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Vladimir Guettée: Il Moderno Papato condannato dal Papa San Gregorio il Grande (1861) – I

PRIMA PARTE

Biografia – Introduzione – LETTERA DI S. GREGORIO MAGNO AL PATRIARCA GIOVANNI DI COSTANTINOPOLILETTERA DI S. GREGORIO MAGNO AL DIACONO SABINIANO

L’Archimandrita Vladimir Guettée

BREVE BIOGRAFIA

Vladimir Guettée, alla nascita René-François Guettée, è nato il 1 dicembre 1816 e morto il 22 marzo 1892. Fu prima un prete cattolico poi convertito all’Ortodossia. Ha scritto molte opere di storia religiosa che, durante la sua vita, hanno suscitato polemiche all’interno della Chiesa cattolica di Francia.

Ordinato sacerdote cattolico romano nel 1839, fu prima assistente parroco in un piccolo paese di campagna, e successivamente ebbe il suo gregge altrove, dove organizzò una scuola per bambini. A 32 anni, uscì con la sua Storia della Chiesa in Francia (1847-1856) in 12 volumi. Nel 1855 fondò l’Observateur Catholique. Venne presto in conflitto con il suo vescovo, così Padre Guettée fondò un nuovo periodico, l’Unione cristiana, che, sotto l’influenza di Alexis Khomiakiov, divenne gradualmente filo-ortodosso; “il primo giornale ortodosso apparso in Occidente”. Dopo la sua consacrazione prese il nome di Vladimir. I suoi successi missionari includono anche la traduzione in francese della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo, con note esplicative, e la pubblicazione di ‘Una spiegazione della dottrina della Chiesa ortodossa: differenze con altre Chiese cristiane’.

INTRODUZIONE

Se diamo uno sguardo franco e imparziale alla società cattolica, non si può fare a meno di ammettere che il livello intellettuale difficilmente può scendere più in basso. Si comprenda che non vogliamo parlare di intelligenza in generale, ma della comprensione della verità religiosa. Tanti scrittori, per ragioni più o meno onorevoli,

si applicarono alla falsificazione delle credenze cattoliche, alla diffusione di loro sistemi, per sostituire alla pura verità cristiana le loro teorie adattate alle circostanze, che si incontrano appena tra coloro che sono onorati del titolo di cattolici, in quelle persone che abbiano una nozione esatta dei principi della loro fede. La maggior parte non ha che una fede convenzionale, sul divino e sull’umano, su dogmi e opinioni, formano un miscuglio confuso, un caos su cui aleggia l’oscurità più fitta. Fosse almeno che i neo-cattolici siano consapevoli della loro ignoranza! Ma no; si credono forti, solidi nella conoscenza delle verità della religione, e sono tutti pronti ad anatemizzarti se esiti anche solo un po’ a condividere le loro teorie.

Questa intolleranza, insieme all’ignoranza e alla caparbietà, costituisce il carattere distintivo del neocattolico: formato alla scuola ultramontana non ammette alcuna obiezione. Se sollevi qualche difficoltà che tocca i suoi sistemi, egli vi guarderà come un eretico; se hai il coraggio di osservare questo non era insegnato in passato come lo è oggi; che dobbiamo attenerci, nella Chiesa, a ciò che si è sempre creduto fin dagli apostoli, egli ti segnala come un innovatore pericoloso; se voi chiedete la ragione, le prove di questi nuovi dogmi che vediamo schiudersi ogni giorno sotto l’azione della corte di Roma, egli ti stigmatizza come un libero pensatore, abbastanza audace da non fare affidamento sulla parola del Papa. Che questa parola esista o meno, che sia chiara o oscura, il neocattolico si concede sempre. Il Papa è infallibile; io sono con il Papa, quindi sono infallibile io stesso. È più o meno su questo sillogismo che si basa tutta la logica del neocattolico. E guai a te se non sei sopraffatto da un argomento così conclusivo allora sei solo un ribelle, non sei più cattolico, se l’Inquisizione si rianimasse, saresti affidato ai suoi santi rigori per la salvezza della tua anima.

Come far penetrare la verità cattolica anche in quelle menti corazzate dell’ultramontanismo, che ostinatamente rifiutano sistematicamente qualsiasi chiarimento?

Non sappiamo.

Tuttavia, ci sembrava che se ci fosse qualche modo per illuminarli, non potrebbe essere meglio che attraverso l’insegnamento di un Papa riconosciuto come uno dei più grandi e santi che si sono assisi sul seggio di Roma. Abbiamo quindi raccolto nelle opere di san Gregorio Magno, ciò che scrisse sul papato, sui suoi diritti e sulle sue prerogative nella Chiesa. Questo grande Papa, morto solo all’inizio dell’VIII secolo, riassume perfettamente la tradizione cattolica della Chiesa primitiva. La sua parola, in quanto tale, deve godere di una alta autorità: la scienza, la santità del santo dottore, la posizione elevata che occupò, l’influenza che esercitò nella società cristiana, tutto contribuisce a dare alla sua parola eccezionale carattere di accuratezza e verità.

I neocattolici non possono sfidarlo.

San Gregorio Magno fu Papa e se i Papi godono, per diritto divino di assoluta autorità nella Chiesa, egli ne ha goduto; se i Papi sono infallibili, egli lo era; se c’è un dovere rigoroso d’accettare l’insegnamento papale, dobbiamo accettare il suo insegnamento. Egli possiede tutti i diritti di cui Papi moderni possono legittimamente godere, in virtù del loro titolo, poiché era Papa come loro: ed egli ha più di loro, un alone di scienza e di santità che i nostri papi Ultramontani non hanno ancora meritato.

Che i neo-cattolici ci dicano se rifiutano o se accettano la dottrina del Papa san Gregorio il Grande sul Papato. Se dicono che l’abbiamo mal esposto, lascia che lo dimostrino; se la ammettono così come l’abbiamo esposta e continuano ad affermare che le nostre convinzioni non hanno nulla di molto ortodosso, poiché sono conformi a questa dottrina, e rifiutandola, si degnino di dirci perché Papa san Gregorio Magno non meriti tanto credito quanto i Papi ultramontani.

La tesi è abbastanza importante: che i sostenitori dell’ultramontanismo ci dicano cosa ne pensano.

IL MODERNO PAPATO

condannato

dal Papa San Gregorio il Grande

All’inizio del suo episcopato, Gregorio rivolse una lettera di comunione ai patriarchi Giovanni di Costantinopoli, Eulogio di Alessandria, Gregorio di Antiochia, Giovanni di Gerusalemme, e ad Anastasio, dell’antico patriarcato di Antiochia, suo amico.

