1

SAN GREGORIO DI NANZIANZO: ORAZIONE 38 – SULLA TEOFANIA O NATIVITA’ DI CRISTO

SAN GREGORIO DI NANZIANZO (329 – 390)

ORAZIONE 38SULLA TEOFANIA O NATIVITA’ DI CRISTO

L’orazione 38 è stata pronunciata dal ‘Teologo’ a Costantinopoli per il Natale del 379 o 380

I. CRISTO È NATO, glorificatelo. Cristo scende dal cielo, andategli incontro. Cristo è sulla terra: siate esaltati.  “La terra intera canti al Signore” (Sal 95,1); e che io possa unire entrambi I concetti in una sola parola: “Si rallegrino i cieli e si rallegri la terra” (Sal 95,11), per Colui che è del cielo e poi è divenuto della terra (1 Cor 15,47). Cristo nella carne, rallegratevi con tremore e con gioia; con tremore per i vostri peccati, con gioia per la vostra speranza. Cristo nasce da una Vergine: Oh voi donne, onorate la verginità affinché possiate essere Madri di Cristo! Chi non adorerà Colui che è fin dal principio? Chi non glorificherà Colui che è l’Ultimo?

II. Di nuovo l’oscurità è passata; di nuovo la luce è fatta; di nuovo l’Egitto è punito con le tenebre; ancora una volta Israele è illuminato da una colonna. Le genti che sedevano nell’oscurità dell’ignoranza, ora vedono la grande luce della piena conoscenza. Le cose vecchie sono passate, ecco tutte le cose sono diventate nuove. La lettera viene meno, lo Spirito avanza. Le ombre fuggono via, la Verità viene su di loro. Melchisedec si è formato: chi era senza Madre nasce senza Padre (senza madre del suo stato precedente, senza Padre nel suo secondo stato). Le leggi della natura sono sconvolte; il mondo di sopra deve essere riempito. Cristo lo comanda, non mettiamoci contro di Lui. Battete le mani tutti voi, perché per noi è nato un bambino e ci è stato dato un figlio, il governo è sulle sue spalle (poiché con la croce è innalzato), ed è chiamato l’Angelo del Grande Consiglio del Padre. Lascia che Giovanni gridi, preparate la via del Signore: anch’io griderò la potenza di questo giorno. Colui che non è carnale si è incarnato, il Logos assume consistenza, Colui che è invisibile diventa visibile, Colui che è intoccabile viene toccato, Colui che è senza tempo ha un principio; il Figlio di Dio diventa il Figlio dell’Uomo, “Gesù Cristo lo stesso ieri, oggi e in eterno” (Eb 13,8).  Si offendano gli ebrei, ci deridano i greci; lasciate che gli eretici parlino fino a che gli fà male la lingua. Allora crederanno, quando lo vedranno salire al cielo; e se non allora, ancora quando lo vedranno uscire dal cielo e sedere come giudice.

III. Parleremo di questi in una futura occasione; per il momento la Festa è quella della Teofania o il Giorno della Nascita, poiché si chiama nei due modi, essendo stati dati due titoli a un medesimo evento. Perché Dio si è manifestato all’uomo con la nascita. Da una parte è, ed è eternamente e proviene da Colui che è sempre, al di sopra di ogni causa e di ogni parola, perché non c’era parola prima della Parola (ndt. Logos); e d’altra parte anche per il nostro bene entrò nel Divenire, nacque, affinché Colui che ci dà l’essere ci dia anche il nostro Benessere, o piuttosto ci ristabilisca con la Sua Incarnazione, quando per la malvagità eravamo caduti dallo stato di bontà. Il nome Teofania le viene dato in riferimento alla manifestazione, e quello di Natività in riferimento alla Sua nascita.

IV. Questa è la nostro attuale festa; è questo che celebriamo oggi, la venuta di Dio all’uomo, affinché noi potessimo andare verso Dio, o meglio (poiché questa è l’espressione più appropriata) per poter tornare a Dio; che deponendo l’uomo vecchio, potremmo indossare il nuovo; e che come siamo morti in Adamo, così potessimo vivere in Cristo, nascendo con Cristo: crocifissi con lui e sepolti con lui e risorgendo anche con lui. Per questo devo patire la bella conversione, perché come il dolore venne dalla beatidutide, così la beatitudine doveva ritornare dal dolore. Perché dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata; e se l’aver assaggiato dell’albero ci condannava, quanto più ci giustifica la passione di Cristo? Celebriamo dunque la festa, non alla maniera di una festa pagana, ma secondo un ordine divino; non secondo la via del mondo, ma in modo sopra-mondano; non come nostri, ma come appartenenti a Colui che è nostro, o piuttosto come del nostro maestro; non come malattia, ma come guarigione; non come creazione ma come nuova creazione.

V. E come sarà? Non adorniamo i nostri portici, né organizziamo balli, né decoriamo le strade; non deliziamo l’occhio, né incantiamo l’orecchio con la musica, né inebriamo le narici con il profumo, né prostituiamo il gusto, né assecondiamo il tatto: quelle strade che sono così inclini al male e ingressi per il peccato. Non siamo effeminati in abiti morbidi e fluenti, la cui bellezza consiste nella sua inutilità, né con lo scintillio delle gemme o lo splendore dell’oro o gli inganni del colore, smentendo la bellezza della natura, e inventati per far dispetto all’immagine di Dio. Non nella rivolta e nell’ubriachezza, alle quali si mescolano, lo so bene, cameratismo e sregolatezza, poiché le lezioni che danno i cattivi maestri sono cattive; o piuttosto i raccolti di semi senza valore sono senza valore. Non allestiamo alti letti di foglie, facendo tabernacoli per il ventre di ciò che appartiene alla dissolutezza. Non valutiamo il bouquet dei vini, le prelibatezze dei cuochi, la grande spesa degli unguenti. Che il mare e la terra non ci portino in dono il loro prezioso sterco, perché è così che ho imparato a stimare il lusso; e non sforziamoci di superarci l’un l’altro nell’intemperanza (poiché per me ogni superfluo è intemperanza, e tutto ciò che è al di là dell’assoluto bisogno), e questo mentre altri sono affamati e bisognosi, che sono fatti della stessa argilla e allo stesso modo.

VI. Lasciamo tutto questo ai Greci e ai fasti e alle feste dei Greci, che chiamano con il nome di dèi esseri che si rallegrano del fetore dei sacrifici e che costantemente adorano con il loro ventre; iniziatori malvagi e iniziati di demoni malvagi. Ma noi, l’oggetto della cui adorazione è il Verbo, se dobbiamo in qualche modo ricercare il lusso, cerchiamolo nella parola, nella legge divina, e nelle storie: soprattutto cerchiamo quali sono l’origine di questa festa. Che il nostro lusso possa essere simile e consono a Colui che ci ha radunati. Oppure desiderate (poiché oggi offro io il banchetto) che imandisca per voi, miei buoni ospiti, la storia di queste cose il più abbondantemente e nobilmente che posso, affinché possiate sapere come uno straniero può nutrire i nativi della terra e un contadino la gente della città, quelli che vivono nel lusso uno che non conosce il lusso, quelli che sono splendidi per ricchezze colui che è povero e senza dimora. Inizieremo da questo punto: e lasciate che io chieda a voi che vi dilettate in tali questioni di purificare la vostra mente, le vostre orecchie e i vostri pensieri, poiché il nostro discorso verte su Dio ed è divino. In tal modo quando partirete avrete goduto di delizie che in realtà non svaniscono. E questo stesso discorso sarà insieme molto pieno e molto conciso, affinché non siate dispiaciuti per le sue carenze, né lo troviate spiacevole per troppa sazietà.

VII. Dio è sempre stato, ed è sempre, e sempre sarà. O meglio, Dio è sempre. Perché Era e Sarà sono frammenti del nostro tempo, di natura mutevole; ma Egli è l’Essere Eterno. E questo è il nome che Egli dà a sé stesso quando dà l’oracolo a Mosè sul monte. Poiché in sé stesso riassume e contiene tutto l’essere, non avendo né inizio nel passato né fine nel futuro; come un grande mare dell’Essere, illimitato e sconfinato, che trascende ogni concezione del tempo e della natura, che può essere soltanto adombrato dalla mente, e molto debolmente e scarsamente… non certamente la sua essenza, ma in base a ciò che è a Lui relativo, dal momento che da una cosa si ricava un’immagine di Dio, da un’altra un’altra, e combinate in una sorta di presentazione della verità, che ci sfugge prima che l’abbiamo afferrata, e prende il volo prima che l’abbiamo concepita, lampeggiando nella nostra mente, anche quando è purificata, come il lampo che non ferma il suo corso impressionando la nostra vista. Questo avviene, a mio parere, affinché Egli ci attiri a sé con quando comprendiamo di Lui (poiché ciò che è del tutto incomprensibile è al di fuori dei limiti della speranza, e non all’interno della bussola dello sforzo), e con quella parte di esso che non possiamo comprendere per muovere la nostra meraviglia, e come oggetto di meraviglia per diventare ancora di più oggetto di desiderio; e desiderarlo serve a purificarci e purificandoci ci rendiamo simili a Dio. Quando siamo diventati così simili a lui, Dio può, per usare un’espressione audace, conversare con noi come dei, essendo unito a noi: il mio discorso osa affermare una cosa davvero audace! Dio si unisce agli dei e si fa conoscere, e forse tanto quanto Egli già conosce coloro che sono conosciuti da Lui. La Natura Divina, quindi, è sconfinata e difficile da comprendere; tutto ciò che possiamo comprendere di Lui è la Sua illimitatezza; anche se qualcuno può concepire che, proprio per la sua natura semplice, sia o del tutto incomprensibile o perfettamente comprensibile. Cerchiamo infatti di indagare ulteriormente su ciò che è implicito nell’espressione “è di natura semplice”. Perché è certo che questa semplicità non è essa stessa la sua natura, così come la composizione non è di per sé l’essenza degli esseri composti.

VIII. E, in quanto all’Infinito, si può considerare da due punti di vista, inizio e fine (poiché ciò che è al di là di questi e non limitato da essi è l’infinito), quando la mente guarda in alto in profondità, non avendo dove stare e si appoggia ai fenomeni per formarsi un’idea di Dio, chiama l’Infinito e l’Inavvicinabile che vi trova col nome di ‘senza inizio’. E quando guarda nelle profondità sottostanti, e al futuro, Lo chiama Immortale e Imperituro. E quando trae una conclusione dal tutto lo chiama Eterno. Perché l’eternità non è né tempo né parte del tempo; perché non può essere misurata. Ma quello che è per noi il tempo, misurato dal corso del sole, l’Eternità è per l’Eterno, vale a dire, una sorta di movimento simile al tempo, un intervallo coestensivo con la loro esistenza. Questo, tuttavia, è tutto ciò che devo ora dire di Dio; poiché il presente non è un tempo adatto, poiché il mio argomento attuale non è la dottrina di Dio, ma quella dell’Incarnazione. Ma quando dico Dio, intendo Padre, Figlio e Spirito Santo. Perché la divinità non si diffonde oltre questi, in modo da includere una folla di dei; né ancora è delimitato da una bussola più piccola di queste, in modo da condannarci per una concezione povera della Divinità; o giudaizzare per salvare la Monarchia, o cadere nel paganesimo a causa della moltitudine dei nostri dèi. Perché il male da entrambe le parti è lo stesso, anche se si trova in direzioni opposte. Questo quindi è il Santo dei Santi, che è nascosto anche ai Serafini ed è glorificato con il “Santo” ripetuto tre volte, che si congiunge in un’unica potestà e divinità, come uno dei nostri predecessori ha sottolineato in modo molto bello e alto. 

IX. Ma siccome questo movimento di autocontemplazione da solo non poteva soddisfare la Bontà, ma il Bene doveva effondersi ed uscire fuori di sé per moltiplicare gli oggetti della sua beneficenza, perché in ciò consiste il culmine della Bontà, concepì prima le Potenze Celesti e Angeliche. E questa concezione fu un’opera compiuta dalla Sua Parola e perfezionata dal Suo Spirito. E così nacquero gli splendori secondari, come ministri del primo splendore; se dobbiamo concepirli come Spiriti intelligenti, o come Fuoco di tipo immateriale e incorruttibile, o come qualche altra natura che si avvicini a questi il più vicino possibile. Vorrei dire che erano incapaci di muoversi in direzione del male, e suscettibili solo del movimento del bene, in quanto contemplano Dio e sono illuminati dai primi raggi di Dio, perché gli esseri terreni hanno solo un’illuminazione secondaria; ma debbo trattenermi prima di dirlo, e concepirli e parlarne non come immobili, bensì solo come difficili da muovere verso il male per il fatto che  Lucifero, il quale fu detto così per il suo splendore, divenne Tenebra a causa della sua superbia; e le schiere apostate che gli sono soggette, creatori del male per la loro rivolta, lo stesso male che a noi procurano.

X. Così, dunque, e per questi motivi, ha dato l’essere al mondo intellegibile, per quanto posso ragionare su queste cose e stimare grandi cose nella mia povera lingua. Poi, quando la sua prima creazione era in buon ordine, concepisce un secondo mondo, materiale e visibile; e questo è un sistema e composto di terra e cielo, e tutto ciò che è in mezzo a loro – una creazione davvero mirabile, quando guardiamo la bella forma di ogni parte, ma ancora più degna di ammirazione quando consideriamo l’armonia e l’unisono del tutto, e come ogni parte si incastra con ogni altra, in giusto ordine, e tutto con il tutto, tendendo al perfetto completamento del mondo come unità. Questo per mostrare che poteva chiamare all’esistenza non solo una natura simile a se stesso, ma anche una natura del tutto estranea a se stesso. Perché simili alla divinità sono quelle nature che sono intellettuali e solo possono essere comprese dalla mente; ma tutto ciò di cui i sensi possono prendere conoscenza gli sono del tutto estranei; e di questi i più lontani sono tutte le cose che sono del tutto privi di anima e di potere di movimento. Ma forse qualcuno di quelli troppo festosi e impetuosi dirà: Che c’entra tutto questo con noi? Sprona il tuo cavallo alla meta. Parlaci della festa e dei motivi per cui oggi siamo qui. Sì, questo è ciò che sto per fare, sebbene abbia cominciato da un punto un po’ lontano, spinto dalla violenza che su di me esercitano il discorso e il desiderio. 

XI. Mente, dunque, e realtà sensibile, così distinti l’uno dall’altro, erano rimasti entro i propri confini e portavano in sé la magnificenza del Verbo-Creatore, silenziosi lodatori ed esaltanti araldi della sua potente opera. Non c’era ancora alcuna mescolanza di entrambi, né alcuna mescolanza di questi opposti, segni di una maggiore saggezza e generosità nella creazione delle nature; né ancora tutta la ricchezza della Bontà era stata resa nota. Ora il Verbo-Creatore, deciso a esibire questo e a produrre un unico essere vivente da entrambi – le creazioni visibili e quelle invisibili, voglio dire – foggia l’Uomo; e prendendo un corpo dalla materia già esistente, e ponendo in essa un Soffio preso da Sé (quello che la Scrittura chiama ‘anima intelligente’ e ‘immagine di Dio’). L’uomo fu creato come una specie di secondo mondo. Lo ha posto, grande nella piccolezza, sulla terra; un nuovo angelo, un adoratore formato da una natura mista, pienamente iniziato alla creazione visibile, ma solo parzialmente a quella intellettuale; Re di tutto sulla terra, ma soggetto al Re di sopra; terrestre e celeste; temporale eppure immortale; visibile eppure intellettuale; a metà strada tra la grandezza e l’umiltà; in una persona che unisce spirito e carne; spirito, a motivo del favore che gli è stato concesso; carne, a causa dell’altezza alla quale era stato elevato; l’uno che potesse continuare a vivere e lodare il suo benefattore, l’altro che potesse soffrire e con la sofferenza essere ricordato e corretto se fosse diventato orgoglioso della sua grandezza. Una creatura vivente addestrata qui, e poi trasferita altrove; e, per completare il mistero cristiano, sarebbe stato divinizzato attraverso il suo tendere a Dio. Il misurato splendore della verità di cui godo su questa terra mi spinge, infatti, a vedere e a sentire lo splendore di Dio, splendore che è degno di Colui che ci ha messi insieme e poi ci dissolverà per ricostruirci insieme una seconda volta in una condizione più elevata.

XII. Dio pose quest’uomo in Paradiso, qualunque fosse allora il Paradiso, avendolo onorato del dono del libero arbitrio, affinché il bene gli appartenesse come risultato della sua scelta, non meno che a Colui che aveva impiantato i semi, per coltivare le piante immortali, con le quali si intendono forse le Concezioni Divine, sia le più semplici che le più perfette. Nudo nella sua semplicità e vita priva di qualunque artificio e senza alcuna copertura o schermo; poiché era giusto che fosse tale colui che era dal principio. Inoltre gli ha dato una legge che è la materia su cui agire il suo libero arbitrio. Questa legge era un comandamento riguardo a quali piante poteva prendere e quali non poteva toccare. Quest’ultimo era l’Albero della Conoscenza; non, però, perché era cattivo fin dall’inizio quando fu piantato; né era proibito perché Dio ce l’avesse invidiato – non lasciare che i nemici di Dio agitino la lingua in quella direzione, o imitino il Serpente – ma sarebbe stato bello se fosse stato consumato al momento opportuno, poiché l’albero era, secondo la mia teoria, Contemplazione, che è sicura solo per coloro I quali sono più perfetti interiormente; ma, al contrario, non va bene a coloro che sono ancora un po’ semplici e avidi nel loro abito; così come il cibo solido non è buono per coloro che sono ancora teneri e hanno bisogno di latte. Ma quando per la malizia del diavolo e per il capriccio della donna, a cui soccombeva perché più debole, e che faceva pesare sull’uomo, perché era più incline a persuadere, ahimè quanto sono debole! (poiché mia è la debolezza del mio progenitore), dimenticò il comandamento che gli era stato dato; cedette al frutto funesto; e per il suo peccato fu bandito, subito dall’Albero della Vita, e dal Paradiso, e da Dio. Indossava allora i cappotti di pelli … cioè, forse, questa nostra carne più grossolana, sia mortale che contraddittoria. Questa fu la prima cosa che apprese: la propria vergogna; e si nascose da Dio. Eppure anche qui ci guadagna, vale a dire con la morte ebbe un termine per il suo peccato, affinché il male non fosse immortale. Così il suo castigo si mutò in misericordia; poiché è per misericordia, ne sono convinto, che Dio infligge la punizione. 

XIII. Ed essendo stato prima castigato con molti mezzi (poiché molti erano i suoi peccati, la cui radice del male scaturì per diverse cause e in diverse circostanze), con la parola, con la legge, con i profeti, con i benefici, con le minacce, con le piaghe, con le acque , da incendi, da guerre, da vittorie, da sconfitte, da segni in cielo e segni nell’aria e in terra e nel mare, da mutamenti imprevisti di uomini, di città, di nazioni (il cui oggetto era la distruzione della malvagità), aveva finalmente bisogno di un rimedio più forte, perché le sue malattie peggioravano; stragi reciproche, adulteri, spergiuri, delitti contro natura e quel primo e ultimo di tutti i mali, l’idolatria e il trasferimento del culto dal Creatore alle Creature. Come questi richiedevano un aiuto maggiore, così ne ottennero uno maggiore. E questo era che la Parola di Dio Stesso – che è prima di tutti i mondi, l’Invisibile, l’Incomprensibile, l’Incorporeo, il Principio che proviene dal Principio, la Luce dalla Luce, la Sorgente della Vita e dell’Immortalità, l’Immagine della Bellezza Archetipica, il Sigillo inamovibile, l’Immagine immutabile, la Definizione e la Parola del Padre. Egli stesso venne verso la sua immagine, e prese su di sé la carne per amore della nostra carne e si mescolò con un’anima intelligente per amore della mia anima, purificandola di pari passo; e in tutti i punti fuorché nel peccato fu fatto uomo. Concepito dalla Vergine, la quale prima nel corpo e nell’anima fu purificata dallo Spirito Santo (poiché era necessario sia che si onorasse il parto, sia che la verginità ricevesse un onore più alto). Si presentò allora come Dio attraverso la carne che aveva assunto, una Persona in due Nature, Carne e Spirito, in cui quest’ultimo divinizzò il primo.  Oh nuova commistione! Oh strana congiunzione! “Colui che è” (Es 3,14) nasce, l’Increato è creato, ciò che è imcopresibile è compreso, per intervento di un’anima intellettiva, mediatrice tra la Divinità e la corporeità della carne. E colui che dà la ricchezza si fa povero, poiché assume la povertà della mia carne, affinché io possa assumere la ricchezza della sua divinità. Colui che è pieno si svuota, poiché si svuota della sua gloria per un breve periodo, affinché io possa partecipare alla sua pienezza. Qual è la ricchezza della Sua Bontà? Cos’è questo mistero che mi circonda? Ho avuto una parte nell’immagine; non l’ho tenuto; Egli partecipa della mia carne per salvare l’immagine e rendere immortale la carne. Egli si mette in comunione una seconda volta con l’uomo, in maniera più meravigliosa della prima, in quanto la prima volta mi fece partecipe della sua natura migliore, mentre ora egli stesso partecipa all’elemento peggiore. Questa è più divina della precedente azione, questa è più alta agli occhi di tutti gli uomini di intelletto.

XIV. Che cosa hanno da dire quei cavillatori, quegli amari ragionatori della natura divina, quei detrattori di tutto ciò che è lodevole, quegli oscuratori di luce, incolti rispetto alla sapienza, per i quali Cristo è morto invano, quelle creature ingrate, plasmate dal Malvagio? Trasformi questo vantaggio in un rimprovero a Dio? Lo riterrai di poco conto perché si è umiliato per te? Perché il Buon Pastore, Colui che dà la vita per le sue pecore, è venuto a cercare quella che si era smarrita sui monti e sui colli, sui quali allora stavi sacrificando e ha trovato il vagabondo; e trovatolo, lo prese sulle sue spalle, sulle quali prese anche il legno della croce; e dopo averlo preso, lo riportò alla vita superiore; e dopo averlo riportato indietro, lo annoverò tra quelli che non si erano mai allontanati. Perché ha acceso una candela – la Sua stessa carne – e ha spazzato la casa, purificando il mondo dal peccato; e cercava il pezzo di denaro, l’Immagine Reale che era coperta dalle passioni. E chiama a raccolta i suoi amici Angeli al ritrovamento della moneta, e li rende partecipi della sua gioia, chi aveva fatto partecipi anche del segreto dell’Incarnazione? Perché alla candela del Precursore segue la luce che eccede in splendore; e alla Voce succede la Parola; e all’amico dello Sposo, lo Sposo; a colui che preparò per il Signore un popolo particolare, purificandolo con l’acqua in preparazione allo Spirito? Rimproveri a Dio tutto questo? Lo ritieni per questo diminuito, perché si cinge con un asciugatoio e lava i piedi ai suoi discepoli e mostra che l’umiliazione è la strada migliore per l’esaltazione? Perché per l’anima che era piegata a terra si umilia, per rialzare con sé l’anima che vacillava sotto il peso del peccato? Perché non gli imputi anche come delitto il fatto che mangi con i pubblicani e alle mense dei pubblicani, e che faccia discepoli dei pubblicani, affinché anch’egli possa guadagnare qualcosa… e che cosa? … la salvezza dei peccatori. Se è così, dobbiamo biasimare il medico per essersi chinato sulle sofferenze e aver sopportato cattivi odori per dare la salute ai malati; o uno che, come comanda la Legge, si è chinato in un fosso per salvare una bestia che vi era caduta. 

XV. Egli fu inviato, ma come uomo, perché era di duplice natura; poiché era stanco, aveva fame, aveva sete, era in agonia e piangeva, secondo la natura di un essere corporeo. E se si usa anche l’espressione di Lui come Dio, il significato è che il beneplacito del Padre è da considerarsi una Missione, poiché a questa Egli rimanda tutto ciò che lo riguarda; sia per onorare il Principio Eterno, sia per non essere considerato un Dio antagonista. E mentre sta scritto sia che fu tradito, sia anche che consegnò se stesso e che fu risuscitato dal Padre e assunto in cielo; e d’altra parte, che si alzò e salì; la prima affermazione di ciascuna coppia si riferisce al beneplacito del Padre, la seconda al proprio Potere. Ti è dunque permesso soffermarti su tutto ciò che lo umilia, tralasciando tutto ciò che lo esalta, e contare dalla tua parte il fatto che ha sofferto, ma lasciare fuori dal conto il fatto che è stato per sua volontà?  Vedi ciò che anche adesso la Parola deve soffrire. Da una parte è onorato come Dio, ma è confuso con il Padre, da un’altra è disonorato come semplice carne e separato dalla divinità. Con chi di loro si adirerà maggiormente, o meglio, a chi perdonerà, quelli che lo confondono ingiustamente o quelli che lo dividono? Perché il primo avrebbe dovuto distinguerlo e il secondo unirlo; l’uno nel numero, l’altro nella divinità. Inciampi nella sua carne? Così fecero gli ebrei. Oppure lo chiami samaritano e… non dirò il resto. Non credi nella Sua Divinità? Questo non lo hanno fatto nemmeno i demoni; Oh tu che sei meno credente dei demoni e più stolto degli ebrei! Costoro percepirono che il nome di Figlio implica uguaglianza di rango; costoro sapevano che colui che li scacciava era Dio, perché ne erano convinti per esperienza. Ma non ammetterai né l’uguaglianza né la Divinità. Sarebbe stato meglio per te essere stato ebreo o indemoniato (se posso dire un’assurdità), piuttosto che, incirconciso e in buona salute, essere così malvagio ed empio nel tuo atteggiamento mentale.

XVI. Vedrai poco dopo Gesù sottomettersi a farsi purificare nel fiume Giordano per la mia Purificazione, anzi santificare le acque con la sua Purificazione (perché non aveva bisogno di purificazione Colui che toglie il peccato del mondo) e i cieli spaccati e la testimonianza resagli dallo Spirito che è della stessa sua natura; lo vedrai tentato e vittorioso e servito dagli angeli, e guarire ogni malattia e ogni infermità, e dare la vita ai morti (Oh, potesse dare la vita a te che sei morto a causa della tua eresia), e scacciare i demoni, a volte lui stesso, a volte dai suoi discepoli; e nutrire vaste moltitudini con pochi pani; e camminare a piedi asciutti sui mari; ed essendo tradito e crocifisso, e crocifiggendo con Sé il mio peccato; offerto come Agnello e offerto come Sacerdote; come un uomo sepolto nella tomba e come Dio risorto; e poi ascendere, e tornare di nuovo nella Sua propria gloria. Quanta moltitudine di grandi feste ci sono in ciascuno dei misteri del Cristo; tutto ciò ha un compimento, cioè la mia perfezione e il ritorno alla prima condizione di Adamo.

XVII. Ora, allora, ti prego di accettare il suo concepimento e di saltare davanti a lui; se non come Giovanni nel grembo materno, almeno come Davide, a causa del riposo dell’Arca. Riverisci l’iscrizione per la quale sei stato scritto in cielo, e adora la Nascita con la quale sei stato sciolto dalle catene della tua nascita, e onora la piccola Betlemme, che ti ha ricondotto in paradiso; e adora la mangiatoia attraverso la quale tu, essendo privo di senno, fosti nutrito dal Verbo. Riconoscilo, come ti ordina Isaia, come il bue il suo proprietario e come l’asino la greppia del tuo padrone; se tu sei uno di quelli che sono cibo puro e lecito, e che ruminano la parola e sono degni di sacrificio. Oppure, se sei uno di quelli che sono ancora impuri, immangiabili e inadatti al sacrificio appartengono alla parte dei pagani. Corri con la Stella e porta i tuoi doni con i Magi, oro, incenso e mirra, come a un Re e a Dio e a Colui che è morto per te. Con i pastori glorificatelo; con Angeli che si uniscono in coro; con gli Arcangeli cantiamo inni. Che questa Festa sia comune alle potenze in cielo e alle potenze sulla terra. Perché sono persuaso che le schiere celesti si uniscono alla nostra esultanza e celebrano oggi con noi un’alta festa … perché amano gli uomini e amano Dio proprio come quelli che Davide introduce dopo la Passione salendo con Cristo e venendogli incontro, e intimandosi l’un l’altro di alzare le porte.

