ambrogio in una rivista, venne per la prima volta a Optina, l’anziano gli disse: “Vieni tra due anni, ti riceverò”. Quando si dimise due anni dopo, i suoi conoscenti dissero: “È pazzo!” Che uomo era!” Nel 1892 fu iscritto alla confraternita dello Skete di San Giovanni Battista e divenne novizio prima dell’anziano Anatoly e poi dell’anziano Giuseppe.

Nel 1903 fu nominato assistente dell’anziano e confessore dell’eremo femminile di Shamordin; durante la guerra russo-giapponese fu inviato al fronte come sacerdote; e al suo ritorno fu nominato capo del monastero. Nel 1910 fu lui a recarsi alla stazione di Astapovo per confessare e dare la comunione a Leone Tolstoj, che lì stava morendo, ma i parenti non permettevano all’anziano di vedere lo scrittore.

Nel 1912, l’anziano Barsanufio fu nominato igumeno del monastero dell’Epifania di Staro-Golutvin, ma non poté sopportare la separazione da Optina e morì un anno dopo.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Anche il monaco Anatoly il Giovane (Potapov) venne a Optina Pustyn da adulto, all’età di 30 anni. Era l’assistente di cella dell’anziano Ambrogio, studiò per molti anni l’arte del sacerdozio e quando gli anziani Giuseppe e Barsanufio morirono, continuò il loro lavoro. La gente comune andava da lui in folla con le loro preoccupazioni e lamentele, dolori e malattie. L’anziano riceveva tutti, a volte senza nemmeno andare a letto.

Prima della rivoluzione scrisse: “Ci sarà una tempesta. E la nave russa verrà distrutta. Ma le persone si risparmiano su trucioli e detriti. Non tutti periranno (…) E poi verrà rivelato un grande miracolo di Dio, e tutti i frammenti e i pezzi saranno raccolti e uniti, e la grande nave apparirà di nuovo in tutta la sua gloria! E seguirà il percorso tracciato da Dio”.

Dopo la rivoluzione, l’anziano Anatoly fu arrestato, ma, considerato affetto da tifo, fu portato in ospedale, da dove fu tranquillamente rilasciato, lasciandolo vivere nel territorio del monastero. E il 29 luglio 1922, quando una commissione della GPU venne a prenderlo al monastero, l’anziano malato chiese di essere lasciato nel monastero per un giorno “per prepararsi”. La mattina dopo fu trovato morto.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Il monaco Nektarios fu l’ultimo anziano eletto conciliarmente nell’Eremo di Optina. Era uno studente degli anziani Anatoly (Zertsalov) e Ambrogio. Sotto la loro guida, mostrò presto il dono della chiaroveggenza, che nascose sotto la maschera della follia. Nel 1912 i fratelli lo elessero anziano.

Dopo la chiusura del monastero nel 1923, l’anziano Nektarios fu arrestato e quando i suoi figli spirituali riuscirono a salvarlo dalla prigione, si stabilì con uno di loro nel villaggio di Kholmishchi. Ma anche lì la gente andava da lui in cerca di consolazione e consiglio. Morì nel 1928, avendo vissuto fino all’età di 75 anni.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Il monaco Nikon il Confessore entrò in Optina nel 1907 e presto divenne servitore e discepolo dell’anziano Barsanufio, il quale, prevedendo il suo alto destino, lo preparò a essere il suo successore, trasmettendogli la sua esperienza spirituale e di vita.

Quando Optina fu chiusa dopo la rivoluzione, i monaci crearono un “artel agricolo”. Le funzioni religiose sono continuate. Ma iniziò la persecuzione.

Nikon fu arrestato per la prima volta il 17 settembre 1919, ma fu presto rilasciato. Nell’estate del 1923 il monastero fu definitivamente chiuso; i fratelli, ad eccezione di venti operai del museo, furono cacciati in strada. Il rettore, l’anziano Isacco, dopo aver servito l’ultima liturgia nella chiesa di Kazan, consegnò le chiavi a Nikon e lo benedì per servire e accogliere i pellegrini per la confessione. Quindi Nikon diventò l’ultimo anziano di Optina.

Espulso dal monastero nel giugno 1924, si stabilì a Kozelsk, prestò servizio nella chiesa dell’Assunzione, ricevette persone, adempiendo al suo dovere pastorale. Fu arrestato nel giugno 1927 e trascorse tre anni nel campo di Kemperpunkt. Poi venne l’esilio nella regione di Arkhangelsk. A quel tempo, padre Nikon era malato di tubercolosi e morì nel 1931 nel villaggio di Valdokurye. Dodici sacerdoti in esilio si riunirono per la sua sepoltura, cantarono e lo seppellirono secondo i riti monastici.

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Il monaco Isacco (Bobrakov), un santo martire, arrivò a Optina da giovane di 19 anni, divenne novizio dell’anziano Isacco (Antimonov) e 29 anni dopo, nel 1913, i fratelli anziani lo elessero rettore. La “Cronaca dello Skete” dice che Sant’Isacco prese parte al Concilio della Chiesa di Tutta la Russia del 1917.

Nella primavera del 1923, il monastero passò sotto la giurisdizione statale come monumento storico: il Museo Optina Pustyn. Padre Isacco e i fratelli, lasciando il monastero con grande dolore, si stabilirono in appartamenti a Kozelsk.

E nel 1929, un’ondata di nuovi arresti di “membri di chiesa” colpì il paese. Tutti i monaci Optina furono arrestati e imprigionati nella prigione di Kozel, poi trasferiti nella prigione di Sukhini e da lì a Smolensk.

Nel 1930, l’anziano Isacco fu esiliato nella regione di Tula, nella città di Belev, e nel 1932 fu nuovamente arrestato – tra gli accusati nel caso del “monastero sotterraneo presso la chiesa di San Nicola nell’insediamento cosacco”. dove “l’elemento monastico” svolgeva “attività controrivoluzionarie tra la popolazione e diffondeva voci evidentemente provocatorie sulla discesa dell’Anticristo sulla terra”. Nel 1937 furono arrestate circa 300 persone. L’anziano Isacco, insieme al resto degli accusati, è stato sottoposto all’intero programma di tortura dell’NKVD, ma non sono riusciti a ottenere una confessione. Il 30 dicembre la “troika” dell’NKVD condannò a morte tutti gli imputati e l’8 gennaio 1938, il secondo giorno di Natale, la sentenza fu eseguita.

***

Anziani Optina: volti della rinascita del monachesimo russo

Eppure, anche se abolita e profanata, Optina Pustyn – attraverso le preghiere dei suoi anziani – per tutto il XX secolo è rimasta per tutti i credenti ortodossi “un santuario nascosto”. Per poi diventare nuovamente il centro della rinascita in Russia dell’antica tradizione degli staretz.




SAN NICODEMO DI KELLERANA

VITA DI SAN NICODEMO L’UMILE

FONTE: https://www.oodegr.com/tradizione/tradizione_index/vitesanti/nicodemoumile.htm

La Vita di san Nicodemo è nota grazie a un monumentale Menologio, portato a termine nel 1308 per l’uso del Monastero del Salvatore di Messina (Mess. Gr. 30 ff. 245\50). L’agiografo è uno sconosciuto monaco Nilo. Al suo tempo – 13° secolo? – circolavano altre narrazioni su san Nicodemo, ritenute però difettose:

un altro prima di me, avendo voluto fare discorsi sull’argomento, fu riprovato davanti a molti a causa dell’oscurità e della rozzezza del suo parlare, temo di subire anch’io con lui la medesima sorte.

Dobbiamo, tuttavia, rimpiangere la perdita di quei Discorsi: le notizie su san Nicodemo conservate dal monaco Nilo sono alquanto vaghe[1].

Nicodemo nacque nel 10° secolo nella Sicilia continentale,a Sikrò: un villaggio della regione delle Saline (all’incirca, il versante tirrenico della provincia di Reggio Calabria o Piana di Gioia Tauro) non identificato[2]. È stata proposta la località Skrisi presso Palmi o una qualche altra località presso Cinquefrondi: la Vita di sant’Elia il Nuovo, l’ennese, parla di un fiume Sikrò che sembra poter essere lo Xiropotamo o Jeropotamo che scorre in quella zona.

Nicodemo, proteso verso quel pensiero che dice: Convincetevi di vivere sui monti e nelle spelonche, … discese alla Casa del taumaturgo San Fantino il Cavallaio dove, con altri fratelli, praticava vita esicasta un omonimo del santo cavallaio vissuto nel 4° o 5° secolo: quel celebre san Fantino, maestro di grandi asceti, che attorno all’anno Mille si addormentò a Tessalonica. Alla sua scuola Nicodemo mosse i primi passi.