Se si fosse ritenuto capo e sovrano della Chiesa, se avesse creduto di esserlo per diritto divino, egli si sarebbe certamente rivolto ai patriarchi come a subordinati; si troverebbero, in questa circolare, qualche traccia della sua superiorità. Ma è completamente diverso. Egli di dilunga molto sui doveri dell’episcopato, e non si sogna lontanamente di parlare dei diritti che la sua dignità gli avrebbe conferito. Insiste particolarmente sul dovere, per il vescovo, di non occuparsi affatto della cura delle cose esteriori, e termina la sua circolare facendo la sua professione di fede, per provare che fosse in comunione con gli altri patriarchi, e, attraverso di loro, con tutta la Chiesa[1]. Questo silenzio di san Gregorio sul presunto diritto del papato è già di per sé molto significativo, e gli ultramontani avrebbero difficoltà a spiegarlo. Cosa potrebbero opporre alle lettere che andremo a tradurre, e nelle quali San Gregorio condanna, nel modo più esplicito, l’idea fondamentale che gli ultramontani ci vorrebbero dare del papato, cioè il carattere universale della sua autorità?

L’occasione di queste lettere era l’ambizione del patriarca Giovanni di Costantinopoli, che rivendicò che la sua città episcopale divenuta capitale dell’impero, dovesse essere riconosciuta universalmente come la sede del primo vescovo della Chiesa. A questo fine, egli ha inventato il titolo di patriarca ecumenico o universale e se lo attribuì.

La prima idea di un potere centrale e universale nella Chiesa veniva dunque da Costantinopoli; fu proprio da Roma che sorse la prima opposizione a questa pretesa ambiziosa, e da uno dei più grandi papi che sedettero sulla cattedra apostolica di Roma.

San Gregorio avendo appreso che Giovanni di Costantinopoli rivendicava il titolo di patriarca ecumenico o universale, scrisse diverse lettere che meritano di essere lette e meditate, soprattutto al giorno d’oggi, dove le persone cercano di imporci, come fosse di diritto divino, un dispotismo papale opposto sia alla parola di Dio che alla disciplina generale della Chiesa. Ecco quello che Gregorio scrisse allo stesso Giovanni. Lo traduciamo testualmente:

LETTERA DI S. GREGORIO MAGNO

AL PATRIARCA GIOVANNI DI COSTANTINOPOLI (V, 18) [2]

“Gregorio a Giovanni, vescovo di Costantinopoli.

La Vostra Fraternità si ricorda certamente di quanta pace e concordia ci fosse tra le Chiese quando Ella è stata elevata alla dignità sacerdotale. Ma, ignoro per quale azzardo o per quale superbia, ella ha cercato di impossessarsi di un nuovo titolo, onde potesse causarsi scandalo nei cuori di tutti i fratelli. E della qual cosa assai mi stupisco, poiché ricordo che non volevate giungere all’episcopato, ma volevate fuggirlo. Eppure, una volta ottenutolo, volete esercitarlo così come se lo aveste ricercato con ambizioso desiderio. Voi, infatti, che vi dicevate di essere indegno d’esser chiamato vescovo, siete arrivato ora, disprezzando i vostri fratelli, al punto di voler avere voi solo il titolo di vescovo. E su questo argomento furono trasmessi alla vostra santità dei gravi scritti del mio predecessore Pelagio di santa memoria, nei quali rifiutò, per il titolo nefando di superbia, gli atti del sinodo che presso di voi era stato riunito in favore della causa del nostro allora fratello e co-episcopo Gregorio, e proibì di celebrare messa insieme a voi all’arcidiacono, che, secondo consuetudine, aveva mandato alla corte imperiale. Dopo la sua [di Pelagio] morte, invero, essendo stato condotto io indegno al governo della Chiesa e prima per mezzo dei miei inviati, e ora per il nostro comune figlio il diacono Sabiniano, ho avuto cura di rivolgermi alla vostra fraternità non già per iscritto, ma di persona, affinché rinunciasse a tale presunzione. E qualora rifiutaste di correggervi, gli ho proibito di celebrar messa insieme alla vostra fraternità, per instillare alla Vostra Santità un qualche timore della vergogna, prima che, qualora il nefando e profano orgoglio non potesse correggersi con la vergogna, procedessimo per le vie prescritte e canoniche. E poiché, prima di amputare la ferita essa va palpata dolcemente, vi prego, vi supplico, e v’imploro con quanta dolcezza posso, che la vostra fraternità si opponga a tutti i suoi adulatori e a quanti gli attribuiscono un titolo errato, e non permetta di farsi chiamare con un titolo tanto stolto e superbo. In verità, piangendo lo dico e con profondo dolore del cuore, attribuisco ai miei peccati il fatto che un mio fratello non ha voluto sino ad ora ritornare all’umiltà, lui che non è stato stabilito nella dignità episcopale che per ricondurre all’umiltà le anime degli altri; che colui che insegna agli altri la verità non l’ha voluta insegnare a sé stesso, né ha consentito, nonostante le mie preghiere, a che io mi prendessi questa cura.

Considerate, vi prego, che da questa presunzione temeraria è turbata la pace di tutta la Chiesa, e che voi vi fate nemico della grazia che e stata donata a tutti in comune. Più crescerete in questa grazia, più diventerete umile ai vostri stessi occhi. E tanto più grande potrete divenire, quanto più vi asterrete dall’usurpazione di tanto stravagante e orgoglioso titolo. Allo stesso tempo sarete più ricco se non tenterete di spogliare i vostri fratelli a vostro profitto. Amate dunque, fratello carissimo, l’umiltà con tutto il vostro cuore, per mezzo della quale possa esser custodita la concordia di tutti i fratelli e l’unità della santa Chiesa universale. Certamente l’apostolo Paolo quando udiva alcuni dire: “Io son discepolo di Paolo, io d’Apollo, io invero di Pietro” (I Cor. 1, 13), non poteva assistere senza orrore alla divisione del corpo del Signore per vedere poi riattaccare le membra divise a più teste, e così esclamava dicendo: “Forse che per voi è stato crocifisso Paolo, o siete stati battezzati in nome di Paolo (Ibid., 13)?” Se dunque quegli si sforzava d’evitare che le membra del corpo del Signore fossero attaccate a delle teste che non fossero quella di Cristo, ancorché queste teste fossero di apostoli, tu che dirai a Cristo, ovvero al capo della Chiesa Universale, nell’interrogatorio dell’estremo giudizio, tu che tutte le sue membra vuoi sottomettere a te col titolo di universale? Chi, ditemelo, vi prego, imitate voi attraverso questo perverso titolo, se non colui che, sprezzate le legioni di angeli costituite con sé in società, si proponeva di salire in cima per non essere sottomesso a nessuno ed essere solo al di sopra degli altri; qui disse: “Salirò al cielo, eleverò il mio trono sopra gli astri del cielo; piazzerò il mio seggio sul monte dell’alleanza, sulle rocce dell’Aquilone. Salirò sopra la vetta delle nubi, sarò simile all’Altissimo (Isaia 14, 13).