XVIII. Vorrei che odiassi una cosa sola connessa con la nascita di Cristo… l’uccisione dei bambini da parte di Erode. O, meglio, dovete venerare anche questo, il Sacrificio dei coetanei di Cristo, immolati prima dell’offerta della Nuova Vittima. Se fugge in Egitto, fuggi con lui volentieri. È una cosa grandiosa condividere l’esilio con il Cristo perseguitato. Se Egli rimane a lungo in Egitto, chiamalo fuori dall’Egitto con un’adorazione riverente a Lui. Percorri senza colpa ogni tappa e facoltà della vita di Cristo. Sii purificato; sii circonciso; strappa il velo che ti ha coperto fin dalla tua nascita. Dopo questo insegnate nel Tempio e scacciate i venditori sacrileghi. Sottomettiti per essere lapidato se necessario, perché so bene che sarai nascosto da coloro che scagliano le pietre; scamperai anche in mezzo a loro, come Dio. Se sarai condotto da Erode, nemmeno devi rispondere altro. Rispetterà il tuo silenzio più dei lunghi discorsi della maggior parte delle persone. Se sarai flagellato, richiedi anche I supplizi che tralasciano. Assaggia il fiele tu che hai gustato dell’albero; bevi aceto; cerca gli sputi; accetta i colpi e gli schiaffi, sii coronato di spine, cioè dalle asperità di una condotta secondo la volontà divina; indossa la veste di porpora, prendi in mano la canna e ricevi un’adorazione beffarda da coloro che deridono la verità; infine, sii crocifisso con lui e condividi con gioia la sua morte e la sua sepoltura, affinché tu possa risorgere con Lui, essere glorificato con Lui e regnare con Lui. Guarda e fatti guardare dal Grande Dio, che nella Trinità è adorato e glorificato, quello che anche ora noi preghiamo che ci illumini, pet quanto possibile a coloro che sono stretti nelle catene della carne, in Gesù Cristo nostro Signore; a Lui la gloria nei secoli. 

Amen.




San Leone Magno: Quarto discorso tenuto nel Natale del Signore

QUARTO DISCORSO TENUTO NEL NATALE DEL SIGNORE

1. – Dilettissimi, in diversi modi e in molte misure la divina bontà ha sempre provveduto al genere umano e ha generosamente elargito in tutti i secoli precedenti i doni della sua provvidenza. Però in questi ultimi tempi ha superato la larghezza della consueta benignità, quando in Cristo è discesa ai peccatori la misericordia, ai traviati la verità, ai morti la vita. Infatti il Verbo, coeterno e uguale al Padre nell’unità della divinità, assunse la nostra umile natura; e così egli che è Dio, nato da Dio, in quanto uomo prese origine dall’uomo. Il fatto era già stato promesso nella creazione del mondo e anche preannunciato in molte figure e oracoli. Però quelle figure e quei misteri, nascosti nella penombra, avrebbero salvato una piccola porzione dell’umanità, se Cristo non avesse adempiuto le occulte e ripetute promesse! Ora invece, quando l’opera redentiva è stata adempiuta, giova a innumerevoli fedeli, mentre a pochi credenti giovò quando ancora doveva compiersi.

Noi siamo portati alla fede non più con segni e immagini, ma, confermati dal racconto evangelico, adoriamo quel che crediamo adempiuto. In proposito si aggiungono a nostro ammaestramento le testimonianze dei profeti, affinché sia esclusa la possibilità di ritenere dubbio ciò di cui conosciamo attraverso la predizione in tante profezie.

Dunque è vero quel che il Signore ha detto ad Abramo: “Tutte le genti della terra saranno benedette nella tua discendenza”. E David con spirito profetico canta la promessa di Dio: “Il Signore giurò a David la promessa da cui non si ritrae: un rampollo della tua stirpe io porrò sul trono”. E il Signore dice per bocca di Isaia: “Ecco la Vergine che concepisce e dà alla luce un figlio e gli darà il nome di Emmanuele, che significa: Dio con noi”; e ancora: “Un virgulto sorgerà dal tronco di Jesse e un pollone verrà su dalle sue radici”.

In questo virgulto certamente è stata preannunciata la santa vergine Maria, che, discendente della stirpe di David e di Jesse, è stata fecondata dallo Spirito Santo e ha partorito il fiore novello dell’umana carne nell’esercizio di una reale funzione di madre, benché il parto sia stato verginale.

2. – Dunque, i giusti esultino nel Signore, i cuori dei fedeli prorompano nella lode a Dio e i figli degli uomini esaltino i suoi prodigi. Soprattutto da questa opera di Dio la nostra pochezza conosce quanto sia stimata dal suo Creatore.

Egli già ha donato molto all’umanità fin dall’origine, perché ci ha fatti a sua immagine, ma molto più generoso si è mostrato nella nostra restaurazione, quando egli stesso, il Signore, si è adeguato alla condizione di servo. Proviene certamente dalla stessa identica misericordia tutto quanto il Creatore ha elargito alla creatura: però è meno meraviglioso che l’uomo sia elevato a qualità divine del fatto che Dio si abbassi alla condizione umana. Se Dio, onnipotente, non si fosse degnato di tanto, nessun modello di santità, nessuna ricchezza di sapienza ci avrebbe potuto liberare dalla schiavitù del diavolo e dall’abisso della morte eterna. La condanna, che si propaga con il peccato da uno agli altri uomini, sarebbe rimasta; e la natura colpita da mortale ferita, non avrebbe trovato nessun rimedio, perché non avrebbe potuto mutare con le proprie forze la sua condizione.

Ora, il primo uomo prese la sostanza carnale dalla terra e fu animato da spirito razionale per insufflazione del Creatore, perché vivendo a immagine e somiglianza del suo autore, conservasse la bellezza della bontà e santità di Dio nella irradiante imitazione (del suo essere), come in un nitido specchio.

Se egli avesse con l’osservanza della legge costantemente perfezionato tale luminosissima dignità della propria natura, la stessa anima incontaminata avrebbe condotto la condizione terrestre del corpo alla gloria celeste. Ma perché credette temerariamente e infelicemente a colui che per invidia tendeva inganni, e accondiscese ai suggerimenti di superbia e preferì usurpare con l’occupazione, anziché meritare l’aumento di dignità, tenuto in serbo per lui, non soltanto il primo uomo ma tutta la sua posterità dovette ascoltare: “Tu sei polvere e in polvere ritornerai”. Dunque “qual è l’Adamo terrestre, tali sono anche i corpi terrestri”: nessuno di essi fu immortale, perché nessuno è diventato celeste.

3. – L’onnipotente Figlio di Dio che tutto riempie e tutto contiene, totalmente uguale al Padre, coeterno nell’unica e medesima essenza ricevuta da lui e regna con lui coeterno, ha assunto la natura umana. Così il Creatore e il Signore di tutto si è degnato essere uno dei mortali per spezzare le catene del peccato e della morte. A tal fine si scelse una madre, che egli stesso aveva fatto, la quale, conservando intatta l’integrità verginale, non dovesse fare altro che apprestare la sostanza corporea, in maniera che, rimanendo illesa dal contagio del seme umano fecondante, purezza e verità risiedessero nel nuovo uomo.

Dunque in Cristo, generato dal seno della Vergine, la natura nostra, per il fatto che mirabile è stata la sua nascita, non è indifferente. Egli è vero Dio e anche vero uomo; e in ambedue le nature non accoglie nulla di fittizio. “Il Verbo si è fatto carne” per elevazione della carne, non per difetto della divinità, la quale in tal modo ha diretto la sua potenza e bontà elevando ciò che è nostro con l’assumerlo e non ha perduto ciò che è suo nel comunicarlo. Secondo la profezia di David, in questa natività di Cristo “la fedeltà è fiorita dalla terra e la giustizia si è affacciata dal cielo”. In questa nascita si è adempiuto anche il cantico di Isaia: “Si apra la terra e produca la salvezza e faccia spuntare la giustizia”.

Difatti, la terra della umana carne, maledetta già in chi per primo peccò, in questo solo parto della santa Vergine germogliò un rampollo benedetto, estraneo alla corruzione della propria stirpe.

Ognuno si appropria la spirituale origine di Cristo nella rigenerazione; l’acqua del battesimo è per ogni uomo che viene rigenerato quasi un seno verginale, perché lo stesso Spirito Santo, che adombrò la Vergine, riempie la fonte. Il peccato che lì fu tolto dal santo concepimento, qui è cancellato dalla mistica lavanda.

4. – Dilettissimi, da questo mistero è molto lontano lo stravagante errore dei manichei, che non hanno alcuna parte alla rigenerazione di Cristo, perché negano che egli sia nato da Maria Vergine con nascita corporea. Essi non ritengono vera la sua natività e neppure ammettono la realtà della sua passione: così, non confessandolo veramente sepolto, negano che egli sia realmente risuscitato. Incamminatisi per la via scoscesa di una dottrina esecrabile, ove non sono che tenebre e precipizi, andando di gorgo in gorgo, scivolano nell’abisso della morte. Non possono trovare luogo saldo a cui aggrapparsi, costoro che, oltre alle malvagità, degne solo dell’approvazione diabolica, nel giorno più solenne della loro religione si rallegrano – l’abbiamo saputo dalla loro ultima confessione – della sporcizia dell’animo e del corpo, incuranti della integrità della fede e del pudore. In questo modo si riconoscono empi nella dottrina e osceni nei riti.

5. – Le altre eresie, dilettissimi, pur tutte meritevoli di condanna nelle loro differenze, hanno però qualche parte di vero. Ario, asserendo che il Figlio di Dio è inferiore al Padre e creatura, e credendo che lo Spirito Santo sia stato creato dal Figlio insieme alle altre creature, per la sua empietà andò in perdizione. Tuttavia, egli che non scorse l’eterna e immutabile divinità se non riducendo la Trinità all’unità della natura del Padre, non negò Dio. Macedonio, estraneo pure lui alla luce della verità, non ammise la divinità dello Spirito Santo; però confessò una e identica potenza nel Padre e nel Figlio. Sabellio, impigliato in un groviglio di errori, giudicò che l’unità di sostanza fosse senza alcuna distinzione nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo; perciò quello che doveva attribuire all’uguaglianza di natura, l’attribuì alla unicità di persona. Incapace di comprendere la vera Trinità, credette che sotto triplice nome fosse una e identica la persona. Fotino, ingannato dalla cecità della mente, confessò che Cristo era vero uomo della nostra stessa natura; però non credette che egli fosse Dio, nato da Dio prima dei secoli. Apollinare, privo di solida fede, in tal modo credette che il Figlio di Dio avesse assunto la vera natura della carne umana, ma asseriva che in quel corpo non vi era l’anima, perché era sostituita dalla divinità. Se continuiamo a elencare tutti gli errori che la fede cattolica ha condannati, in ciascuno si trova or questa or quella verità che può essere separata dalle tesi condannate. Invece nella dottrina scellerata dei manichei nulla si trova che possa essere giudicato accettabile.

6. – Ma voi, dilettissimi, ai quali nessun titolo posso rivolgere con più proprietà se non usando le parole di san Pietro apostolo “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione sacra, popolo tratto in salvo”, edificati sopra Cristo che è pietra incrollabile, innestati nel Signore, nostro Salvatore, attraverso la reale assunzione della nostra carne: perseverate saldi nella fede, che avete professato davanti a molti testimoni, nella quale, rinati mediante l’acqua e lo Spirito Santo, avete ricevuto il crisma della salvezza e il segno della vita eterna.

Se ora alcuno ci predicasse una verità diversa da quella che avete appreso, sia scomunicato. Non vogliate anteporre alla luminosa verità favole sacrileghe; e giudicate senza esitazione, diabolico e causa di morte, quanto leggete o ascoltate di contrario al simbolo cattolico e apostolico. Non vi traggano in inganno i simulati digiuni, che non giovano a purificare le anime ma a perderle. Coloro che li praticano assumono atteggiamenti di pietà e di castità per circondare con questo ingannevole velo le oscenità delle loro azioni, mentre dall’intimo di un cuore perverso scagliano strali per colpire i semplici, come dice il profeta: “per trafiggere al buio gli uomini retti”.

Grande protezione è la fede integra, la fede vera, in cui nulla può essere aggiunto e nulla tolto: se, infatti, non è una, non è fede. L’Apostolo in proposito dice: “Non c’è che un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Non esiste che un solo Dio e Padre di tutti, il quale è al di sopra di tutti, opera in tutti ed è in tutti”.

Attaccatevi a questa unità, dilettissimi, con incrollabile animo; e in essa “cercate la santità”. In essa soltanto è possibile obbedire ai comandi del Signore, perché “senza la fede è impossibile piacere a Dio”; senza di essa nulla è casto, nulla è santo, nulla è vivo; “il giusto, infatti, vive di fede”. Chi ha perduto la fede per inganno del diavolo, pur vivente, è già morto, perché, come per la fede si ha la santità, così per la fede vera si acquista la vita eterna. Dice infatti il Signore, nostro Salvatore: “La vita eterna è questa, che conoscano te, solo vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”. Egli vi faccia progredire e perseverare fino alla meta, il quale vive e regna col Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli.

Amen.




San Leone Magno: Terzo discorso tenuto nel Natale del Signore

Raffaello Sanzio (1483-1520) – Incontro di Leone Magno con Attila (1513-14) – Stanza di Eliodoro – Stanze di Raffaello – Musei Vaticani

TERZO DISCORSO TENUTO NEL NATALE DEL SIGNORE

1. – Dilettissimi, sono a voi certamente note le verità riguardanti il mistero della presente solennità per averle frequentemente ascoltate. Però, come la luce visibile provoca piacere agli occhi sani, così ai cuori integri dona gaudio eterno la nascita del Salvatore, della quale non dobbiamo tacere benché non sia possibile farne una degna illustrazione. Infatti, siamo persuasi che il passo biblico: “Chi potrà narrare la sua generazione?” si riferisce non soltanto al mistero secondo cui il Figlio di Dio è coeterno al Padre, ma anche a questa nascita con la quale il “Verbo si è fatto carne”. Perciò il Figlio di Dio, in quanto Dio, ha dal Padre e con il Padre uguale e identica natura; è Creatore e Signore dell’universo; in ogni luogo è tutto presente e tuttavia supera ogni cosa. Egli nel corso dei tempi, che per sua disposizione trascorrono, ha eletto questo giorno per nascere dalla beata vergine Maria lasciandola incontaminata e così portare la salvezza al mondo. La verginità di Maria non fu violata nel parto, come non era stata offesa nel concepimento. “E tutto questo avvenne affinché si adempisse quello che era stato annunciato dal Signore per mezzo del profeta che disse: ‘Ecco la Vergine concepirà e darà alla luce un figlio e lo chiameranno con il nome di Emmanuele che vuol dire Dio con noi’”.

La santa Vergine con tale straordinario parto diede alla luce una persona che aveva veramente la natura umana e la natura divina. Ambedue le sostanze ritennero ciascuna le sue proprietà, ma non in modo che vi sia in esse distinzione di persone; d’altra parte la creatura è stata assunta nell’unità del suo Creatore, non nel senso che costui sia l’ospite e l’altra l’abitazione, ma in modo che una natura sia strettamente unita con l’altra. E benché quella assunta resti distinta da quella che assume, tuttavia ambedue convergono in un’unità perfetta, tanto che uno e identico è il Figlio, che in quanto vero uomo si professa inferiore al Padre e in quanto vero Dio si rivela uguale al Padre.

2. – La cecità della eresia ariana, dilettissimi, non poté scorgere questa unità, per la quale il Creatore si congiunge alla sua creatura. Per questo, non credendo che l’Unigenito di Dio è della stessa gloria e della stessa sostanza del Padre, asserì che la divinità del Figlio fosse inferiore. Le prove, poi, di questa asserzione le trasse dagli aspetti della sua condizione di schiavo.

Invece l’unico Figlio di Dio per mostrare che in lui la natura umana non costituisce una persona distinta, né appartiene ad un’altra persona, essendo in perfetta unione con essa, afferma: “Il Padre è più grande di me”; come pure, ad essa unito, dice: “Io e il Padre siamo una cosa sola”.

Egli, secondo la natura di servo, assunta nell’ultima serie dei secoli per la nostra restaurazione, è inferiore al Padre; invece secondo la natura di Dio, in cui era ab aeterno, è uguale al Padre. Nella bassezza umana è stato fatto da una donna ed è nato sotto la legge; nella divina maestà rimase come Verbo di Dio “per il quale furono fatte tutte le cose”. Perciò colui che nella natura di Dio ha creato l’uomo, abbassandosi alla natura di servo, si è fatto uomo: ma dell’una e dell’altra natura si dice che è Dio per la potenza della persona assumente e allo stesso modo si afferma che è uomo per la bassezza della natura assunta. Ambedue le nature conservano, ciascuna, senza diminuzione, le proprietà. Come la natura di Dio non cambia la natura di servo, così neppure questa diminuisce la natura divina. Dunque il mistero del Verbo onnipotente in quanto è unito alla natura debole, permette di dire, a causa della natura che è propria dell’uomo, che il Figlio è inferiore al Padre. Ma la divinità che è una nella Trinità ed è propria del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, esclude qualunque congettura di ineguaglianza. Così l’eternità non ha niente di temporaneo; la natura nulla ha di disuguale. Così una è la volontà, uguale la potestà. Dunque, non sono tre dei, ma è un Dio solo; è, quindi, c’è un’unità reale che non soffre separazione, perché non vi può essere differenza di sorta.

Dunque il vero Dio è nato nella natura integra e perfetta del vero uomo: tutto nella sua natura, tutto nella nostra: diciamo nostra la natura creata da Dio all’inizio e che egli ha assunto per restaurarla. Perché ciò che il menzognero v’introdusse e che l’uomo, ingannato, accolse, non ebbe nel Salvatore alcuna traccia. Egli si è, bensì, sottomesso e ha preso parte alle umane debolezze, ma non per questo è stato partecipe dei nostri delitti. Assunse la natura di servo senza la macchia del peccato: sublimò la natura umana e non abbassò quella divina. Lo svuotamento con cui egli, l’invisibile, si rese visibile, fu un atto di misericordiosa condiscendenza, non un esaurimento della sua potestà.

3. – È disceso a noi per chiamarci dalle catene della colpa originale e dagli errori mondani all’eterna beatitudine. Era impossibile per noi ascendere fino a lui, perché, nonostante che molti uomini ricercassero la verità con amore, eravamo ingannati dall’astuzia dei demoni con diverse e incerte congetture. L’umana ignoranza era tratta in differenti e opposte sentenze da una scienza falsa.

Per togliere questo scherno, per il quale le menti erano schiave del diavolo che le insolentiva, non bastava la dottrina della legge; come pure i soli oracoli dei profeti non potevano restaurare la nostra natura. Alle istituzioni morali era necessario aggiungere la verità della redenzione: bisognava che l’origine umana, corrotta fin dall’inizio, esordisse nuovamente nella rigenerazione. Per la riconciliazione doveva essere offerta un’ostia che avesse la nostra natura e fosse estranea alla propagazione del peccato. Tutto questo, poi, doveva avvenire in modo che la volontà di Dio, il quale si è compiaciuto di distruggere il peccato del mondo nella nascita e nella passione di Gesù Cristo, fosse riferita alle generazioni di tutti i secoli; e doveva accadere, inoltre, in modo che i misteri, anziché procurarci turbamento per il loro variare secondo i tempi, ci dessero maggior convinzione per il fatto che la fede, di cui viviamo, non fu diversa in nessuna età.

4. – Dunque, cessino dalle accuse quei mormoratori sacrileghi che parlano contro la divina economia e si lamentano per un preteso ritardo della nascita del Signore. Costoro pensano che non sia stata disposta anche per i tempi precedenti l’opera che è stata compiuta nell’ultima età del mondo. Tutto al contrario, l’incarnazione del Verbo, quando ancora doveva avvenire, produsse la stessa salvezza che elargisce ora quando si è già realizzata. Perciò il mistero della salvezza umana non è mancato in nessuna epoca.

Gli apostoli hanno predicato quello che i profeti hanno profetato: non è stato compiuto troppo tardi quello che sempre è stato creduto. Ma la sapienza e la benignità divina, procrastinando l’opera della salvezza, ci ha resi più capaci della sua vocazione. Lo scopo di questo indugio era di allontanare, ora che è tempo del Vangelo, qualunque dubbio dal mistero preannunciato lungo tanti secoli con tanti prodigi, con tanti oracoli e con tante sacre istituzioni. In tal modo la natività del Salvatore, che doveva superare le proporzioni di tutti i precedenti prodigi e la capacità di ogni umana intelligenza, avrebbe suscitato in noi una fede tanto più stabile quanto più antica e sicura era la predicazione che l’aveva preceduta.

Perciò errano coloro i quali pensano che Dio ha cambiato il piano circa le cose umane, o che troppo tardi ha provveduto a dare misericordia agli uomini. Invece egli fin dalla creazione del mondo istituì il principio di salvezza, uno e identico per tutti. Infatti la grazia di Dio, con cui sono stati sempre giustificati i santi, dalla nascita del Salvatore ha ricevuto solo un incremento, non il suo inizio. In realtà il mistero di così grande misericordia che già ha riempito il mondo, è stato efficacissimo anche nelle sue figure; perciò ne hanno ricevuto eguale grazia e quelli che l’hanno creduto quando era stato appena promesso, e quelli che l’hanno accolto ora che è stato compiuto.

5.- Per questo, dilettissimi, è nostro dovere di celebrare la natività del Signore non con svogliatezza o in allegria mondana, ma con professione di pietà, perché abbondanti ricchezze della divina benignità sono state profuse in noi. Infatti, per la nostra vocazione all’eternità, non solo ci sono utili le istituzioni precedenti dell’antica Alleanza, ma la stessa Verità che è apparsa con un corpo visibile. Però la celebrazione della festa sarà fatta con diligenza e come si conviene, se ciascuno si fissa bene in mente di quale corpo è membro e a quale capo è congiunto, e fa in modo di non essere inadatto alla stretta compagine del sacro edificio.

Dilettissimi, considerate, e, illuminati dallo Spirito santo, con sapienza riflettete, chi sia colui che ci ha uniti a sé e chi abbiamo accolto in noi stessi. Infatti, allo stesso modo che egli nascendo si è fatto carne nostra, così noi nella rigenerazione siamo diventati suo corpo. Perciò noi siamo il tempio di Cristo e il tempio dello Spirito Santo. Per questo l’apostolo raccomanda: “Glorificate e portate Dio nel vostro corpo”. Egli presentandoci il modello della sua umiltà e della sua mitezza, ci ha iniziati a questa virtù con la redenzione, dandocene egli stesso l’assicurazione: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi, e io vi darò completo riposo. Prendete su di voi il mio giogo, e imparate da me perché sono dolce e umile di cuore, e troverete pace per le anime vostre”.

Abbracciamo, dunque, il giogo, non pesante né molesto, della verità che ci guida, e rendiamoci simili alla umiltà di colui alla cui gloria vogliamo essere conformi.

Gesù Cristo, nostro Signore, ci aiuti e ci guidi al possesso delle sue promesse, perché Egli, nella sua grande misericordia, ha il potere di distruggere i nostri peccati e di rendere perfetti in noi i suoi doni; il quale vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.




San Leone Magno: Secondo discorso tenuto nel Natale del Signore

SECONDO DISCORSO TENUTO NEL NATALE DEL SIGNORE

1. Dilettissimi, esultiamo nel Signore e con spirituale gaudio rallegriamoci, perché è spuntato per noi il giorno luminoso della nuova redenzione, dell’antica preparazione, della felicità eterna. Perché con il ciclo liturgico annuale ci viene reso presente il mistero della nostra salvezza, promesso all’inizio del mondo, attuato nel tempo stabilito per durare senza fine.

In questo giorno è giusto che noi, elevati in alto i cuori, adoriamo il divino mistero, affinché sia celebrato dalla Chiesa con grande letizia quel che si compie per gratuita generosità di Dio.

Infatti, Dio onnipotente e clementissimo, la cui natura è bontà, la cui volontà è potenza, la cui azione è misericordia, allorché la malizia del diavolo con il veleno del suo odio ci sottomise alla morte, tosto indicò all’inizio del mondo la medicina che la sua misericordia metteva a disposizione per risollevare il genere umano. Preannunciò al serpente la futura discendenza della donna che con la propria virtù gli avrebbe schiacciato il capo, sempre altero o pronto a mordere. In tal modo preannunciò Cristo, l’Uomo-Dio, che doveva venire nella carne e che, nascendo dalla Vergine con una nascita immacolata, doveva condannare colui che violò l’integrità del genere umano.

Infatti il diavolo, trovando un sollievo alle proprie pene nel compagno di peccato, si gloriava che l’uomo, da lui ingannato, fosse stato privato dei doni divini e, spogliato della immortalità, fosse stato assoggettato a dura sentenza di morte; in più si gloriava perché Dio, secondo le esigenze della giustizia, era stato costretto a cambiare proposito riguardo all’uomo che egli aveva creato insignito di grande dignità. Per questo è stato necessario che Dio, immutabile, la cui volontà è inseparabile dalla benignità, adempisse con segreta economia e con occulto mistero il suo primo disegno di grazia ai nostri riguardi, affinché l’uomo, caduto in colpa per l’insidia del maligno diavolo, contrariamente al piano di Dio, non perisse.

2. Dilettissimi, appena giunti i tempi prestabiliti per la redenzione degli uomini, Gesù Cristo, Figlio di Dio, fa il suo ingresso nella bassa condizione di questo mondo: discende dalla sede celeste senza, però, allontanarsi dalla gloria del Padre: è generato in un nuovo stato e con una nuova nascita. È nuovo il suo stato, perché, pur rimanendo invisibile nella sua natura è diventato visibile nella natura nostra. Egli che è l’immenso, ha voluto essere racchiuso nello spazio: pur restando nella sua eternità ha voluto incominciare a esistere nel tempo. Il Signore dell’universo, nascosta sotto il velo la gloria della sua maestà, ha assunto la natura di servo. Dio, inviolabile, non ha sdegnato di assoggettarsi al dolore; l’immortale non ha rifiutato di sottomettersi alla legge della morte.

Inoltre è stato generato con novità nella nascita, perché è stato concepito dalla Vergine ed è nato dalla Vergine senza l’intervento di padre terreno e senza la violazione della integrità della madre. A chi doveva essere il Salvatore degli uomini era conveniente una tale nascita, perché avesse in sé la natura umana e non conoscesse la contaminazione della umana carne. Dio stesso, infatti, è l’autore della nascita corporea di Dio e l’arcangelo l’ha attestato alla Santa Vergine Maria: «Lo Spirito santo verrà sopra di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà della sua ombra: per questo il bambino santo che nascerà, sarà chiamato Figlio di Dio».

Dunque la sua origine è diversa dalla nostra, ma la sua natura è uguale alla nostra. Il fatto che la Vergine abbia concepito, che la Vergine abbia partorito e poi sia rimasta ancora vergine, certamente è estraneo alla comune esperienza umana, poiché è fondato sulla divina potenza. In questo caso, difatti, non bisogna considerare la condizione di colei che partorisce, ma il volere di colui che nasce, il quale è nato dall’uomo nel modo che ha voluto e potuto. Se tu osservi la realtà della natura, costati la sostanza umana; ma se scruti la causa dell’origine, vi riconosci la potenza divina. Invero, Gesù Cristo, nostro Signore, è venuto per abolire il contagio del peccato, non per tollerarlo; è venuto per curare ogni malattia di corruzione e tutte le ferite delle anime macchiate. Era dunque opportuno che nascesse in maniera nuova colui che apportava agli uomini una nuova grazia di immacolata integrità. Era necessario che l’integrità di chi nasceva conservasse la nativa verginità della madre e che l’adombramento della virtù dello Spirito santo mantenesse inviolato quel santuario di purezza e dimora della santità di cui si compiaceva. Gesù, difatti, aveva stabilito di rialzare la creatura che era precipitata in basso, di ricomporre ciò che si era infranto e di donare e accrescere la virtù della castità per cui potesse essere vinta la concupiscenza della carne. Dio ha voluto in tal maniera che la verginità, necessariamente violata nella generazione degli altri uomini, fosse imitabile negli altri con la rinascita spirituale.

3. Il fatto stesso, dilettissimi, che Cristo abbia scelto di nascere da una vergine, non mostra forse che era mosso da un motivo altissimo? Egli voleva che il diavolo ignorasse la nascita del Salvatore del genere umano; così ignaro dello spirituale concepimento, il maligno non avrebbe pensato a una nascita diversa da quella degli altri uomini, perché lo vedeva non differente dagli altri. Egli ha osservato la natura di lui, simile alla nostra e ha creduto che egli fosse compreso nella condanna di tutti gli altri. Non comprese che era estraneo ai ceppi, procuratici dalla disobbedienza, colui che non vedeva libero dall’umana debolezza. Infatti Dio, verace e misericordioso, disponeva di molti modi per restaurare il genere umano, ma ha scelto questa via della redenzione per seguire un criterio di giustizia, anziché fare uso della sua potenza nel distruggere il male compiuto dal diavolo. Il superbo e antico nemico rivendicava per sé, non senza qualche ragione, un diritto di tirannia su tutti gli uomini; e opprimeva con dominazione non illegittima quelli che dal comando di Dio aveva trascinato a rendere ossequio spontaneo alle sue voglie. Perciò non avrebbe giustamente perduto la servitù del genere umano, instaurata agli inizi del mondo, se non fosse stato vinto da chi prima aveva assoggettato. Perché questo disegno si attuasse, Cristo, senza intervento di uomo, è stato concepito dalla Vergine, fecondata non dalla unione carnale, ma dallo Spirito santo. Le madri tutte non concepiscono senza la macchia del peccato; al contrario essa fu purificata dal fatto che concepì. Là dove non c’è stata immissione del seme paterno, neppure vi si è mescolata l’origine inquinante del peccato. La verginità inviolata non conobbe la concupiscenza; solo somministrò la sostanza. Dalla madre fu assunta la natura dell’uomo, non la colpa. La natura di servo è stata fatta senza portare con sé la condizione servile, perché l’uomo nuovo è stato misurato sul vecchio in modo da assumere la realtà della natura e da escludere l’antico peccato.