Dopo alcuni giorni, vedendo che quello stava per fare progressi, avendolo spogliato di ogni veste mondana, lo rivestì, come con una corazza, del santo e beato abito e, avendogli coperto il capo con il velo del Salvatore, e avendolo fortificato con lo scudo della speranza, lo rivelò forte soldato di Cristo per affrontare i principi e le potenze di colui che ha il dominio di questo mondo… Era il beato perseverante, e restando con quel santo gheron, combatte la guerra con la carne per moltissimi anni, con digiuni, preghiere e veglie, impegnandosi in sommo grado con l’obbedienza e l’umiltà, abbellendosi con l’amore verso tutti e con infinita dolcezza…

E poiché i discendenti di Agar si levarono e devastavano tutta quella terra, il beato credette che fosse ira di Dio e, allontanatosi da quelli che stavano là, s’inoltrò, fuggendo per monti e spelonche, e si fermò in solitudine, essendo giunto in una regione, in luoghi molto elevati, detta Kellerana, boscosa e molto selvosa, per molti impraticabile, abitata piuttosto dai demoni.

Sulle aspre vette del Kellerana, che separano il versante tirrenico della provincia di Reggio Calabria da quello ionico, il nobile asceta, avendo sopportato combattimenti oltre ogni umana natura, divenne famoso, avendo vinto eserciti di malvagi demoni e, dopo essere stato messo alla prova da costoro in molte cose, li scacciò da sé a guisa di onde come un forte scoglio. Avendo costruito un oratorio sacro all’arcangelo Michele, condottiero degli Incorporei, mente mortale e lingua umana non può dire la vita e l’esistenza, che egli condusse colà per moltissimi anni. Ogni giorno si affaticava non per se stesso, ma per quelli che accorrevano a lui e soddisfaceva il bisogno dei propri discepoli. Dal principio del mattino fino all’ora terza, coperto d’una pelle (secondo le sue abitudini non indossava tunica) impastava tre pani con la farina macinata da lui stesso con le pietre. Egli, però, non solo non gustava assolutamente di questo cibo, ma non mangiò mai neppure altro pane per oltre 50 anni, né bevve vino né assaggiò acqua. Egli aveva il seguente tenore di vita: gettando una certa qualità di castagne in una pentola per i cibi, a sera le gustava, bevendo, al posto dell’acqua, quella brodaglia. In mezzo a questa lunga astinenza, rendeva grazie a Dio, e, se qualche volta riceveva dai pescatori, che venivano da lui, pesci del mare, diceva a se stesso: “Nicodemo, desidera pure di mangiare ciò che io ti ho dato, ma non come vuoi”. Distendendoli, infatti, al sole, li asciugava come un pezzo di legno e li mangiava senza ammollarli.

Vivendo con questa severa educazione del corpo, apparve come un prodigio sopra chi vive nel mondo bassamente… Ogni giorno, fino all’ora terza, recitava la sticologia [del salterio] in luoghi deserti; passata la terza ora, ritornava di nuovo tra i suoi fratelli. Restava alzato tutta la notte, tra infinite prostrazioni, compunzione del cuore, lacrime come fiume dalle cime dei monti, preghiera continua…

Un giorno i suoi discepoli si recarono a dirgli:

“Fastidioso, o padre, é a noi vivere la vita qui, e assolutamente difficile”. Egli rispose: “Avete detto bene, figli; dove volete che io vi trasferisca?” Essi, non avendo compreso che la spirituale obbedienza è del saggio, ritennero che fosse schietto ciò che era stato detto da lui e, fattisi vicini a lui, dissero: “Vi è nelle parti d’Ivukito un tempio sacro alla Theotokos, bellissimo[3]; e la regione è adatta a noi. Se tu lo comandi, ci trasferiremo colà”. Egli non oppose neppure una parola; anzi li incoraggiava, conoscendo ciò che sarebbe successo, poiché era festa del Transito della purissima vergine Madre di Dio. Il celebre uomo sapeva che colà ogni anno si riuniva una moltitudine di popolo e, prima del giorno festivo disse: “Svegliatevi! Andiamo, figli, nel luogo dove proponeste che abitassimo”. Essendosi alzati, seguirono il beato. Quando, però, giunsero e videro la riunione di popolo, come ricordandosi della tranquillità e della beata esistenza di prima, cadendo ai piedi del grande uomo, dissero: “Perdonaci, padre, perché abbiamo soddisfatto un desiderio cattivo per noi stessi e, messici in disaccordo, imprudentemente non abbiamo obbedito alla tua virtù. Ecco, dunque, riportaci là donde noi siamo venuti”.

Vivere arroccati sulle montagne era, all’epoca, anche una garanzia contro le scorrerie dei saraceni.

Mammola, eremo di s. Nicodemo di Kellerana, grotta di s. Fantino
 

Avendolo catturato, una volta, i caparbi figli di Agar, lo conducevano con sé insieme con altri prigionieri. Giunti in un luogo adatto per il loro riposo, essendo scesi colà, si sdraiarono. Essendosi egli alzato e avendo teso le mani al cielo, elevò al Signore le abituali preghiere. Ma essi, canzonandolo. lo deridevano, dicendo: “Quale vantaggio ti viene da questa preghiera? Non certo prima di cadere nelle nostre mani, hai pregato di non soffrire ciò. Ormai non avrai nessun giovamento”. Ma il Signore salva benevolmente il servo che l’invoca. Mentre insisteva nella preghiera, la potenza divina spinge quelli l’uno contro l’altro a lite e a rissa mortale; e avendo preso il santo dal mezzo di quelli, come una volta prese incolume Daniele dal mezzo dei leoni, lo salvò. Ma come esaltare quel grandissimo miracolo che il meraviglioso uomo compì proprio verso la fine della sua vita mortale? Nove uomini, dalla città di Bisignano [CS] gli Agareni conducevano schiavi in Sicilia. Ed essendo giunti in un certo luogo chiamato Pilio [?], essendo sbarcati, dormivano. Ma i prigionieri fortemente abbattuti dalla fatica delle catene e dal dolore, si rivolgevano a Dio col pensiero, invocandolo di venire in loro aiuto. Ma egli volendo rivelare compiutamente il suo servo, poiché viveva angelicamente, induce questo nella mente di uno di quelli, il quale dice agli altri: “Conosco un tale, fratelli, un monaco esicasta, un santo padre che è taumaturgo ed ardentissimo soccorritore di quelli che si trovano in necessità. Orsù, preghiamolo insieme fiduciosamente. La sua mediazione ci gioverà di fronte a Dio”. Tutti concordemente invocavano dicendo: “Santo di Dio, vieni a sottrarci da questa necessità. cosi l’aiuto dell’invocato li raggiunge rapidamente”.

Nicodemo morì vecchissimo, pare dopo settanta anni di vita monastica, un 12 marzo[4]; forse, all’inizio dell’anno Mille.

Il “monastero” di san Nicodemo sarà stato, inizialmente, nient’altro che una skiti di capanne, attorno alla chiesa dedicata all’arcangelo Michele: che sia stato fondato in Età normanna, se non è uno dei tanti luoghi comuni di cui è zeppa la storia ufficiale dell’Italia Meridionale, lo si dice forse in riferimento a una sua ristrutturazione cenobitica.

Sul Kellerana, sulle montagne che sovrastano Mammola, si scorgono ancora i ruderi del monastero e, da poco, è stato scoperto l’altare dell’antica chiesa. Gli ultimi monaci “greci” l’avevano seppellito con cura, nascosto sottoterra, per impedire che fosse usato come altare latino nella ricostruzione della chiesa (1588) voluta dal cardinale Antonio Carafa.

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Nicodemo.htm

FONTE: https://www.oodegr.com/tradizione/tradizione_index/vitesanti/nicodemoumile.htm

Immagine: http://it.wikipedia.org/wiki/San_Nicodemo_di_Mammola


[1] Seguiamo, per quanto difettosa, l’edizione di V. Saletta, Vita inedita di san Nicodemo di Calabria, Roma 1964. È introvabile, infatti, l’edizione di M. Arco Magrì, Vita di san Nicodemo di Kellerana, Roma 1969, che potrebbe essere più accurata.

[2] Nel fervore religioso della Controriforma cattolica, san Nicodemo fu spacciato per nativo di Cirò e nominato protettore di quell’importante centro vinicolo in provincia di Crotone. Più solido e antico è, invece, il culto riconosciutogli in territorio di Mammola, un comune alle falde dell’Aspromonte ionico, in territorio di Locri.

[3] Durante la Francocrazia in Sicilia e Grande Grecia, il tempio bellissimo della Madre di Dio è stato raso al suolo; la distruzione è stata così feroce che si ignora persino a quale località corrisponda oggi il toponimo Ivukito (Vucita, in territorio di Gallicianò (un villaggio ellenofono del reggino), ci porterebbe a troppi km di distanza dal Kellerana). Non si dimentichi che Daniele, l’autore materiale del Mess. Gr. 30, è copista di rara eleganza grafica ma, in pratica, incapace di scrivere dieci parole senza almeno dieci errori: particolare abilità dimostra nello storpiare proprio i nomi di località che non conosceva o che, forse, erano già state distrutte sin dai primi giorni dell’invasione normanna.

[4] Gli eruditi locali – ed è un particolare comune a molti altri santi di Sicilia e Grande Grecia – registrano altre date (per esempio, in questo caso, un improbabile 25 marzo), forse da riferire a traslazioni di reliquie.