Cosa sono dunque i tuoi fratelli, tutti i vescovi della Chiesa universale, se non le stelle del cielo, la cui vita e il cui insegnamento risplendono tra i peccati e gli errori degli uomini come tra le tenebre della notte? Quando per titolo ambizioso brami di elevarti al di sopra di loro e svilire il loro titolo a confronto del tuo, che altro dici se non: “Salirò al cielo, eleverò il mio trono sopra gli astri del cielo?”  Forse che non son tutti i vescovi le nubi che stillano le parole della predicazione e splendono della luce delle buone opere? Quando la vostra fraternità, disprezzandoli, tenta di metterli sotto i suoi piedi, che altro dice, se non ciò che fu detto dal nemico antico: “Salirò sopra la vetta delle nubi?” E mentre piangendo vedo tutto ciò, e temo gli occulti giudizi di Dio, crescono le lacrime, i miei gemiti traboccano dal cuore, perché il signor Giovanni, quell’uomo così santo, di sì grande astinenza e umiltà, per la seduzione delle lusinghe dei suoi familiari, è giunto a tal grado di superbia che, per la brama di quel titolo perverso, tenta d’esser simile a quegli che, volendo superbamente esser simile a Dio, perse pure la grazia della somiglianza che gli era stata donata; e perciò perse la vera beatitudine, poiché bramava una falsa gloria. Certamente Pietro, primo degli apostoli, e membro della santa e universale Chiesa; Paolo, Andrea, Giovanni, che altro sono se non capi di certi popoli? E pure tutte le membra son sotto un solo capo. E, per dir tutto in breve, i santi prima della Legge, i santi sotto la Legge, i santi sotto la grazia, non formano tutti insieme il corpo del Signore? Non sono tutti membri della Chiesa? e nessuno volle mai esser chiamato universale. La Vostra Santità, dunque, riconosca quanto sia gonfia, poiché brama d’esser chiamato con quel titolo con cui nessuno ebbe la presunzione di farsi chiamare.

Come sa la vostra Fraternità, forse che il venerando Concilio di Calcedonia ha conferito onorificamente il titolo di universale ai vescovi di quella sede apostolica di cui, per volontà di Dio, io son servitore? Eppure, nessuno mai avrebbe voluto essere chiamato con tale titolo, nessuno si attribuì un tanto temerario titolo, affinché, bramando la gloria della singolarità nella dignità episcopale, sembrasse negarla a tutti i fratelli.

Ma so bene che questo titolo è stato conferito alla Vostra Santità da quei famigli che la lusingano e la ingannano, contro i quali chiedo che la Vostra Fraternità sia solertemente vigile, e che non si lasci ingannare dalle loro lusinghe. Tanto più infatti debbono esser ritenuti pericolosi i nemici, quanto più adulano con finte lodi. Scacci queste persone; e se devono necessariamente ingannare, almeno ingannino i cuori degli uomini terreni e non quelli dei sacerdoti. “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Luca 9, 60). Voi invece col Profeta dite: “Si ritirino subito arrossendo, quanti mi dicono: Bene! Bene!”. E ancora: “Ma l’olio del peccatore non profumerà il mio capo” (Sal 140, 5). Bene ammonisce il Saggio: “Con molti tu sia in pace, ma il tuo consigliere sia uno solo tra mille” (Ql 6,6). “Le cattive parole corrompono infatti i buoni costumi” (I Cor 15, 33). Quando infatti l’antico nemico non può penetrare in un cuore robusto, cerca persone deboli che gli siano vicine e per mezzo loro, come scale appoggiate contro alte mura, vi ascende. Così ingannò Adamo per la donna che le era vicina (Gn 3), così quando uccise i figli al beato Giobbe e gli lasciò la moglie malata (Gb 2, 10), affinché, non essendo da sé in grado di giungere al suo cuore, almeno potesse penetrarvi per le parole della moglie. Quanti dunque presso di voi sono infermi e mondani, siano scacciati nella loro adulazione e lusinga, poiché da lì proviene l’eterna inimicizia di Dio, da dove essi si mostrano come adulatori perversi.

Un tempo l’apostolo Giovanni certo gridava: “Figliuoli, questa è l’ultima ora” (I Gv 2, 18); ora avviene secondo la predizione della Verità. Peste e spada infuriano per tutto il mondo, le nazioni insorgono l’une contro le altre, è scosso l’universo, la terra sta per inghiottire i suoi abitanti. Tutto ciò che è stato previsto, infatti, accadrà. Il re della superbia è vicino, e, cosa orribile a dirsi, egli ha pronto un esercito di sacerdoti, poiché pensano solo a elevarsi, loro che sarebbero stati stabiliti solo per condurre gli altri all’umiltà. Ma in questo, ancorché la nostra lingua non sia minimamente contraria, s’ergerà a vindice della sua virtù contro l’insuperbire colui che è per sé stesso speciale avversario del vizio della superba. Perciò infatti sta scritto: “Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà grazia” (Gc 4, 6). Perciò ancora è detto: “Impuro agli occhi di Dio è colui che si esalta in cuor suo” (Prov 16, 5). Perciò contro l’uomo che s’insuperbisce è scritto: “Perché dovresti esser superbo, tu che sei terra e cenere” (Ql 10, 9)? Perciò la Verità stessa dice: “Chiunque si esalta, sarà umiliato” (Lc 14, 11). E per ricondurci sulla via dell’umiltà, la Verità s’è degnata di mostrarlo nella propria persona, dicendo: “Imparate da me, ché son mite ed umile di cuore” (Mt 11, 29). Per questo infatti l’unigenito Figlio di Dio ha preso la forma della nostra debolezza, per questo l’invisibile è apparso non solo visibile, ma pure disprezzato; per questo ha sopportato oltraggi, insulti, tormenti, perché l’uomo imparasse da un Dio umile a non esser superbo. Quanto grande dunque è la virtù dell’umiltà, dacché per insegnarci questa sola in verità colui che è grande senza comparazione, si è fatto piccolo sino al patir la morte? Poiché infatti la superbia del diavolo fu la fonte della nostra perdizione, fu trovato per istrumento della nostra redenzione l’umiltà di Dio. Il nostro nemico infatti voleva esser esaltato sopra tutte le creature in mezzo alle quali era pur lui; il nostro Redentore invece, pur restando grande sopra ogni creatura, s’è degnato di diventar piccolo fra tutte. 