Perché la verace misericordia di Dio, pur avendo a disposizione molti mezzi per redimere il genere umano, prima di ogni altra volle percorrere questa via utile al suo piano: annientare l’opera del diavolo ricorrendo non all’efficacia della potenza, ma alla ragione dell’equità. La superbia dell’antico avversario non a torto rivendicava a sé nei confronti di tutti gli uomini il diritto del tiranno, e non senza ragione teneva oppressi sotto il suo dominio coloro che egli aveva indotto con lusinghe a rifiutare il comandamento di Dio e a servire di loro spontanea volontà al suo volere. Perciò non avrebbe potuto perdere, secondo la norma di giustizia, la schiavitù del genere umano a lui soggetto fin dall’origine, se non fosse stato vinto dallo stesso genere umano che egli aveva asservito.

4. Il misericordioso e onnipotente Salvatore ha regolato fin dall’inizio l’assunzione della natura umana in tal maniera da tenere nascosta la potenza divina, inseparabile dall’umanità assunta, col velo della nostra infermità. Fu, così, ingannata l’astuzia del nemico che credette la nascita del fanciullo, nato per la salvezza del genere umano, sottomessa al suo dominio, come quella di tutti gli uomini che nascono. Lo vide che vagiva e lacrimava; l’osservò avvolto in pochi panni, soggetto alla circoncisione e riscattato con l’offerta del sacrificio legale. In seguito conobbe il normale sviluppo della sua puerizia e non poté mettere in dubbio la sua naturale crescita finché giunse a età virile. Mentre tutto ciò si compiva, egli scagliò oltraggi, moltiplicò le ingiurie, usò maledizioni, obbrobri, bestemmie e calunnie e in ultimo rovesciò contro Cristo tutta la potenza del suo furore passando in rassegna tutte le possibili tentazioni. Ben conscio di avere col suo veleno prostrata la natura umana, non credette neppure lontanamente che fosse libero dal peccato chi da tante prove era riconoscibile per mortale. Perciò il diavolo, scellerato saccheggiatore e avaro esattore, persisté nella lotta contro chi nulla aveva in sé di malizia. Ma mentre lo perseguitava rivendicando l’esecuzione della sentenza di condanna per tutti gli uomini, riposta nell’origine intaccata dal peccato, oltrepassò la misura fissata nel decreto che gli serviva di sostegno, perché reclamò la pena del peccato da colui nel quale non scoprì nessuna colpa.

Così per un consiglio poco accorto fu annullata la perfida scrittura del contratto di morte; per l’ingiustizia commessa nell’esigere di più, venne abolito tutto il debito. Quel forte viene incatenato con i suoi stessi ceppi e ogni astuzia del maligno viene ripiegata nel suo capo. Appena il principe del mondo è così incatenato, gli vennero sottratti i vasi preziosi della schiavitù. La natura purificata dal vecchio contagio, ritorna nel suo onore; la morte è distrutta con la morte, la nascita è restaurata con la nuova natività. Simultanei sono questi effetti: la redenzione abolisce la schiavitù, la rigenerazione trasforma l’origine e la fede rende giusto il peccatore.

5. Dunque, chiunque tu sia che vuoi gloriarti del nome di cristiano, pondera con giusto giudizio la grazia di questa riconciliazione. A te, una volta prostrato ed escluso dal Paradiso, a te, destinato a morire ininterrottamente durante un lungo esilio e disperso alla stregua della polvere e della cenere, a te, senza speranza di vivere, è stata data con l’incarnazione del Verbo la facoltà di tornare, dal lontano luogo ove eri, al tuo Creatore, di riconoscere il tuo padre, di passare dalla servitù alla libertà, di essere innalzato dalla condizione di forestiero alla dignità di figlio. Così a te, nato dalla carne corruttibile, è stata data la facoltà di rinascere dallo Spirito di Dio e di ottenere per grazia ciò che non avevi per natura, in modo che riconoscendoti, mediante lo Spirito di adozione, come figlio di Dio, possa ardire di chiamare Dio tuo Padre. Ora che sei sciolto dal reato della cattiva coscienza, aspira al regno celeste; adempi la volontà di Dio, sostenuto dal divino aiuto; imita gli angeli sopra la terra; nùtriti della virtù di una sostanza immortale; combatti con sicurezza contro le tentazioni ostili in ossequio alla religione di Dio, e se avrai rispettato il giuramento della milizia celeste, sii certo che sarai incoronato per la vittoria nei campi trionfali dell’eterno Re, quando la risurrezione, preparata ai cultori di Dio, ti investirà per innalzarti alla società del regno celeste.

Dilettissimi, fiduciosi in così grande aspettativa, rimanete stabili nella fede in cui siete stati fondati. Non sia mai che il tentatore, privato da Cristo della dominazione sopra di voi, vi abbia a sedurre di nuovo con insidie e riesca a profanare con la sua raffinata arte di inganni le gioie stesse del giorno presente. Non sia mai che riesca a illudere gli uomini più semplici con la nefanda persuasione di certuni, ai quali questo giorno della nostra solennità pare degno di festa non tanto a motivo della nascita di Cristo, quanto per il natale del nuovo sole. Le menti di costoro sono avvolte in dense tenebre e sono ben lontane dal far progressi nella vera luce. Si trascinano dietro i pazzeschi errori dei gentili, e perché sono incapaci di sollevare l’attenzione della mente sopra ciò che si vede con sguardo carnale, rendono culto divino agli astri, i quali non sono altro che i servi del mondo.

Sia lontana dagli uomini cristiani tale sacrilega superstizione e mostruosa menzogna. Le cose temporali distano oltre ogni dire da colui che è eterno, le cose corporee da colui che è incorporeo, le creature suddite da colui che le governa: tutte queste cose hanno bensì bellezza, che suscita ammirazione, ma non hanno in sé stesse la divinità che si possa adorare. Bisogna, dunque, rendere onore a quella potenza, sapienza, maestà che ha creato dal nulla l’universo e che ha generato con onnipotente parola le cose terrene e le cose celesti in quelle forme e misura che a lui è piaciuto. Il sole, la luna, le stelle sono utili a noi, che ce ne serviamo e appaiono leggiadre quando le rimiriamo. Di esse si deve rendere grazie al Creatore: si deve adorare Dio che le ha create, non le creature che lo servono.

Dunque, dilettissimi, lodate Dio in tutte le sue opere e disposizioni. Abbiate una fede perfetta nella verginale integrità e nel parto della Vergine. Onorate il sacro e divino mistero della redenzione umana, prestando a Dio un servizio santo e sincero. Accogliete Cristo che nasce nella nostra carne, affinché meritiate di contemplarlo qual Dio della gloria nel regno della sua maestà: egli che col Padre e lo Spirito santo rimane nella unità della divinità nei secoli dei secoli.

Amen.




San Leone Magno: Primo discorso tenuto nel Natale del Signore

PRIMO DISCORSO TENUTO NEL NATALE DEL SIGNORE

San Leone Magno, Papa di Roma

1. Oggi, dilettissimi, è nato il nostro Salvatore: rallegriamoci! Non è bene che vi sia tristezza nel giorno in cui si celebra il natale della vita, che, avendo distrutto il timore della morte, ci presenta la gioiosa promessa dell’eternità. Nessuno è escluso dal prendere parte a questa gioia, perché il motivo del gaudio è unico e a tutti comune: il nostro Signore, distruttore del peccato e della morte, è venuto per liberare tutti, senza eccezione, non avendo trovato alcuno libero dal peccato.

Esulti il santo, perché si avvicina al premio. Gioisca il peccatore, perché è invitato al perdono. Si rianimi il pagano, perché è chiamato alla vita. Il Figlio di Dio, nella pienezza dei tempi che il disegno divino, profondo e imperscrutabile, aveva prefisso, ha assunto la natura del genere umano per riconciliarla al suo Creatore, affinché il diavolo, autore della morte, fosse sconfitto, mediante la morte con cui prima aveva vinto. In questo duello, combattuto per noi, principio supremo fu la giustizia nella più alta espressione. Il Signore onnipotente, infatti, non nella maestà che gli appartiene, ma nella umiltà nostra ha lottato contro il crudele nemico. Egli ha opposto al nemico la nostra stessa condizione, la nostra stessa natura, che in lui era bensì partecipe della nostra mortalità, ma esente da qualsiasi peccato.

È estraneo da questa nascita quel che vale per tutti gli altri: «Nessuno è mondo da colpa, neppure il fanciullo che ha un sol giorno di vita». Nulla della concupiscenza della carne è stato trasmesso in questa singolare nascita; niente è derivato ad essa dalla legge del peccato. È scelta una vergine regale, appartenente alla famiglia di David, che, destinata a portare in seno tale santa prole, concepisce il figlio, Uomo-Dio, prima con la mente che col corpo. E perché, ignara del consiglio superno, non si spaventi per una inaspettata gravidanza, apprende dal colloquio con l’angelo quel che lo Spirito Santo deve operare in lei. Ella non crede che sia offesa al pudore il diventare quanto prima genitrice di Dio. Colei a cui è promessa la fecondità per opera dell’Altissimo, come potrebbe dubitare del nuovo modo di concepire? La sua fede, già perfetta, è rafforzata con l’attestazione di un precedente miracolo: una insperata fecondità è data a Elisabetta, perché non si dubiti che darà figliolanza alla Vergine chi già ha concesso alla sterile di poter concepire.

2. Dunque il Verbo di Dio, Dio egli stesso e Figlio di Dio, che «era in principio presso Dio, per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza del quale neppure una delle cose create è stata fatta», per liberare l’uomo dalla morte eterna si è fatto uomo. Egli si è abbassato ad assumere la nostra umile condizione senza diminuire la sua maestà. È rimasto quel che era e ha preso ciò che non era, unendo la reale natura di servo a quella natura per la quale è uguale al Padre. Ha congiunto ambedue le nature in modo tate che la glorificazione non ha assorbito la natura inferiore, né l’assunzione ha sminuito la natura superiore. Perciò le proprietà dell’una e dell’altra natura sono rimaste integre, benché convergano in un’unica persona. In questa maniera l’umiltà viene accolta dalla maestà, la debolezza dalla potenza, la mortalità dalla eternità. Per pagare il debito, proprio della nostra condizione, la natura inviolabile si è unita alla natura che è soggetta ai patimenti, il vero Dio si è congiunto in modo armonioso al vero uomo. Or questo era necessario alle nostre infermità, perché avvenisse che l’unico e identico Mediatore di Dio e degli uomini da una parte potesse morire e dall’altra potesse risorgere. Pertanto si deve affermare che a ragione il parto del Salvatore non corruppe in alcun modo la verginale integrità; anzi il dare alla luce la Verità fu la salvaguardia del suo pudore. Tale natività, dilettissimi, si addiceva a Cristo, «virtù di Dio e sapienza di Dio»; con essa egli è uguale a noi quanto all’umanità, è superiore a noi quanto alla divinità. Se non fosse vero Dio non porterebbe la salvezza, se non fosse vero uomo non ci sarebbe di esempio. Perciò dagli angeli esultanti si canta nella nascita del Signore: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli» e viene annunciata «la pace in terra agli uomini di buona volontà». Essi, infatti, comprendono che la celeste Gerusalemme sta per essere formata da tutte le genti del mondo. Or quanto gli umili uomini devono rallegrarsi per quest’opera ineffabile della divina misericordia, se gli angeli eccelsi tanto ne godono?

3. Pertanto, dilettissimi, rendiamo grazie a Dio Padre mediante il suo Figlio nello Spirito Santo, poiché la sua grande misericordia, con cui ci ha amato, ha avuto di noi pietà. «Quando ancora noi eravamo morti a causa dei nostri peccati, ci ha vivificati con Cristo» per essere in lui una nuova creatura e una nuova opera. Dunque spogliamoci del vecchio uomo e dei suoi atti. Ora che abbiamo ottenuto la partecipazione alla generazione di Cristo, rinunciamo alle opere della carne. Riconosci, o cristiano, la tua dignità, e, reso consorte della natura divina, non voler tornare con una vita indegna all’antica bassezza. Ricorda di quale capo e di quale corpo sei membro. Ripensa che, liberato dalla potestà delle tenebre, sei stato trasportato nella luce e nel regno di Dio. Per il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito santo: non scacciare da te con azioni cattive un sì nobile ospite e non ti sottomettere di nuovo alla schiavitù del diavolo; perché il prezzo del tuo riscatto è il sangue di Cristo, e perché ti giudicherà secondo verità colui che ti ha redento nella misericordia, Cristo Signore nostro.

Amen.




Primo Concilio di Costantinopoli (381)

Dal 1 maggio al luglio 381.
Convocato dall’imperatore Teodosio I.
Tema: Simbolo Niceno-Costantinopolitano. Divinità dello Spirito Santo.

IL SIMBOLO DEI CENTOCINQUANTA PADRI

Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e di quelle invisibili: e in un solo signore Gesù Cristo, figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli. Luce da luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, prese carne dallo Spirito Santo e da Maria vergine, e divenne uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, fu sepolto e risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture, salì al cielo, si sedette alla destra del Padre: verrà nuovamente nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Crediamo anche nello Spirito Santo, che è signore e dà vita, che procede dal Padre; che col Padre e col Figlio deve essere adorato e glorificato, ed ha parlato per mezzo dei Profeti. Crediamo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Crediamo un solo battesimo per la remissione dei peccati e aspettiamo la resurrezione dei morti, e la vita del secolo futuro. Amen.

Πιστεύω είς ενα Θεόν, Πατέρα, παντοκράτορα, ποιητήν ουρανού καί γής, ορατών τε πάντων καί αοράτων. Καί είς ενα Κύριον, Ίησούν Χριστόν, τόν Υιόν του Θεού τόν μονογενή, τόν εκ του Πατρός γεννηθέντα πρό πάντων τών αιώνων. Φώς εκ φωτός, Θεόν αληθινόν εκ Θεού αληθινού γεννηθέντα, ού ποιηθέντα, ομοούσιον τώ Πατρί, δι’ ού τά πάντα εγένετο. Τόν δι’ ημάς τούς ανθρώπους καί διά τήν ημετέραν σωτηρίαν κατελθόντα εκ τών ουρανών καί σαρκωθέντα εκ Πνεύματος ‘Αγίου καί Μαρίας τής Παρθένου καί ενανθρωπήσαντα. Σταυρωθέντα τε υπέρ ημών επί Ποντίου Πιλάτου καί παθόντα καί ταφέντα. Καί αναστάντα τή τρίτη ημέρα κατά τάς Γραφάς. Καί ανελθόντα είς τούς ουρανούς καί καθεζόμενον εκ δεξιών τού Πατρός. Καί πάλιν ερχόμενον μετά δόξης κρίναι ζώντας καί νεκρούς, ού τής βασιλείας ουκ εσται τέλος. Καί είς τό Πνεύμα τό ¨Αγιον, τό Κύριον, τό ζωοποιόν, τό εκ τού Πατρός εκπορευόμενον, τό σύν Πατρί καί Υιώ συμπροσκυνούμενον καί συνδοξαζόμενον, τό λαλήσαν διά τών Προφητών. Είς μίαν, αγίαν, καθολικήν καί αποστολικήν Έκκλησίαν. ‘Ομολογώ εν βάπτισμα είς άφεσιν αμαρτιών.Προσδοκώ ανάστασιν νεκρών. Καί ζωήν τού μέλλοντος αιώνος. Άμήν.

LETTERA DEI VESCOVI RADUNATI A COSTANTINOPOLI
A PAPA DAMASO E AI VESCOVI OCCIDENTALI (382)

Ai signori illustrissimi e reverendissirni fratelli e colleghi Damaso, Ambrogio, Brittone, Valeriano, Acolio, Anemio, Basilio, e agli altri santi vescovi raccolti nella grande Roma, il santo sinodo dei vescovi che professano la vera fede, riuniti nella grande Costantinopoli, salute nel Signore.

E’ forse superfluo informare la Reverenza vostra, quasi che possa esserne all’oscuro, e narrare le innumerevoli sofferenze inflitteci dalla prepotenza ariana. Non crediamo, infatti, che la santità vostra giudichi così poco importante quanto ci riguarda, da esserne ancora all’oscuro, metterebbe anzi conto che se ne piangesse insieme. D’altra parte, le tempeste che si sono abbattute su di noi sono state tali, che non hanno certo potuto rimanervi nascoste; il tempo delle persecuzioni è recente, ne è ancora vivo il ricordo non solo in coloro che hanno sofferto, ma anche in chi per l’amore che li legava ad essi ha fatto proprie le loro sofferenze. Infatti solo ieri, per così dire, e l’altro ieri, alcuni sciolti dai vincoli dell’esilio, sono tornati alle loro chiese in mezzo a mille tribolazioni; di altri, morti in esilio, sono tornati solo i resti: alcuni, anche dopo il ritorno dall’esilio, fatti segno all’odio acre degli eretici, dovettero sopportare più amarezze nella propria terra che in terra straniera, raggiunti, come il beato Stefano, dalle loro pietre (1); altri lacerati da vari supplizi, portano ancora le stigmate di Cristo (2) e le ferite nel proprio corpo. Le perdite di ricchezze, le multe delle città, le confische dei beni dei singoli, gli intrighi, le prepotenze, le carceri, chi potrebbe contarle? Davvero che tutte le tribolazioni si sono moltiplicate contro di noi oltre ogni dire, forse perché scontassimo la pena dei nostri peccati, o forse perché Dio, clemente, voleva provarci con tante sofferenze.

Di ciò siano rese grazie a Dio, il quale volle istruire i suoi servi attraverso prove così grandi (3), e secondo la sua grande misericordia ci ha condotto nuovamente al refrigerio (4). Certo sarebbe stato necessario per noi una lunga pace, e molto tempo, e molto lavoro per il miglioramento delle chiese, perché, cioè, finalmente potessimo ricondurre all’originario splendore della pietà il corpo della chiesa, oppresso come da lunga malattia, ricreandolo a poco a poco con ogni sorta di cure. In questo modo riteniamo di esserci liberati dalla violenza delle persecuzioni, e di aver ripristinato le chiese così a lungo dominate dagli eretici; dei lupi, tuttavia, ci danno molta molestia: scacciati dai loro recinti, rapiscono le pecore negli stessi pascoli boscosi, e tentano di tenere riunioni, e di suscitare sommosse popolari, senza nulla risparmiare pur di arrecare danno alle chiese. Come dicevamo, sarebbe stato necessario che potessimo occuparci di questi problemi per un tempo più lungo.

In ogni modo, poiché, mostrando la vostra fraterna carità verso di noi, con lettere dell’imperatore, da Dio amato, avete invitato anche noi come veri membri al sinodo che per volontà di Dio avete convocato a Roma perché, essendo stati noi sottoposti allora da soli alle tribolazioni, ora in questa pia concordia degli Imperatori voi non regnaste senza di noi, ma anche noi, secondo la parola dell’apostolo, potessimo regnare insieme con voi (5), sarebbe stato nostro desiderio, se possibile, lasciare tutti insieme le nostre chiese, e venire incontro ai vostri desideri e alla (comune) utilità. Chi ci darà, infatti, le ali come quelle di una colomba per volare e posarci presso di voi (6)? Ma poiché questo avrebbe spogliato le nostre chiese, appena cominciato il rinnovamento, e la cosa sarebbe stata per moltissimi impossibile, ci eravamo radunati insieme a Costantinopoli, secondo l’invito delle lettere, mandate l’anno scorso dalla vostra carità, dopo il sinodo di Aquileia, all’imperatore Teodosio, caro a Dio. Eravamo preparati per questo solo viaggio fino a Costantinopoli, ed avevamo il consenso dei vescovi rimasti nelle diocesi solo per questo sinodo. Di un più lungo viaggio né prevedevamo la necessità, né avevamo avuto alcun indizio prima di venire a Costantinopoli. Inoltre l’imminenza della data fissata non lascia il tempo di prepararsi per una assenza più lunga, né di avvertire i vescovi della nostra stessa comunione rimasti nelle diocesi, e di chiedere il loro benestare. Poiché, dunque, questi ed altri simili motivi impedivano la partenza della maggior parte di noi, abbiamo preso l’unico partito che restava per il miglioramento delle cose e per corrispondere alla carità che ci avete dimostrato: e abbiamo pregato insistentemente i venerabilissimi e onorabilissimi fratelli e colleghi nostri, i vescovi Ciriaco, Eusebio e Prisciano di affrontare la fatica di venir fino a voi; e così, per mezzo loro, vi abbiamo fatto conoscere i nostri propositi di pace e di unità, e vi abbiamo manifestato il nostro zelo per la retta fede. Noi, infatti, abbiamo sopportato da parte degli eretici le persecuzioni, le tribolazioni, le minacce degli imperatori, le crudeltà dei magistrati e ogni altra prova, per la fede evangelica confermata dai trecentodiciotto Padri di Nicea di Bitinia. Questa fede, infatti, dev’essere approvata da voi, da noi e da quanti non distorcono il senso della vera fede essendo essa antichissima e conforme al battesimo; essa ci insegna a credere nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cioè in una sola divinità, potenza, sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in una uguale dignità, e in un potere coeterno, in tre perfettissime ipostasi, cioè in tre perfette persone, ossia tali, che non abbia luogo in esse né la follia di Sabellio con la confusione delle persone, con la soppressione delle proprietà personali, né prevalga la bestemmia degli Eunomiani, degli Ariani, dei Pneumatomachi, per cui, divisa la sostanza, o la natura, o la divinità, si aggiunga all’increata, consostanziale e coeterna Trinità una natura posteriore, creata, o di diversa sostanza. Riteniamo anche, intatta, la dottrina dell’incarnazione del Signore; non accettiamo, cioè l’assunzione di una carne senz’anima, senza intelligenza, imperfetta, ben sapendo che il verbo di Dio, perfetto prima dei secoli, è divenuto perfetto uomo negli ultimi tempi per la nostra salvezza.

Queste sono, in sintesi, le principali verità della fede, che senza ambagi predichiamo. Esse vi procureranno anche una maggior soddisfazione, se vi degnerete di leggere il tomo composto dal sinodo di Antiochia, e quello pubblicato dal concilio ecumenico, a Costantinopoli, lo scorso anno. In essi abbiamo esposto la nostra fede assai ampiamente, ed abbiamo sottoscritto i nostri anatemi contro le recenti novità delle eresie.

Quanto all’amministrazione delle singole chiese ha forza di legge l’antica norma, come sapete, e la disposizione dei santi padri di Nicea: che, cioè, in ciascuna provincia, e, se essi vorranno anche i vescovi confinanti con loro, si facciano le ordinazioni come richiede l’utilità delle chiese. Sappiate che, conforme a queste disposizioni, vengono amministrate le nostre chiese, e sono stati nominati i sacerdoti delle chiese più insigni. Della chiesa novella, per cosi dire, di Costantinopoli, che da poco, per misericordia di Dio, abbiamo strappato alle bestemmie degli eretici, come dalla bocca di un leone (7), abbiamo ordinato vescovo il reverendissimo e amabilissimo in Dio Nettario. Ciò è stato fatto al cospetto del concilio universale, col consenso di tutti, sotto gli occhi dell’imperatore Teodosio, carissimo a Dio, di tutto il clero, e con l’approvazione di tutta la città. Dell’antica e veramente apostolica chiesa di Antiochia di Siria, nella quale per prima fu usato il venerando nome di cristiani, i vescovi della provincia e della diocesi dell’oriente, radunatisi, consacrarono vescovo, canonicamente, il reverendissimo e da Dio amatissimo Flaviano, con l’approvazione di tutta la chiesa, che, unanime onorava quest’uomo. L’ordinazione è stata riconosciuta conforme alla legge ecclesiastica anche dalle autorità del concilio. Vi informiamo, inoltre, che il reverendissimo e carissimo a Dio Cirillo è vescovo della madre di tutte le chiese, la chiesa di Gerusalemme. A suo tempo egli è stato consacrato, conforme alle norme ecclesiastiche, dai vescovi della provincia, e spesso, in diverse circostanze, ha lottato strenuamente contro gli Ariani.

Poiché, dunque, queste cose sono state compiute da noi legalmente e canonicamente, preghiamo la reverenza vostra di volersi rallegrare con noi, uniti scambievolmente dal vincolo dell’amore che viene dallo Spirito e dal timore di Dio che vince ogni umana passione, e antepone l’edificazione delle chiese all’amicizia ed alla benevolenza verso i singoli. In tal modo, in pieno accordo nelle verità della fede, e fortificata in noi la carità cristiana, cesseremo di ripetere l’espressione già biasimata dagli apostoli: Io sono di Paolo, io sono di Apollo; e io sono di Cefa (8), ma saremo tutti di Cristo, che non può esser diviso in noi; e, se Dio ce ne farà degni, conserveremo indiviso il corpo della chiesa e compariremo tranquilli dinanzi al tribunale di Dio (9).

CANONI

I. Che le decisioni di Nicea restino immutate; della scomunica degli eretici.

La professione di fede dei trecentodiciotto santi Padri, raccolti a Nicea di Bitinia non deve essere abrogata, ma deve rimanere salda; si deve anatematizzare ogni eresia, specialmente quella degli Eunomiani o Anomei, degli Ariani o Eudossiani, dei Serniariani e Pneumatomachi, dei Sabelliani, dei Marcelliani, dei Fotiniani e degli Apollinaristi.

II. Del buon ordinamento delle diocesi, e dei privilegi dovuti alle grandi città dell’Egitto, di Antiochia, di Costantinopoli; e del non dover un vescovo metter piede nella chiesa di un altro.

I vescovi preposti ad una diocesi non si occupino delle chiese che sono fuori dei confini loro assegnati né le gettino nel disordine; ma, conforme ai canoni, il vescovo di Alessandria amministri solo ciò che riguarda l’Egitto, i vescovi dell’Oriente, solo l’oriente, salvi i privilegi della chiesa di Antiochia, contenuti nei canoni di Nicea; i vescovi della diocesi dell’Asia, amministrino solo l’Asia, quelli del Ponto, solo il Ponto, e quelli della Tracia, la Tracia.

A meno che vengano chiamati, i vescovi non si rechino oltre i confini della propria diocesi, per qualche ordinazione e per qualche altro atto del loro ministero. Secondo le norme relative all’amministrazione delle diocesi, è chiaro che questioni riguardanti una provincia dovrà regolarle il sinodo della stessa provincia, secondo le direttive di Nicea. Quanto poi alle chiese di Dio fondate nelle regioni dei barbari, sarà bene che vengano governate secondo le consuetudini introdotte ai tempi dei nostri padri.

III. Che dopo il vescovo di Roma, sia secondo quello di Costantinopoli.

Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma.

IV. Della illecita ordinazione di Massimo.

Quanto a Massimo il Cinico e ai disordini avvenuti a Costantinopoli per causa sua intorno a lui, questo grande sinodo giudica che Massimo non è mai stato né è vescovo, e non lo sono quelli che egli ha ordinato in qualsiasi grado del clero: tutto quello, infatti, che è stato compiuto a suo riguardo o da lui è da considerarsi nullo.

V. Il tomo degli Occidentali è bene accetto.

Per quanto riguarda il tomo (=documento) degli Occidentali, anche noi riconosciamo quelli di Antiochia che professano la medesima divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

VI. Chi può essere ammesso ad accusare un vescovo o un chierico.

Poiché molti volendo turbare e sconvolgere l’ordine ecclesiastico, da veri nemici e sicofanti, inventano accuse contro i vescovi ortodossi incaricati del governo della Chiesa, nient’altro cercando che di contaminare la buona fama dei sacerdoti e di eccitare tumulti tra i popoli che vivono in pace, è sembrato bene al santo concilio dei vescovi radunati a Costantinopoli di non ammettere gli accusatori senza previo esame, né di permettere a chiunque di poter formulare accuse contro gli amministratori delle diocesi, né, d’altra parte, di respingere tutti. Se, quindi, uno ha dei motivi privati, personali, contro il vescovo, perché sia stato defraudato, o perché abbia dovuto sopportare da parte sua qualche altra ingiustizia, in questo genere di accuse non si guardi né alla persona dell’accusatore, né alla sua religione. E’ necessario, infatti, assolutamente, che la coscienza del vescovo si conservi libera dalla colpa e che quegli che afferma di essere trattato ingiustamente, quali che possano essere i suoi sentimenti religiosi, ottenga giustizia. Se, però, l’accusa che si fa al vescovo ha attinenza con la religione in sé e per sé, allora bisogna tener conto della persona degli accusatori. In questo caso, primo, non si permetta agli eretici di formulare accuse contro i vescovi ortodossi in cose riguardanti la chiesa (per eretici intendiamo sia quelli che già da tempo sono stati pubblicamente banditi dalla Chiesa, sia quelli che poi noi stessi abbiamo condannato; sia quelli che mostrano di professare una fede autentica, ma in realtà sono separati e si riuniscono contro i vescovi legittimi). Inoltre, quelli che sono stati condannati, scacciati o scomunicati per vari motivi dalla Chiesa, sia chierici che laici, non possono accusare un vescovo, prima di essersi lavati della loro colpa. Analogamente non possono accusare un vescovo o altri chierici, coloro che siano sotto una precedente accusa, se prima non abbiano dimostrato di essere innocenti delle colpe loro imputate. Se, però, vi è chi senza essere eretico, né scomunicato, né condannato o accusato di alcun delitto, ha delle accuse in cose di chiesa contro il vescovo, questo santo sinodo comanda che questi presenti la sua accusa ai vescovi della provincia e dimostri davanti a loro la fondatezza delle accuse. Se poi i vescovi della provincia non sono in grado di correggere le mancanze di cui viene accusato il vescovo, allora gli accusatori possono adire anche il più vasto sinodo dei vescovi di quella diocesi (cioè il sinodo patriarcale), che saranno convocati proprio per questo. Non può però, essere ammesso a provare l’accusa, chi non abbia prima accettato per iscritto di subire una pena uguale a quella che toccherebbe al vescovo se nell’esame della causa si constatasse che le accuse contro il vescovo erano calunnie. Se qualcuno, disprezzando ciò che è stato decretato, osasse importunare l’imperatore, o disturbare i tribunali civili, o il concilio ecumenico, con disprezzo di tutti i vescovi della diocesi, la sua accusa non deve essere ammessa, perché egli ha disprezzato i canoni, ed ha tentato di sconvolgere l’ordine ecclesiastico.