San Nicodemo del Kellerana esempio di fede, impegno sociale e morale

“Ecologista ante litteram”

di Stefano Scarfò

Visse circa mille anni fa e tra le migliaia di monaci magno – greci, la sua luminosa figura di asceta e di combattente per la fede e la difesa delle classi subalterne, svetta prepotente nella sua epoca storica cosi travagliata, difficile e carica di tragici avvenimenti che determinarono il corso degli eventi e il destino stesso di intere popolazioni. Dice il suo ”BIOS” o “ LOGOS” tradotto dalla lingua bizantina dal generale dei basiliani Apollinare Agresta che, giovanetto, fu accolto nella famosa Eparchia del Mercurion, dove sotto la illuminata guida del monaco S. Fantino il Giovane, assieme all’altro grande Santo di Calabria, Nilo da Rossano, fu educato alle virtù cristiane, prime fra tutte, lo spirito di obbedienza, macerazione della carne e dello spirito e la carità. Si distingueva in modo particolare per i patimenti fisici sull’esempio del Cristo sulla Croce, la continua preghiera protratta oltre i limiti umani, le continue esaltazioni mistiche che suscitavano l’ammirazione dei suoi confratelli. Ma, un giorno, sulla pacifica comunità eremitica, si abbatté l’uragano delle orde saracene che mettevano a ferro e fuoco interi villaggi con particolare accanimento verso le istituzioni monastiche. Nicodemo, cosi come gli altri frati, fu costretto a lasciare quel luogo di preghiere e, mentre il suo confratello Nilo da Rossano e Bartolomeo scelsero di andare verso Roma, nelle cui vicinanze, presso Grottaferrata, avrebbero fondato l’Abbazia, tuttora faro di luce del Basilianesimo, il nostro fraticello Nicodemo volle restare nella sua terra, in mezzo ai suoi corregionali, oltremodo bisognosi di guide spirituali e di personaggi prestigiosi che sapessero assumersi le responsabilità di pastori di anime e di capi coraggiosi per fronteggiare le divisioni e le lacerazioni che minavano la stessa entità etnica delle nostre popolazioni alla ricerca di posti sicuri per sfuggire ai continui assalti barbareschi. Nicodemo, dopo aver a lungo peregrinato tra masse di fuggiaschi, trovò rifugio, non tanto per sottrarsi alle incursioni moresche, quanto per continuare in solitudine la sua ascesi in una montagna veramente aspra, fitta di boschi inaccessibili, luogo di lupi, cinghiali, rettili, proprio nel bel mezzo della natura incontaminata dove sentiva con tutte le creature la presenza di Dio, dove il silenzio assoluto parlava apertamente della presenza dello stesso Creatore. In apparenza, il sito sembrava al di fuori del mondo, però, sul limitare della selva selvaggia, invece, vi scorreva quella famosa strada percorsa dagli antichi locresi che dalla riviera dei Gelsomini, attraversato il fiume “Sagra” si inerpicavano sul passo appenninico della Limina, ieri del Kellerana, per raggiungere la costa Viola, oggi piana di Rosarno, e fondare le loro colonie, Medma l’odierna Rosamo, Hipponium,  l’attuale Vibo Valentia.  Ben presto, malgrado la naturale riserbatezza dell’eremita, si diffuse la notizia della sua presenza, anche perché molti furono i giovani attratti dal carisma dell’anacoreta che si unirono a lui nella preghiera, senza, peraltro prevedere che moltitudini di fuggiaschi lo cercavano perché si ergesse in difesa degli oppressi e segnasse loro un posto dove vivere in tranquillità senza il continuo assillo di dovere peregrinare come nomadi in cerca di una valle che potesse accoglierli definitivamente.

Nicodemo, di fronte a tanta miseria morale e materiale, capì che oltre alle preghiere, al digiuno prolungato, era più necessario dare aiuto e conforto a chi saliva il monte per implorare protezione. Tra i più devoti frequentatori del monte Kellerana per essere confortati dal santo monaco, erano i fuggiaschi che, una volta scappati dalla marina ionica, si erano stanziati in una valle incassata sotto una lussureggiante e ridente corona di colline, con ai piedi un argenteo ruscello, il Locanus, dalle acque purissime, tutt’intorno prati verdeggianti, pingui pascoli, il posto ideale per gettare le basi per il sorgere di un grosso borgo al riparo dagli attacchi dei musulmani. Questo sito, in origine abitato prevalentemente da pochi, rozzi pastori, grazie alla presenza dei monaci orientali, acquista un’improvvisa importanza e, nello spazio di pochi anni, assurge al rango di importante centro nel quale si sviluppano in modo considerevole le attività artigianali che gli daranno fama fino alla meta di questo morente secolo. Non per niente i monaci, proprio sulla sponda destra del fiume, dirimpetto all’abitato, costruiscono un convento nell’anno 1035, secondo la pergamena scoperta dal prof. Andrea Guillou della Sorbona di Parigi, forse furono loro stessi a dare il nome al nuovo borgo che, essendo rintanato nel fondo valle, quasi nascosto, pudico, lo chiamarono Mammola, perché come questo odoroso fiorellino, sta celato tra la fitta vegetazione. Era naturale, quindi, che i paesani rivolgessero le loro attenzioni al santo monaco e ai suoi discepoli, si creò quei binomio indissolubile che ancora oggi continua e che sin dai primi momenti portò i fedeli, in modo spontaneo, a vedere in Nicodemo il Protettore, il Patrono, prima che la chiesa lo proclamasse beato dopo diversi secoli dalla sua morte. Intanto, quell’umile oratorio eretto dall’umile asceta, si ingrandisce, attorno sorgono le celle per i suoi confratelli, egli, esempio vivente di laboriosità, inizia a dissodare le terre, insegna a chi gli corre incontro che la fame e la carestia si vincono sudando sui campi e producendo quei frutti che il Signore ha messo a disposizione dell’umanità. Inoltre, promuove il rispetto assoluto per la natura, i boschi vanno protetti e difesi, cosi come tutti gli animali che vivono in libertà e ce ne da la prova di questo suo amore per le creature di Dio quando una vipera, sgusciata da una siepe si avventa su uno dei frati intenti a coltivare il campo.  Nicodemo si para davanti e blocca il monaco che con la sua  zappa stava per accoppare il rettile.  “Posati ss’armi e cessati ssa guerra” – recita un’orazione popolare che si perde nella notte dei tempi, che cosi continua: “Ca l’ha crijiata Dio pe stari in terra”. Senza parlare dei cervi salvati e dello stesso lupo affamato che i contadini e i pastori vorrebbero ammazzare, perché considerato belva feroce, mentre lui dimostra, come gli etologi del nostro tempo, che è un animale socievole al quale non bisogna dare una caccia spietata. Dieci secoli prima che l’uomo della civiltà tecnocratica si rendesse conto dell’importanza e della necessita di proteggere gli animali e l’ambiente, un umile anacoreta ci dà una grande lezione di ecologia, di comportamento e di difesa dell’ecosistema. Questo monaco, dopo una vita di stenti, privazioni, ma soprattutto di strenua lotta in difesa dei basilari principi di libertà, muore verso il 990, quasi contemporaneamente a S. Nilo. Secondo quanto narra un altro Nilo, monaco del Kellerana che scrisse la biografia del santo fondatore del monastero intorno al 1040, una moltitudine immensa sali sulla montagna per rendere omaggio all’uomo che aveva saputo ergersi contro i potenti e gli usurpatori in difesa dei deboli e degli affamati. La sua morte segna per il convento da lui fondato un’era di grandezza e il popolo lo proclama Santo e dà inizio a quei pellegrinaggi di fede e devozione per pregare sulla sua tomba che, ancora oggi, continuano incessantemente in particolari momenti dell’anno. Già lo stesso S. Fantino, di passaggio dal Kellerana, dove era andato a fare visita al suo discepolo prima di recarsi in Grecia, aveva pronosticato la santità dell’asceta, tanto lo vide forte nella preghiera, nella sofferenza, maestro delle plebi che con l’avvio al lavoro le aveva sottratte dalla triste condizione di servi della gleba. Il monastero del Kellerana, in seguito, crebbe ancor più in fama e grandezza, le donazioni di beni da parte dei fedeli si susseguivano  continuamente per le considerevoli rendite che producevano le terre amministrate. Intanto era cominciata l’opera di latinizzazione da parte della chiesa di Roma e per questo scopo, nel 1082,  il Gran Conte Ruggero, con un suo decreto, assoggettò il monastero del Kellerana alla Badia Benedettina della S.S. Trinità di Mileto, da lui stesso fondata. Ma i monaci, forti della loro tradizione magno – greca e dello spirito liberatorio, non si piegarono alla latinizzazione e non riconobbero nemmeno la giurisdizione della S.S. Trinità di Mileto, malgrado le riconferme dei successivi sovrani normanni e le scomuniche papali, cosi come è dimostrato dai documenti greci giacenti nella biblioteca apostolica del Vaticano scoperti  e pubblicati da padre Francesco  Russo.   Il monastero del Kellerana, in  sostanza, apparteneva al monachesimo bizantino – orientale e non  propriamente basiliano e ognuna di queste entità religiose era autonoma e si reggeva sulle norme dettate dal proprio fondatore, pur avendo dei riferimenti indiretti con le regole di S. Basilio. Forse, a spingere i benedettini,  questa é una malignità di qualche storico, a sottomettere il Monastero del Kellerana, non fu tanto l’idea della latinizzazione, quanto la potenza economica acquistata da questo complesso monastico diventata piuttosto considerevole, basti ricordare che nel 1433, la rendita dei beni di S. Nicodemo ammontava a più di 100 ducati d’oro. Fino alla fine del secolo decimo quinto il convento di S. Nicodemo godeva di un grande prestigio morale e spirituale, era continua meta dei visitatori apostolici e di migliaia e migliaia di pellegrini, il Vescovo di Gerace, mons. Atanasio Calkeopulo, lo visita nel 1483 e nella sua relazione scrive che è molto efficiente, le sue fabbriche sono in buono stato di conservazione, i suoi numerosi monaci molto attivi, vi trova un’importante documentazione composta di libri sacri, 70 strumenti, privilegi notarili, pergamene, anche se i più antichi e preziosi diplomi di S. Nicodemo erano stati trasferiti, coercitivamente, dai monaci di Mileto e depositati nei propri archivi e poi,  per ordine del Papa che voleva riunificare tutta la grande mole di reperti storici relativi al periodo del monachesimo magno – greco, depositati nel Collegio greco di Roma, ma non tutto il carteggio giunse nella città Eterna, purtroppo, perché buona parte fu preda delle numerose biblioteche italiane e straniere, vedi  Venezia, Buxelles, Parigi, qualche platea arrivò persino nella biblioteca di Leningrado. Il Kalkeopulo rileva pure un’intensa attività “scriptoria”, ma lui stesso, forse per assecondare le direttive del cardinale Bessarione, suo grande amico, nel 1485, decide di convertire la sua Diocesi, ultima in ordine di tempo, al rito  latino. Fu un duro colpo per le numerose eparchie bizantine ancora esistenti nella Locride, specialmente per i monaci di S. Nicodemo che si videro privati della loro entità storica e spirituale, accettarono il nuovo corso per quello spirito d’obbedienza proprio dell’ordine monastico, ma si trovarono demotivati, tanto é vero che di li a qualche decennio, il glorioso Monastero, fondato nel secolo decimo da S. Nicodemo, fu abbandonato per trasferirsi nella dependance, cioè nella sede più agevole, la Grancia di S. Biagio, nei pressi dell’abitato di Mammola, là dove continuarono la loro opera fino al 1807, anno in cui i francesi, decretarono la chiusura del Convento, la cui struttura muraria, perfettamente conservata, mostra ancora la sua possanza ed anche il grado di sviluppo raggiunto nei suoi secoli di attività. Dopo il declino del monastero del Kellerana, anche l’opera e la figura stessa del monaco Nicodemo andarono scemando, essendosi il suo culto localizzato nella pur ampia Vallata del Torbido e nella cittadina di Ciro’, che gli avrebbe dato i natali. Purtroppo, non ha assunto la notorietà del suo coevo e compagno Nilo da Rossano che si è trovato in una posizione strategicamente più favorevole, lì a Grottaferrata, e che nei confronti dei benedettini di Monte Cassino assunse una posizione molto consona all’opera di latinizzazione. Di poi, l’acquisizione della documentazione storica relativa al monastero del Kellerana e al suo stesso fondatore da parte della Badia di Mileto, non ha certo favorito il diffondersi della fama di santità, carità, azione sociale di Nicodemo. Sembrerebbe una sottile vendetta dei benedettini nei confronti dei monaci del Kellerana che, coraggiosamente, avevano difeso la loro indipendenza e cultura verso chi mirava a togliere l’autonomia e la stessa ragione di essere monaci magno – greci. Malgrado il silenzio di storici ed ecclesiastici, dall’ottocento in poi, il culto di S. Nicodemo si diffonde un po’ dovunque ad opera delle migliaia e migliaia di Mammolesi che raggiungono tutte le parti del mondo coinvolgendo anche molti altri calabresi che vivono la stessa vita di emigrati. Disse, una volta un prete che aveva girato parecchie contrade, dall’Europa all’America del Nord, dall’Argentina all’Australia, se incontrerai un mammolese, sicuramente, nel suo taschino troverai l’immagine del suo Protettore S. Nicodemo.