Perché dunque ci chiamiamo vescovi, noi che abbiam ricevuto la nostra dignità dall’umiltà del nostro Redentore eppure imitiamo la superbia del suo nemico? Ecco, sappiamo che il nostro Creatore è disceso dalla vetta della sua grandezza per dare gloria all’umanità, e noi, infime creature, ci gloriamo dell’aver privato i fratelli. Iddio umiliò sé stesso fino alla nostra polvere e la polvere umana brama di porre la sua bocca sopra il cielo e sfiorare appena la terra, e non se ne vergogna, non teme d’elevarsi l’uomo che non è altro che sporcizia, il figlio dell’uomo che non è che un verme (Gb 25). Rimembriamo, fratello carissimo, ciò che fu detto dal saggissimo Salomone: “Il fulmine precede il tuono, e il cuor s’esalta prima di cader” (Ql 32, 14). E d’altra parte soggiunge: “Prima della gloria ci s’umilia”. Umiliamoci dunque nel cuore, se vogliamo giungere a una solida grandezza. Che gli occhi del nostro cuore mai non siano oscurati dal fumo dell’orgoglio, che più in alto s’eleva, tanto più in fretta svanisce. Riflettiamo sui precetti con cui ci ammonì il nostro Redentore, dicendo: “Beati i poveri in spirito, poiché di questi è il regno dei cieli” (Mt 5, 3). Poiché infatti per mezzo del profeta disse: “Su chi riposerà il mio Spirito, se non sull’uomo umile e mansueto, che riverisce le mie parole?” (Is 56, 2) E volendo certo chiamare all’umiltà i cuori ancor deboli dei suoi discepoli, il Signore disse: “Se qualcuno tra voi brama esser primo, sarà di tutti il più piccolo” (Mt 20, 27). In ciò ci fa apertamente capire che veramente esaltato è colui che nei suoi pensieri s’umilia. Temiamo dunque di esser tra coloro che cercano i primi posti nelle sinagoghe e i saluti nella pubblica piazza e vogliono farsi chiamare maestri dagli uomini. Poiché al contrario il Signore ha detto ai suoi discepoli: “Voi invece non fatevi chiamare maestri. Uno infatti è il vostro maestro; voi tutti, invece, siete fratelli. E non chiamate qualcuno Padre sulla terra, uno infatti è il Padre vostro (Mt 23, 7-8).

Che dirai allora, fratello carissimo, in quel terribile interrogatorio del giudizio venturo, tu che non solo padre, ma pure padre universale brami d’esser chiamato nel mondo? Si faccia dunque attenzione al pravo consiglio dei malvagi, si fugga ogni istigazione allo scanalo. È invero necessario che accadano scandali, ma guai all’uomo per mezzo del quale viene lo scandalo. Ecco, a causa di questo nefando titolo di superbia, la Chiesa è divisa, i cuori di tutti i fratelli son scandalizzati. Avete forse dunque dimenticato ciò che dice la Verità: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, convien per lui che gli sia appesa al collo una macina girata da asini, e che sia gettato nel profondo del mare” (Mt 18, 7)? Invero sta scritto: “La carità non cerca ciò che le appartiene” (I Cor 13, 4). Ecco, la Vostra Fraternità brama i beni degli altri. Ancor sta scritto: “Onoratevi gli uni gli altri” (Rm 13, 10). E voi cercate di togliere a tutti quell’onore che illecitamente desiderate usurpare per voi solo. Dov’è, fratello carissimo, ciò che fu scritto: “Abbiate nei riguardi di tutti la pace, e la carità senza la quale nessuno vedrà Iddio” (Ibid.)? E dove ciò che fu scritto: “Beati i pacifici, poiché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9)?

Vi conviene badare che non vi blocchi una radice di amarezza che nuovamente germina nel vostro cuore e dalla quale molti son contaminati. Se infatti trascuriamo di considerarla, i giudizi dall’alto saranno vigilanti sopra il gonfiore di tanta superbia. E noi nei confronti di coloro dai quali una sì grande colpa è stata commessa per un empio azzardo, serbiamo i precetti della Verità, dicendo: “Se il tuo fratello ha peccato contro di te, va’ e riprendilo tra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello. Se invece non ti ascolterà, porta teco uno o due, affinché tutto stia nella bocca di due o tre testimoni. E se questi non li ascolterà, dillo all’assemblea. E se non ascolterà nemmeno l’assemblea, sia per te come un pagano o un pubblicano” (Mt 17, 3). Io dunque per mezzo dei miei legati ho cercato una e due volte di correggere con umili parole il peccato che vien commesso contro tutta la Chiesa e ora da me stesso lo scrivo. Qualunque cosa umilmente dovevo fare, non l’ho tralasciata. Ma se son sprezzato nella mia correzione, mi resta solo d’appellarmi alla Chiesa.

Iddio onnipotente vi renda manifesto da quanto amore son preso nei vostri confronti parlando così e di quanto m’addoloro in questa faccenda non contro di voi, ma per voi. Ma per quanto riguarda i precetti evangelici e le istituzioni canoniche e il vantaggio dei fratelli, non posso preferire una persona, nemmeno quella che molto amo.

Ho ricevuto da vostra santità scritti dolcissimi e sinceri circa la causa dei presbiteri Giovanni e Atanasio, circa la quale, con l’aiuto del Signore, risponderò in altre lettere che seguiranno, poiché sono circondato da tali tribolazioni e premuto dalle spade dei barbari, che non m’è lecito non solo occuparmi di molte cose, ma a malapena respirare.

Dato alle calende di gennaio, indizione decimaterza.

III

Vediamo, per mezzo di questa prima lettera di Papa san Gregorio il Grande:

1° che l’autorità ecclesiastica risiede nell’episcopato e non in un tale vescovo per quanto alto sia il suo rango nella gerarchia ecclesiastica;

2° che non si trattava assolutamente della difesa di una sua causa particolare contro Giovanni di Costantinopoli, ma quella di tutta la Chiesa;

3° che egli non aveva il diritto da sé stesso di giudicare questa causa e che egli dovrà riferire alla Chiesa;

4° che il titolo di vescovo universale è contrario alla parola di Dio, superbo, criminale, stolto e inetto;

5° che nessun vescovo, nonostante l’elevazione del suo rango nella gerarchia ecclesiastica, può ambire ad un’autorità universale senza impegno sui diritti dell’intero episcopato;

6° che nessun vescovo nella Chiesa può pretendere di essere il padre di tutti i cristiani senza attribuirsi un titolo contrario al Vangelo, orgoglioso, stolto e criminale;

Preghiamo i neocattolici a riflettere seriamente su queste verità espresse così chiaramente in questa prima lettera e che apparirà con nuove prove in quelle che seguiranno. San Gregorio aveva risparmiato Giovanni di Costantinopoli dicendogli solo la verità sulle sue ambiziose pretese. Il motivo di questa riserva era stato il rispetto che aveva per lui l’imperatore Maurizio, che Giovanni aveva conquistato alla sua causa. Giovanni persuase Maurizio che alla città di Costantinopoli, avendo sostituito Roma come capitale dell’impero, spettasse il titolo di primo vescovo della Chiesa, poiché i concili l’avevano concessa a quella di Roma solo a causa dell’importanza della sua sede e solo perché questa città fu la prima dell’Impero Romano. Fu in seguito a questa pretesa che si volle usurpare il titolo di ecumenico o universale. Aveva persino esortato Maurizio ad intervenire su Gregorio in modo che quest’ultimo chiudesse gli occhi sulle sue pretese e vivesse con lui in buoni rapporti.

Troviamo questi dettagli nella lettera di San Gregorio al diacono Sabiniano, allora suo agente presso l’imperatore, e che fu poi suo successore sul seggio di Roma. Ecco questa lettera[3]:

IV

LETTERA DI S. GREGORIO MAGNO

AL DIACONO SABINIANO (V, 19)

“Gregorio al diacono Sabiniano.