VII. Come bisogna accogliere coloro che si avvicinano all’ortodossia.

Coloro che dall’eresia passano alla retta fede nel novero dei salvati, devono essere ammessi come segue: gli Ariani, i Macedoniani, i Sabaziani, i Novaziani, quelli che si definiscono i Puri (Catari), i Sinistri, i Quattuordecimani o Tetraditi e gli Apollinaristi, con l’abiura scritta di ogni eresia, che non s’accorda con la santa chiesa di Dio, cattolica e apostolica. Essi siano segnati, ossia unti, col sacro crisma, sulla fronte, sugli occhi, sulle narici, sulla bocca, sulle orecchie e segnandoli, diciamo: Segno del dono dello Spirito Santo. Gli Eunomiani, battezzati con una sola immersione, i Montanisti, qui detti Frigi, i Sabelliani, che insegnano l’identità del Padre col Figlio e fanno altre cose gravi, e tutti gli altri eretici (qui ve ne sono molti, specie quelli che vengono dalle parti dei Galati); tutti quelli, dunque, che dall’eresia vogliono passare alla ortodossia, li riceviamo come dei gentili. E il primo giorno li facciamo cristiani, il secondo, catecumeni; poi il terzo, li esorcizziamo, soffiando per tre volte ad essi sul volto e nelle orecchie. E così li istruiamo, e facciamo che passino il loro tempo nella chiesa, e che ascoltino le Scritture; e allora li battezziamo.


Note

(1) Cfr. At 7, 53
(2) Cfr. Gal 6, 17
(3) Cfr. Sal 50, 3
(4) Cfr. Sal 66, 12
(5) Cfr. 1 Cor 4, 8
(6) Cfr. Sal 55, 7
(7) Cfr Sal 21, 22
(8) 1 Cor 1, 12
(9) Cfr. Rm 14, 10




ZOLTÁN BARA: I “FURTA GRAECORUM”

CRISTIANESIMO E CULTURA ELLENISTICA NEL II E III SECOLO:
LE VERITÀ PARZIALI ED I “FURTA GRAECORUM”

di ZOLTÁN BARA

1. Introduzione
In una generale espansione e lenta penetrazione del cristianesimo nella società e nelle istituzioni civili, il messaggio cristiano si è dovuto ben presto confrontare con il mondo culturale ellenistico. L’annuncio cristiano aveva preso forma inizialmente in categorie semitiche, perché inizialmente formulato in area semitica, per destinatari di cultura semitica. Dal momento in cui esso, però aspirava a una propagazione universale e cominciava a diffondersi nell’area di cultura greca, ha dovuto essere nuovamente formulato secondo le categorie del pensiero tipiche dell’ellenismo. L’ellenizzazione del messaggio cristiano non è una sua deformazione dovuta all’influsso della cultura greca, bensì il risultato di un processo di adattamento, processo inevitabile e naturale, ancorché molto laborioso e sofferto, al fine di cercare da una parte gli indispensabili agganci con il mondo circostante, e di rivelare dall’altra la novità dei contenuti e perciò l’identità stessa della nuova comunità. (M. SIMONETTI, Cristianesimo antico e cultura greca, Roma 1983, 7–8; E. PRINZIVALLI, Incontro e scontro fra «classico» e «cristiano» nei primi tre secoli: aspetti e problemi, Roma, 1994, 543–556).

È chiaro, che venendo a contatto con il mondo ellenistico il cristianesimo si trova a dover affrontare tutta una serie di problemi.

Da una parte, infatti, gli scrittori cristiani sono d’accordo sul condannare a un tempo il paganesimo popolare e la filosofia greca in quanto false concezioni di Dio e opere del demonio, ma d’altra parte gli apologisti fanno appello alla testimonianza di Platone e di Omero per fondare il carattere ragionevole della loro dottrina. (J. DANIÉLOU, Messaggio evangelico e la cultura ellenistica, Bologna, 1975, 51).
Infatti ci furono due centri d’insegnamento, due scuole, dove il contatto tra ellenismo e cristianesimo, tra filosofia e fede, tra civiltà pagana e civiltà cristiana sono venuti maggiormente a confronto: la scuola di Roma di Giustino, Taziano, Rodone e la scuola di Alessandria, di Clemente e Origene. La scuola romana, fondata da San Giustino, non riservava l’insegnamento ai soli cristiani, ma lo proponeva a tutti, a “chiunque voleva andare per ascoltare la dottrina della verità”. Oggetto di questo insegnamento erano la dimostrazione e la difesa della religione cristiana, l’apologetica che mirava a convertire i pagani e i giudei, la controversia che confutava le tesi degli eretici, in particolare di Marcione.
La scuola di Alessandria, fondata da Panteno e resa celebre soprattutto da Clemente e Origene, non aveva un insegnamento esclusivamente religioso e neppure solo apologetico come quello di Roma. Essa offriva un insegnamento enciclopedico, che esponeva primariamente l’insieme delle scienze profane, per elevarsi poi da queste alla filosofia morale e religiosa e infine alla teologia cristiana, esposta sotto forma di commento ai Libri Sacri. (J. QUASTEN, Patrologia, Torino, 1967, 50–55).
A Giustino, Taziano, Tertulliano, Clemente, Origene e agli altri autori cristiani del II e III secolo si pone il problema: l’ellenismo, principalmente considerato nella sua filosofia, è conciliabile con il cristianesimo? I cristiani lo devono considerare un impedimento, un ostacolo, o un aiuto nel ricercare e definire la verità?
È noto come la risposta di Taziano e Tertulliano è stata decisamente negativa, mentre quella di Giustino, Clemente e Origene più aperta e più possibilista.

2. Patres graeci
2.1. Taziano
Taziano nacque in Siria da una famiglia pagana e fu discepolo, a Roma, di Giustino. Con il suo maestro ebbe in comune la ricerca della vera filosofia e della verità, ma con l’atteggiamento sostanzialmente positivo nei confronti della cultura pagana, nei confronti della quale conservò un rigetto totale e pregiudiziale.

La filosofia, la religione e le opere dei greci sono ingannevoli, immorali e senza alcun valore, eccettuato qualche elemento buono, preso a prestito dalla rivelazione cristiana. I teatri greci sono scuola di vizio. Le arene sono come dei macelli. La danza, la musica e la poesia sono peccaminose e non hanno alcun valore. La filosofia e il diritto greco sono tutta una contraddizione. Basti ricordare il dissenso sui principi costitutivi dell’essere: Anassagora l’identifica con il nous, Parmenido con l’uno; Anassimene con l’aria; Empedocle con l’odio e l’amore, Platone con Dio, Aristotele con l’agire e il patire. Il comportamento pratico di Taziano, come del resto quello di altri apologisti, non è coerente con la sua posizione teorica. Taziano quando espone la sua dottrina sulla divinità, il mondo, l’uomo, fa ricorso ai filosofi che critica. La sua definizione di Dio come spirito è presa da Gv 4,24, ma inserita in una tematica di carattere storico; la sua dottrina dei due spiriti opposti, uno spirituale e l’altro materiale, tra i quali si trova l’anima in posizione intermedia, sembra fondere insieme motivi platonici e stoici. Quando, poi, descrive l’anima che, per causa del peccato, perde le ali, costituite dallo Spirito perfetto, egli riecheggia da vicino il passo platonico delle ali dell’anima.
Non è certamente poco significativo che Giustino, che era aperto al dialogo e alla valorizzazione della cultura pagana, morì martire della fede, mentre Taziano, che era intransigente assertore della malizia intrinseca dei valori pagani, al suo ritorno in Oriente, verso il 173, finì eretico, fondatore della setta degli encratiti e falsificatore della dottrina dell’Apostolo.

EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica, 4, 29, 6: “Ardì cambiare alcune parole dell’Apostolo, come se stesse correggendo il suo stile”. Si veda anche F. BOLGIANI, “Taziano”, in A. Di BERNARDINO (ed.), Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato, 1984, 3354–3357. Si può leggere con profitto anche la prefazione di S. Di Cristina alla traduzione italiana del Discorso ai Greci: Taziano, Discorso ai Greci (a cura di S. Di Cristina), Roma 1991.)

2.2. Tertulliano
Anche Tertulliano, come Giustino, è un convertito dal paganesimo alla fede cristiana. Ciò che portò Tertulliano alla fede non è il confronto con i diversi sistemi filosofici, ma la testimonianza eroica dei primi martiri cristiani: “Chiunque, davanti a una costanza così prodigiosa, si sente come preso da una inquietudine e desidera ardentemente ricercare la causa; quando ha scoperto la verità, l’abbraccia immediatamente.” (Tertulliano; Ad Scapulam, 5)
Tertulliano ha abbracciato questa verità e l’ha elevata alla sua suprema aspirazione. In una sua opera, la parola verità ricorre 162 volte. Il problema dei rapporti della fede cristiana con il paganesimo si riduce, per Tertulliano, alla “vera vel falsa divinitas”. Quando Gesù fondò la nuova religione, lo fece per condurre l’umanità alla conoscenza della verità. (Tertulliano: Apologetico 21,30)
Il Dio cristiano è il Dio vero, e coloro che lo incontrano la pienezza della verità! La verità è ciò che odiano i demoni e respingono i pagani; i cristiani, invece, muoiono e soffrono per essa. Ciò che distingue il cristiano dal pagano è la verità. In un primo atteggiamento di apertura e di dialogo, Tertulliano sostiene che ogni uomo ha la possibilità, grazie ai communes sensus, una sorta di conoscenza innata, di conoscere naturaliter Dio e l’immortalità dell’anima. (Tertulliano: De resurrectione mortuorum 3, 1). Nel proporre ai pagani la catechesi su Cristo, dalla nascita di Dio fino alla risurrezione dalla morte, riprende la dottrina giovannea di Cristo-Logos e, per renderlo familiare ai lettori, ricorda come anche la filosofia stoica conoscesse il Logos creatore del mondo; in tale contesto cita Zenone e Cleante, in modo da presentare la dottrina del Logos cristiano, nella sua originalità, rispetto a quello stoico, come un perfezionamento, un completamento di quella. (Tertulliano: Apologetico 21).
Il De anima, la più antica trattazione cristiana dedicata a questo argomento, è tutta fondata su materiale dedotto dalla tradizione filosofica greca. Nell’Adversus Praxeam riprendendo la dottrina del Logos, Tertulliano l’incentra su una concezione materialistica di Dio, di chiara impronta stoica: “Chi negherà che Dio è corpo, anche se Dio è spirito? Infatti, lo spirito è un corpo di tipo speciale nel suo aspetto. Anche le cose invisibili, quali che siano, sono visibili solo a Dio.” (Tertulliano: Adversus Praxeam 7, 8–9). Ma nei momenti maggiori del suo rifiuto della cultura greca e della difesa del cristianesimo, Tertulliano fa della filosofia la matrice dell’eresia gnostica e di tutte le altre eresie. Colpisce la curiositas dei filosofi, cioè la ricerca cavillosa e sottile, che non conduce alla verità, e la mette in contrasto con la semplicità delle ricerca dei cristiani, illuminati dalla rivelazione di Cristo. Afferma che noi non abbiamo più bisogno della curiosità, dopo Gesù Cristo, né della ricerca, dopo il vangelo. Il suo atteggiamento anti-intellettualista lo porta a dire: “credo quia absurdum!”. È nota, poi, la sua affermazione:

Cos’ha da spartire Atene con Gerusalemme? Che cosa l’Accademia con la Chiesa? La nostra formazione è dal portico di Salomone. Che somiglianza ci può essere tra il filosofo e il cristiano, tra il discepolo della Grecia e quello del cielo, tra chi cerca la fama e chi cerca la salvezza, chi vende parole e chi realizza opere, chi costruisce e chi distrugge, chi altera e chi tutela la verità, chi è ladro e chi è custode del vero? (Apologetico 416, 18 – A. MAGRIS, “La filosofia greca e la formazione dell’identità cristiana”, in Annali di storia dell’esegesi, 21, Bologna, 2004, 59–107).

2.3. Giustino e gli Alessandrini
Idee completamente opposte professano Giustino, Clemente e Origene.
Per essi, la filosofia greca è fondamentalmente un dono salutare di Dio, sia che se ne consideri l’azione di un tempo sui pagani, o l’azione presente sui cristiani. Contro coloro che asserivano che “la filosofia è una funesta invenzione del maligno per avvelenare la vita degli uomini”, Clemente arriva ad affermare invece che la filosofia sarebbe un terzo Testamento, paragonabile alla Legge, dato agli uomini per insegnare loro la giustizia.

CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata I, 1, 18, 1; VI, V, 42, 1, in J.-P. MIGNE (ed.), Patrologia Greca, 161 voll., Paris 1857–1866 (d’ora innanzi PG) 8. Cfr. G. GIRGENTI, Giustino martire. Il primo cristiano platonico, Platonismo e filosofia patristica. Studi e testi 7, Milano, 1995; P. MERLO, Liberi per vivere secondo il Logos. Principi e criteri dell’agire morale in san Giustino filosofo e martire, Biblioteca di Scienze Religiose 111, Roma, 1995; C. CORSATO, Alcune “sfide della storia” nel cristianesimo delle origini: Giustino, Cipriano, Gregorio Magno, Padova, 1995, 231–251: (soprattutto 231–235: Giustino e la cultura nel secondo secolo).

Però è singolare l’argomentazione alla quale questi autori cristiani ricorrono per salvare la cultura pagana ed esercitare su di essa una sorta di protezionismo ecclesiale e teologico. Di fronte alla cultura greca e la sua imponenza in campo soprattutto filosofico, essi cercarono di inglobare questa cultura pagana nella Bibbia. La Bibbia, sostenevano, è anteriore a Platone e non ha quindi attinto niente dalla cultura pagana, mentre Platone e altri filosofi hanno attinto alla Bibbia alcune verità fondamentali su Dio, l’uomo, il cosmo. Hanno “rubato” alla Bibbia le verità sul mondo e sull’uomo. È l’argomento dei cosiddetti ‘furta Graecorum’, con il quale Giustino e Clemente Alessandrino, soprattutto, sostengono che la filosofia greca ha conseguito una conoscenza parziale della verità. Vogliamo vedere un po’ più da vicino questi due argomenti molto usati: le verità parziali e il furto delle verità. Ci si chiede innanzitutto: per quale via sono pervenute ai greci le verità parziali di cui essi dispongono sull’uomo e sul mondo?

Furta Graecorum
3.1. L’origine delle verità parziali
Filone riconosceva tre fonti alla verità presentate dai filosofi della Grecia: o le hanno tratte da Mosè; o le hanno scoperte con la ragione; oppure alcuni filosofi hanno ricevuto una ispirazione da Dio, parallela a quella dei profeti.

H. A. WOLFSON, Philo, Cambridge, 1948, I, 141–147; A. J. DROGE, Homer or Moses? Early Christian Interpretations of the History of Culture, Tübingen, 1989 (qui soprattutto per le 59–72.

Giustino riconosce tali fonti nella teoria dei “prestiti” dalla Bibbia o nel riconoscimento della capacità della ragione umana.

Wolfson sostiene che anche in Giustino si trovano le tre fonti di Filone. H. A. WOLFSON, The philosophy of the Church Fathers, Cambridge 1956, I, 41. Holte sostiene che Giustino non ricorre all’argomento della rivelazione. R. HOLTE, “Logos spermatikós. Christianity and ancient philosophy accordino to St. Justin’s Apologies”, in Studia Theologica Lundensia, 12 (1958), 161.
DANIÉLOU, 52; E. DAL COVOLO, “I Padri preniceni davanti alla cultura del loro tempo”, in Ricerche Teologiche, 9 (1998), 133–138.

Clemente Alessandrino dà due elenchi di possibili fonti di queste verità parziali. Nel primo comprende tre fonti: La filosofia greca, dicono alcuni, tocca in qualche modo la verità per l’approssimazione, ma vagamente e parzialmente; altri vogliono che essa riceva il suo impulso dal diavolo; alcuni hanno espresso l’opinione che ogni filosofia sia stata ispirata da qualche potenza subordinata. (Stromata I, 16)

Un secondo elenco riporta le seguenti fonti: alcuni dicono che i greci hanno avuto una nozione naturale (fusiké énnoia) o ancora un “senso comune” (koinòs noùs). Si dice ancora che si tratta di un dono di predicazione o d’ispirazione. Infine, altri vogliono che i filosofi abbiano detto certe cose in quanto riflesso della verità.

Stromata I, 19; Cfr. G. V. VIAN, “Cristianismo y culturas en la época patrística”, in Cristianismo y culturas. Problemática de inculturación del mensaje cristiano. Actas del VIII Simposio de Teología Histórica, Facultas de Teología San Vicente Ferre, Valencia, 1995, 69.

Questi due elenchi distinguono, dunque, due fonti principali: una è la conoscenza naturale di Dio, assai elementare, accessibile a tutti gli uomini e che può essere raggiunta per approssimazione (perìptosis), per nozione naturale (fusiké énnoia), per senso comune (koinòs noùs), per riflesso (émfasis); un’altra è una conoscenza che suppone un’interpretazione soprannaturale, di cui soltanto alcuni sono l’oggetto, e riguarda verità più alte.

E. MOLLAND, The conception of the Gospel in Alexandrian Theology, Oslo, 1938, 45– 52; E. MOLLAND, “Clement of Alexandria on the origin of Greek philosophy”, in Symbolae Osloenses 15/16, Oslo, 1936, 57–85.

La differenza tra Clemente e Giustino sta nel fatto che mentre Giustino, salvo un’eccezione, attribuiva indistintamente a una stessa azione del Logos ogni verità conosciuta dai pagani prima di Cristo. Clemente distingue due temi diversi. Da una parte vi è una conoscenza comune, dovuta al Logos, alla ragione, che è essa stessa, un dono di Dio; questa conoscenza è naturale e accessibile a tutti. Ma d’altra parte vi è un’azione del Logos presso alcuni greci che ne fa una sorta di profeti del mondo pagano, e che richiede un’assistenza speciale di Dio. Per quanto riguarda l’argomento della capacità della ragione umana, Giustino evidenzia il fatto che ogni uomo è in condizione di conoscere alcune verità per mezzo della ragione.(GIUSTINO, Apologia I, 46; Apologia II, 10 (PG 6))

La differenza tra i pagani e i cristiani sta nel fatto che i primi non hanno avuto che una conoscenza parziale della verità. I pagani partecipano al Logos, ma i cristiani hanno ricevuto nel Cristo il Logos stesso. I cristiani possiedono eminentemente nel Cristo la verità di ogni filosofia, perché questa non è che una partecipazione al Logos: Tutto ciò che essi hanno detto di buono appartiene a noi cristiani. Perché dopo Dio noi adoriamo il Verbo nato dal Dio ingenerato e ineffabile, poiché si è fatto uomo per noi, allo scopo di guarirci dai nostri mali, prendendovi parte. Gli scrittori hanno potuto vedere oscuramente la Verità, grazie al seme del Verbo che è stato posto in loro. Ma allora, una cosa è possedere un seme e una somiglianza proporzionale alle proprie facoltà, altra cosa la realtà stessa, la cui partecipazione e imitazione procedono dalla grazia che viene da lui.(Apologia II, 13)

Giustino spiega questa partecipazione dicendo che in ogni uomo vi è un “germe del Logos” (sperma tou Lógou) e che ciò è dovuto all’azione del Verbo che dà il germe (spermatikós Lógos). Questi semi sono una partecipazione del Logos nello spirito umano; essi derivano dall’azione del Logos, che insemina così le intelligenze. Sono dei semi non nel senso stoico o platonico di una conoscenza incoativa che lo spirito deve condurre alla sua perfezione, ma di una conoscenza infima, cui soltanto il Verbo incarnato darà la perfezione.

3.2. I furta Graecorum
Prendiamo in esame ora in modo particolare l’argomento dei ‘furta graecorum’ in base al quale le verità conosciute dai filosofi sono dei prestiti presi dalla rivelazione. Lo faremo attingendo direttamente ad alcuni testi patristici in cui ricorre questo argomento.

“La predizione: una spada vi consumerà non significa che i disobbedienti moriranno sotto i colpi delle spade; ma la spada di Dio è il fuoco, del quale diviene esca chi proferisce il male. Per questo, la predizione dice: la spada vi consumerà; perché la bocca del Signore lo ha detto. Se invece intendesse dire di una spada che recide e subito dà morte non direbbe vi consumerà. Quindi anche Platone quando asserì che la colpa è di chi sceglie, e Dio non ne è causa, lo asserì derivandolo dal profeta Mosè; perché Mosè è più antico di tutti gli scrittori greci. E tutto ciò che dissero i filosofi e i poeti circa l’immortalità dell’anima o le pene successive alla
morte o alla contemplazione delle cose celesti o circa simili verità, hanno potuto pensarlo e lo hanno espresso derivandone il principio dai profeti. Perciò fra tutti costoro sembra che
si trovino semi di verità; ma dimostriamo che essi non hanno compreso esattamente, dal momento che affermano cose in contrasto tra loro. Quindi, se diciamo che è stato vaticinato il futuro, non intendiamo asserirlo quasi che esso si svolga per necessità del fato; ma, essendo Dio preveggente delle future azioni degli uomini e ha stabilito che ciascuno avrà una degna ricompensa delle
proprie opere, egli, per virtù dello Spirito profetico, preannuncia le mercedi che da parte sua verranno agli uomini secondo il merito dei loro atti. E così induce il genere umano a riflettere e ben considerare; e dimostra anche che egli si dà pensiero di loro e a loro provvede”. (Apologia I, 44.
)
“Ma perché sappiate che dai nostri maestri – intendiamo dire dalle scritture
profetiche – Platone tolse l’affermazione che Dio aveva formato il mondo optando sulla materia informe, porgete ascolto alle precise parole di Mosè, che abbiamo già indicato quale primo fra i profeti e anteriore agli scrittori greci. È servendosi di lui che lo spirito profetico, per significare in quale maniera e da quali elementi in principio Dio fabbricò l’universo, così parlò: ‘In principio Dio fece il cielo e la terra. Ma la terra era invisibile e informe, e la tenebra incombeva sull’ abisso, e lo Spirito di Dio andava al di sopra delle acque. E disse Dio: sia fatta la luce. E la luce fu’.
È di qui che tanto Platone quanto chi professa i suoi principi seppero – e noi stessi sappiamo – che l’universo intero ha avuto origine a opera del Verbo di Dio da sottoposta materia, indicata già da Mosè anteriormente a ogni altro; come potete persuadervene anche voi. D’altronde, anche quello che presso i poeti ha nome di Erebo, sappiamo che prima fu nominato da Mosè”. (Apologia I, 59
)
“Anche l’asserzione del Timeo di Platone circa la natura del Figlio di Dio,
quando egli dice: “Dio lo ordinò a forma di X nell’universo, Platone poté
farla prendendola parimenti da Mosè.” Infatti nei libri di Mosè si trova
scritto che proprio nel tempo in cui gli Israeliti uscirono dall’Egitto e
stettero nel deserto, vennero contro loro animali velenosi e vipere e aspidi
e ogni sorta di serpenti che uccidevano il popolo; e che Mosè, mosso da
efficace efflato divino, prese del bronzo e ne foggiò una figura di croce e
la collocò sul tabernacolo santo e disse al popolo: “se volgerete lo sguardo a questo segno e avrete fede, in esso vi salverete”. E scrisse che, dopo ciò, i serpenti morirono, mentre il popolo poté sottrarsi alla morte. Platone lesse, ma non capì bene e, non riuscendo a intuire che quella era la figura di una croce – interpretandola invece per la forma di un X – asserì che la virtù, la quale viene subito dopo il sommo Dio, è ordinata nell’universo a foggia di X. Egli fa parola anche di una terza virtù; pure questo è un concetto tolto da Mosè nel quale egli lesse – e noi ne abbiamo prima riferito il passo – che lo spirito di Dio avanzava sopra le acque. E così egli assegna il secondo posto al Verbo divino, cui affermò essere ordinato a modo di X nel mondo; il terzo allo Spirito, di cui è detto che avanzava sull’acqua. E ciò, quando asseriva: “terze attribuzioni spettano al terzo”. Quindi non siamo noi che abbiamo le stesse opinioni degli altri, ma sono gli altri che parlano contraffacendo le nostre”. (Apologia I, 60
)
“La nostra dottrina si rivela più nobile di ogni dottrina umana, perché l’intero Verbo – il Cristo manifestatosi per noi – volle essere corpo e Verbo e anima. Infatti tutto ciò che di buono dissero ed escogitarono filosofi e legislatori, lo elaborarono a fatica, con l’indagine e l’osservazione, ma solo parzialmente secondo il Verbo. E perché non ebbero intera la conoscenza delle cose riguardanti il Verbo, cioè Cristo,
furono spesso anche in contraddizione con se medesimi”. (Apologia II, 10
)
“Ora ritengo che sia utile dimostrare che la nostra filosofia è più antica delle discipline che sono presso i Greci. Termini di riferimento sono per noi Mosè e Omero: infatti sia l’uno che l’altro sono antichissimi; uno è il più antico dei poeti e degli storici; l’altro principio di ogni saggezza barbara. Ora da noi saranno messi a confronto, e scopriremo che le nostre dottrine non solo sono precedenti alla cultura greca, ma anche all’invenzione delle lettere; non prenderò come testimoni coloro che sono di casa, piuttosto mi servirò di difensori greci. La prima cosa, infatti, non sarebbe ragionevole e neppure da noi sarebbe accettata; la seconda si
rivelerà straordinaria, perché, resistendo a noi con le stesse nostre armi, ottengo per voi prove senza sospetto […] (TAZIANO, Contro i Greci, 31 – PG 6).
Appare quindi che Mosè è più antico degli eroi menzionati, delle città e dei demoni. E bisogna credere a colui che per età è più antico e non ai Greci che vi hanno attinto le dottrine senza rendersene conto. I loro sapienti infatti facendo uso con eccessiva e soverchia cura di quello che impararono da Mosè e da coloro che furono filosofi al suo stesso modo, tentarono di falsificarlo anzitutto perché si credesse che dicevano qualcosa di particolare, in secondo luogo affinché, nascondendo mediante
una verbosità leziosa le cose che non avevano capito, potessero distorcere la verità come una favola. (Contro i Greci, 40)
Con l’aiuto di Dio voglio dimostrarti con la maggior esattezza possibile ciò che riguarda il tempo affinché tu sappia che la nostra dottrina non è né recente, né simile alle fiabe, ma che è più antica e più veritiera di tutti i poeti e gli scrittori che hanno scritto su questioni incerte… Platone invece, che sembra essere stato il più sapiente fra i Greci, a quante sciocchezze giunse! (TEOFILO DI ANTIOCHIA, Ad Autolico III, 16 – PG 6
)
Da questi antichi scrittori si dimostra che gli scritti degli altri sono più recenti degli scritti che ci sono pervenuti da Mosè e anche più recenti dei profeti vissuti dopo di lui. Infatti, l’ultimo dei profeti, di nome Zaccaria, fiorì al tempo del regno di Dario. Ma anche tutti i legislatori hanno sancito le leggi in tempo posteriore. Se infatti qualcuno parlasse di Solone l’Ateniese, questi visse al tempo dei re Ciro e Dario, al tempo del già nominato profeta Zaccaria, vissuto molti anni dopo […] (Ad Autolico III, 23)
Da qui è possibile dimostrare come le nostre Sacre Scritture sono più antiche e più vere di quelle dei Greci e degli Egiziani e anche di alcuni altri storici. Infatti Erodono, Tucidite, Senofonte e altri storiografi hanno cominciato, per la maggior parte, a narrare del regno di Ciro e di Dario, non essendo capaci di raccontare con esattezza i tempi antichi e primitivi. Che cosa dissero di grande se parlarono di Dario, di Ciro e dei re dei barbari; oppure di Zopiro e di Ippia presso i Greci […]
Non ci siamo proposti la materia per una lunga trattazione, ma per dimostrare la quantità degli anni dalla creazione del mondo e per confutare l’inutile fatica e la stoltezza degli scrittori, poiché non sono trascorsi neppure ventimila anni, come disse Platone insegnando che tanti ne erano trascorsi dal diluvio fino ai suoi tempi […]. Né il mondo fu ingenerato, né esiste un principio casuale per tutte le cose
come Pitagora e altri hanno scioccamente raccontato. Ma il mondo è creato
e retto dalla provvidenza di Dio che ha creato tutte le cose: la totalità del
tempo e gli anni lo dimostrano a quanti vogliono persuadersi della verità. (Ad Autolico III, 26
)
Computati quindi i tempi e tutti i fatti narrati, è possibile vedere
l’antichità degli scritti profetici e la divinità della nostra dottrina; la nostra
dottrina, infatti, non è recente e le nostre non sono, come alcuni pensano,
favole o falsità, ma storie molto antiche e molto vere. (Ad Autolico III, 29
)