La sua statua la si può trovare in una chiesa di Montreal, o a Buenos Aires, a New York come a Sidney, le comunità si ritrovano unite per celebrare, cosi come a Mammola, la festa solenne con processione, bande, fuochi d’artificio, riti veramente imponenti che in confronto quelli svolti nella madre patria sono povera cosa. Finalmente anche gli storici si sono svegliati. Infatti, questo umile anacoreta, degno di essere considerato fra i più grandi Santi della Calabria , è stato riscoperto e la sua opera rivalutata in tutta la pienezza del suo valore spirituale e sociale. Illustri personaggi e insigni ricercatori lo stanno esaltando, padre Francesco Russo, uno dei massimi storici della nostra terra, Andree Guillou, emerito professore alla Sorbona di Parigi, Melina Arco Macrì dell’Universita di Messina, il prof. Ferreri e tanti altri ancora, dedicano i loro studi a colui il quale, in un secolo di totale oscurantismo seppe indicare ai suoi monaci e alle genti bruzie la via da seguire per il riscatto dalla miseria e dalla depravazione morale e materiale. Nicodemo del Kellerana di Mammola deve occupare nella storia e nella vita della Calabria la stessa importanza che Egli ebbe mille anni or sono, perché il nostro popolo segue il suo messaggio di amore e di fraternità per la conquista di un futuro di serenità per tutti i suoi figli.

Stefano Scarfò

(L’articolo è apparso su Calabria Letteraria, edita da Rubettino, nr. 4-5-6 (Aprile,Maggio,Giugno)/1999 )




Il Mercurion (MepKoùpiov) raccontato da Wilma Fittipaldi

FONTE: https://orsomarsoblues.it/2016/11/mercurion-mepkoupiov-raccontato-wilma-fittipaldi/

Nel Tema di Lucania la regione monastica posta a metà strada tra la Calabria e la Longobardia (Kalabrias metaxy kaì Lagobardias) fu quella del Mercurion, le cui coordinate storiche e geografiche identificabili all’interno del Pollino subirono modifiche per la temperie storica in cui si trovò coinvolta l’area calabro-lucana nei secoli anteriori all’XI. Uno spostamento ulteriore dei limiti del Mercurion si ebbe in direzione nord nel corso dell’XI secolo, conseguente all’inizio degli sbarchi dei monaci lungo il medio corso del Lao, in fuga dalla Sicilia e dalla Calabria meridionale a causa delle incursioni arabe. Gli spostamenti di questi monaci e la loro discontinua permanenza in loco si ripercossero non solo sull’organizzazione religiosa ma anche sull’amministrazione sociale. Nel 952 i monaci del Mercurion, venendo a conoscenza che l’emiro El-Hassan stava per raggiungere il territorio, lasciarono quei luoghi alla ricerca di zone più sicure: San Saba si spostò verso il Latinianon, San Fantino ed altri confratelli nella regione del monte di Bulgheria, in territorio longobardo.

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L’origine del toponimo Mercurion ha fatto molto discutere e potrebbe essere riferita a Mercurio (da mercari, commerciare, e da merx, mercé), dio dei commerci e protettore dei mercanti. Non a caso a Cirella, l’antica Cerillae, nella zona costiera non lontana dalle grotte paleolitiche, sorgeva un tempio dedicato a Mercurio, i cui resti sono stati distrutti negli anni Sessanta del XX secolo. Il termine potrebbe riferirsi anche a San Mercurio (vedi Appendice 2) di Cappadocia, precisamente di Cesarea (patria anche di San Basilio). I primi a diffondere il culto del santo furono i monaci bizantini.

II dibattutto termine Mercurion potrebbe derivare dal nome con cui è designato il fiume Lao nel suo corso superiore: nasce dal monte Pollino, alle falde della Serra Vocolio (Viggianello, in provincia di Potenza) come Mercure; dopo pochi chilometri entra in territorio calabrese presso Laino (Cosenza), riceve le acque dei fiumi Battendiero e Jannello, accoglie anche quelle del Fiumara e del S. Giovanni, con cui si immette come Lao in Calabria. Nei pressi del comune calabrese di Orsomarso accoglie le acque dell’Argentino, suo principale tributario, e dopo le spettacolari gole allargando decisamente il proprio alveo e diramandosi in svariati bràcci secondari sfocia nel mar Tirreno presso Scalea (Cosenza). La connessione topografica tra questi luoghi citati ci giunge nell’XI secolo dal trattato di cartografia araba di Abù Abdallah Moammad-ash-Sharif al-ldrisi as Siqill (1059-1164), II Nuzhat al mushtaq fi ikhiraq alafaq (La delizia per chi brama percorrere le regioni), meglio conosciuto come Kitab Rugiar (Libro di Ruggero) che riferisce quanto segue: «II wadi Laniah (il fiume Laino, il Lao) ha le sorgenti avanti a m.rkurì (Mercurio), di là scende alla regione che è di fronte a.d. sqaliah (Scalea) al mare».