 Non volevo scrivere due lettere che toccassero la causa del nostro fratello, reverendissimo uomo, Giovanni, Vescovo di Costantinopoli. Ne ho scritto una abbastanza breve che contiene ciò che sarebbe stato oggetto di due, vale a dire, la verità e la mitezza.

Possa la Vostra Dilezione dargli questa lettera che ho scritto per obbedire all’imperatore. Successivamente, ne invierò un’altra che sarà tale che il suo orgoglio non avrà motivo di rallegrarsi. Egli è infatti giunto al punto di approfittare dell’opportunità che gli si è presentata  per scriverci degli affari del sacerdote Giovanni, al fine di prendere, per così dire, in ogni frase, il titolo di Patriarca ecumenico.

Spero da Dio Onnipotente che sua Maestà Imperiale distrugga la sua ipocrisia. Sono sorpreso che possa imbrogliare La tua dilezione al punto da persuadere l’imperatore che dovrebbe trasmettetemi i suoi scritti riguardo a questa vicenda, scritti in cui afferma che avrei dovuto mantenere la pace con lui. Se l’imperatore vuole essere giusto, dovrà avvertirlo di rinunciare al suo orgoglioso titolo e subito sarà fatta la pace tra di noi. Sono sicuro che non hai visto lo stratagemma a cui ricorse il nostro fratello Giovanni in questa circostanza.

Egli ha agito così al fine che, se avessi obbedito al signor Imperatore, sembrasse che avessi approvato la sua vanità; e che se io non avessi obbedito, l’imperatore si sarebbe arrabbiato con me. Ma noi rimarremo saldi sulla retta via, senza temere nulla, in questa circostanza, se non l’Onnipotente Dio. In tal modo, non si spaventi la Tua Dilezione; disprezzi, per la verità, le cose più alte di questo mondo che sono contrarie alla verità; abbia fiducia nella grazia di Dio Onnipotente e nell’aiuto del beato apostolo Pietro; si ricordi queste parole della Verità: “Colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo”. Agisca dunque in ogni cosa con un’autorità superiore: perché quando non possiamo difenderci contro la spada dei nemici; quando, per amore della repubblica, perdessimo il nostro argento, il nostro oro, i nostri beni, i nostri vestiti, sarebbe troppo ignominioso se, per loro (i Greci), perdessimo anche la fede; poiché aderire a questo titolo colpevole non è altro che perdere la fede. Questo, perché, come gli ho scritto precedentemente, non tiene nessun rapporto con lui”.

Quindi, secondo Papa San Gregorio Magno, è perdere la fede l’aderire a un titolo che gli ultramontani rivendicano come appartenente al Papa per diritto divino, e che è la base di tutte le pretese ambiziose che considerano come altrettanti diritti del papato. Nella sua qualità di primo vescovo della Chiesa, san Gregorio ha dovuto prendere l’iniziativa dell’opposizione a questo titolo ambizioso ma abbiamo già visto, e vedremo ancora che non ha difeso una sua causa attaccando Giovanni di Costantinopoli, ma quella di tutto l’episcopato, quella della Chiesa.

Giovanni di Costantinopoli fece ricorso all’imperatore per far autorizzare il suo titolo di universale, San Gregorio scrisse la successiva lettera a questo principe:

V

LETTERA DI S. GREGORIO MAGNO ALL’AUGUSTO MAURIZIO (V, 20)[4]

Gregorio all’Augusto Maurizio.

Nostro piissimo signore stabilito da Dio, in mezzo alle altre sue auguste funzioni, vegliate con particolare cura per custodire la carità sacerdotale, ritenendo, con pietà e sapienza, che nessuno può governare con giustizia le cose della terra, se non sa trattare con le cose di Dio, e che la pace della repubblica dipende dalla pace della Chiesa universale. Quale forza umana, serenissimo signore, quale forza del tempo oserebbe alzare le mani contro il vostro trono cristianissimo, se i sacerdoti, come è loro dovere, si unissero per rivolgere al Redentore, in comune, le loro preghiere e le loro buone opere? La spada delle nazioni feroci immolerebbe crudelmente tanti fedeli se la nostra vita, noi che siamo sacerdoti di nome, ma che non lo siamo in realtà, non fosse viziata da tante opere malvagie?

Lasciando da parte i nostri doveri per occuparci di cosa non ci si addice, uniamo i nostri peccati con le forze dei barbari le nostre colpe affilano la spada dei nemici, e ostacoliamo le forze della repubblica. Cosa dobbiamo dire, noi che caricano il peso dei nostri peccati sul popolo di Dio che guidiamo indegnamente? Noi che distruggiamo con i nostri esempi quello che insegniamo con la bocca? Noi che insegniamo l’iniquità con le nostre opere e che non predichiamo la giustizia che con la bocca? Le nostre ossa sono rotte dal digiuno, e il nostro spirito è pieno di orgoglio. Il nostro corpo è coperto di abiti poveri e, col suo gonfiore, il nostro cuore sorpassa lo splendore della porpora. Ci sdraiamo sulle ceneri e disprezziamo le cose più alte. Insegniamo umiltà e diamo l’esempio dell’orgoglio; che nascondiamo dei denti di lupo sotto la maschera di una pecora. Cosa ne risulta? C’è che ingannando gli uomini, nondimeno siamo conosciuti da Dio. Il nostro piissimo signore agisce dunque con saggezza, cercando di procurare la pace della Chiesa per arrivare e pacificare il suo impero, degnandosi di impegnare i sacerdoti alla concordia e all’unione. Lo desidero ardentemente e, per quanto è in me, io ubbidisco al suo ordini serenissimamente. Ma dal momento che non si tratta di una mia causa, ma di quella di Dio; in quanto non sono solo io che sono turbato, ma tutta la Chiesa è agitata; perché i canoni, i venerabili concili ed i comandamenti Nostro Signore Gesù Cristo stesso sono attaccati dall’invenzione di una certa parola pomposa e superba; che proprio il piissimo Signore tagli questo male; e se il malato vuole resistere, lo abbracci nei vincoli della sua autorità imperiale. Incatenando queste cose darete la libertà alla repubblica; e con tali incisioni diminuirete il male del vostro impero.

Tutti coloro che hanno letto il Vangelo sanno che la cura di tutta la Chiesa è stata affidata dal Signore stesso al Santo Pietro, primo di tutti gli apostoli. In effetti, gli è stato detto: “Pietro, mi ami tu? Pasci le mie pecore. Gli è stato detto ancora: “Satana desidera setacciarvi come il grano; ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno;  quindi, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli”. Gli è stato anche detto: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa; e ti donerò le chiavi del regno;  e tutto quello che tu legherai sulla terra sarò legato in cielo.

Egli dunque ricevette le chiavi del regno celeste; gli fu dato il potere di legare e di sciogliere; a lui fu consegnata la cura di tutta la Chiesa e il primato, eppure non fu chiamato apostolo universale. Ora, il santissimo uomo Giovanni, mio ​​fratello nel sacerdozio, si sforza di prendere il titolo di vescovo universale. Sono obbligato a gridare per dire: “che tempi, che maniere!”