Clemente Alessandrino inserisce la tesi del “furto dei Greci” nel contesto più generale dell’origine barbara di tutta la filosofia. I filosofi infatti sono gli antichi saggi barbari ai quali Dio, per il tramite degli angeli, ha comunicato le dottrine che essi dovevano insegnare ai loro popoli. I Greci, venuti dopo, hanno saccheggiato queste dottrine, essi non sono che dei bambini nei confronti dei barbari, che, invece, hanno la verità antica. (Stromata I, 29)

L’opposizione non è più quella tra i barbari e i Greci. Quando Clemente parla della filosofia come preparazione provvidenziale al Cristo, non parla delle scuole della filosofia greca, ma innanzitutto della filosofia barbara antica. Dio non ha lasciato alcun popolo senza inviargli delle guide spirituali, che per i Giudei sono Mosè e i profeti, per i diversi popoli i saggi antichi, che sono i filosofi per eccellenza. Egli si è manifestato a loro tramite gli angeli. Tra questi due gruppi i Giudei sono privilegiati sia per l’antichità, sia per l’eccellenza della loro dottrina. I Greci, venuti dopo, hanno attinto all’ una e all’altra fonte: sono così dei ladri che si attribuiscono ciò che non hanno inventato. I passi in cui Clemente espone le sue tesi sono numerosi. Già dal I libro degli Stromata scrive: “I filosofi greci sono dei briganti e dei ladri, perché prima della venuta del Signore hanno preso dai profeti ebrei delle parti della verità senza piena intelligenza, appropriandosene come dottrine proprie”. (Stromata I, 17)
Citando Aristobulo, scrive: “Platone ha imitato la nostra legislazione ed è evidente che ha studiato ciascuna delle cose che vi sono scritte; pure Pitagora ha trasferito molte cose provenienti da noi nella sua dottrina”. Cita anche Filone e menziona Numenio che dice: “Che cos’è Platone se non un Mosè che parla greco?” (Stromata I, 22, 150, 4)

Con ciò vuol dire che il contenuto della filosofia greca non è originale; è venuto dai barbari e innanzitutto da Mosè, ma i filosofi ellenici “l’hanno adattato con parole greche”. In questo modo, osserva Daniélou, l’impresa di Platone non è tanto diversa da quella di Filone: è già una presentazione della legge di Mosè al mondo greco, ma è una presentazione illegale e mutila. I limiti dell’impresa dei filosofi sono per Clemente, il carattere parziale, la deformazione del pensiero e la volontà di appropriazione. (DANIÉLOU, 81) “La vita intera non sarebbe sufficiente a smascherare integralmente il ladrocinio greco e il modo con cui essi hanno fatto propria la scoperta delle loro dottrine più belle, dopo averle prese da noi”. (Stromata VI, 2)
“Le dottrine più belle sono quelle che anticipano la rivelazione: Tutte le nazioni, di qualunque parte del mondo siano, e tutti gli uomini, a qualunque condizione appartengano, hanno una stessa e unica prenozione (prolepsis) di colui che ha stabilito l’autorità, se è vero che le più universali delle sue operazioni si estendono ugualmente a tutti. Ma i ricercatori della Grecia, partendo dalla filosofia barbara, sono andati molto più lontano: hanno dato la preminenza all’invisibile, all’unico, al
più potente, al più attivo e al principale tra ciò che è più bello. Ora, essi non avrebbero conosciuto la conseguenza di queste cose, se non le avessero intese da noi. (Stromata V, 14.)
Il Daniélou fa notare come il “ladrocinio” dei Greci venga definito da Clemente come un filautón klopén, un plagio ingrato.

A. MUSONI, “La pedagogie du Logos. Esquisse d’une théologie de l’histoire chez Clément d’Alexanrie”, in F.J. MAPWAR, A. KABASELE, M. W. LIBAMBU (eds.), Histoire du Christianisme en Afrique. Evangelisation et recontre des cultures – Mélanges offerts au Professeur Abbé Pierre Mukuna Mutanda, Revue Africane de Théologie 32/63–64 (2010), 19–36, qui 22.

Si noti l’aggettivo filautós. In effetti, la gravità del furto non viene dal plagio stesso, ma dal fatto che esso non è riconosciuto. Di colpo, una verità che in realtà viene da Dio i filosofi la dichiarano venuta da loro stessi. Ora, tale è precisamente l’essenziale della filautía, per la quale l’uomo si appropria di ciò che viene da Dio, e che è il contrario della euxaristía. Questa opposizione occupa un gran posto in Filone; forse è da lui che Clemente la riprende. La “vera filosofia risale a Dio e deve essergli attribuita. Ma l’ingratitudine dei Greci proclama dei maestri umani” (Stromata V, 1, 7, 58, 3). Al di là dell’ingratitudine nei confronti di Dio, dal quale veniva la dottrina dei Giudei. Per questo, il compito di Clemente è di provare ai Greci che essi hanno rubato alcune verità, al fine di spogliarsi della loro ingratitudine. (DANIÉLOU, 87–88)
Origene riprende la dottrina dei ‘furta Graecorum’, facendo derivare le parti della filosofia, dell’etica, della fisica, dai libri dell’Antico Testamento attribuiti a Salomone, Proverbi, Siracide, Cantico dei Cantici, e soprattutto riporta la capacità che ogni uomo ha di conoscere, almeno in parte, la verità alla partecipazione di ognuno, in quanto dotato di ragione, a Cristo Logos, principio universale di razionalità.

ORIGENE, De Principiis I, 3 (PG 11). Cfr. I. SANNA, “L’argomento apologetico Furta Graecorum”, in Problemi attuali di filosofia, teologia, diritto, Studia Lateranensia 1 (1989), 119–143.

Ma la filosofia in parte è d’accordo in parte è in disaccordo con la rivelazione di Dio, così che se non ne usiamo in modo poco prudente si corre il rischio di cadere nell’ eresia. (ORIGENE, Homilia in Genesim 14, 3 – PG 11) Tuttavia è interessante notare che, proprio in questo testo, Origene giustifica l’utilizzazione della filosofia greca da parte dei cristiani, con l’allegoria dell’ episodio dell’ Esodo che racconta come gli Israeliti, abbandonando l’Egitto, avessero portato con sé l’oro e l’argento che avevano sottratto agli Egiziani: come quelli si servivano del materiale sottratto agli Egiziani per preparare gli oggetti per il servizio divino, così i cristiani si
servono della sapienza pagana per approfondire la loro conoscenza di Dio, in
quanto le scienze dei Greci possono introdurre allo studio delle Sacre Scritture:
Io mi augurerei che tu prendessi dalla filosofia dei Greci quelle che possono diventare – per così dire – discipline generali e propedeutiche per il cristianesimo, e anche dalla geometria, come dall’astronomia, le nozioni che potranno essere utili all’interpretazione delle Sacre Scritture. (ORIGENE, Epistola ad Gregorium 1 – PG 11)

3.3. Il principio dell’antichità
Dalla lettura dei testi che sono stati riportati, si ricava facilmente che l’argomentazione di Giustino e degli altri apologisti nel denunciare il “furto dei
Greci”, definito anche prestito o plagio, riposa essenzialmente sulla cronologia.
Anche Clemente Alessandrino fonda la sua tesi sulla dimostrazione cronologica: “Si mostrerà in modo incontestabile che la filosofia degli Ebrei è la più antica di tute le sapienze”; “È dimostrato che Mosè è il più antico non soltanto di coloro che si chiamano sapienti e poeti della Grecia, ma pure della maggior parte degli dèi”. (Stromata I, 21)
Gli autori biblici sono più antichi dei filosofi greci e l’antichità è assunta
come criterio di verità. Ciò è proprio dello spirito di un’epoca di crisi filosofica,
dove si crede più alla rivelazione che alla ragione e si affida il destino della
propria salvezza alle rivelazioni apocalittiche dei saggi antichi, quali Enoch o
Lamech in ambienti giudaici, o Ermes Trismegisto e la Sibilla in ambiente
ellenistico.

Ora, il principio dell’autorità, sul quale si basa la teoria del ‘furto dei Greci’, porta alla conseguenza che ciò che è più antico è più vero. È un principio di autorità, derivato dalla rivelazione e dall’antichità di questa rivelazione. È vero ciò che è rivelato, ciò che è autorevole. Chi lo ha detto prima prevale su chi lo ha detto bene e lo dice sempre. L’autorità degli antichi viene prima della forza della ragione e l’autentica filosofia, quella che oltrepassa le nozioni comuni, riposa essenzialmente sull’ autorità di Dio, mentre le opinioni dei dottori di questo mondo riposano su delle autorità del tutto umane. E si arriva così all’idea di una rivelazione primitiva. Scrisse Clemente Alessandrino: Se vi è insegnamento è necessario che vi sia un maestro. Clemente riconosce Zenone, Teofrasto Aristotele e Platone Socrate. Ma se risalgo a Pitagora, a Ferecide, a Talete e ai primi sapienti io non smetto di cercare
il maestro di costoro. E se tu dici che sono gli Egiziani, gli Indiani, i Babilonesi e i Magi stessi, non smetterò di invocare il maestro di questi: così faccio risalire sino alla creazione dell’uomo. E lì ricomincio a cercare chi è il Maestro: non è uomo, perché non sono ancora stati istruiti; non è neppure un angelo: abbiamo appreso infatti che gli angeli stessi sono stati istruiti sulla verità. Resta essendo noi stati elevati al di sopra di noi stessi, di desiderare il maestro di costoro. (Stromata VI, 7)
Il fatto che Giustino, con il rimprovero ai Greci di aver plagiato la rivelazione cristiana, si metta a difesa della tradizione, dell’antichità, porta un autore come R. Holte a sostenere che non sia affatto documentabile l’opinione comune secondo cui Giustino ha cercato di riconciliare il cristianesimo con la filosofia antica o persino di creare una sintesi di entrambi.

HOLTE, 164: “The view that Justin has tried to reconcile Christianity with ancient philosophy or even to create a synthesis between them is indeed ill-supported by the material. He appears throughout as a theological traditionalist. The Logos spermatikos theory, terminologically an innovation, is nothing but an attempt to translate St. Paul’s doctrine on natural revelation, to the language of contemporary philosophy. This theory does not contradict the loan and demon theories, but all this serves the common purpose of presenting Christianity as the sole bearer of the whole and complete truth.” Diversa è l’opinione di Cantalamessa che scrive: “Giustino ha formulato con parecchio anticipo l’idea di un cristianesimo anonimo, o implicito, di cui si discute tanto animatamente ai nostri giorni. Senza integralismi di sorta, lasciando alla cultura greca il suo carattere profano, e contestandone anzi le insufficienze e le contraddizioni, egli ha trovato il modo di orientarli a Cristo, fondando razionalmente la pretesa di universalità della religione cristiana. Se l’Antico Testamento tende a Cristo come la figura (typos) tende, per dinamismo intrinseco, alla propria realizzazione (aletheia), dal canto suo la verità greca tende anch’essa a Cristo e al Vangelo, come la parte (meros) tende a riunirsi a tutto. Ecco perché essa non può opporsi alla verità evangelica e i cristiani possono attingervi con confidenza, come a un bene proprio.” Quanto fu detto di vero da chiunque appartiene a noi cristiani: questo principio non significa che tale vero è sottratto ai
pagani che ne sono i legittimi e fieri proprietari, ma semplicemente che ai cristiani è lecito attingervi. Non è dunque un tentativo di sequestro indebito di valori laici. Giustino non fa che tradurre sul piano culturale il detto di san Paolo: Tutto è vostro, perché voi siete di Cristo.” Cfr. R. CANTALAMESSA, Cristianesimo e valori terreni, Milano, 1978, 152–153.

Di fatto, Giustino, secondo Holte, sarebbe un teologo tradizionalista. La teoria del Logos spermatikós, una innovazione dal punto di vista terminologico, è nient’altro che un tentativo di tradurre la dottrina di san Paolo sulla rivelazione naturale in un linguaggio della filosofia contemporanea. Questa teoria non contraddice quelle del prestito e del demonio; ma tutte e tre le teorie servono il comune intento di presentare il cristianesimo come la sola depositaria della piena e totale verità.
La teoria del Logos spermatikós, sempre secondo Holte, non mira a dare un carattere di rivelazione ai sistemi religiosi o filosofici nella loro interezza.
Essa, di fatto, è limitata strettamente ad alcune concezioni, come per esempio talune concezioni di Dio, la falsità dell’idolatria, e anche talune concezioni morali di base. Giustino, perciò, non può essere indicato come colui che estese essenzialmente il contenute della concezione di san Paolo sulla rivelazione naturale.
La discussione sulla teoria del prestito è introdotta per spiegare le verità che non rientrano nella categoria delle concezioni poco prima menzionate.
Harnack sostiene che, in base a quanto Giustino scrive nella sua prima Apologia, tutte le verità in filosofia sono assolutamente riferite alla teoria dei prestiti. (A. von HARNACK, Lehrbuch der Dogmengeschichte I, Tübingen, 1909, 511)

Ma, se questo fosse vero, osserva dal suo canto Holte, non si potrebbe più sostenere la teoria del Logos spermatikós. Se d’altra parte si esamina il contesto generale dell’ Apologia di Giustino, si vede che il termine panta non ha questo significato così esaustivo. Giustino infatti specifica molto accuratamente le specie di dottrine alle quali si riferisce, e non menziona la falsità dell’idolatria e le concezioni morali di base: E tutto ciò che dissero i filosofi o i poeti circa l’immortalità dell’anima o le pene successive alla morte o alla contemplazione delle cose celesti o circa simili verità, hanno potuto pensarlo e hanno potuto esprimerlo,
poiché ne hanno derivato il principio della rivelazione. E’ in questo contesto che Giustino parla di “semi di verità”, ma con un’aggiunta molto importante: dokéin éinai, “sembra” che ci siano dei semi della verità in mezzo a tutte quelle. In realtà, i filosofi non hanno capito ciò che hanno letto e perciò anche in questo caso essi si sono contraddetti a vicenda.
La conclusione cui giunge Holte è questa: si può affermare che la concezione di Giustino sia che la teoria dei prestiti spiega l’origine solamente di verità simili o analoghe (analoghe alla dottrina cristiana), anche se la distinzione non può arrivare sino al punto di attribuire queste verità all’influsso del demonio.

HOLTE, 64: “from this it appears to be Justin’s view that the loan theory explains the origin of the seeming truths only (similarities to the Christian doctrines) although the distortion is not here of such a degree that it must be attributed to demons”.

Non si deve dimenticare, d’altra parte, la critica aspra di Giustino, nel Dialogo con Trifone, della versione platonica delle dottrine che sono state prese in considerazione: non accetta affatto la concezione platonica dell’immortalità dell’anima, non ammette che ci sia una punizione dopo la morte nella forma di metempsicosi. Infine, egli non accetta la contemplazione delle idee celesti, quando queste possono essere attinte con la capacità della ragione naturale. Daniélou condivide fondamentalmente questa interpretazione di Holte, secondo la quale, in ultima analisi, la ragione non farebbe conoscere che i principi del bene e del male e la falsità delle idolatrie, mentre i prestiti o i furti farebbero conoscere le dottrine più precise. Fa notare come Giustino, a tale riguardo, nomina Socrate in riferimento alla partecipazione del Logos, e Platone a proposito dei prestiti. Osserva, però, che “le formule sono assai generali e permettono di ammettere pure una duplice fonte per le stesse verità”. Giustino da una parte scrive: “tutti i principi giusti che i filosofi e i legislatori hanno espresso e scoperto, essi li debbono al fatto di aver conosciuto e contemplato parzialmente il Verbo” (Apologia II, X, 2.); e dall’altra: tutto ciò che i filosofi e i poeti hanno detto dell’immortalità dell’anima, dei castighi che seguono la morte, della contemplazione delle cose celesti e altre dottrine simili, essi ne hanno ricevuto i principi dai profeti. Presso tutti si trovano dei semi di verità. (Apologia I, 44). A parziale supporto di una collocazione di Giustino tra i teologi
tradizionalisti, si può portare anche la polemica di Celso contro il cristianesimo.
Gli argomenti della polemica di Celso sono intelligibili solo se considerati
come risposte all’apologetica di Giustino.

J. C. M. van WINDEN, “Le Christianisme et la philosophie. Le commencement du dialogue entre la foi et la raion”, in Kiriakón (Festschrift Johannes Quasten), I., Münster, 1970, 205–213. Per l’opera di Celso cfr. G. LANATA, prefazione a Il discorso vero, Milano, 1987, 27–28: “Celso avverte acutamente nei cristiani quella volontà di penetrazione della società pagana che avrebbe suggerito un paio di decenni dopo a Tertulliano l’affermazione trionfalistica: hesterni sumus et omnia vestra occupavimus, siamo nati ieri e ci siamo appropriati di tutti i vostri beni (Apologetico 37, 4) […] I cristiani pretendevano di sostituirsi a tutta la tradizione, sia a quella giudaica da cui provenivano, sia a quella ellenistica in cui si stavano installando; e al contempo si appropriavano, in modo distorto e contraffatto, di tutto il meglio che il passato poteva offrire, tentavano di rivendicare al cristianesimo l’intero patrimonio della tradizione giudaica e di quella ellenistica. È questo che suscita lo sdegno di Celso … Giustino per costruire la propria teologia della storia non aveva già usato gli identici passi cruciali del Timeo e della Lettera VII di Platone, su cui Celso, con tutto il medioplatonismo fondava la propria concezione della trascendenza di Dio? Essere spossessati dei valori della propria tradizione da un avversario che li snatura e in più ostenta una oltraggiosa superiorità è intollerabile.”

4. Conclusione
L’argomento dei ‘furta Graecorum’ è stato dunque, uno dei primi tentativi di inglobare la cultura pagana nella cultura cristiana, di spogliare d’ogni contenuto di originalità e validità la cultura pagana e di riservare invece esclusivamente alla cultura cristiana ogni originalità e ogni valore. Se qualcosa di valido e di buono e di bello sussiste all’interno delle tradizioni culturali pagane, questo è dovuto non ai valori insiti in quelle tradizioni, ma al fatto che quei valori sono cristiani. E precisamente sono valori cristiani “imprestati” o “rubati”. Il tentativo di risolvere il problema del rapporto cultura cristiana – cultura pagana in una specie di reductio ad unum mediante l’argomento dell’antichità, in base al quale i valori cristiani esistono prima dei valori pagani e perciò sono fondanti nei confronti di questi secondi è infelice. Chi si sforza, ancora oggi, per altre vie e con altre argomentazioni, di ripetere un’impresa analoga a quella degli apologeti, nell’intento di voler giustificare una cultura da cristiani, non può non incorrere nelle stesse aporie. In effetti, Giustino ha iniziato e Clemente ha sviluppato un atteggiamento di dialogo e di grande apertura nei confronti della cultura greca del loro tempo. L’atteggiamento di dialogo non era condiviso unanimemente da tutti i cristiani. C’erano coloro che “avevano paura di essere turbati nella loro fede e preferivano turarsi le orecchie per non udire le sirene.” (Stromata VI, 11)

Altri temevano la filosofia greca come i fanciulli l’orco, avendo paura di essere rapiti da essa. (Stromata V, 10). Altri ancora asserivano che bisogna attenersi alle cose necessarie e che riguardano la fede, e passar sopra alle cose strane e superflue, che ci affaticano inutilmente e trattengono in occupazioni che non riguardano per nulla la fede; la filosofia è stata introdotta nella vita da qualche cattivo inventore per nuocere agli uomini (Stromata I, 1). Altri, infine, “credendosi dotati di tutti i doni, giudicavano buona cosa non toccare la filosofia, o la dialettica, e neppure istruirsi sulla fisica, ma rivendicavano la fede, sola e pura” (Stromata I, 9).
Clemente Alessandrino tiene conto di tutti questi avversari che per “pusillanimità” o “ignoranza” rifiutano la cultura pagana e in modo particolare la filosofia greca. E si adopera a dimostrare che la filosofia è un aiuto a precisare il contenuto della fede e a evitare l’eresia. Il dato della fede ha bisogno di essere interpretato: “La delucidazione coopera con la tradizione della verità e la dialettica aiuta a non cadere nelle eresie che sopravvengono.” (Stromata I, 20)
Indubbiamente l’insegnamento di Gesù è totale e sufficiente, perché è potenza e
sapienza di Dio; la filosofia greca, aggiungendovi, non rende la verità più forte, ma rendendo impossibile l’assalto della sofistica contro di essa e respingendo gli attacchi insidiosi contro la verità, può essere chiamata giustamente una siepe e un muro della vigna. (Stromata I, 20)
La cultura greca e in modo particolare la filosofia sono state viste come propedeutiche alla fede, quasi come una specie di Antico Testamento per i Greci (Stromata I, 5). “I cristiani sono i filosofi di oggi e i filosofi erano i cristiani d’altri
tempi”, arriva a dire Minucio Felice (MINUCIO FELICE, Octavius 20, 1 – PL 3). Ma è indubitabile che in ogni pensatore cristiano di questi tempi convivono come due anime: quella cristiana piena di riserve verso una cultura tutta permeata di ideologia pagana e quella greca che ne è soggiogata e che sente di non poterne fare a meno.

È interessante rilevare l’atteggiamento dialettico del “sì, ma”, che san Basilio applicava già alla semplice lettura degli autori pagani, in Agli adolescenti, sulla lettura dei libri di autori pagani, PG 31, 563–590.

In definitiva un vero caso di coscienza per la Chiesa: un problema insoluto, almeno a livello teorico, fino ad Agostino. Una volta ammesso il valore positivo della paideia greca, incombeva a questi autori l’onere di una giustificazione della cultura. Ora, la giustificazione non consiste nel “funzionalizzare” la cultura alla fede, sia dal punto di vista apologetico che di quello sistematico, né nella “strumentalizzazione” di questa cultura per trasmettere il cristianesimo, “per rafforzare la fede con il ragionamento, partendo dalle nozioni comuni elaborate dalla filosofia greca.” (De Principiis 1, 7. Cfr. W. JAEGER, Cristianesimo primitivo e paideia greca, Firenze, 1966.)

Consiste nel riconoscere e accettare la cultura in quanto tale, come creatura che è buona in se stessa, secondo il giudizio di Dio Creatore: ‘e vide che era buono’. La bontà è nell’essenza delle cose e non nella loro finalizzazione o utilizzazione.
La fede nella creazione è ottimista, perché include nella sua logica la speranza nella consumazione. Se Cristo è il fine unico di tutto il creato, tutto è redimibile e salvabile. Respingendo il dualismo quanto all’origine e quanto alla fine (non vi sono né due principi né due fini), la Scrittura stabilisce virtualmente che l’ordine della grazia e della verità (Gv 1, 14), nella vita in pienezza di Cristo risorto, senza che ciò naturalmente equivalga all’identificazione pura e semplice della natura con la grazia, del profano e del sacro, del progresso e del regno di Dio.




P. John S. Romanides: La religione è una malattia neurobiologica. L’Ortodossia la cura!

Una chiave medica per la riunione della Chiesa.

 

“gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”

 (Mt 10,8)

 

Revisione della traduzione condotta sul testo inglese con l’ausilio di traduttori automatici.

Fotocopie, riproduzioni, stampe, citazioni sono caldamente suggerite ma senza scopi commerciali. La tradizione ortodossa non è una merce!

([1])

 La differenza fondamentale tra i tre Vangeli di Matteo, Marco e Luca da un lato e quello del Vangelo di Giovanni dall’altro[2] è dovuto alle due fasi della cura della malattia dell’Antico e del Nuovo Testamento, al secondo centro della personalità umana nel cuore che fa circolare il sangue, l’altro centro è il cervello o l’intelletto che fa parte del sistema del midollo spinale che fa circolare liquido spinale. È il cuore che ha bisogno di essere curato con la sua purificazione e illuminazione per consumarsi nella glorificazione di tutta la persona. I Vangeli di Matteo, Marco e Luca, accompagnati dai testi dell’Antico Testamento, in particolare quelli dei Salmi, sono stati utilizzati come parte del processo di purificazione e illuminazione dei cuori dei catecumeni, che si è consumato con la celebrazione della passione e crocifissione del Signore della Gloria in cui venivano battezzati il Sabato Santo. Questi battesimi furono seguiti dalla celebrazione della risurrezione di Cristo, seguita dall’Eucaristia pasquale, momento in cui il Vangelo di Giovanni iniziò a essere letto e interpretato fino alla domenica di Pentecoste in questo periodo di cinquanta giorni.

Durante questo periodo di istruzione giovannea ci si aspettava che uno progredisse dal proprio stato di purificazione del proprio spirito nel cuore alla sua illuminazione mediante preghiere e salmi incessanti in contrasto con preghiere e salmi dell’intelletto in determinati momenti. A questo punto si sapeva che stava diventando un membro del Corpo di Cristo mentre la preghiera nel cuore prendeva piede e rimaneva sempre presente incessantemente. Che uno avesse questa preghiera e l’abbia persa e si fosse così soddisfatto di averla significa che correva il pericolo di una perdita permanente poiché “la Pentecoste è l’evento mediante il quale la Chiesa dell’Antico Testamento divenne il Corpo di Cristo che ora include anche tutti gli antenati che erano stati illuminati e glorificati prima dell’incarnazione di Yahweh. Come nell’Antico Testamento, coloro che perseveravano nell’illuminazione del loro cuore sarebbero passati alla loro glorificazione che era la loro ordinazione al profetismo. Questo è il motivo per cui Giovanni Battista, già glorificato e ordinato profeta, fu nuovamente glorificato e questa volta sperimentò la strana realtà che stava battezzando Yaweh Stesso Incarnato. Sei giorni dopo aver detto che…alcuni che stanno qui… non assaporeranno la morte finché non vedranno il regno di Dio venire in potenza”[3], Cristo si rivelò di nuovo come Yaweh Incarnato a Pietro, Giacomo e Giovanni”[4].

Tali realtà bibliche non sono aperte alla corretta interpretazione di coloro i quali sono stati contaminati dalla distorsione fatta da Agostino della rivelazione di Dio fatta ai profeti sia dell’Antico che del Nuovo Testamento. Essere profondamente intimiditi dall’argomento ariano secondo cui la prova che il Logos è stato creato è il fatto che era visibile a coloro ai quali si è rivelato. In netto contrasto con la tradizione dell’Antico e del Nuovo Testamento e della Chiesa, Agostino ha inventato l’insegnamento che Dio apparve e fu ascoltato dai profeti e dagli apostoli per mezzo di creature che Dio fa esistere per essere visto e udito e che ritorna alla non esistenza dopo essere stato visto e udito. In netto contrasto con queste apparizioni divine dal nulla, affinché Dio possa essere visto e udito e che scompaiono nel nulla, fu solo la natura umana del Logos che rimase permanentemente in esistenza dopo la Sua incarnazione[5]. Tali presunte creature come la colomba al Battesimo di Cristo, il governo di Dio (erroneamente tradotto con ‘regno’) alla Trasfigurazione e le lingue di fuoco alla Pentecoste sono tra quelle creature che Dio fa esistere per essere viste, udite per poi scomparire dall’esistenza quando la loro missione è compiuta.

Durante questo tempo giovanneo di istruzione, ci si aspettava che i neo-battezzati entrassero nella fase dell’illuminazione del cuore con la preghiera incessante e i salmi, come spiega san Paolo, specialmente in 1Cor 12-15. Questo sarà il punto cardine di questo studio poiché è qui che abbiamo un profilo esoterico della realtà interiore della Chiesa primitiva adorante, guidata da apostoli, profeti e insegnanti la cui autorità era la loro stessa glorificazione (ndr. in greco theosis, in italiano spesso tradotto con divinizzazione) reciprocamente accettata.

Tutte le fantasie, specialmente quella religiosa, sono causate da un cortocircuito al centro della personalità umana. È questo cortocircuito che viene curato dall’illuminazione del cuore da parte di una preghiera incessante, distinta dalla preghiera intellettuale fatta con il cervello in determinati momenti. L’approfondimento di questa cura in San Paolo costituirà il cuore di questo studio.