Chiesa della Madonna di Mircuro

Chiesa della Madonna di Mircuro

A parere di alcuni studiosi il fiume avrebbe tratto l’idronomo Mercure da Castello, il Kàstron Merkourìon, identificabile in un antico borgo fortificato medievale; di cui restano solo avanzi di muri che sostenevano terrazzamenti, oggi appena visibili sulla strada dove sorge la chiesa di Santa Maria di Mércurì. La citazione del Kàstron si ritrova anche in due aneddoti relativi alla vita intensa di San Saba: 1) il santo era nel monastero di San Michele fondato da lui e dalla famiglia sull’altura della Serra Bonangelo, insieme a quello di Santo Stefano, ad Oriente del ‘castello di Mercurio’, quando scacciò le locuste che infestavano il territorio del Mercurion; 2} «nel ritorno da Laino a quel di Lagonegro» avrebbe guarito «un figliuolo ch’avea il capo attratto, ed un figlioulo del Castello di Mercurio…”.

Secondo lo storico Gaetani, il ‘castello’, menzionato anche nelle Bolle di Urbano II del 1089, di Pasquale III, di Eugenio III e di Alessandro III, è da identificare con la cìvitas Mercuria che l’autore del bios di San Leon-Luca di Corleone cita come collocata presso Orsomarso: sarebbe ad ovest di Castrovillari e presso la località di ‘San Giovanni di Mercurio’.

Gli eventi della provincia monastica del Mercurion sono in rapporto inscindibile con l’antico fiume Lao (Laos, Λαός), presso la cui foce sorgeva l’omonima città distrutta. Fu la prima provincia ad ospitare i monaci in fuga dall’Oriente dove era scoppiata la controversia sulle immagini, presto estesa all’Occidente: dall’Vlll secolo fu inferto un duro colpo alle relazioni tra Roma e Bisanzio, il cui imperatore Leone III Isaurico (717-741) ordinò la confisca dell’intero patrimonio della Chiesa romana in tutti i territori bizantini ed in particolare in quelli del Meridione, decretando poi il passaggio di tutte le diocesi dell’Illirico e di Sicilia dalla giurisdizione romana al patriarcato ecumenico di Costantinopoli.

Ai flussi migratori causati dalla lotta alle immagini, fece seguito l’ondata monastica del X ed XI secolo proveniente dalla Sicilia caduta sotto il dominio arabo, ondata che fece del Mercurion un centro intensissimo di vita ascetica, al pari di quello greco del monte Athos e di Meteora. Molte fonti agiografiche lo paragonano persino all’Olympios, la Sacra Montagna della Bitinia, nonché alla Tebaide. A giusta causa la Calabria fu definita ‘Nuova Tebaide’ dal Barrio e dall’Ughelli, per l’analogia con l’antica regione egizia (con capitale Tebe), dove ebbe origine e fiorì il monachesimo. Fu allora che in questa regione giunsero i nomi più noti dell’agiografia italo-greca come Cristoforo (proveniente da Collesano, insieme ai figli Saba e Macario, e alla moglie Cali, tutti dediti alla vita religiosa), San Vitale di Castronovo, San Leoluca di Corleone, San Luca di Demenna, ai quali si aggiunsero i grandi asceti locali come San Fantino, San Zaccaria, San Luca d’Armento ed altri ancora.

Eremo di San Nilo

Eremo di San Nilo

Su tutti spicca la personalità di San Nilo di Rossano, considerato la figura più rappresentativa della regione calabra, cui fanno corona numerosi discepoli come Bartolomeo, Giorgio e Stefano da Rossano. Le vite di questi santi basiliani relativamente al X secolo ci presentano una regione tutta bizantina. Qui si svilupparono i vari tipi di vita monastica nelle grotte per l’eremitaggio, nelle laure e nei cenobi (la cui realizzazione richiese anni di lavoro). L’asceta Saba di Collesano ne fondò diversi, nei pressi di Santa Domenica Talao, di Papasidero e di Scalea, mantenendo rapporti con altri monasteri indipendenti, come ad esempio quelle dei Marcani  presso Papasidero. I meriti degli asceti calabro-lucani furono molteplici nella trasmissione della cultura greco-bizantina. In tutti i monasteri del Mercurion e del Latinianon si raccolse un notevole patrimonio di manoscritti greci, che purtroppo vennero dispersi, a volte bruciati. Dal bios di San Nilo si apprende che il santo spesso mandava frati a Rossano per rifornirsi di ‘membrane’ (cartapecora per farne pergamene).

Nei monasteri del Mercurion gli studi furono fiorenti. Qui era professata la Regola di San Teodoro lo Studita, pubblicata dal cardinale Angelo Mai (1854): stabiliva che, nei giorni in cui non si lavorava, un segnale del bibliotecario intimava a tutti i monaci di raccogliersi nella biblioteca e prendere un libro da leggere fino al vespro.

San Fantino, particolare della Chiesa di Santo Linardo – Orsomarso

San Fantino, particolare della Chiesa di Santo Linardo - Orsomarso

Simbolo della regione monastica del Mercurion può considerarsi la chiesa di Santa Maria di Mercuri, che sorge non molto distante da Orsomarso tra la fitta vegetazione. La sua scenografica presenza è resa ancora più affascinante per la posizione a strapiombo sulla sinistra del Lao, con muri perimetrali impostati direttamente sulla rupe. La sua sobria linearità sintetizza le tipologie consolidate dalla tradizione bizantina: la navata termina con un’abside semicircolare ad est, dove sorge il sole, metafora della luce divina. Sul lato sinistro di Santa Maria di Mercuri (XI secolo) è presente una dicitura che attesta l’appartenenza di questa chiesa alla diocesi di Temesa (l’antica città citata da Omero, Odissea Libro I, vv. 180 ss.), poi Tempsa. Tra la fitta vegetazione che circonda la chiesa affiorano modesti resti del castello di Mercurio, appena visibili tra la fitta vegetazione sulla sinistra del Lao. Dall’alto della rupe si domina una vasta vallata, il letto del fiume Lao e la confluenza del suo affluente, l’Argentino.

Quanto asserito relativamente al Castello ed alla civitas trova conferma nelle pergamene e nei documenti pontifici che attestano anche la concessione e la conferma di monasteri mercuriensi alla Badia di Cava.

Studiando la storia del territorio descritto ci si imbatte in ipotesi, non accolte, secondo le quali la regione monastica mercuriense sarebbe sorta nella Calabria meridionale, tra Palmi e Seminara (V. Saletta, A. Agresta, fra’ Giovanni da Fiore, N. Leone ed i Bollantisti) o tra Metauria e Tauriana, facendo riferimento ad una costruzione in loco sacra al dio Mercurio o a San Mercurio di Cesarea (tra le contrade di Sidaro e Prato).

L’antico Mercurion corrisponde invece ai comuni attuali del bacino del fiume Mercure e della media e bassa valle del fiume Lao. Ancora oggi le comunità di questo territorio trasmettono una propria spiritualità per la tradizioni di cui sono depositarie, per la vita permeata di fede trasmessa dagli asceti che le hanno abitate.

Copertina del libro della Fittipaldi

Fonte: “LA PRESENZA BIZANTINA NELLA LUCANIA E NEL MERIDIONE D’ITALIA”, di W. Fittipaldi,  Zaccara Editore




BIAGIO CAPPELLI: Quale territorio comprendeva il Mercurion?

Fonte: https://orsomarsoblues.it/2022/08/quale-territorio-comprendeva-il-mercurion/

San Nicola di Donnoso – Orsomarso

La designazione geografica-amministrativa di “valle di Laino” corrisponde a quella di “valle di Mercurio” che appare in alcuni documenti della prima età normanna, tra cui uno del 1065 di Roberto Guiscardo. In quanto ambedue si riferiscono al territorio bagnato dal Mercure-Lao che così veniva a denominarsi una volta dal castello di Laino ed un’altra da quello di Mercurio che rispettivamente lo vigilavano nella parte media ed inferiore. La denominazione, poi di “valle di Mercurio” continuava le altre di “Mercurion” o di “regione di Mercurio” o di “eparchia di Mercurio” date alla illustre cittadella del monachesimo calabro-bizantino che nel secolo X fioriva nella zona. La quale era limitrofa ed in contatto, più o meno intenso e continuo, con gli altri centri ascetici di monte Mula a sudovest, di Aieta, a nord-ovest, di Lagonegro a nord e di Latiniano a nord-est. Da non molto è stata espressa l’idea che il termine “eparchia” applicato al Mercurion non sia stato usato in modo generico, ma significhi che questa regione costituisse una entità militare indipendente, come il governo bizantino usava instituirne nei punti strategicamente importanti, alla quale, inoltre, si assegna una estensione assai ampia. Qualunque, però, possa essere stata questa, l’effettiva area monastica mercuriense appare nel secolo X limitata alla media e bassa valle del Mercure-Lao, ed anzi direi che essa fosse compresa in un triangolo. Isolato, perché a ponente e non toccato da quella arteria di grande comunicazione che fu anche nel medioevo la romana via Popilia, e povero di abitanti anche per la scarsità di terreni coltivabili, ma ricco di memorie bizantine. Triangolo che ha il suo vertice superiore a Laino e gli altri non lontano dalla foce Mercure-Lao, ad Orsomarso ed a Scalea rispettivamente sulla sponda sinistra e destra del fiume.