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Non vogliamo perderci queste parole di san Gregorio senza sottolinearne tutta l’importanza. Questo grande dottore intende, come abbiamo visto, i testi del Vangelo relativi a san Pietro, nel senso più favorevole a questo apostolo. Esalta Pietro perché ha il primato nel collegio apostolico, come incaricato dal Signore stesso dalla cura di tutta la Chiesa. Cosa ne conclude? Poiché i papi hanno abusato dei testi citati per rivendicare un’autorità universale e assoluta sulla Chiesa, secondo il loro ragionamento. Essi danno innanzi tutto alle parole del vangelo il senso più largo, il più assoluto, e se lo applicano successivamente in qualità di successori di San Pietro.

San Gregorio agisce in modo ben diverso: riunisce le prerogative di Pietro, la sua umiltà che lo ha impedito di attribuirsi un’autorità universale. Attacca quindi, con l’esempio di san Pietro, l’autorità che i papi si sono attribuiti in nome di san Pietro e come successori di san Pietro!

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Accontentiamoci di aver fatto questa semplice osservazione, e diamo la parola al santo dottore:

“Ecco, in Europa tutto è consegnato ai barbari; le città sono distrutte; i forti sono rovesciati; le province si spopolano; non c’è più nessuno a coltivare la terra visto che gli adoratori degli idoli dominano sui fedeli, li travolgono con la violenza e li minacciano; e i sacerdoti, che dovrebbero giacere sulle ceneri, innaffiando la terra con le loro lacrime, aspirano a titoli pieni di vanità, a gloriarsi di titoli nuovi e profani! È mio dovere, piissimo signore, che io difenda questa circostanza? È per un particolare insulto che voglio vendicarmi? No, è la causa di Dio Onnipotente, la causa della Chiesa universale.

Chi è colui che, contrariamente ai precetti del Vangelo, ai decreti dei canoni, ha la presunzione di usurpare un nuovo titolo? Volesse il cielo ce non ci fosse che uno solo che, senza voler sminuire gli altri, volesse essere universale!

La Chiesa di Costantinopoli fornì vescovi caduti nell’abisso dell’eresia e che divennero addirittura eresiarchi. È di là che uscì Nestorio, il quale, pensava che vi fossero due persone in Gesù Cristo, Mediatore tra Dio e gli uomini, perché non credeva che Dio potesse farsi uomo, discese così nella perfidia dei Giudei. È da qui che è venuto Macedonio, che ha negato che lo Spirito Santo fosse un Dio consustanziale con il Padre e il Figlio. Se dunque qualcuno usurpa nella Chiesa un titolo che riassume in sé tutti i fedeli; la Chiesa universale – oh blasfemia! – cadrà quindi con esso, poiché si fa chiamare l’universale. Rifiutino dunque tutti i cristiani questo titolo blasfemo, questo titolo che toglie l’onore sacerdotale a tutti i preti non appena viene stoltamente usurpato a favore di uno solo.

È certo che questo titolo fu offerto al romano pontefice dal venerabile concilio di Calcedonia per onorare il beato Pietro, principe degli apostoli. Ma nessuno di loro acconsentì ad usare questo titolo particolare, per timore che se a uno fosse dato qualcosa di particolare, tutti i sacerdoti sarebbero stati privati ​​dell’onore loro dovuto. Come, quando noi non aspiriamo alla gloria di un titolo che ci è stato dato, un altro ha la presunzione di prenderselo quando non gli è stato dato da nessuno?”

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Questo passo di San Gregorio è molto notevole. Afferma prima di tutto che si trattava di un concilio che offriva ai vescovi di Roma l’onore di essere chiamati universali; questo concilio avrebbe agito così, allo scopo di onorare questi vescovi, se avesse creduto che per diritto divino avevano autorità universale?

San Gregorio ci assicura inoltre che il concilio ha voluto onorare i vescovi di Roma, per onore di San Pietro; non credevano quindi che l’autorità universale venisse loro per successione da questo apostolo. La Chiesa di Roma giustamente si gloria di San Pietro, perché l’ha resa illustre col suo martirio. Fu quindi in memoria di questo martirio, e per onorare il primo degli apostoli che fu donato dal concilio generale di Calcedonia ai vescovi di Roma un titolo onorifico. Come riconciliare, con questi fatti annotati da papa San Gregorio, le pretese degli attuali vescovi di Roma che si credono investiti di diritto divino, non solo del titolo di Vescovo Universale, di Padre comune dei fedeli, ma di una sovranità universale?

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Continuiamo la lettera di San Gregorio:

“Costui, dunque, deve piegarsi all’ordine del piissimo Signore, visto che rifiuta l’obbedienza ai precetti canonici.

Oppure si deve reprimere chi fa ingiuria alla santa Chiesa universale, chi si gonfia nel suo cuore, chi vuole godere di un titolo che lo distingua dagli altri, chi, con questo titolo particolare, si eleva anche al di sopra del vostro impero. Questa ambizione ci scandalizza tutti. Torni dunque l’autore di questo scandalo a una vita retta, e cesseranno tutte le liti tra i sacerdoti. Quanto a me, io sono il servitore di tutti i sacerdoti purché conducano una vita degna del loro sacerdozio.

Quanto a colui che, perseguendo la vanagloria, alza la testa contro il Signore Onnipotente e contro i decreti dei Padri, non abbasserò la mia testa davanti a lui, anche se dovesse ricorrere per questo alla spada; io ripongo la mia fiducia nel Signore Onnipotente. Ho fatto conoscere al diacono Sabiniano, mio ​​inviato, i dettagli di quanto è stato fatto a Roma quando abbiamo saputo che il titolo in questione veniva usurpato. Che la pietà dei miei Signori pensi bene di me; io sono con loro, mi hanno sempre ricolmato, più di ogni altro, dei loro favori e desidero conservare la loro obbedienza, e solo temo di essere accusato di negligenza nell’ultimo e terribile giudizio; che il piissimo Signore si degni di giudicare la disputa, secondo la richiesta fattane dal diacono Sabiniano, e per costringere l’uomo di cui vi ho tanto parlato a rinunciare alla sua ambizione. Se, per giustissimo giudizio della vostra pietà, o per i vostri indulgenti ordini, egli vi rinuncerà, ringrazieremo Dio onnipotente e gioiremo della pace che avrete ridato a tutta la Chiesa. Se invece persiste nei suoi disegni, seguiremo su questo argomento il sentimento della Verità che disse: ‘Chiunque si eleva sarà abbassato’. Così, infatti, è scritto: ‘Il cuore si eleva prima di cadere’. Obbediente ai comandi dei miei Signori, ho scritto gentilmente al mio fratello nel sacerdozio e l’ho umilmente ammonito a correggersi da questo desiderio di vanagloria. Se vuole ascoltarmi, ha in me un fratello devoto. Ma se persiste nel suo orgoglio, vedo già il prosieguo della sua via, perché ha come avversario Colui del quale è scritto: ‘Dio resiste ai superbi, ma dona la sua grazia agli umili!’”

continua….in traduzione


[1]Papa San Gregorio Magno, Epistolarium, lib. 1, ep. XXV

[2] S. Gregorio Magno, Epistolarium, lib. V, ep. XVIII

[3] Gregorio Magno, Epistolarium, lib. V, ep. XIX

[4] Gregorio Magno, Epistolarium, lib. V, ep. XX




Primo Concilio di Costantinopoli (381)

Dal 1 maggio al luglio 381.
Convocato dall’imperatore Teodosio I.
Tema: Simbolo Niceno-Costantinopolitano. Divinità dello Spirito Santo.