Ripetiamo che quando l’illuminazione diventa glorificazione, allora sia gli uomini che le donne sono stati ordinati profeti. Questo è ciò che sono i profeti sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento e questo è ciò che rende Padri della Chiesa. Ciò che i profeti hanno visto nelle loro glorificazioni è Yaweh Stesso sia prima che dopo la Sua incarnazione.

 Questo cortocircuito, che deve essere curato, esiste tra il cuore, che pompa il sangue e il midollo spinale, che provoca la circolazione del liquido spinale. Tutte le fantasie sono radicate in questo cortocircuito che non è altro che un cortocircuito elettrico. Questa malattia isola le sue vittime dalla realtà a vari livelli. A causa di questa malattia non sempre si distingue tra realtà e fantasie. Forse la più pericolosa di queste fantasie sono le religioni che affermano di avere scritti dettati da Dio che sono compresi da una casta di cosiddetti capi ispirati. È per mezzo delle fantasie umane che gli esseri umani rimangono prigionieri del potere demoniaco manifestato specialmente nelle religioni. Solo i ciechi non vedono il fatto che le religioni sono una delle principali fonti di disordini sociali.

Tuttavia, all’interno della tradizione dell’Antico e del Nuovo Testamento, tali cosiddetti capi ispirati costituiscono una distorsione di ciò che si accettava nella Chiesa primitiva durante il proprio percorso di catecumenato, mentre si attraversano le fasi della purificazione e dell’illuminazione del proprio cuore nel cammino verso glorificazione. La stessa illuminazione del proprio cuore mediante incessanti preghiere e salmi diventa la propria testimonianza di essere sulla retta via della glorificazione. Coloro che pretendono di aver raggiunto l’illuminazione e la glorificazione non possono ingannare i veri profeti. I due criteri fondamentali dei falsi profeti sono che “è impossibile esprimere Dio e ancor più impossibile concepirlo” e che “non c’è alcuna somiglianza tra il creato e l’increato”. I falsi profeti sono facilmente individuabili dalle loro trasgressioni di questi due criteri fondamentali che Agostino ripetutamente trasgredisce.

In netto contrasto con questi criteri, la maggior parte della dottrina e dell’interpretazione della Bibbia appartiene al regno della fantasia, semplicemente perché coloro che si occupano di questi argomenti sono stati educati a credere che le loro stesse fantasie appartengano al regno del dono della fede. I loro capi, che non hanno la minima conoscenza della vera esistenza dell’illuminazione del cuore e della glorificazione, qui e ora in questa vita, convincono i loro fedeli che la loro stessa fede è la prova che sono sulla via della salvezza. La natura stessa del Movimento Ecumenico per l’Unità dei Cristiani non ha ancora nemmeno intravisto la possibilità che la chiave dell’unità sia la cura della preghiera incessante nel cuore e della glorificazione.

È il cortocircuito in questione che minimizza il livello della propria comunione con la gloria increata di Dio che satura e governa la creazione. Tutti gli esseri creati partecipano alle increate creative e sostenenti energie (tr. attività) di Dio che sono chiamate collettivamente Sua gloria e governo dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Questa è la realtà che sottolinea l’Antico e il Nuovo Testamento e l’ebraismo e il cristianesimo primitivi e i Nove Concili ecumenici convocati dall’imperatore romano che governò da Costantinopoli, Nuova Roma, fino alla conquista dei turchi ottomani nel 1453. Sebbene l’Impero Romano sia poi scomparso, la pratica della cura del cuore mediante la sua purificazione e illuminazione che porta alla glorificazione non è scomparsa, almeno ancora. Sapremo che l’ultimo essere glorificato è morto quando la società umana sarà morta.

Il cortocircuito che esiste tra il cuore che pompa il sangue e il midollo spinale che fa circolare il liquido spinale viene riparato dalla preghiera incessante nel cuore. È solo quando il proprio cortocircuito viene così riparato che si comincia a essere liberati dal regno delle fantasie in base al quale il diavolo governa la società umana.

La comunione umana con le energie increate di Dio, che saturano la creazione, è accresciuta dall’energia purificatrice, illuminante e glorificante di Dio. In netto contrasto con la glorificazione biblica, la tradizione platonica e aristotelica, secondo cui la felicità come destino supremo di una persona è in realtà l’inferno stesso, cioè la completa soddisfazione dei propri desideri egocentrici.

Il risultato più importante della glorificazione è la rivelazione che «non c’è alcuna somiglianza tra il creato e l’increato» e che «è impossibile esprimere Dio e ancor più concepirlo». In altre parole, la Bibbia stessa non è né un’espressione di Dio né è una concezione di Dio. Solo nelle mani dei glorificati può essere usata per guidare gli altri alla cura della purificazione e dell’illuminazione del cuore e della glorificazione. Nelle mani di medici ciarlatani conduce le loro vittime alla loro distruzione.

Per diventare membro del Corpo di Cristo si inizia con la fede dell’accoglienza durante la fase della purificazione del cuore. Questa fede deve diventare fede interiore, come testimonia la preghiera incessante. È la preghiera incessante nel cuore che testimonia il fatto che si è cominciato a diventare membra del Corpo di Cristo. Tuttavia, arrivare allo stato di illuminazione e quindi alla soglia della glorificazione significa che il Signore della Gloria ci sta accogliendo nella sua glorificazione per nostro bene ma, soprattutto, per il bene degli altri. Essendo stato glorificato si ritorna per illuminare “l’uomo”[6].

 ([7])

Il Primo e il Secondo Concilio Ecumenico hanno condannato la posizione ariana ed eunomiana secondo cui l’Angelo Yahweh della Gloria e il Suo Spirito sono la prima creazione di Dio prima dei secoli. Questi Concili sostenevano invece la posizione che l’Angelo del Gran Consiglio e lo Spirito Santo sono consustanziali al Padre.

Il IX Concilio Ecumenico del 1341, secondo il diritto romano, condannò l’insegnamento agostiniano di Barlaam il Calabrese, senza rendersi conto della sua fonte, che Dio si rivela per mezzo delle creature che Egli fa esistere – GENOMENA in greco – per essere visto e ascoltato e che li richiama nella non esistenza – APOGENOMENA in greco – quando le loro missioni sono compiute. Ciò che questi Padri conciliari non sapevano nel 1341 era che questi insegnamenti erano quelli dello stesso Agostino più e più volte affermati chiaramente nei suoi libri II e III del suo De Trinitate, come abbiamo visto. Ciò significa che il Vaticano accetta da secoli i Concili Ecumenici Romani della Nuova Roma all’interno di categorie agostiniane. La domanda davanti a noi è se i membri luterani e ortodossi di questo dialogo seguano Agostino o i Padri di questi Concili romani[8].

Dobbiamo avere una visione chiara del contesto in cui Chiesa e Stato hanno visto il contributo dei Profeti alla cura della malattia della personalità umana e alla sua perfezione, per comprendere sia la missione dei Sinodi che il motivo per cui l’Impero Romano li ha inseriti nel proprio codice di diritto. Né la Chiesa né lo Stato hanno ridotto la missione della Chiesa alla salvezza mediante il perdono dei peccati per l’ingresso in cielo dopo la morte. Questo sarebbe identico ai medici che perdonano i loro pazienti per essere malati in modo che possano essere curati dopo la morte. Sia la Chiesa che lo Stato sapevano molto bene che il perdono dei peccati era solo l’inizio della cura della malattia dell’umanità che cerca la felicità. Questa cura è passata attraverso la purificazione e l’illuminazione del cuore ed è culminata nella perfezione della glorificazione.

a) Paradiso e Inferno.

 Tutti vedranno la gloria di Dio in Cristo e raggiungeranno quel grado di perfezione che uno ha scelto e per il quale ha lavorato. Seguendo san Paolo e il Vangelo di Giovanni, i Padri sostengono che coloro che non vedono il Cristo risorto in gloria in questa vita, o in maniera offuscata come in uno specchio per le incessanti preghiere e salmi nel cuore, o faccia a faccia nella glorificazione, vedranno la sua gloria come fuoco eterno e consumante e oscurità esteriore nell’altra vita. La gloria increata che Cristo ha per natura dal Padre è il paradiso per coloro il cui amore egoistico è stato curato e trasformato in amore disinteressato, e l’inferno per coloro che scelgono di rimanere non guariti nel loro egoismo.

Non solo la Bibbia e i Padri sono chiari su questo, ma lo sono anche le icone ortodosse dell’ultimo giudizio. La stessa luce dorata di gloria in cui sono avvolti Cristo e i suoi amici diventa rossa mentre scorre verso il basso per avvolgere i dannati. Questa è la gloria e l’amore di Cristo che purifica i peccati di tutti ma non glorifica tutti. Tutti gli esseri umani saranno guidati dallo Spirito Santo in tutta la Verità che è vedere Cristo nella gloria, ma non tutti saranno glorificati. “Quelli che ha giustificato li ha anche glorificati”, secondo san Paolo (Rm 8,30). È chiara la parabola di Lazzaro in seno ad Abramo e del ricco nel luogo del tormento. Il ricco vede ma non partecipa (Lc 16,19-31).

La Chiesa non manda nessuno in paradiso o all’inferno, ma prepara i fedeli alla visione di Cristo nella gloria, che tutti avranno. Dio ama i dannati tanto quanto ama i suoi santi. Vuole la cura di tutti ma non tutti accettano la Sua cura. Ciò significa che il perdono dei peccati non è una preparazione sufficiente per vedere Cristo nella gloria.

Inutile dire che la tradizione anselmiana per cui i salvati sono coloro i quali Cristo avrebbe riconciliato con Dio non è un’opzione all’interno della tradizione ortodossa. Commentando 2 Cor 5,19, per esempio, san Giovanni Crisostomo dice che bisogna “riconciliarsi con Dio. Paolo non ha detto: ‘Riconciliate Dio con voi stessi’, perché non è lui che odia, ma noi. Perché Dio non odia mai”.

È in questo contesto che lo Stato ha compreso la missione di cura della Chiesa nella società. Altrimenti le religioni che promettono felicità dopo la morte non sono molto diverse l’una dall’altra.

b) La finestra di Paolo sulla Chiesa[9].

 1 Cor 12-15 è una finestra unica attraverso la quale si può guardare alla realtà della Chiesa come Corpo di Cristo. L’appartenenza alla Chiesa ha i suoi gradi di cura e perfezione all’interno di due gruppi, gli illuminati e i glorificati. Le membra del Corpo di Cristo sono chiaramente elencate in 1 Cor 12,28. Si inizia diventando un credente comune, individuale (idiotes) che dice “amen” durante la partecipazione al culto collettivo. In questa fase si è impegnati nella purificazione del proprio cuore sotto la direzione di coloro che sono già templi dello Spirito Santo e membra del Corpo di Cristo.

I gradi di illuminazione iniziano con il carisma di fondazione dei “tipi di lingue” in basso all’ottavo posto e arrivano fino ai “maestri” al terzo posto. A capo della Chiesa locale ci sono al secondo posto i “Profeti”, che hanno ricevuto la stessa rivelazione degli “Apostoli” (Ef 3,5), e sono insieme a loro il fondamento della Chiesa (Ef 2,20). Apostoli e profeti sono il fondamento della Chiesa in un modo simile ai medici che sono il fondamento degli ospedali.

I “tipi di lingue” sono le fondamenta su cui sono costruiti tutti i carismi e sono temporaneamente sospesi solo durante la glorificazione (1 Cor 13,8). Come apostolo, san Paolo si pone a capo della lista dei membri che Dio ha posto nella Chiesa. Eppure ha ancora il carisma fondamentale dei “tipi di lingue”. Scrive: «Ringrazio Dio in lingue più di tutti voi» (1 Cor 14,18). Ciò significa che i “tipi di lingue” appartengono a tutti i livelli di carisma all’interno del Corpo di Cristo. La domanda di Paolo, “parlano tutti in lingue?” è un riferimento ai “privati” che non hanno ancora il dono delle lingue e quindi non sono ancora membra del Corpo di Cristo e templi dello Spirito Santo[10].

L’illuminazione e la glorificazione delle membra del Corpo di Cristo non sono gradi di autorità per nomina o elezione umana. Sono coloro che Dio prepara e pone all’interno della Chiesa per l’avanzamento a gradi più elevati di cura e perfezione. Che Paolo inviti tutti i gradi inferiori di appartenenza al Corpo di Cristo a cercare l’avanzamento a stadi spirituali superiori significa chiaramente che tutti dovrebbero diventare Profeti, cioè raggiungere la glorificazione. “Voglio davvero che tutti voi parliate in lingue, affinché possiate profetizzare” (1 Cor 14,5).

c) Clinica Psichiatrica.

Questa Chiesa Paolina è come una clinica psichiatrica. Ma la sua comprensione della malattia della personalità umana è molto più sofisticata di qualsiasi cosa ora sia conosciuta nella medicina moderna. Per vedere questa realtà dobbiamo guardare attraverso Paolo nella comprensione biblica della normalità e dell’anormalità umane. L’essere umano normale è colui che è stato condotto in tutta la Verità dallo Spirito di Verità, cioè nella visione di Cristo nella gloria di Suo Padre (Gv 17). È perché gli apostoli e i profeti sono glorificati in Cristo che le persone credono che Dio ha mandato suo Figlio e che anche loro possono essere curate dall’amore disinteressato (ibid.). Gli esseri umani che non vedono la gloria increata di Dio non sono normali. «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rm 3,23). In altre parole, l’unico essere umano nato normale è il Signore della Gloria. Il quale per scelta assunse le passioni irreprensibili (cioè la fame, la sete, la stanchezza, il sonno, la paura della morte, ecc.), sebbene fosse per natura la fonte della gloria, che li abolisce..  

L’altro lato di questa medaglia è che Dio non rivela a tutti la sua gloria perché non vuole fare del male a coloro che non sono preparati a tale visione. La sorpresa dei profeti dell’Antico Testamento di aver visto Dio e tuttavia continuare vivere e la richiesta del popolo che Mosè chieda a Dio di cessare di mostrare la sua gloria, che era diventata insopportabile, è evidente a questo riguardo.

La preoccupazione delle Chiese apostoliche non era quella di riflettere e speculare su Dio in sé, poiché rimane un mistero per l’intelletto anche quando rivela la sua gloria in Cristo a coloro che partecipano al mistero della croce di suo Figlio con la loro glorificazione. La loro unica preoccupazione era la guarigione di ciascuno in Cristo, che è operata dalla purificazione e dall’illuminazione del cuore e dalla glorificazione in questa vita (1 Cor 12,26) per il servizio alla società. “… Coloro che ha giustificato, li ha anche glorificati” (Rm 8,30) significa che l’illuminazione e la glorificazione sono interdipendenti in questa vita, ma non identiche.

La malattia della personalità umana consiste nell’indebolimento della comunione del cuore con la gloria di Dio (Rm 3,23), nel suo essere sommerso dai pensieri dell’ambiente (Rm 1,21-24 – 2,5).  In un tale stato si immagina che Dio sia a immagine del proprio io malato o addirittura degli animali (Rm 1,22). La persona interiore (eso anthropos) subisce la morte spirituale «a causa della quale (eph’ho)[11] tutti hanno peccato» (Rm 5,12) divenendo schiavi dell’istinto di autoconservazione che deforma l’amore con il suo vincolo alla ricerca egocentrica della sicurezza e della felicità.

La cura di questa malattia inizia con la purificazione del cuore da tutti i pensieri (Rm 2,29), buoni e cattivi, e la loro restrizione all’intelletto. Per fare questo lo spirito dissipato nel cervello deve trasformarsi con la preghiera in una sfera di luce e ritornare al cuore. Diventa come un dischetto riparato da cui i testi di preghiera dal cervello possono essere trasferiti per ritornare di nuovo al cervello. Si diventa così liberi dalla schiavitù di tutto ciò che c’è nell’ambiente, ad esempio dall’autoindulgenza, dalla ricchezza, dalla proprietà e persino dai propri genitori e parenti (Matteo 10,37; Luca 14,26). Lo scopo di questo non è raggiungere l’indifferenza stoica o la mancanza di amore, ma, per permettere al cuore di accettare le preghiere e i salmi che lo Spirito Santo vi trasferisce dall’intelletto ed energizza incessantemente mentre l’intelletto è occupato con le attività quotidiane e mentre dorme. È così che l’amore malato inizia la sua guarigione.

Questo è il contesto del riferimento di san Paolo allo Spirito Santo che prega nel cuore. Lo Spirito Santo in quanto tale è l’avvocato difensore di tutti gli esseri umani “con sospiri non pronunciati” (Rm 8,26). Ma Egli trasferisce le preghiere e i salmi dell’intelletto allo spirito umano nel cuore quando è purificato da tutti i pensieri, buoni e cattivi. A questo punto il proprio spirito potenziato dallo Spirito Santo non fa altro che pregare e recitare salmi incessantemente mentre l’intelletto si impegna nelle sue normali attività quotidiane liberato dall’egocentrismo alla ricerca della felicità. Così si prega incessantemente con lo spirito nel cuore e si prega con l’intelletto in determinati momenti. Questo è ciò che intende Paolo quando scrive: “Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelletto. Reciterò salmi con lo spirito, ma reciterò anche salmi con l’intelletto” (1 Cor 14,15)

Paolo ci ha appena detto che la preghiera per mezzo di lingue diverse dalla propria include i salmi dell’Antico Testamento. Non sta quindi parlando di preghiere udibili ma incomprensibili poiché i salmi erano familiari a tutti. Paolo parla delle preghiere del proprio spirito nel cuore che sono udibili solo da coloro che hanno questo stesso carisma dei “tipi di lingue”. Coloro che non avevano ancora questo dono non potevano ascoltare le preghiere e i salmi nel cuore di coloro che avevano questo dono.

I Corinzi nello stato di illuminazione avevano introdotto l’innovazione di condurre il culto collettivo nel cuore alla presenza degli “individui comuni” che non avevano ancora ricevuto questo dono dei “tipi di lingue”. Ciò rendeva impossibile per questi “individui comuni” essere edificati e dire il loro “amen” al momento opportuno semplicemente perché non potevano sentire.

Paolo afferma chiaramente che “nessuno ascolta”, (1 Cor 14,2). “se vengo da te parlando in lingue, a che ti gioverò se non ti parlo?” (ibid. 14,6-7). Perché se la tromba emette un suono non manifestato, chi preparerà la battaglia? Così anche tu, se non dai una parola ben formata per mezzo della lingua, come si conoscerà ciò che è detto?… Così tanti può capitare che siano i tipi di suoni del mondo e nessuno è senza suono. Perché se non conosco la forza del suono, sarò un estraneo per chi parla e chi parla un estraneo per me”. (1 Cor 14,8-11). Coloro che non hanno il dono dei “tipi di lingue” devono ascoltare la “forza del suono” delle preghiere e dei salmi per reagire con il loro “amen” (ibid. 14,11.16). Non si deve pregare e recitare salmi con “suono non manifesto” alla presenza di coloro che non hanno questo dono delle lingue (ibid. 14,10-11). «Poiché voi rendete bene grazie, ma l’altro non è edificato» (ibid. 14,17).

Quando Paolo dice: «Chi profetizza è più grande di chi parla in lingue, se non si interpreta perché la chiesa riceva l’edificazione» (1 Cor 14,5), intende dire che chi parla solo in lingue deve imparare a tradurre i salmi e le preghiere del suo cuore in salmi e preghiere del suo intelletto da recitare udibilmente. Quando impara così a pregare e a recitare i salmi contemporaneamente con il suo spirito e il suo intelletto, può quindi partecipare al ringraziamento collettivo a beneficio degli “individui comuni” che sapranno quando dire il loro Amen. “Così chi parla in lingue preghi di poter tradurre. Perché se prego in lingua, il mio spirito prega, ma il mio intelletto è senza frutto. Allora qual è (la situazione)? Pregherò con lo spirito, ma lo farò pregando anche con l’intelletto, reciterò i salmi con lo spirito, ma reciterò anche salmi con l’intelletto. Perché se benedici con lo spirito, come dirà l’Amen al tuo ringraziamento colui che occupa il posto del comune uditore? Perché non sa cosa dici. Ringrazi bene, ma l’altro non è edificato. Ringrazio Dio con la lingua più di tutti voi, ma in chiesa preferisco dire cinque parole con il mio intelletto, per istruire gli altri, piuttosto che diecimila parole con la lingua» (1 Cor 14,13-19).

Paolo non dice mai che uno interpreta in lingue ciò che un altro sta dicendo. Si interpreta in lingue ciò che egli stesso dice. In ogni caso in cui Paolo mette in relazione il “parlare in lingue” con la “traduzione”, è sempre colui che ha il dono delle lingue che traduce sé stesso per essere ascoltato udibilmente a beneficio dei “comuni individui”. È in questo contesto che Paolo comanda che “se uno parla in lingue, deve essere raggruppato in due o tre e che uno traduca. Se non c’è un traduttore, taccia in chiesa, parli con sé stesso e a Dio» (1 Cor 14,27-28). L’interprete è chiaramente colui che ha il dono di tradurre le proprie preghiere dal proprio spirito nel proprio cuore nel proprio intelletto affinché diventino udibili per l’edificazione degli altri. Altrimenti deve tacere e limitarsi a pregare in lingue come fanno anche gli altri, ma anche udibilmente. Paolo priva così coloro che hanno solo il dono dei tipi di lingue del loro potere maggioritario di imporre la loro innovazione di preghiere collettive solo con le lingue alla presenza dei “comuni individui”.

Paolo parla di salmi e preghiere non recitate con la propria lingua, ma ascoltate provenire dal cuore. Questa illuminazione del cuore neutralizza la schiavitù dell’istinto all’autoconservazione e inizia la trasformazione dell’amore possessivo in amore disinteressato. Questo è il dono della fede alla persona interiore che è la sua giustificazione, riconciliazione, adozione, pace, speranza e vivificazione.

Queste incessanti preghiere e salmi nel cuore (Ef 5,18-20), altrimenti detti “tipi di lingue” (1 Cor 12,28), trasformano il comune uditore in tempio dello Spirito Santo e membro del Corpo di Cristo. Sono l’inizio della propria liberazione dalla schiavitù dell’ambiente, non ritirandosi da esso, ma controllandolo, non sfruttandolo, ma con amore disinteressato. È così che «la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte…. Se uno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Se Cristo è in te, allora il corpo è morto al peccato, mentre lo Spirito è vita per la giustificazione…». (Rom. 8:2ss).

Poiché l’amore viene curato dalla perfezione, si ricevono i carismi superiori elencati da Paolo in 1 Cor 12,28 che si consumano nella glorificazione. Paolo afferma che «se uno è glorificato, tutte le membra si rallegrano» (1 Cor 12,26) per spiegare perché i profeti sono secondi agli apostoli e prima di tutte le altre membra del corpo di Cristo. Essere giustificati dalle preghiere e dai salmi dello Spirito Santo nel cuore è vedere Cristo in uno specchio offuscato (1 Cor 13,12). La glorificazione è la venuta del “Perfetto” (1 Cor 13,10) vedendo Cristo faccia a faccia (1 Cor 13,12). Nel dire: “Ora so in parte” (ibid.) Paolo si riferisce al suo attuale stato di illuminazione o giustificazione. Con la sua frase successiva, “ma allora sarò conosciuto come sono stato conosciuto” (ibid.), Paolo sta dicendo che sarà glorificato come era stato glorificato. Nello stato di illuminazione si è bambini. Una volta glorificato, si torna a illuminare l’uomo (1 Cor 13,11).

Durante la glorificazione, che è rivelazione, la preghiera nel cuore (lingue), la conoscenza e la profezia, insieme alla fede e alla speranza, sono abolite poiché sostituite da Cristo stesso. Solo l’amore non viene meno (1 Cor 13,8-11). Durante la rivelazione le parole e i concetti su e verso Dio (preghiere) vengono aboliti. Dopo la glorificazione si ritorna all’illuminazione. Conoscenza, profezia, lingue, fede e speranza tornano ad unirsi all’amore che non era finito. Quelle parole e concetti usati nella preghiera e nell’insegnamento da un glorificato per condurre altri alla glorificazione sono ispirati e devono essere aboliti nella glorificazione.

È questa visione del Cristo risorto in gloria che Paolo ebbe e che pone a capo (1 Cor 12,28) e fondamento (Ef 2,20) della Chiesa gli Apostoli e i Profeti. Questo fondamento include donne profeta (Atti 2,17, 21,9, 1 Cor. 11,5) ed è il contesto dell’affermazione di Paolo che in Cristo non c’è né maschio né femmina (Gal 3,28). La glorificazione non è un miracolo, ma la normale fase finale della trasformazione dell’amore egoistico in amore disinteressato. Sia Paolo che Giovanni considerano chiaramente la visione di Cristo in gloria in questa vita come necessaria per la perfezione dell’amore e del servizio alla società (Gv 14,21-24, 16,22, 17,24, 1 Cor 13,10-13, Ef 3,3-6). Le apparizioni del Cristo risorto in gloria non erano e non sono miracoli per sbalordire gli osservatori facendoli credenti nella Sua divinità. Il miracolo fu la crocifissione del Signore della Gloria, non la Sua risurrezione. Il Cristo risorto appare solo per la perfezione dell’amore, anche nel caso di Paolo che era giunto alla soglia della glorificazione (Gal 1,14ss), non conoscendo il Signore della Gloria che stava per vedere nato, crocifisso e risorto. In 1 Cor 15,1-11 ci sono le glorificazioni che completano il trattamento paolino dei doni spirituali iniziato in 1 Cor 12,1.

 Tutti i glorificati nella storia sono uguali agli Apostoli nella loro partecipazione alla Pentecoste perché anch’essi sono stati guidati in tutta la Verità (At 10,47-11,18). Tutta la Verità è il Cristo risorto ed asceso che ritornò nelle lingue di fuoco increate della Pentecoste per dimorare con Suo Padre nei fedeli che sono diventati templi del Suo Spirito custodendolo nei loro cuori. Ha così fatto della Chiesa il suo corpo contro il quale non possono più prevalere le porte della morte.

La glorificazione è la partecipazione sia dell’anima che del corpo all’immortalità e all’incorruttibilità per la perfezione dell’amore. Questo può essere di breve o lunga durata. Dopo un iniziale smarrimento dell’orientamento si procede nel proprio lavoro quotidiano vedendo tutto saturato dalla gloria di Dio che non è né luce né tenebre, né simile a nulla di creato. Le passioni, che erano state neutralizzate e rese irreprensibili dall’illuminazione, sono abolite. Durante la glorificazione non si mangia, non si beve, non si dorme o si fatica e non si è colpiti dal caldo o dal freddo. Questi fenomeni nella vita dei santi (profeti) sia prima che dopo l’incarnazione del Signore della Gloria non sono miracoli ma il ripristino degli esseri umani alla normalità. È in questo contesto che si collocano tali detti di Cristo ai vivi, ma malati, che «i gerontologi hanno concluso che il processo di invecchiamento è una malattia e stanno esaminando se anche la morte stessa sia una malattia. A questo riguardo sia i glorificati che le loro reliquie dovrebbero risultare interessanti poiché molte centinaia di loro rimangono con il corpo intatto per secoli in uno stato intermedio tra corruzione e incorruttibilità. Uno degli esempi più antichi è San Spiridione sull’isola di Corfù che fu padre del Primo Concilio Ecumenico nel 325. Ce ne sono 120 solo a Kiev.

Questo è il contesto dell’affermazione di Paolo che «anche questa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, la libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). È chiaro dal contesto che “la libertà della gloria” è qui libertà dalla mortalità e dalla corruzione. Ma anche coloro la cui persona interiore è stata adottata dall’illuminazione e che hanno assaporato l’immortalità fisica e l’incorruttibilità durante e limitatamente al periodo della loro glorificazione attendono «l’adozione, la liberazione del nostro corpo» (Rm 8,23). “I morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo cambiati… questo corruttibile vestirà l’incorruttibilità e questo mortale vestirà l’immortalità…”. (1 Cor 15,53-54). Lo si sa non dalla speculazione sui testi biblici, ma dall’esperienza della glorificazione, cioè dalla «libertà della gloria dei figli di Dio». L’esperienza della glorificazione e non solo i testi biblici è alla base della fede della Chiesa nella risurrezione fisica della parte biologica della persona.

d) Non del mondo ma nel mondo.

La distinzione tra vita attiva e vita contemplativa non esiste all’interno del Corpo di Cristo. Il dono dello Spirito Santo di incessanti preghiere e salmi nel cuore rende impossibile una tale distinzione. Può esistere solo al di fuori del Corpo di Cristo.

Nessuno può dire Signore Gesù nel cuore se non mediante lo Spirito e nessuno può dire “Gesù è anatema” nello Spirito (1 Cor 12,3). Questa è la spiritualità biblica e patristica e il potere con cui era impossibile torturare un tempio dello Spirito Santo facendogli rinunciare a Cristo. Tale rinuncia provava semplicemente che non si era stati membri della Chiesa. La missione primaria dei templi dello Spirito Santo era di lavorare in qualunque professione fossero impegnati e di cercare di trasmettere la propria cura agli altri. Hanno letteralmente lavorato nelle loro società in una capacità simile a quella degli psichiatri. Diversamente da loro, tuttavia, non cercavano l’equilibrio mentale mediante la conformità agli standard sociali della normalità. Il loro standard di normalità era la glorificazione. Il loro potere curativo non era e non è di questo mondo.

e) Teologia e dogma.