La mia idea di localizzare in tale senso il Mercurion ascetico nasce in primo luogo da alcuni passi della vita di S. Leon-Luca di Corleone, che escludono dalla predetta zona e i monti ad ovest di Mormanno e il monastero di Vena, l’odierna Avena, ad essi prossimo; inoltre dai riferimenti contenuti nella vita di S. Nilo di Rossano, confermati da documenti posteriori, che inoltre ne aggiungono altri, portano a dover situare l’eremo di S. Nilo e i monasteri di S. Fantino, S. Zaccaria, S. Giovanni, di Castello, del Castellano, di S. Nicola e qualche altro nei luoghi già dominati dal castello di Mercurio ed ora facenti capo al centro di Orsomarso; ed infine, e principalmente, da numerosi e precisi dati offerti dalle vite di SS. Cristoforo, Saba e Macario di Collesano. L’apporto di queste vite, che si integrano a vicenda, è particolarmente prezioso, perché l’autore, Oreste patriarca di Gerusalemme, conobbe a Roma Saba e Macario e fu per qualche tempo in Calabria assistendo ad alcuni degli avvenimenti narrati.

Per Oreste la regione del Mercurion, folta di boschi densi ed estesi in tutte le direzioni, era sita tra la Calabria e la Longobardiaquasi una terra di nessuno nei riguardi dello spazio politico, ma vivendo solo in virtù degli asceti che vi abitavano. Pare anzi dalla breve, ma incisiva descrizione, che voglia essenzialmente indicarsi come Mercurion la media valle del Mercure-Lao, profonda, precipite ed angusta, e intenderla come un “vallo” non fra i temi bizantini di Longobardia e Calabria, bensì tra questo e i territori del principato longobardo di Salerno, indicati in altri testi agiografici come le “parti superiori” — rispetto al “Mercurion” — oppure la “regione dei principi”.

Il postulato della vita ascetica fiorente nella media valle del fiume riceve consistenza dal ritrovarsi sulla sponda sinistra, poco a ponente di Laino e all’altezza del villaggio di Montagna, i ruderi di una cappella medioevale desinente in una abside semicilindrica. Cappella che può essere stata il centro di riunione degli asceti di un monastero eremitico o di una “laura”, viventi nelle grotte naturali aperte sul fianco dei terrazzamenti incombenti; le quali, però, non hanno conservato tracce che possano riportarsi all’età medioevale, neanche quella detta dell’ “eremita” che pure ha dato con alcuni esemplari dell’industria litica ed ossea una grande lastra di pietra che porta incisa una figura di bovide — bos primigenius — risalente al paleolitico superiore. Il ricordo di questo centro si inserisce nel racconto di Oreste circa la vita eremitica nel Mercurion, ma non si identifica con il monastero di S. Stefano fondato da Cristoforo e Macario accanto ad una chiesetta derelitta in una contrada, presso il fiume, che venne bonificata e in parte messa a coltura in quanto questa zona che ancora ne conserva il nome è sita sulla destra del Mercure-Lao un poco a nord-ovest di Papasidero.

Sulla stessa sponda del fiume, ma ancora più a valle e ad ovest del monastero di S. Nicola de Tremulo, nella località omonima non lontana da Papasidero, era stato fondato in una contrada, anch’essa folta di varia vegetazione, da S. Saba e dai familiari e compagni non appena arrivati al Mercurion, il monastero di S. Michele Arcangelo: una volta ricordato dal patriarca Oreste in un contesto che permette situarlo in una località abbastanza vicina a quella occupata dal monastero dei Siracusani, già esistente alla venuta di S. Saba e che può con sicurezza identificarsi con quello di S. Nicola de Siracusa sito a Scalea e appartenuto alla Badia di Grottaferrata. A convalidare ciò sta anche il paesaggio che il racconto di Oreste ha come sfondo e che rispecchia la natura dei luoghi da me indicati; e cioè che il primo dei due monasteri era prossimo ad una campagna fertile, coltivata e popolata di agricoltori e che dall’altro si scorgeva la regione di Aieta e il mare.

La regione monastica mercuriense arrivava così fino al mare, tra la foce dell’Abatemarco e S. Nicola Arcella, dal quale, come altrove, erano arrivati alla fine del secolo IX, i fondatori dei monasteri dei Siracusani, dei Taorminesi e forse anche quelli dei Marcani, costituiti certo i primi due da massicce migrazioni di monaci fuggiti da Siracusa e da Taormina in seguito all’occupazione mussulmana di queste due città avvenuta, rispettivamente, nell‘878 e nel 902. Cose che fecero altri monaci tra cui quelli guidati da S. Cristoforo e dai familiari, i quali giunti per mare nella Calabria centrale si spinsero in un secondo momento fino alle spiagge del Mercurion sbarcando, forse più che a Scalea, nel piccolo porto naturale sottostante all’attuale abitato di S. Nicola Arcella, dove nel secolo XI incontreremo una chiesetta bizantina, meglio protetta dai venti e dalle burrasche per poi insediarsi in prossimità dei monasteri preesistenti, cioè in luoghi non lontani dalla costa, come del resto anche gli asceti viventi intorno al castello di Mercurio e nella zona adiacente; mentre la boscosa e selvaggia media valle del fiume ospitava, tranne qualche eccezione, maggiormente eremiti. Cosa che risulta dalla testimonianza del patriarca Oreste e dal fatto che alla metà del secolo X, intensificatisi gli sbarchi e le scorrerie dei Musulmani, che naturalmente battevano a preferenza le spiagge e le località adiacenti, la regione ascetica del Mercurion incominciò a spopolarsi cercando i monaci luoghi più interni ed impervi e perciò più sicuri: e tra la folla dei fuggenti sappiamo erano S. Fantino, rifugiatosi in Oriente a Tessalonica, S. Nilo, ritornato tra le montagne della sua Rossano, S. Saba e suoi compagni, trasferitisi nell’eparchia di Latinianon.

Nel secolo XI i confini del Mercurion verso settentrione appariscono ampliati, in quanto alcune fondazioni monastiche ricordate in documenti coevi, per gli stessi titoli che portano o per i particolari topografici che le accompagnano, inducono fondatamente a pensare per esse a delle localizzazioni a nord del territorio di Scalea, e precisamente in quello di Aieta e in altri luoghi ancora più settentrionali. A tale riguardo poco, però, si può ricavare dalle carte della prima metà del secolo XI, provenienti dal monastero di S. Nicola di Donnoso, sito presso il castello di Mercurio, che menzionano, senza specificare se rientrassero nella zona del Mercurion, le fondazioni del Patir, di S. Angelo, dell’Apostolo Andrea, di Kur Macario e di Mavrone. Invece uno spostamento dei limiti mercuriensi nella direttrice prima accennata balza dalla già citata carta del 1065, rilasciata da Roberto Guiscardo, nella quale vengono ricordati nelle “valle di Mercurio” i monasteri di S. Nicola dell’abate Clemente e di S. Pietro de Marcanito e la chiesa di S. Zaccaria e di S. Elia, o, forse meglio, le chiese di S. Zaccaria e di S. Elia, di S. Nicola de Digna e di S. Venere.

Il ricordo dei due predetti monasteri non aggiunge nulla alle cognizioni che fin qui abbiamo sui confini mercuriensi, dato che il primo si identifica con quello di S. Nicola di Donnoso, così denominato dal suo fondatore, e l’altro con il monastero dei Marcani, che doveva far gruppo con quelli dei Taorminesi e dei Siracusani: prossimo questo, come si è detto, a Scalea.

Molto interesse presenta invece per quanto si riferisce alle chiese di S. Nicola de Digna con il “porto” dei SS. Elia e Zaccaria e di S. Venere con il “casale” nel quale essa si trovava.

La chiesa di S. Nicola de Digna, infatti, si può legittimamente ubicare di fronte all’isola di Dino sul piccolo porto naturale sottostante all’odierno abitato di S. Nicola Arcella poco a nord del Capo Scalea. Le altre, se si accetta la mia interpretazione del documento del 1065, e che non compariscono nelle successive conferme di questo, intitolate a S. Elia e a S. Zaccaria, ritengo debbano identificarsi con le due chiese dedicate agli stessi santi, che documenti posteriori indicano situate nei pressi dell’attuale abitato di Praia a Mare. In tale modo la regione denominata Mercurion oltrepassava non solo la media e bassa valle del Mercure-Lao, ma ancora i confini settentrionali del suo bacino. Si dedurrebbe che la regione mercuriense tanto indefinita nel secolo X, come si è detto, nello spazio politico, continuasse anche nel secolo seguente ad essere vista e intesa in una astrazione dalla realtà che le poneva confini vaghi e indeterminati. Sì che, sulla base di questo concetto, non sarebbe inverosimile situare la chiesa di S. Venere nella magica cornice del Capo S. Venere dove erano vestigia di abitazioni, sul mare di Maratea che continua quella di Aieta.