IL SIMBOLO DEI CENTOCINQUANTA PADRI

Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e di quelle invisibili: e in un solo signore Gesù Cristo, figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli. Luce da luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, prese carne dallo Spirito Santo e da Maria vergine, e divenne uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, fu sepolto e risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture, salì al cielo, si sedette alla destra del Padre: verrà nuovamente nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Crediamo anche nello Spirito Santo, che è signore e dà vita, che procede dal Padre; che col Padre e col Figlio deve essere adorato e glorificato, ed ha parlato per mezzo dei Profeti. Crediamo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Crediamo un solo battesimo per la remissione dei peccati e aspettiamo la resurrezione dei morti, e la vita del secolo futuro. Amen.

Πιστεύω είς ενα Θεόν, Πατέρα, παντοκράτορα, ποιητήν ουρανού καί γής, ορατών τε πάντων καί αοράτων. Καί είς ενα Κύριον, Ίησούν Χριστόν, τόν Υιόν του Θεού τόν μονογενή, τόν εκ του Πατρός γεννηθέντα πρό πάντων τών αιώνων. Φώς εκ φωτός, Θεόν αληθινόν εκ Θεού αληθινού γεννηθέντα, ού ποιηθέντα, ομοούσιον τώ Πατρί, δι’ ού τά πάντα εγένετο. Τόν δι’ ημάς τούς ανθρώπους καί διά τήν ημετέραν σωτηρίαν κατελθόντα εκ τών ουρανών καί σαρκωθέντα εκ Πνεύματος ‘Αγίου καί Μαρίας τής Παρθένου καί ενανθρωπήσαντα. Σταυρωθέντα τε υπέρ ημών επί Ποντίου Πιλάτου καί παθόντα καί ταφέντα. Καί αναστάντα τή τρίτη ημέρα κατά τάς Γραφάς. Καί ανελθόντα είς τούς ουρανούς καί καθεζόμενον εκ δεξιών τού Πατρός. Καί πάλιν ερχόμενον μετά δόξης κρίναι ζώντας καί νεκρούς, ού τής βασιλείας ουκ εσται τέλος. Καί είς τό Πνεύμα τό ¨Αγιον, τό Κύριον, τό ζωοποιόν, τό εκ τού Πατρός εκπορευόμενον, τό σύν Πατρί καί Υιώ συμπροσκυνούμενον καί συνδοξαζόμενον, τό λαλήσαν διά τών Προφητών. Είς μίαν, αγίαν, καθολικήν καί αποστολικήν Έκκλησίαν. ‘Ομολογώ εν βάπτισμα είς άφεσιν αμαρτιών.Προσδοκώ ανάστασιν νεκρών. Καί ζωήν τού μέλλοντος αιώνος. Άμήν.

LETTERA DEI VESCOVI RADUNATI A COSTANTINOPOLI
A PAPA DAMASO E AI VESCOVI OCCIDENTALI (382)

Ai signori illustrissimi e reverendissirni fratelli e colleghi Damaso, Ambrogio, Brittone, Valeriano, Acolio, Anemio, Basilio, e agli altri santi vescovi raccolti nella grande Roma, il santo sinodo dei vescovi che professano la vera fede, riuniti nella grande Costantinopoli, salute nel Signore.

E’ forse superfluo informare la Reverenza vostra, quasi che possa esserne all’oscuro, e narrare le innumerevoli sofferenze inflitteci dalla prepotenza ariana. Non crediamo, infatti, che la santità vostra giudichi così poco importante quanto ci riguarda, da esserne ancora all’oscuro, metterebbe anzi conto che se ne piangesse insieme. D’altra parte, le tempeste che si sono abbattute su di noi sono state tali, che non hanno certo potuto rimanervi nascoste; il tempo delle persecuzioni è recente, ne è ancora vivo il ricordo non solo in coloro che hanno sofferto, ma anche in chi per l’amore che li legava ad essi ha fatto proprie le loro sofferenze. Infatti solo ieri, per così dire, e l’altro ieri, alcuni sciolti dai vincoli dell’esilio, sono tornati alle loro chiese in mezzo a mille tribolazioni; di altri, morti in esilio, sono tornati solo i resti: alcuni, anche dopo il ritorno dall’esilio, fatti segno all’odio acre degli eretici, dovettero sopportare più amarezze nella propria terra che in terra straniera, raggiunti, come il beato Stefano, dalle loro pietre (1); altri lacerati da vari supplizi, portano ancora le stigmate di Cristo (2) e le ferite nel proprio corpo. Le perdite di ricchezze, le multe delle città, le confische dei beni dei singoli, gli intrighi, le prepotenze, le carceri, chi potrebbe contarle? Davvero che tutte le tribolazioni si sono moltiplicate contro di noi oltre ogni dire, forse perché scontassimo la pena dei nostri peccati, o forse perché Dio, clemente, voleva provarci con tante sofferenze.

Di ciò siano rese grazie a Dio, il quale volle istruire i suoi servi attraverso prove così grandi (3), e secondo la sua grande misericordia ci ha condotto nuovamente al refrigerio (4). Certo sarebbe stato necessario per noi una lunga pace, e molto tempo, e molto lavoro per il miglioramento delle chiese, perché, cioè, finalmente potessimo ricondurre all’originario splendore della pietà il corpo della chiesa, oppresso come da lunga malattia, ricreandolo a poco a poco con ogni sorta di cure. In questo modo riteniamo di esserci liberati dalla violenza delle persecuzioni, e di aver ripristinato le chiese così a lungo dominate dagli eretici; dei lupi, tuttavia, ci danno molta molestia: scacciati dai loro recinti, rapiscono le pecore negli stessi pascoli boscosi, e tentano di tenere riunioni, e di suscitare sommosse popolari, senza nulla risparmiare pur di arrecare danno alle chiese. Come dicevamo, sarebbe stato necessario che potessimo occuparci di questi problemi per un tempo più lungo.