Tutti coloro che sono giunti alla glorificazione testimoniano che «è impossibile esprimere Dio e ancor più impossibile concepirlo» perché sanno per esperienza che non c’è alcuna somiglianza tra il creato e l’increato. Dio è “motore immobile” che “muove” e “né uno, né unicità né unità, né divinità… né filiazione, né paternità, ecc.”, nell’esperienza della glorificazione. La Bibbia e i dogmi sono ‘guide per’ e sono aboliti durante la glorificazione. Non sono fini a se stessi e non hanno nulla a che vedere con la metafisica, né con l’analogia entis né con l’analogia fidei. Ciò significa che le parole e i concetti che non contraddicono l’esperienza della glorificazione e che portano alla purificazione e all’illuminazione del cuore e alla glorificazione sono ortodossi. Parole e concetti che contraddicono la glorificazione e allontanano dalla cura e dalla perfezione in Cristo sono eretici.

Questa è la chiave delle decisioni di tutti i Sette Concili Ecumenici Romani così come quella dell’Ottavo dell’879 e soprattutto del Nono del 1341.

La maggior parte degli storici del dogma non lo vede perché credono che i Padri, come Agostino, cercassero attraverso la meditazione e la contemplazione di comprendere il mistero di Dio dietro le parole e i concetti su di Lui. Introducono anche padri come Gregorio il Teologo nell’esercito della teologia latina, traducendolo per dire che a filosofare su Dio è permesso solo ai “maestri di meditazione del passato”, invece che “a coloro che sono passati alla theoria”, che è visione di Cristo “in uno specchio offuscato”, per “tipi di lingue” e “faccia a faccia” in “glorificazione”.

I Padri non hanno mai inteso la formulazione del dogma come parte di uno sforzo per comprendere intellettualmente il mistero di Dio e l’incarnazione. San Gregorio Teologo mette in ridicolo tali eretici: «Dimmi, dice, qual è l’ingenerazione del Padre, e io ti spiegherò la fisiologia della generazione del Figlio e della processione dello Spirito, e lo faremo entrambi impazziti per aver curiosato nel mistero di Dio».

Né i Padri hanno mai accolto l’idea agostiniana che la Chiesa comprenda meglio la fede con il passare del tempo. Ogni glorificazione è partecipazione a tutta la Verità della Pentecoste, che non può essere né aggiunta né meglio compresa.

Ciò significa anche che la dottrina ortodossa è puramente pastorale poiché non esiste al di fuori del contesto della cura dei mali e della perfezione individuale e sociale.

Essere un teologo è prima di tutto essere uno specialista delle vie del Diavolo. L’illuminazione e soprattutto la glorificazione trasmettono il carisma del discernimento degli spiriti per aver ingannato il Diavolo, specialmente quando ricorre all’insegnamento della teologia e della spiritualità a coloro che sfuggono alla sua presa.

f) I misteri.

Il risultato più importante della franco-latinizzazione dell’educazione teologica ortodossa del XVIII e XIX secolo è stata la scomparsa del contesto dell’esistenza stessa della Chiesa nella purificazione, illuminazione e glorificazione dai Manuali dogmatici, e specialmente i capitoli sui Misteri. Questi manuali non erano a conoscenza del fatto biblico e patristico che il carisma del presbiterato presupponeva lo stato di profezia. “…non trascurare il carisma che è in te che ti è stato dato per mezzo della profezia con l’imposizione delle mani del presbiterato (1 Tm 4,14)”.

g) Profeti e intellettuali.

La creazione dipende completamente da Dio sebbene non vi sia alcuna somiglianza tra di loro. Ciò significa che non c’è alcuna differenza tra il colto e il non educato quando entrambi stanno passando attraverso la cura dell’illuminazione nel loro cammino per diventare profeti mediante la glorificazione. Una conoscenza superiore sulla realtà creata non dà alcuna pretesa speciale sulla conoscenza dell’increato. Né l’ignoranza sulla realtà creata è uno svantaggio per raggiungere la più alta conoscenza della realtà increata.

h) Profeti e Papi.

Dei cinque Patriarcati romani, i Franchi conquistarono quello di Roma e sostituirono i Papi romani con Papi teutonici con la forza militare durante una lotta iniziata nel 983 e terminata nel 1046. Estesero così il loro controllo della successione apostolica al Papato come parte dei loro piani per il dominio del mondo. Trasformarono i Padri romani in greci e latini e si attaccarono a questi ultimi, inventando così l’idea di due cristianità. Per l’Islam il papato è ancora latino e franco, e i patriarchi di Nuova Roma, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme sono ancora romani. L’ignoranza su chi e cosa sono i glorificati e perché sono secondi e successori degli Apostoli ha creato il vuoto che è stato riempito dall’infallibilità del Papa latino.

i) Profeti e Padri.

Gregorio di Nissa informa i suoi lettori che le eresie compaiono in quelle chiese che non hanno profeti. La ragione è che i loro capi tentano di entrare in comunione con Dio mediante la meditazione e la contemplazione su di Lui invece che mediante l’illuminazione e la glorificazione. Confondere i propri concetti su Dio con Dio è idolatria, per non parlare del cattivo metodo scientifico.

A proposito di apostoli e profeti dice san Paolo: «La persona spirituale esamina tutto, ma non è esaminato da nessuno» (1 Cor 3,15). La ragione di ciò è che, mediante la loro glorificazione nella gloria increata di Dio in Cristo, essi divennero testimoni del fatto che «i capi di questo tempo» «hanno crocifisso il Signore della gloria» (1 Cor 2,8). Questo è lo stesso Signore della Gloria (l’Angelo del Gran Consiglio), che si chiama “Colui che è, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe”, l’Onnipotente, la Sapienza di Dio, la Roccia che seguì (1 Corinzi 10,1-4), che videro i profeti dell’Antico Testamento. San Giovanni Battista fu il primo dei Profeti a vedere questo stesso Signore della Gloria nella Carne. Naturalmente anche i Giudei, che formalmente credevano nel Signore della Gloria, «se avessero saputo, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria» (1 Cor 2,8).

Paolo adatta i detti dell’Antico Testamento, “ciò che occhio non ha visto e orecchio non ha udito e non è sorto nel cuore dell’uomo, che Dio ha preparato per coloro che lo amano”, alla crocifissione Signore della gloria, che «Dio ci ha rivelato mediante il suo Spirito» (1 Cor 3,9-10). Quelle così glorificate sono le uniche autorità all’interno della Chiesa ortodossa. Producono le formulazioni dottrinali che servono come guide per la cura del centro della personalità umana e come segnali di avvertimento per stare lontani da dottori ciarlatani che promettono molto e non hanno nulla da dare in preparazione all’esperienza della gloria di Dio in Cristo che ognuno farà finalmente avere.

j) Il Signore della Gloria ei Concili ecumenici[12].

Per ‘Scritture’ sia Cristo che gli Apostoli intendevano l’Antico Testamento a cui era stato aggiunto il Nuovo Testamento. I Vangeli di Marco, Matteo e Luca sono stati redatti per fungere da guide pre-battesimali durante le fasi della purificazione e dell’illuminazione della persona interiore nel cuore. Che Cristo sia lo stesso Signore della Gloria che si rivelò ai suoi profeti dell’Antico Testamento e divenne manifesto al Suo battesimo e trasfigurazione in cui mostrò la gloria e il governo (BASILEIA in greco) di Suo Padre come Suo per natura. Il Vangelo di Giovanni è stato redatto allo scopo di continuare il proprio avanzamento nell’illuminazione (Gv 13,31-36) e proseguire verso la glorificazione (Gv 17) mediante la quale si vede pienamente la glorificazione del Signore della Gloria nel Padre Suo e di quest’ultimo in Suo Figlio (Giovanni 13:31, 32).

Per questo Giovanni fu chiamato il “Vangelo spirituale”[13].

Coloro che sono stati così iniziati al Corpo di Cristo non hanno appreso dell’incarnazione, del battesimo, della trasfigurazione, della crocifis-sione, della morte, della sepoltura, della risurrezione, dell’ascensione e del ritorno pentecostale del Signore della Gloria nelle lingue di fuoco increate del Suo Spirito per diventare il capo della Sua Corpo, la Chiesa, semplicemente studiando i testi della Bibbia. Hanno studiato la Bibbia come parte integrante del processo di purificazione, illuminazione e preparazione alla glorificazione del loro cuore, nello stesso Signore della Gloria, che aveva glorificato i Suoi Profeti dell’Antico Testamento, ma ora nella Sua natura umana nata dalla Vergine Maria.

Fu in questo contesto che la Chiesa antica identificò Cristo con il Signore, Angelo e Sapienza per mezzo del quale Dio creò il mondo e glorificò i suoi amici, i profeti, e mediante il quale liberò Israele dalla schiavitù e la guidò fino al tempo in cui Egli stesso divenne carne per porre fine al dominio della morte sulla Sua Chiesa (A.T.) (Matteo 16,18). Nonostante la loro glorificazione, i Profeti A.T. morirono. Ma ora «se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte» (Gv 8,52-53). Ora c’è una prima risurrezione della persona interiore (Apocalisse 20,5) e una seconda risurrezione del corpo (Apocalisse 20,6) e c’è anche una seconda morte del corpo (Apocalisse 20,14).

Anche eretici come gli Ariani e gli Eunomiani, condannati dal Primo e Secondo Concilio Ecumenico, davano per scontata questa identità di Cristo con il Signore della Gloria dell’Antico Testamento. Tuttavia, hanno affermato che questo Angelo della Gloria era la prima creazione della volontà di Dio dal non essere prima sia del tempo che dei secoli e non coeterna con il Padre. Hanno usato la visibilità dell’Angelo della Gloria ai Profeti come prova della sua natura creata[14] in un modo in qualche modo simile a quegli gnostici che identificarono questo angelo dell’Antico Testamento con il loro dio creatore minore di questo presunto mondo malvagio e che ingannarono Israele.

Gli Ariani e gli Eunomiani o ignoravano o rifiutavano il fatto che per glorificazione si diventa dio per grazia (theosis) e che quindi si vede la gloria e il governo increati (BASILEIA in greco) di Dio in Cristo per mezzo di Dio stesso. In gioco c’era il fatto che Dio stesso si rivela ai suoi amici glorificati e non per mezzo di una creatura, con la sola eccezione della natura creata di suo Figlio. Eppure la grazia e la regola (BASILEIA in greco) di illuminazione e di gloria che Cristo comunica al suo Corpo, la Chiesa, è increata. La dottrina franco-latina della creazione della grazia comunicata non ha posto nella tradizione dei Concili ecumenici.

Il motivo per cui gli aspetti di cui sopra dei Concili ecumenici non giocano alcun ruolo nelle storie della dottrina latina e protestante è il fatto che Agostino deviò nettamente da Ambrogio e dai Padri nella sua comprensione delle apparizioni del Logos ai profeti dell’Antico Testamento[15]. Le sue incomprensioni divennero il fulcro della tradizione franco-latina. Le storie della dottrina protestante e latina, che sono consapevoli della deviazione di Agostino da questa antica identificazione di Cristo con questo angelo della gloria, presuppongono che sia stata eliminata dalla tradizione a causa del suo uso da parte degli ariani. Tuttavia questa tradizione è stata preservata intatta all’interno delle Chiese dell’Impero Romano e continua ad essere il cuore della tradizione ortodossa. Questo è l’unico contesto per i termini trinitari e cristologici: tre sostanze, una sola essenza e l’unione del Logos con il Padre e noi. Erano e rimangono privi di significato nel contesto agostiniano.

Agostino aveva erroneamente creduto che fossero solo gli Ariani ad identificare il Logos con questo Angelo della Gloria A.T. Non sapeva che sia Ambrogio, il vescovo che afferma di aver aperto la sua mente manichea all’Antico Testamento e di averlo battezzato, e tutti gli altri Padri fecero lo stesso. Gli Ariani e gli Eunomiani avevano sostenuto che la prova che il Logos era stato creato era che Egli era per natura visibile ai Profeti, mentre solo il Padre era invisibile. Agostino non aveva compreso le esperienze bibliche di illuminazione e glorificazione, che aveva confuso con l’illuminazione e l’estasi neoplatoniche. Ha relegato la glorificazione alla vita dopo la morte e l’ha identificata con la visione della sostanza divina che presumibilmente soddisfa il desiderio dell’uomo di felicità assoluta. La sua comprensione utilitaristica dell’amore gli rendeva impossibile comprendere l’amore disinteressato della glorificazione in questa vita. A questo proposito non differiva dagli ariani che stava attaccando.

All’interno dei presupposti neoplatonici di cui sopra, Agostino risolve il problema con la seguente spiegazione: le Tre Persone della Santissima Trinità, essendo ugualmente invisibili, presumibilmente rivelano sé stesse e i loro messaggi ai profeti per mezzo di varie creature che portano all’esistenza per essere visti e ascoltati e che poi fanno scomparire dall’esistenza, come la gloria, la nuvola, il fuoco, il roveto ardente, ecc. Dio è diventato permanentemente visibile nella natura umana di Suo Figlio attraverso il quale comunica messaggi e concetti. Tuttavia, si suppone che continui anche a rivelare visioni e messaggi con mezzi creati che Egli passa dentro e fuori dall’esistenza secondo necessità, come l’uccello al battesimo di Cristo, le lingue di fuoco di Pentecoste, la gloria/luce/regola (BASILEIA in greco) di Dio rivelato alla trasfigurazione. Questi simboli verbali con cui gli scrittori dell’Antico e del Nuovo Testamento esprimevano esperienze di illuminazione e glorificazione furono così ridotti a oggetti temporanei e miracoli incredibili[16]. Questa divenne la tradizione franco-latina a cui aderiscono ancora sostanzialmente sia i latini che i protestanti.

Uno degli effetti collaterali più notevoli di tali malintesi è l’uso della parola “regno” che satura le traduzioni del Nuovo Testamento e che non compare mai nell’originale greco. Il termine greco “BASILEIA (in greco) di Dio” designa il governo increato di Dio e non il Regno creato governato da Dio.

k) “…non spegnere lo Spirito” (1 Ts 5,19)

Lo Spirito Santo che si custodisce nel proprio cuore «con sospiri inespressi» (Rm 8,26) non è di per sé appartenenza al Corpo di Cristo. Si deve rispondere con l’incessante preghiera del proprio spirito, perché lo Spirito di Dio testimoni al nostro spirito “che siamo figli di Dio e coeredi di Cristo, affinché, poiché co-soffriamo, anche noi siamo co-glorificati “, (Rom 8,16-17). Sebbene questa risposta sia la nostra, è anche un dono di Dio. Proprio questo presuppone san Paolo quando comanda: «Pregate incessantemente… Non spegnete lo Spirito. Non disattendete le profezie». (1 Ts 5,17-19). Paolo ci sta dicendo qui di aver cura di rimanere templi dello Spirito Santo preservando la preghiera incessante del nostro spirito nel cuore affinché possiamo diventare profeti mediante la glorificazione. Questo è anche il motivo per cui Padri come come San Giovanni Crisostomo dicono: “Non pensiamo di essere diventati membra del Corpo una volta per tutte”[17].

Il battesimo con l’acqua per il perdono dei peccati è un mistero indelebile perché il perdono di Dio per l’essere malati è il dato di fatto per l’inizio della guarigione. Tuttavia, il battesimo dello Spirito non è un mistero indelebile poiché o si ha, o non si ha, o si può perdere, la preghiera incessante nel cuore. Che si risponda o no, lo Spirito Santo è avvocato nel cuore di ogni singolo essere umano, che creda o meno in Cristo. In altre parole, l’amore di Dio chiama tutti allo stesso modo ma non tutti rispondono. Coloro che non rispondono non dovrebbero immaginarsi templi dello Spirito Santo e membra del Corpo di Cristo, impedendo così agli altri di rispondere. Coloro che sono nello stato di illuminazione pregano insieme nelle loro liturgie come templi dello Spirito Santo e membri del Corpo di Cristo che i non membri diventino membri e i membri precedenti tornino membri poiché ciò non era loro garantito dal loro battesimo d’acqua per il perdono dei peccati.

l) Il carisma della traduzione.

Ad un certo punto della storia della Chiesa primitiva il carisma di tradurre simultaneamente i salmi e le preghiere dal cuore all’intelletto a beneficio del culto collettivo dei privati è stato sostituito da testi liturgici scritti stabili, con punti fissi in cui i laici (idiotes) rispondessero con il loro amen, Kyrie eleison, ecc. Anche la preghiera nel cuore era ridotta a una breve preghiera (es. Signore Gesù Cristo abbi pietà di me peccatore) o a una frase di un salmo (una forma che si trova nei Padri del deserto di Egitto e portato in Occidente da San Giovanni Cassiano). Altrimenti il carisma è rimasto intatto.

Gregorio di Tours descrisse i fenomeni sia della preghiera incessante che della glorificazione. Ma non avendo capito cosa sono, li ha descritti come miracoli e in modo confuso[18]. I Franchi continuarono questa confusione e alla fine confusero l’illuminazione e la glorificazione con il misticismo neoplatonico di Agostino, giustamente respinto dalla maggior parte della Riforma.

SELEZIONE DEGLI STUDI SULLE TEMATICHE QUI TRATTATE

  • Raccolta di fonti patristiche sulla preghiera nel cuore intitolata Filocalia, Gribaudi.
  • “La via del Pellegrino”, tradotto dal russo, ed. Adelphi. La Filocalia nella pratica popolare.
  • John S. Romanides, “Il peccato originale secondo San Paolo”, ed. Asterios. Documento consegnato nel 1954 alla facoltà della Scuola Teologica Ortodossa San Sergio a Parigi.
  • The Ancestral (originale) Sin, 1a ed., Atene 1957; 2a ed. Atene 1989, Domos.
  • “Ecclesiologia di Sant’Ignazio di Antiochia”, Atlanta 1956: ristampato in The Greek Orthodox Theological Review, Brookline 1961-62, vol. VII, nn. 1-2, pp. 53-77.
  • “Giustino martire e il quarto Vangelo”, Rivista teologica greco-ortodossa 4 (1958): 115-134.
  • “Dogmatica”, Salonicco 1973.
  •  “Romanità, Romania, Roumeli”, Salonicco 1975.
  • “Esame critico delle applicazioni della teologia”, in Procès Verbaux du Deuxième Congrès de Théologie Orthodoxe, Athènes 1976, ed. SC Agourides, Atene 1978.
  • “Franks, Romans, Feudalism and Doctrine”, Holy Cross Orthodox Press, Brookline 1982.
  • “Gesù Cristo-La vita del mondo”, in Xenia Oecumenica, Helsinki 1983, n. 39, pp. 232-275.
  • “Justice and Peace in Ecclesiological Context”, a cura di Gennadios Limouris, in “Come Holy Spirit Renew the Whole Creation”, Holy Cross Press, Boston 1990, pp. 234-249.
  • “Saint Augustin”, Les Dossiers HL’ Age d’ Homme, editore Patric Ranson, 1988. Di interesse sui punti qui toccati si vedano gli studi di Patric Ranson, Emile Zum Brunn, John Romanides, Laurent Motte, Anne Pannier e Alain de Libera.

NOTE:


[1] La maggior parte del materiale qui presentato faceva parte del mio studio intitolato “Sinodi e civiltà della Chiesa” preparato e già presentato al VI incontro della Commissione mista luterana-ortodossa 31/5-8/6/1991 Mosca, URSS e rivisto per la riunione della sottocommissione, 17-21 giugno 1992, Ginevra e stampato in “THEOLOGIA”, vol. 63 + Numero 3 + luglio-settembre 1992 pagine 424-450 e in greco nel vol. 66 + Edizione 4, 1995 pagine 647-680. È apparso di nuovo con il titolo “LA RELIGIONE È UNA MALATTIA NEUROBIOLOGICA, TUTTAVIA L’ORTODOSSIA È LA SUA CURA”, pubblicato dal Monastero di Koutloumousiou del Monte Athos nel suo volume intitolato “ORTODOSSI-EELLENISMO IN CAMMINO VERSO IL TERZO MILLENNIO”, VOL. 2, pp. 67-87, 1996.

[2]  Per l’inizio dei miei studi sulle ragioni catechetiche della differenza tra le due tradizioni evangeliche nella Chiesa primitiva si veda il mio studio “Giustino Martire e il quarto Vangelo”, in Greek Orthodox Theological Review 4 (1958): 115- 134. Ho ricevuto una lettera da C.H. Dodd in cui si informava che questa posizione doveva essere esaminata.

[3] San Giovanni Crisostomo, Migne, PG 60, 23

[4] Mc 9, 1-8, Mt 16. 28; 17.1-8, Lc 9.27-36

[5] Si veda ad esempio una concentrazione di queste sciocche nozioni nel De Trinitate di Agostino, libri II e III. Ho avuto il privilegio di ascoltare un sermone sulla Pentecoste durante una riunione del Comitato Centrale del Consiglio Ecumenico delle Chiese che ha ripetuto queste posizioni di Agostino. Ciò significa che il materiale di questo sermone è stato preso direttamente da questa fonte o è entrato a far parte delle tradizioni franco-latine e della Riforma. Se è così, allora il divario tra i Nove Concili ecumenici romani dal 325 al 1351 e le posizioni franco-latina e protestante sono incolmabili.

[6] 1 Cor. 13,11

[7] Questa sezione e le sezioni del resto di questo documento sono state incluse nel mio studio “SINODI DELLA CHIESA E CIVILTÀ” che è stato redatto per il VI incontro della Commissione mista luterana-ortodossa 31/5-8/1991 Mosca, URSS. Rivisto per la riunione della sottocommissione, 17-21 giugno 1992, a Ginevra. È stato pubblicato in THEOLOGIA Vol. 63, Numero 3, luglio-settembre 1992 e in greco nel vol. 66, numero 4, 1995.

[8] Vedi sotto “j) Il Signore della Gloria e i Concili Ecumenici”.

[9] Questa interpretazione di Paolo si basa sulla Tradizione Patristica, ma anche su informazioni recepite durante un incontro di dialogo a Bucarest (ottobre 1979) tra ortodossi ed ebrei. Quest’ultimo ha sottolineato che l’illuminazione e la glorificazione patristica che ho descritto loro era quella della tradizione chassidim dell’Antico Testamento. Evidentemente Cristo, il Signore incarnato e i Suoi Apostoli appartengono a questa tradizione.

[10] Commentando 1 Cor 12,27-28 scrive san Simeone il Nuovo Teologo: «Affinché provi le differenze delle membra, ciò che sono e chi sono, dice: Voi dunque siete il corpo di Cristo… tipi di lingue. Fai le differenze tra le membra di Cristo? Hai imparato chi sono le sue membra?” Libro VI sull’etica, intitolato “Come si è uniti a Cristo e a Dio e come tutti i santi diventano uno con Lui”.

[11] Per l’interpretazione patristica dell'”eph’ho” di Paolo in Rom 5,12 vedi J.S. Romanides, “Il peccato originale secondo S. Paolo”, Asterios

[12] Per l’identità del Logos incarnato del Nuovo Testamento con il Signore dell’Antico Testamento negli insegnamenti dei Padri del Primo e del Secondo Concilio ecumenico si veda il mio studio “Gesù Cristo la vita del mondo”, in Xenia Oecumenical , Helsinki 1983, pp. 232-275.

[13] J.S. Romanides, “Giustino martire e il quarto vangelo”, in The Greek Orthodox Theologica [l Review, IV, 2 (1958-59),115-139. http://www.romanity.org/htm/rom.22.en.justin_martyr_and_the_fourth_gospel.01.htm

[14] Per i presupposti filosofici comuni tra Paolo di Samosata, i suoi co-lucianisti ariani e i nestoriani si veda il mio “Dibattito sulla cristologia di Teodoro di Mopsuestia”, The Greek Orthodox Theological Review, vol. VII, 2 (1959-60), pp. 140-185.

[15] Per l’analisi di queste deviazioni vedere la bibliografia.

[16] Quanto sopra si può trovare concentrato nei seguenti scritti di Agostino: De Beata Vita, Contra Academicos, e disseminato in tutti i suoi scritti. Particolarmente interessanti sono le sue spiegazioni delle visioni di Dio da parte dei profeti e degli apostoli nel suo De Tinitate, specialmente in Libri II e III.

[17] Migne, PG 60, 23: J.S. Romanides, Peccato originale (in greco) 1a ed. Atene 1957; 2a ed. Atene 1989, pag. 173.

[18] J.S. Romanides, Franchi, Romani, Feudalesimo e Dottrina, Brookline 1981, p. 53-57.




L’IMPORTANZA DELLA BIBBA LXX (dei Settanta)

LA VERSIONE GRECA DEL VECCHIO TESTAMENTO:
LA SETTANTA

Introduzione al libro: Il Salterio della Tradizione. L. Mortari, GRIBAUDI

Il prologo del libro del Siracide (o Ecclesiastico) ci attesta che, attorno al 135 a. C., il Vecchio Testamento era già stato quasi tutto tradotto dall’ebraico in greco. Alcune fonti del giudaismo alessandrino raccontano dei particolari molto interessanti sull’origine della versione della Torah, la Legge, cioè il Pentateuco. Fonte primaria a questo riguardo è la cosiddetta Lettera di Aristea48, che si può riassumere a grandi linee così: un alessandrino di nome Aristea scrisse a suo fra­tello Filocrate raccontandogli come Demetrio, capo della famosa li­breria di Alessandria, aveva persuaso Tolomeo II Filadelfo (285-246 a. C.) a mandare una delegazione a Eleazaro, sommo sacerdote in Ge­rusalemme, con la richiesta di incaricare sei anziani di ogni tribù di Israele, segnalati per probità di vita ed esperti nella legge, di tradurre la Torah in greco. Demetrio aveva detto e ripetuto al re che questa legislazione era degna di essere tradotta (§ 10) perché «ben precisa, piena di sapienza e pura» (§ 31). I 72 anziani — divenuti poi 70 nella tradizione per analogia coi settanta saliti con Mosè sul monte secondo Es 24, 1 ss — si recarono da Gerusalemme ad Alessandria, accompa­gnati dagli alessandrini che erano stati inviati in delegazione a Geru­salemme, Aristea stesso e Andrea.

Vennero ad Alessandria portando la pergamena su cui la Torah in caratteri ebraici era incisa in oro. Fecero un banchetto di sette giorni durante il quale, interrogati dal re su varie questioni, risposero con sua piena soddisfazione mostrando la loro grande sapienza. Furono quindi condotti alla vicina isola di Faros e alloggiati in un edificio bello e tranquillo, preparato per loro, ove, in 72 giorni, completarono la traduzione, giungendo, mediante confronti, al pieno accordo su ogni punto (§ 302). Allora Demetrio radunò la popolazione giudaica e lesse a tutti la traduzione, che ottenne una «grandiosa accoglienza» (§ 308). Quindi, fra generali acclamazioni, fu pronunziata maledi­zione contro chiunque osasse apportare alla versione il minimo mu­tamento, o aggiunta, o sottrazione, «affinché fosse custodita perenne e fissa per sempre» (§ 311).

Evidentemente la Lettera non è priva di particolari leggendari, ma al di là di essi e della finzione di questa pseudo-lettera viene ricono­sciuto ormai al documento, col vastissimo consenso di studiosi di varia provenienza, ebrei e cristiani, «una certa quantità di materiale attendibile sulle origini della Settanta »49, una «considerevole parte di verità», così che la lettera è «lungi dall’essere antistorica»50. Una fonte giudaica della metà del II secolo a.C., il Frammento di Aristo­bulo, mostra che in quell’epoca era effettivamente già diffusa ad Ales­sandria la tradizione sull’origine della versione greca del Pentateuco per iniziativa di uno dei primi re Tolomei. Testimonianze posteriori aggiungono abbellimenti più o meno fittizi, ma insieme rivelano l’esi­stenza di tradizioni convergenti e indipendenti da Aristobulo e Aristea. Fra queste è attestata la celebrazione di una grande festa annuale all’isola di Faros per il grande dono al mondo ellenico della versione greca”.

Un grande studioso, Orlinsky, promotore da un qualche decennio di una seria rivalutazione della Settanta in campo ebraico, ha segna­lato ripetutamente nei suoi studi «un fatto poco noto sulla prima tra­duzione della Torah», cioè un antichissimo commento rabbinico (b Megillah 9b) che applica alla Settanta il versetto della Genesi: Possa Dio allargare Japhet – ed egli abiti nelle tende di Sem (9, 27). L’esten­dersi di Japhet, capostipite dei greci, sarebbe appunto la versione greca della Torah”.