Restando, dunque, a quanto, senza preconcetti, si è esposto, i limiti dell’area monastica mercuriense nel secolo X coincidono esattamente con le parti media e inferiore della valle del Mercure-Lao, per poi slargarsi nel secolo XI verso nord e così includere la zona marittima da Scalea, per S. Nicola Arcella e Aieta, a Maratea.

BIAGIO CAPPELLI

Da “MEDIOEVO BIZANTINO NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA”  – Il Coscile




MERCURION – Le fondazioni monastiche, di Biagio Cappelli

FONTE: https://orsomarsoblues.it/2022/05/mercurion-le-fondazioni-monastiche-di-b-cappelli/

ORSOMARSO -Chiesa di Mircuro

Si è detto e ripetuto che i monaci italo-bizantini quasi per abitudine si rifugiavano in ricoveri assai precari: e perché spesso itineranti per costume di vita e per il continuo timore dei Mussulmani e perché anche in età avanzata preferivano vivere in solitudine. Per queste ragioni fino al consolidamento della dominazione normanna, che pose su nuove basi i cenobi basiliani, i monaci non avrebbero dimostrato alcun interessamento non tanto per decorare, quanto per costruire le loro dimore. Tutto ciò è vero, ma solo in parte; poiché varie notevolissime chiese calabresi e lucane colte ed umili, strettamente connesse con il movimento monastico italo-bizantino, documentano una attività costruttiva e decorativa durante la fase basiliana-bizantina; come, per citare qualche esempio, il gruppo omogeneo delle chiese di S. Luca d’Aspromonte, della Cattolica di Stilo e di S. Marco di Rossano, e poi la basilichetta detta di Sotterra a Paola, le chiese di Sant’Angelo a Monte Raparo in Basilicata e di Pozzolio a S. Severina, nonché varie altre minori.

Ora i grandi monaci che giungevano al Mercurion nella prima metà del secolo decimo trovavano la regione popolata di anacoreti, ma insieme folta di nuove e più progredite forme di vita monastica, cioè le laure e i cenobi che non soltanto sono espressamente menzionati dalla Vita di S. Saba di Collesano quanto devono implicitamente ammettersi e per i paragoni che talvolta vengono istituiti tra la vita eremitica e quella in comune e per il bisogno che spesso alcuni dei monaci più perfetti sentono di isolarsi dai loro fratelli per condurre soli o con qualche compagno un più o meno lungo periodo di intensa meditazione. Abbiamo così, a parte l’elogio di S. Nilo per la vita anacoretica, il ricordo dell’eremo dominante il castello di Mercurio, dove lo stesso si chiudeva, della “fovea” o caverna nei pressi di Avena in cui si ritirava S. Leone-Luca, dall’asceterio montano sul Sinni che serviva agli interiori colloqui di S. Saba nel territorio di Latiniano.

Si che questa stessa coesistenza di vari modi di vita ascetica viene a farci chiaramente conoscere come già nel decimo secolo al più tardi, al Mercurion e nelle vicine zone, oltre le grotte naturali od escavate ed i santuari trogloditici, non dovevano mancare piccole chiese ed abitazioni in muratura per i monaci.

L’abbazia di Sant’Angelo al Monte Raparo

Tutto ciò del resto è anche esplicitamente confermato da varie agiografie, che, per quanto talvolta vaghe, spesso rispecchiano lo stato effettivo delle cose, le quali ci narrano di varie fondazioni monastiche la cui costruzione ha imposto vari anni di lavoro od altri particolari che si riferiscono ad opere murarie: quale, per il primo caso, l’erezione di un monastero ad opera di S. Leone-Luca di Corleone, in un luogo indeterminato della regione mercuriense che costò sette anni di assiduo lavoro e per il secondo altri e più numerosi esempi. Così l’altro cenobio dello stesso S. Leone-Luca nei pressi di Avena che risultò a lavoro compiuto di notevole bellezza o le chiese intitolate a S. Michele ed a S. Stefano, innalzata di pianta la prima e restaurata l’altra dai SS. Saba, Cristoforo e Macario di Collesano sulle rive del Lao, dopo aver prima disboscato e ripulito a fondo i siti prescelti ed intorno ai quali sorsero in un secondo momento le abitazioni dei monaci, oppure il cenobio di S. Lorenzo costruito dallo stesso S. Saba presso un preesistente oratorio nella regione di Latiniano, sulla destra del Sinni nelle vicinanze dell’attuale Episcopia, che fu tutto circondato di mura di protezione così salde che resistettero alla violenza di una di quelle tremende piene che il fiume Sinni suole portare. Ciò senza contare che, non ammettendo costruzioni monastiche nel secolo decimo nel Mercurion e nei tenitori limitrofi, non riusciremo mai a spiegarci esattamente perché S. Fantino, maestro di S. Nilo, nel momento di lasciare la regione mercuriense per il Cilento, nella previsione e nell’orrore delle incursioni mussulmane, piangesse non la sola profanazione, ma anche la distruzione totale e l’incendio delle chiese e dei monasteri e dei libri in questi conservati.

PAPASIDERO – Madonna di Costantinopoli

In conseguenza è da presumere che l’aspra regione che vide tante ardue penitenze, macerazioni e preghiere, conservi tra i boschi ed i dirupi delle sue montagne grotte eremitiche e resti degli oratori e dei cenobi sorti nel secolo decimo e nel periodo posteriore, perché la vita religiosa non si spense colà con la partenza di S. Nilo e di S. Saba, ma vi continuò, sebbene rallentata nel suo ritmo.

Questi due grandi santi sembrano inoltre rappresentare i due poli verso cui il Mercurion ad opera del monachesimo italobizantino, che continuò nel medioevo la funzione di mediatore delle correnti orientali ed occidentali già nello stesso luogo venute a contatto nell’antichità classica, si è orientato: sia per il suo rito oscillante tra quello bizantino ed il latino, sia per il diritto romano, longobardo e bizantino che vi fu seguito, sia per il suo dialetto che risente della lingua latina e di quella greca. Si può dire che S. Nilo appartenesse al mondo bizantino, perché tutto il periodo della sua permanenza al Mercurion ha gravitato verso Rossano, dove finalmente è ritornato vivendovi ancora parecchi anni prima di allontanarsene definitivamente e perché anche in terra campana ed in tarda età si proclamava greco. E’ da ritenere che invece S. Saba fosse più imbevuto di idee occidentali e per i vari viaggi compiuti nei territori longobardi dove furono assai richieste ed apprezzate la sua saggezza e la sua esperienza, e per il suo stesso peregrinare per i diversi monasteri bizantini, che a lui facevano capo, siti, o quasi, in terra latina: nella regione di Latiniano, ai margini del Cilento e a Lagonegro.

ROSSANO – Panaghia

I pochi documenti di arte che si notavano o rimangono al Mercurion e nelle zone limitrofe naturalmente risentono di questi diversi influssi. Così le forme architettoniche più antiche, che restano però in scarso numero, si volgono al mondo bizantino cui appartengono anche le denominazioni di alcune chiese, come quella distrutta di S. Lucaio presso Avena, che presenta un titolo tra greco e volgare, o la rifatta parrocchiale di Papasidero dedicata a S. Costantino, che è ignoto alla liturgia latina, o le chiese a Laino dedicate a S. Maria La Greca, che nel nome conserva la sua bizantinità, e a S. Teodoro, probabilmente lo Studita, il cui culto, che è documentato anche a Mormanno, fu importato in Calabria dai monaci bizantini; mentre in tutta la vallata del Lao, da Rotonda a Laino e Papasidero, era diffusa la venerazione per la S. Sofia o meglio la Divina Sapienza.

Già gli stessi titoli di queste fondazioni, ora tutte trasformate o scomparse, palesano un originario impianto di tipo orientale: cosa che viene maggiormente avvalorata dal fatto che qualcuna di esse conservava, come S. Maria La Greca di Laino e S. Sofia di Papasidero, pitture bizantine, e qualche altra cela iconografie e forse anche alzati di gusto bizantino sotto le strutture posteriori. Nella parte più alta di Laino infatti, se oramai rimane solo il ricordo di quella chiesa di S. Sofia in cui i rappresentanti dell’Università del Borgo si riunivano a deliberare quasi per essere ispirati dalla Saggezza Divina, in S. Teodoro, posta sul culmine del monte e battuta senza posa dai venti che urlando salgono dalle circostanti e fresche valli, restano, nella disposizione di alcuni muri esterni interrati, tracce di una primitiva costruzione a croce equilatera.

LAINO CASTELLO – San Teodoro

Ma più di queste forme complesse sono numerose le piccole e semplici chiesette generalmente orientate verso levante, che direttamente si collegano alla tradizione bizantina di Calabria e dell’Italia meridionale in genere secondo un tipo che proviene dall’Asia minore e specialmente dalla Cappadocia. Sono umili e disadorne costruzioni usate come luoghi di riunione e di preghiera dei monaci e dagli eremiti viventi nei cenobi e nelle laure vicine, ma che poi si diffusero numerose e nelle campagne e nei centri abitati a più diretto contatto con la fioritura ascetica.

Qualcuna di esse appare condotta secondo una pianta ed un alzato un po’ fuori dal consueto, come quella di S. Caterina all’estremo limite dell’odierno abitato di Mormanno, composta di una piccola aula quasi quadrata, con ingresso laterale e copertura a travate ad uno spiovente, e di un minuscolo santuario leggermente sopraelevato con volta a botte sotto un tetto a due spioventi, secondo una disposizione cioè che, pur ridotta all’essenziale, ricorda la partizione e l’impianto della tanto più nobile chiesa di S. Marco di Rossano e delle altre affini.

Ma il grappo più numeroso è dato da quelle chiesette ad una navatina rettangolare, porta di ingresso su uno dei lati maggiori e santuario terminante con una o tre absidi. Questo tipo di assai mediocri dimensioni era diffuso per tutto l’istmo di comunicazione dalle marine joniche a quelle tirrene, con i vari esemplari ora tutti scomparsi intorno a Castrovillari, con quelli semidiruti di Cassano e di Morano e gli altri esistenti ed in parte rimaneggiati di Rossano. Se ne ritrovano poi nella regione mercuriense e nelle limitrofe con qualche esempio noto, due ancora inediti nei pressi di Policastrello e di Cipollina e sicuramente altri non ancora segnalati. Quelli studiati si distinguono tra loro per talune particolarità di pianta e copertura e l’impiego di materiale diverso. Così, se una semidiruta chiesetta della vecchia Cirella, le cui rovine sembrano lo scenario immane di una fiaba eroica, era forse in origine coperta con volta a botte e presenta una sola abside e strette finestrelle ad arco a tutto sesto in mattoni a vista, rifacendosi ad un tipo di decorazione prettamente bizantina analoga o simile a quanto si nota nella cattedrale vecchia di S. Severina, nella chiesa di S. Giovanni Vecchio di Stilo, nella ex cattedrale di Umbriatico ed altrove, differenti appariscono quelle di Scalea e di Mercurio.

Quest’ultima, ora dedicata a S. Maria innalzandosi proprio là dove erano il castello di Mercurio ed uno dei tanti monasteri che lo circondavano, è fino ad ora l’unica testimonianza visibile di tutto un passato di eroismo spirituale nel cuore del Mercurion. Essa, che era sforata da una serie di finestrine a feritoia in pietra, ha il tetto a travatura a doppio spiovente ed un’ala con copertura più bassa ad uno spiovente, affiancata alla navatina con santuario absidato e circondato da una banchina continua, sì da apparire, a parte le finestrine e la banchina, propria questa di chiese e cripte siciliane, pugliesi e materane, simile alla chiesa dello Spedale di Scalea. Questa però, come quella di S. Caterina di Mormanno, presenta la piccola navata coperta da uno spiovente più alto e disposto in senso contrario a quello dell’ala parallela  ed è provvista di tre absidi, di cui le laterali ricavate nello spessore del muro perimetrale.

Si potrebbe credere che queste costruzioni a due navate, se non è meglio parlare di un vano aggiunto per le necessità della chiesa con cui comunica per una apertura, costantemente sita presso il santuario, siano proprie del Mercurion e delle zone marginali. Ma anche per questa iconografia ci troviamo innanzi ad un partito architettonico noto al versante calabrese jonico, dato che essa appare in tutto simile a Rossano: e nella bella e colta chiesa della Panaghia, dove anche il vano minore è absidato, e nell’altra di S. Nicola all’Olivo che, per quanto rimaneggiata, serba particolarità iconografiche ed una finestra in pietra con arco a tutto sesto che sembrano riportarla al periodo bizantino.

(Continua)

Da “MEDIOEVO BIZANTINO NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA ”, di Biagio Cappelli – Il Coscile

Foto: Rete




Concilio di Gerusalemme

Atti 15

1 Ora alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa dottrina: «Se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè, non potete esser salvi».
2 Poiché Paolo e Barnaba si opponevano risolutamente e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Barnaba e alcuni altri di loro andassero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione. 3 Essi dunque, scortati per un tratto dalla comunità, attraversarono la Fenicia e la Samaria raccontando la conversione dei pagani e suscitando grande gioia in tutti i fratelli. 4 Giunti poi a Gerusalemme, furono ricevuti dalla Chiesa, dagli apostoli e dagli anziani e riferirono tutto ciò che Dio aveva compiuto per mezzo loro.
5 Ma si alzarono alcuni della setta dei farisei, che erano diventati credenti, affermando: è necessario circonciderli e ordinar loro di osservare la legge di Mosè.
6 Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo problema. 7 Dopo lunga discussione, Pietro si alzò e disse:
«Fratelli, voi sapete che già da molto tempo Dio ha fatto una scelta fra voi, perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del vangelo e venissero alla fede. 8 E Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro favore concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; 9 e non ha fatto nessuna discriminazione tra noi e loro, purificandone i cuori con la fede. 10 Or dunque, perché continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri, né noi siamo stati in grado di portare? 11 Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati e nello stesso modo anche loro».
12 Tutta l’assemblea tacque e stettero ad ascoltare Barnaba e Paolo che riferivano quanti miracoli e prodigi Dio aveva compiuto tra i pagani per mezzo loro.
13 Quand’essi ebbero finito di parlare, Giacomo aggiunse: 14 «Fratelli, ascoltatemi. Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome. 15 Con questo si accordano le parole dei profeti, come sta scritto:
16 Dopo queste cose ritornerò e riedificherò la tenda di Davide che era caduta; ne riparerò le rovine e la rialzerò, 17 perché anche gli altri uomini cerchino il Signore e tutte le genti sulle quali è stato invocato il mio nome, 18 dice il Signore che fa queste cose da lui conosciute dall’eternità.
19 Per questo io ritengo che non si debba importunare quelli che si convertono a Dio tra i pagani, 20 ma solo si ordini loro di astenersi dalle sozzure degli idoli, dalla impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue. 21 Mosè infatti, fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato nelle sinagoghe».
22 Allora gli apostoli, gli anziani e tutta la Chiesa decisero di eleggere alcuni di loro e di inviarli ad Antiochia insieme a Paolo e Barnaba: Giuda chiamato Barsabba e Sila, uomini tenuti in grande considerazione tra i fratelli. 23 E consegnarono loro la seguente lettera: «Gli apostoli e gli anziani ai fratelli di Antiochia, di Siria e di Cilicia che provengono dai pagani, salute! 24 Abbiamo saputo che alcuni da parte nostra, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con i loro discorsi sconvolgendo i vostri animi. 25 Abbiamo perciò deciso tutti d’accordo di eleggere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Barnaba e Paolo, 26 uomini che hanno votato la loro vita al nome del nostro Signore Gesù Cristo. 27 Abbiamo mandato dunque Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi queste stesse cose a voce. 28 Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: 29 astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia. Farete cosa buona perciò a guardarvi da queste cose. State bene».
30 Essi allora, congedatisi, discesero ad Antiochia e riunita la comunità consegnarono la lettera. 31 Quando l’ebbero letta, si rallegrarono per l’incoraggiamento che infondeva. 32 Giuda e Sila, essendo anch’essi profeti, parlarono molto per incoraggiare i fratelli e li fortificarono. 33 Dopo un certo tempo furono congedati con auguri di pace dai fratelli, per tornare da quelli che li avevano inviati. 34  [Ma parve bene a Sila di rimanere qui.] 35 Paolo invece e Barnaba rimasero ad Antiochia, insegnando e annunziando, insieme a molti altri, la parola del Signore.
36 Dopo alcuni giorni Paolo disse a Barnaba: «Ritorniamo a far visita ai fratelli in tutte le città nelle quali abbiamo annunziato la parola del Signore, per vedere come stanno». 37 Barnaba voleva prendere insieme anche Giovanni, detto Marco, 38 ma Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro nella Panfilia e non aveva voluto partecipare alla loro opera. 39 Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. 40 Paolo invece scelse Sila e partì, raccomandato dai fratelli alla grazia del Signore.
41 E attraversando la Siria e la Cilicia, dava nuova forza alle comunità.

LETTERA AI GALATI

Capitolo 2  

L’assemblea di Gerusalemme

1 Dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito: 2 vi andai però in seguito ad una rivelazione. Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli, per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano. 3 Ora neppure Tito, che era con me, sebbene fosse greco, fu obbligato a farsi circoncidere. 4 E questo proprio a causa dei falsi fratelli che si erano intromessi a spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, allo scopo di renderci schiavi. 5 Ad essi però non cedemmo, per riguardo, neppure un istante, perché la verità del vangelo continuasse a rimanere salda tra di voi.

6 Da parte dunque delle persone più ragguardevoli – quali fossero allora non m’interessa, perché Dio non bada a persona alcuna – a me, da quelle persone ragguardevoli, non fu imposto nulla di più. 7 Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi – 8 poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani – 9 e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. 10 Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare.

Pietro e Paolo ad Antiochia

11 Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. 12 Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13 E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14 Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?