È lo stesso Orlinsky a sottolineare come in vari punti della lettera di Aristea sia istituito un voluto parallelismo tra la vicenda della Set­tanta e la legge data al Sinai, più alcuni aspetti delle vicende succes­sive del popolo. La lettera afferma così l’equivalenza fra la legge della Settanta e la Torah ebraica. Ritroviamo la stessa affermazione in Filone di Alessandria, giudeo vissuto a cavallo dell’era cristiana. Per lui e per il giudaismo di lingua greca della diaspora non c’è dubbio che il testo greco non è meno autoritativo e canonico di quello ebraico usato dagli ebrei di Palestina”. Da notarsi anche che nel frattempo era stata completata o quasi la traduzione degli altri libri del Vecchio Testamento, oltre al Pentateuco, ed essi cominciarono a diffondersi tra il popolo, anche se all’ombra del Pentateuco, che manteneva un po­sto del tutto privilegiato ed era il solo ad essere «canonizzato dalla promulgazione ufficiale» nella letteratura alessandrina. Orlinsky con­clude che la versione greca era semplicemente la Bibbia dei giudei della diaspora e del tutto naturalmente è tale per i cristiani fin dal loro nascere Orlinsky si ferma qui; ma i cristiani sanno che la Bibbia greca che hanno ricevuto, insieme a quella ebraica, da Gesù e dalla comu­nità apostolica, è la base e la condizione del linguaggio del Nuovo Testamento e il ponte di passaggio obbligato tra le scritture ebraiche e il nuovo messaggio in greco; è il testo citato nella grande maggio­ranza dei casi nelle citazioni veterotestamentarie del Nuovo Testa­mento, anche là dove diverge dal testo ebraico; rappresenta la forma più avanzata e più ricca nella evoluzione del Vecchio Testamento. Lo stesso testo ebraico d’altronde già mostrava nel suo interno una evo­luzione: basti vedere la rilettura interpretativa dei libri dei Re fatta nelle Cronache, il salmo 17 rispetto a 2 Sam 22 ecc. A mano a mano che cresce il tempo di avvicinamento al Cristo, il testo stesso cresce, acquisisce nuovi elementi, evolve, si arricchisce; le scuole ispirate, rileggendo tutta la Bibbia, capiscono cose che non avevano capito prima e le determinano in una nuova forma. L’evoluzione è partico­larmente avanzata nella Settanta, che ha aperto vie nuove nella storia della salvezza e che, anche attraverso il nuovo strumento linguistico, completa e universalizza e inevitabilmente trasforma, arricchisce, e fa progredire la comunicazione della Parola”.

Fra gli ebrei però, dopo qualche secolo di favore per la versione greca, avvenne un profondo mutamento, fino a giungere a dire che il giorno in cui la Torah fu tradotta in greco fu come quello in cui Israe­le fece il vitello d’oro, perché la Torah non poteva essere tradotta adeguatamente”. Questo grande cambiamento è frutto di vari fattori: la distruzione del secondo tempio nel 70 d. C., l’annientamento della sovranità giudaica, la diffusione del cristianesimo con l’assunzione da parte dei cristiani della Bibbia greca come la Bibbia e come fonda­mento delle loro argomentazioni. A questo non solo contribuì la com­posizione prevalente delle comunità cui era proclamato l’Evangelo —comunità di lingua greca della diaspora ebraica o di popolazioni pa­gane — ma anche lo stato più avanzato della rivelazione divina di cui la Settanta è portatrice, la sua preparazione più diretta e la maggiore prossimità al Cristo. Il giudaismo disperso, riorganizzandosi pian piano sotto la guida dei farisei, si trincera dietro il testo ebraico per la difesa dell’antichità e della «ortodossia» giudaica e per la polemica contro i cristiani. Quanto ad essi invece, «si può dire che la Settanta ha costituito l’Antico Testamento per tutta la Chiesa fino alla metà del quarto secolo. Si può dunque affermare senza esagerazione che è proprio la Settanta a rappresentare l’Antico Testamento per tutta la fase creatrice della teologia patristica

Oltre alla consacrazione della Settanta — e non solo del Penta­teuco — fatta dal Nuovo Testamento, oltre al suo uso pressoché uni­versale nei primi secoli, abbiamo anche non poche dichiarazioni for­mali dei Padri sul valore da essi attribuitole. Basti qui citarne qualcuna, rimandando per il resto ad altri studi. Ireneo e Clemente Ales­sandrino vedono l’opera dei Settanta in continuità con quella di Esdra, che, ispirato da Dio, aveva restituito le Scritture integre. Ireneo di­ceva anche che «l’unico e medesimo Spirito, che nei profeti aveva annunciato l’avvento del Signore, nei [Settanta] anziani ha interpre­tato bene ciò che bene era stato profetato», e negli apostoli ha annun­ciato la pienezza dei tempi. E Clemente: «Niente di strano che l’ispirazione di Dio, dopo aver dato la profezia, ne abbia fatta anche la traduzione come profezia in greco».

Origene, rispondendo a Giulio Africano che obiettava contro le parti in più della Bibbia greca non aventi il corrispondente ebraico, dichiarava che «non bisogna spostare i confini stabiliti dai padri» (cf. Pr 22, 28), che le Scritture sono quelle che le Chiese di Cristo da più di due secoli leggevano come tali, donate dalla Provvidenza a edificazione di tutte le Chiese di Cristo, nella sollecitudine di Dio per tutti coloro che sono stati redenti dal sangue di Cristo.

Agostino attribuisce decisamente allo Spirito Santo le particolarità e le varianti stesse del testo greco rispetto a quello ebraico: «Tutto ciò che manca nei codici ebraici, mentre c’è nei Settanta, è il mede­simo Spirito che ha preferito dirlo con questi invece che con quelli, mostrando con ciò che entrambi erano profeti». E Giovanni Criso­stomo attribuisce alla divina dispensazione, all’economia dello Spiri­to, pur nella diversità dei carismi, l’ispirazione di Mosè e di Esdra, l’invio dei profeti, l’interpretazione dei Settanta.

Tutto questo è rimasto attuale fino ad oggi, senza alcun dubbio, nella Chiesa d’Oriente, mentre in Occidente è stata provocata una gravissima frattura da Girolamo che, dopo aver venerato egli stesso dapprima la Settanta, si buttò poi unilateralmente nel principio della veritas hebraica. Molto interessante su questo punto considerare la disputa con lui di Agostino, che esprime il suo dissenso, in favore delle Scritture usate dagli apostoli, venerate dalle Chiese, note e diffuse tra il popolo. Ago­stino racconta perfino che il vescovo di Ea (attuale Tripoli di Libia), avendo letto in chiesa un passo del profeta Giona nella versione di Girolamo dall’ebraico, contenente cose molto diverse dal testo «ormai fissato nel pensiero e nella memoria di tutti e così trasmesso per tante generazioni», provocò un tale tumulto che dovette tornare al testo precedente per non restare senza fedeli! Agostino, che pure apprezza moltissimo e loda più volte Girolamo come traduttore, gli dice però recisamente: «Non voglio che la tua versione dall’ebraico venga letta nelle chiese, perché, introducendola come una novità contro l’autorità dei Settanta, non turbiamo con grande scandalo i fedeli di Cristo, le cui orecchie e i cui cuori sono abituati ad ascoltare quella versione che è stata approvata anche dagli apostoli».

La rottura operata da Girolamo non si consumò che lentamente nella Chiesa latina, dove ancora per secoli in letture e testi liturgici e nei Padri troviamo in uso la Vetus latina, cioè le traduzioni latine fatte sulla Settanta anteriormente a Girolamo. Queste poi, nella forma ri­vista da Girolamo stesso, sono rimaste integralmente per i libri deu­terocanonici, i libri cioè scritti direttamente in greco e di cui manca, o mancava, l’originale ebraico, e che Girolamo, a un certo punto, per coerenza al principio dell’hebraica veritas, rigettò. La Chiesa invece risolse positivamente le dispute a loro riguardo e il problema da essi costituito; così ha continuato a custodirli e venerarli come libri sacri ed ispirati. In questo modo la Chiesa, optando per il canone della Settanta, ha attribuito a questa un’autorità così forte da impugnare il canone ebraico e accusare gli ebrei di aver contratto le Scritture.

Ma purtroppo Girolamo ha aperto la strada alla definizione prote­stantica del canone ridotto. Quanto alla versione latina dei protoca­nonici, cioè dei libri conservati in ebraico, in Occidente prese a poco a poco il sopravvento dall’antichità la traduzione bellissima di Giro­lamo dall’ebraico stesso, e la Settanta venne sempre più abbandonata. Nella Bibbia latina dunque, cui da qualche secolo è stato dato il nome di Vulgata, figurano i deuterocanonici tradotti dal greco e i protoca­nonici tradotti dall’ebraico.

RIFERIMENTI

S. JELLICOE, The Septuagint and Modern Study, Oxford 1968, p. 59. P, il parere di una delle più grandi autorità negli studi sulla LXX, scomparso da qualche anno, promotore di una organizzazione internazionale per lo studio della LXX, che pubblica dal 1971 un Bulletin e a cui si deve il progetto di uno strumento basilare che finora purtroppo mancava e che è in preparazione, un lessico della LXX.

H. M. ORLINSKY, The Septuagint. The Oldest Translation of the Bible, in Essays in Biblical Culture and Bible Translation, New York 1974, p. 366.

H. M. ORLINSKY, The Septuagint as Holy Writ and the Philosophy of the Translators, H1JCA 46 (1975), p. 97s, nota 12.

La lettera di Aristea a Filocrate, a cura di R. TRAMONTANO, Napoli 1931;

Adversus Haereses III, 21, 4, SC 211, p. 408-410.

Stromata I, 149, 3, SC 30, p. 152.

De civitate Dei 18, 43, PL 41, 604.

In Epistulani ad Hebraeos homiliae 8, 4, PG 63, 74

AGOSTINO, Ep. 71, Lettere 1, CN XXI, p. 566-569.




NICODIMO AGHIORITA: Proemio alla Filocalia

 

Prooemio al presente libro

Iddio, la Natura beata, perfezione al di là del perfetto, principio creatore di ciò che è buono e bello, buono al di là del buono e bello al di là del bello, Iddio, avendo dall’eternità prestabilito di deificare l’uomo, secondo la propria idea tearchica, ha sin dal principio, in precedenza, fissato in se stesso a suo riguardo questo scopo e lo ha realizzato nel tempo, conforme al suo beneplacito.

Egli, preso il corpo dalla materia, e infuso in esso l’anima prendendola da se stesso, la pose come una specie di mondo, grande per molteplicità di potenze e per dignità, in quello piccolo. E costituì l’uomo sorvegliante della creazione sensibile e iniziato a quella intelligibile, secondo quel grande nella teologia, Gregorio. E che altro è l’uomo, in verità, se non una statua, un’icona fatta da Dio, ripiena di tutte le grazie? E se così, anche presentandogli la legge di quel precetto – come una specie di prova del libero arbitrio – sapeva che alla fine avrebbe dovuto cedere ad essa, ma, come dice il Siracide: Lo lasciò in mano al suo consiglio, affinché scegliesse come credeva ciò che gli veniva presentato. Quale premio della lotta per il comandamento che egli avesse custodito, stabilì ricevesse la grazia della deificazione – già insita nella sostanza del suo essere – facendolo divenire Dio, raggiante per i secoli nella luce pura da contaminazione.

Ma, oh malvagia e perversa astuzia dell’invidia! Non sopportò colui che fin dal principio è l’autore del male, che queste cose fossero messe in opera. Per l’invidia concepita nei confronti del Fattore e della sua fattura – come dice il santo Massimo – del Fattore perché non divenisse manifesta secondo la sua operazione la gloriosissima potenza della bontà deificante l’uomo, della fattura perché non fosse rivelato che essa è partecipe di questa gloria soprannaturale della deificazione – con inganno l’ingannatore, sedotto l’uomo infelice, lo indusse con cosiddetti buoni consigli a trasgredire il precetto deificante. E dopo averlo allontanato, ahimè, dalla divina gloria, il ribelle pensava tra sé di essere un qualche vincitore dell’Olimpo, come se avesse così potuto impedire l’adempimento dell’eterno consiglio di Dio. Ma poiché, come hanno rivelato i divini oracoli, il consiglio di Dio a proposito della deificazione della natura umana rimane in eterno, e i pensieri del suo cuore di generazione in generazione, senza alcun dubbio quelle parole della Provvidenza e del Giudizio che mirano a tale scopo sono immutabilmente confermate sia per il secolo presente sia per quello futuro, secondo quanto ci espone il santo Massimo.

Alla fine dei giorni, per le viscere della misericordia, si è compiaciuto il Verbo sommamente tearchico del Padre, di rendere vani i pensieri dei principi delle tenebre, di realizzare e mettere in opera l’antico e verace consiglio che egli aveva prestabilito.

Pertanto, fattosi uomo con il compiacimento del Padre e la sinergia dello Spirito santo, assunse la nostra natura umana, la deificò: e dopo averci fatto dono dei suoi comandamenti salvifici e deificanti e aver seminato nei nostri cuori mediante il battesimo la perfetta grazia del suo Spirito santo – quale seme divino – ha dato a noi, secondo il divino evangelista, il potere – vivendo secondo i suoi vivificanti comandamenti, conforme alle diverse età spirituali e custodendo in noi stessi senza spegnerla la grazia, mediante la loro attuazione – di ottenere il frutto finale e di divenire per mezzo di questa grazia figli di Dio ed essere deificati, pervenendo all’uomo perfetto, alla misura dell’età della pienezza del Cristo. Questo infatti era, in breve, tutto il fine e il compimento dell’intera economia della Parola a nostro riguardo.

Ma, ahimè! è davvero bene gemere amaramente, come dice il divino Crisostomo! Infatti, di una tale grazia abbiamo fruito e di così nobili natali siamo stati fatti degni, che la nostra anima, purificata dal battesimo, per lo Spirito, più del sole risplendeva! Ma ricevuto un tale splendore deiforme da piccoli, poi in parte per ignoranza, per lo più accecati dalle tenebre delle cure di questa vita, a tal punto abbiamo coperto con le passioni questa grazia da rischiare di spegnere del tutto in noi lo Spirito di Dio e subire quasi la stessa sorte di quelli che avevano risposto a Paolo di non aver neppur saputo che ci fosse uno Spirito santo, e al punto di divenire come prima, secondo quanto dice il Profeta, quando la grazia non regnava su di noi.

Oh, la nostra infermità! Quale distruzione ha prodotto il male e il nostro eccessivo attaccamento alle realtà sensibili! Ma quello che stupisce è che anche se sentiamo da altri che questa grazia e operante, calunniamo per invidia e nemmeno crediamo che esista una operazione della grazia nel secolo presente. Che dire dunque? Lo Spirito dà la sapienza ai Padri sapienti in Dio e insieme alla perfetta sobrietà, alla vigilanza in tutto, alla custodia dell’intelletto, rivela anche il modo di trovare poi la grazia, in quanto cosa realmente mirabile e di altissima scienza. E questo consiste nel pregare ininterrottamente il Signore nostro Gesù Cristo Figlio di Dio, non semplicemente con l’intelletto, intendo, e con le labbra soltanto (perché questo è evidente in generale a tutti quelli che scelgono di vivere piamente ed è facile per chiunque): ma, dopo aver rivolto tutto intero l’intelletto verso l’uomo interiore – cosa mirabile – così all’interno, nella profondità stessa del cuore, invocare il santissimo nome del Signore e ricercare la sua misericordia, facendo attenzione solo e soltanto alle nude parole della preghiera, senza accogliere insomma null’altro né di interiore né di esteriore, per custodire il pensiero perfettamente libero da immagini e colori.

I punti di partenza di questa attività e, come direbbe qualcuno, la materia, li abbiamo avuti dallo stesso insegnamento del Signore che ora dice: Il regno di Dio è dentro di voi, ora: Ipocrita, purifica prima l’interno della coppa e del piatto e allora sarà puro anche l’esterno, cose queste che non sono da intendersi secondo i sensi, ma riferite al nostro uomo interiore. E anche l’Apostolo così scrive agli Efesini: Per questo piego le ginocchia davanti al Padre del Signore nostro Gesù Cristo… affinché dia a voi… di essere rafforzati con potenza mediante il suo Spirito nell’uomo interiore, perché il Cristo abiti mediante lo Spirito nei vostri cuori.

Che potrebbe esservi di più chiaro di questa testimonianza? E altrove dice: Cantando e salmeggiando nel vostro cuore al Signore. Senti? Dice: «nel cuore». Ma questo non è forse sostenuto anche dal Corifeo degli apostoli, quando dice: Finché non splenda il giorno e la stella del mattino non spunti nei vostri cuori?

Questo lo Spirito santo ce lo insegna come cosa necessaria per ogni fedele anche in innumerevoli altre pagine del Nuovo Testamento, come possono osservare quelli che su di esso si curvano con grande attenzione.

Da una tale attività – spirituale e sapiente – unita alla pratica, a tutti accessibile, dei comandamenti e delle altre virtù morali, mediante il calore che proviene al cuore dalla invocazione del Nome santissimo e la sua operazione spirituale, le passioni vengono divorate: il nostro Dio – infatti – è un fuoco divorante la perversità. L’intelletto e il cuore a poco a poco si purificano e si unificano in se stessi. E una volta che essi si sono purificati e unificati in se stessi, ne viene che i comandamenti salvifici vengono attuati con più facilità, i frutti dello Spirito spuntano nell’anima e tutta la somma dei beni viene copiosamente elargita. Infine, per «dirlo in breve, ci è in tal modo reso possibile ritornare in poco tempo a quella perfetta grazia dello Spirito che è stata donata sin dal principio nel battesimo, grazia che è in noi, confusa tra le passioni come favilla tra la cenere: ma una volta che essa viene in tal modo resa luminosamente splendente, ci è dato di vedere e di essere intelligibilmente illuminati, di essere conseguentemente perfezionati e successivamente deificati.

I Padri, nella maggior parte, fanno menzione di questa operazione della grazia solo sporadicamente nei loro scritti, come rivolgessero il loro discorso a chi già sa. Alcuni, prevedendo probabilmente in anticipo l’ignoranza, e insieme la negligenza della nostra generazione nei confronti di tale salutare esercizio, non hanno esitato a trasmettere a noi loro figli, come una eredità paterna, anche il modo pratico di questo esercizio, spiegandolo in forma particolareggiata mediante qualche metodo naturale. Alcuni con molti nomi lo magnificano e, chiamandolo principio di ogni altra attività gradita a Dio, somma dei beni, schiettissimo contrassegno di penitenza, pratica intelligibile che costituisce l’accesso alla vera contemplazione, spingono tutti al profitto che viene da quest’opera.

Ma qui comincio a gemere, e il dolore mi toglie la parola. Infatti questi libri che trattano la scienza di questa attività realmente atta a purificare, a illuminare e a perfezionare, come dice l’Areopagita, e non solo, ma anche molti altri che, trattando della vigilanza e della sobrietà, fanno udire a molti i temi della sobrietà, tutti insieme questi mezzi necessari, questi strumenti che tendono allo stesso proposito e all’unico scopo della deificazione dell’uomo – ecco che tutti questi libri, per l’antichità, la rarità e, lasciami dire, per non essere mai stati dati alle stampe, sono pressoché scomparsi; e se mai alcuni sono rimasti, essendo rosi dalle tarme e tutti rovinati, è quasi la stessa cosa che se non esistessero.

Aggiungerò che la maggior parte dei nostri vive in uno stato di negligenza e si agita per molte cose, cioè per le virtù del corpo o le virtù pratiche o, per parlare con maggior verità, per quelli che sono solo gli strumenti delle virtù, in cui essi consumano tutta la vita, ma dell’unica cosa necessaria, cioè della custodia dell’intelletto e della preghiera pura sono – non so come – accidiosi e altamente insipienti. C’è pericolo che questa breve e dolcissima attività venga meno del tutto e che in seguito a questo si oscuri e si spenga la grazia, e con essa venga pure a fallire la nostra unione con Dio e la sua operazione deificante. E questo era ciò che costituiva, come si è detto, sin dal principio, precedentemente a tutto, la volontà di Dio, nel suo beneplacito! Alla quale guardano, come a perfettissimo fine, sia la creazione che ci pone nell’essere, sia l’economia del Verbo di Dio a nostro riguardo, che ci pone nel ben-essere, nell’eterno ben-essere e, semplicemente, tutto quello che nell’Antico e nel Nuovo Testamento è stato divinamente compiuto.

Un tempo molti, anche di quelli che vivono nel mondo e gli stessi re e quelli che vivono nei palazzi reali e che sono ogni giorno tirati da miriadi di sollecitudini e cure di questa vita, avevano una sola ed unica opera: pregare continuamente nel cuore, come ne troviamo molti nelle storie! E ora invece, per negligenza e ignoranza, non solo presso quelli che vivono nel mondo, ma anche presso gli stessi monaci e quelli che fanno vita esicasta, ciò è rarissimo e – quale perdita, ahimè! – anche del tutto introvabile.

Mancando questo, per quanto ciascuno lotti secondo le sue possibilità e sopporti fatiche per la virtù, tuttavia non coglie alcun frutto. Perché senza l’incessante ricordo del Signore e senza quella purezza dell’intelletto e del cuore da ogni male che da esso nasce, è impossibile dar frutto. È detto infatti: Senza di me non potete far nulla, e ancora: Chi rimane in me, questi porta molto frutto.

Di qui deduco con certezza che non c’è altra causa per la quale tanto manchiamo di uomini chiari per santità in vita e dopo morte, e che sono così pochi quelli che si salvano in questo tempo, se non questa: che abbiamo trascurato quest’opera che conduce alla deificazione. Disse uno [dei santi Padri]: «Se l’intelletto non viene deificato, non è possibile per l’uomo non soltanto santificarsi, ma neppure salvarsi». E questo è terribile anche solo da udirsi, perché è la stessa cosa salvarsi ed essere deificati secondo le dichiarazioni di quelli che sono sapienti in Dio.

Inoltre, per di più, noi siamo privi di quei libri che guidano a questo. E senza questi, è impossibile giungere allo scopo.

Ma ecco: l’eccellente, buono e realmente amante di Cristo, Signor Giovanni Mavrogordatos, che non la cede a nessuno dei primi in fatto di liberalità, di amore per i poveri, di ospitalità e di tutto il coro delle virtù, eccolo sempre infiammato da zelo divinamente ispirato per il comune vantaggio! Proprio lui, ispirato dalla grazia di Cristo che vuole che tutti gli uomini siano salvati e deificati, muta il lamento in gioia, sciogliendo la difficoltà. Infatti ha messo a disposizione del bene comune questo strumento di deificazione e con tutta l’anima e – per così dire – con mani e piedi concorre e in ogni modo collabora per questa parte, a quello che è – come si è detto – l’eterno consiglio di Dio. Oh, quale gloria, quali grandezze! Ecco infatti che quei testi che nei tempi passati mai erano stati pubblicati, ecco che questi che giacevano in luoghi nascosti, nel buio, in qualche angolo, senza gloria, divorati dalle tarme, buttati e sparsi qua e là, ecco quei testi che ci guidano con scienza alla purezza del cuore, alla sobrietà dell’intelletto, al ravvivarsi della grazia che è in noi, aggiungi anche, alla deificazione, eccoli da lui raccolti in uno e dati alla grande e chiara luce dell’arte tipografica (bisognava, infatti, bisognava, che ciò che ci espone quanto riguarda la divina illuminazione, fosse fatto degno anche della luce della stampa!). E con questo egli libera quelli che sanno dalle fatiche del trascrivere e contemporaneamente risveglia anche in quelli che non sanno la brama di acquistare e direi anche di mettere in pratica.

Pertanto, o carissimo lettore, grazie all’ottimo Signor Giovanni, puoi d’ora in poi avere senza fatica e senza difficoltà il presente libro spirituale. Libro che è tesoro della sobrietà, guardia dell’intelletto, mistica scuola della preghiera spirituale. Libro che è un eletto modello di condotta pratica, guida sicura alla contemplazione, giardino dei Padri, catena d’oro delle virtù. Libro che è ripetizione frequente [del Nome] di Gesù, tromba che richiama la grazia e, per farla breve, proprio lo strumento stesso della deificazione, possesso mille volte più desiderabile di qualsiasi altro, da molti anni pensato e cercato ma non trovato. Per questo a te spetta il debito ineludibile – e dovuto per ogni motivo di giustizia! – di pregare Iddio con suppliche incessanti per il benefattore e i collaboratori, perché anch’essi pervengano alla stessa misura nella deificazione e, per essersi a questo scopo affaticati, per primi ne godano anche i frutti.

Ma, dopo le parole di questo discorso, qualcuno potrebbe forse interrompere affermando che non è lecito pubblicare certe cose che sono in questo libro alle orecchie di molti, in quanto cose inusitate: e ne potrebbe derivare un qualche pericolo.

A chi dicesse questo, rispondiamo dunque con poche parole. Neppure noi, caro amico, siamo venuti conformandoci ai nostri pensieri personali riguardo a questa impresa, ma piuttosto ci siamo serviti di esempi. Da un lato, del comando dato in modo generale a tutti i fedeli da parte della Scrittura, di pregare incessantemente e di aver sempre il Signore davanti agli occhi: ed è empio dire che i comandi dello Spirito siano soggetti a qualche proibizione o impossibilità, come dice il grande Basilio. Ci siamo basati sulla tradizione scritta dei Padri. Gregorio il Teologo consigliava a tutti quelli che dipendevano da lui, in generale, di rendere il ricordo di Dio più frequente del respiro. Il divino Crisostomo presenta tre discorsi interi sulla preghiera incessante e spirituale, e in innumerevoli punti degli altri suoi discorsi esorta tutti in generale a pregare continuamente. E quel mirabile Gregorio Sinaita, attraversando diverse città, insegnava la stessa attività salvifica. Ma infatti Dio stesso, mandando miracolosamente un angelo dall’alto, ratificò la medesima verità, chiudendo la bocca al monaco che contraddiceva, come si vede alla fine del presente libro.

Ma di che parole ho bisogno su questo argomento quando anche gli uomini che vivono nel mondo, che vivono nei palazzi reali, avendo – come si è detto – quale opera ininterrotta questo esercizio, a fatti confermano il discorso e bastano a chiudere la bocca ai contraddittori?

E se poi accade che taluni abbiano deviato, che c’è da stupirsi? Per presunzione, per lo più, costoro hanno subito questo, secondo Gregorio Sinaita. Io poi ritengo che il più delle volte la causa principale di simili deviazioni stia nel non aver seguito in tutto, con esattezza, l’insegnamento dei Padri intorno a questa attività. Essa è infatti santa e per suo mezzo dobbiamo essere liberati da ogni inganno: poiché anche il comandamento di Dio secondo la legge, quel comandamento che conduce alla vita, si è trovato – come dice Paolo – causa di morte per qualcuno! Eppure ciò non è avvenuto a motivo del comandamento. E come, infatti, se esso era santo, giusto e vero? È invece accaduto ciò a motivo della perversità di coloro che erano venduti sotto il peccato. E che, dunque? Bisogna accusare il divino precetto a motivo del peccato di alcuni? E per la deviazione di alcuni disprezzare quella attività salutare? In nessun modo, né per l’uno né per l’altra. Bisogna piuttosto por mano all’opera confidando in colui che ha detto: Io sono la via e la verità, con tutta umiltà e in una disposizione di afflizione spirituale. Se infatti uno si è liberato da ogni presunzione e ricerca di piacere agli uomini, anche se tutta la malvagia falange dei demoni irrompesse contro di lui, non arriverà neppure ad avvicinarsi, secondo l’insegnamento dei Padri.

Stando così le cose e poiché – come si è detto – il libro da ogni parte propone in tutte le maniere ciò che è perfetto, la cosa più opportuna resta ormai quella di prendere tra le mani quell’invito al banchetto della Sapienza, per chiamare tutti, con alto proclama, al convito di questo libro spirituale: quanti nelle cose di Dio non sono nemici del banchetto né, come quelli di cui si parla nei vangeli, prendono a pretesto campi, buoi, mogli! Venite, dunque, venite: mangiate il pane della sapienza che è in esso, questo pane sapienziale, e bevete il vino che spiritualmente allieta il cuore, vino che fa uscire da tutto ciò che è sensibile e insieme intelligibile, mediante la deificazione estatica. Inebriatevi di una ebbrezza veramente sobria! Venite, tutti quanti siete partecipi della vocazione ortodossa, monaci e laici insieme, voi che siete zelanti perché avete trovato il regno di Dio che è dentro di voi e il tesoro nascosto nel campo del cuore, che è il dolce Cristo Gesù! Venite, affinché una volta liberato il vostro intelletto dalla prigionia nelle cose di quaggiù e dal suo vagare, e purificato il cuore dalle passioni mediante l’incessante, tremenda invocazione del Signore nostro Gesù Cristo, siate unificati in voi stessi e, mediante questa unificazione interiore, a Dio, secondo l’invocazione che il Signore ha fatto al Padre dicendo: Affinché siano uno, come noi siamo uno. E così, uniti a lui e del tutto trasformati perché posseduti e tratti fuori di voi dall’amore divino, siate con ogni sovrabbondanza deificati, nel senso spirituale e con indubbia certezza e perveniate al primitivo scopo di Dio, glorificando il Padre, il Figlio e lo Spirito santo, una e tearchica Divinità.

A lui si addice ogni gloria, onore e adorazione per i secoli dei secoli. Amen.