In ogni modo, poiché, mostrando la vostra fraterna carità verso di noi, con lettere dell’imperatore, da Dio amato, avete invitato anche noi come veri membri al sinodo che per volontà di Dio avete convocato a Roma perché, essendo stati noi sottoposti allora da soli alle tribolazioni, ora in questa pia concordia degli Imperatori voi non regnaste senza di noi, ma anche noi, secondo la parola dell’apostolo, potessimo regnare insieme con voi (5), sarebbe stato nostro desiderio, se possibile, lasciare tutti insieme le nostre chiese, e venire incontro ai vostri desideri e alla (comune) utilità. Chi ci darà, infatti, le ali come quelle di una colomba per volare e posarci presso di voi (6)? Ma poiché questo avrebbe spogliato le nostre chiese, appena cominciato il rinnovamento, e la cosa sarebbe stata per moltissimi impossibile, ci eravamo radunati insieme a Costantinopoli, secondo l’invito delle lettere, mandate l’anno scorso dalla vostra carità, dopo il sinodo di Aquileia, all’imperatore Teodosio, caro a Dio. Eravamo preparati per questo solo viaggio fino a Costantinopoli, ed avevamo il consenso dei vescovi rimasti nelle diocesi solo per questo sinodo. Di un più lungo viaggio né prevedevamo la necessità, né avevamo avuto alcun indizio prima di venire a Costantinopoli. Inoltre l’imminenza della data fissata non lascia il tempo di prepararsi per una assenza più lunga, né di avvertire i vescovi della nostra stessa comunione rimasti nelle diocesi, e di chiedere il loro benestare. Poiché, dunque, questi ed altri simili motivi impedivano la partenza della maggior parte di noi, abbiamo preso l’unico partito che restava per il miglioramento delle cose e per corrispondere alla carità che ci avete dimostrato: e abbiamo pregato insistentemente i venerabilissimi e onorabilissimi fratelli e colleghi nostri, i vescovi Ciriaco, Eusebio e Prisciano di affrontare la fatica di venir fino a voi; e così, per mezzo loro, vi abbiamo fatto conoscere i nostri propositi di pace e di unità, e vi abbiamo manifestato il nostro zelo per la retta fede. Noi, infatti, abbiamo sopportato da parte degli eretici le persecuzioni, le tribolazioni, le minacce degli imperatori, le crudeltà dei magistrati e ogni altra prova, per la fede evangelica confermata dai trecentodiciotto Padri di Nicea di Bitinia. Questa fede, infatti, dev’essere approvata da voi, da noi e da quanti non distorcono il senso della vera fede essendo essa antichissima e conforme al battesimo; essa ci insegna a credere nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cioè in una sola divinità, potenza, sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in una uguale dignità, e in un potere coeterno, in tre perfettissime ipostasi, cioè in tre perfette persone, ossia tali, che non abbia luogo in esse né la follia di Sabellio con la confusione delle persone, con la soppressione delle proprietà personali, né prevalga la bestemmia degli Eunomiani, degli Ariani, dei Pneumatomachi, per cui, divisa la sostanza, o la natura, o la divinità, si aggiunga all’increata, consostanziale e coeterna Trinità una natura posteriore, creata, o di diversa sostanza. Riteniamo anche, intatta, la dottrina dell’incarnazione del Signore; non accettiamo, cioè l’assunzione di una carne senz’anima, senza intelligenza, imperfetta, ben sapendo che il verbo di Dio, perfetto prima dei secoli, è divenuto perfetto uomo negli ultimi tempi per la nostra salvezza.

Queste sono, in sintesi, le principali verità della fede, che senza ambagi predichiamo. Esse vi procureranno anche una maggior soddisfazione, se vi degnerete di leggere il tomo composto dal sinodo di Antiochia, e quello pubblicato dal concilio ecumenico, a Costantinopoli, lo scorso anno. In essi abbiamo esposto la nostra fede assai ampiamente, ed abbiamo sottoscritto i nostri anatemi contro le recenti novità delle eresie.

Quanto all’amministrazione delle singole chiese ha forza di legge l’antica norma, come sapete, e la disposizione dei santi padri di Nicea: che, cioè, in ciascuna provincia, e, se essi vorranno anche i vescovi confinanti con loro, si facciano le ordinazioni come richiede l’utilità delle chiese. Sappiate che, conforme a queste disposizioni, vengono amministrate le nostre chiese, e sono stati nominati i sacerdoti delle chiese più insigni. Della chiesa novella, per cosi dire, di Costantinopoli, che da poco, per misericordia di Dio, abbiamo strappato alle bestemmie degli eretici, come dalla bocca di un leone (7), abbiamo ordinato vescovo il reverendissimo e amabilissimo in Dio Nettario. Ciò è stato fatto al cospetto del concilio universale, col consenso di tutti, sotto gli occhi dell’imperatore Teodosio, carissimo a Dio, di tutto il clero, e con l’approvazione di tutta la città. Dell’antica e veramente apostolica chiesa di Antiochia di Siria, nella quale per prima fu usato il venerando nome di cristiani, i vescovi della provincia e della diocesi dell’oriente, radunatisi, consacrarono vescovo, canonicamente, il reverendissimo e da Dio amatissimo Flaviano, con l’approvazione di tutta la chiesa, che, unanime onorava quest’uomo. L’ordinazione è stata riconosciuta conforme alla legge ecclesiastica anche dalle autorità del concilio. Vi informiamo, inoltre, che il reverendissimo e carissimo a Dio Cirillo è vescovo della madre di tutte le chiese, la chiesa di Gerusalemme. A suo tempo egli è stato consacrato, conforme alle norme ecclesiastiche, dai vescovi della provincia, e spesso, in diverse circostanze, ha lottato strenuamente contro gli Ariani.

Poiché, dunque, queste cose sono state compiute da noi legalmente e canonicamente, preghiamo la reverenza vostra di volersi rallegrare con noi, uniti scambievolmente dal vincolo dell’amore che viene dallo Spirito e dal timore di Dio che vince ogni umana passione, e antepone l’edificazione delle chiese all’amicizia ed alla benevolenza verso i singoli. In tal modo, in pieno accordo nelle verità della fede, e fortificata in noi la carità cristiana, cesseremo di ripetere l’espressione già biasimata dagli apostoli: Io sono di Paolo, io sono di Apollo; e io sono di Cefa (8), ma saremo tutti di Cristo, che non può esser diviso in noi; e, se Dio ce ne farà degni, conserveremo indiviso il corpo della chiesa e compariremo tranquilli dinanzi al tribunale di Dio (9).

CANONI

I. Che le decisioni di Nicea restino immutate; della scomunica degli eretici.

La professione di fede dei trecentodiciotto santi Padri, raccolti a Nicea di Bitinia non deve essere abrogata, ma deve rimanere salda; si deve anatematizzare ogni eresia, specialmente quella degli Eunomiani o Anomei, degli Ariani o Eudossiani, dei Serniariani e Pneumatomachi, dei Sabelliani, dei Marcelliani, dei Fotiniani e degli Apollinaristi.

II. Del buon ordinamento delle diocesi, e dei privilegi dovuti alle grandi città dell’Egitto, di Antiochia, di Costantinopoli; e del non dover un vescovo metter piede nella chiesa di un altro.

I vescovi preposti ad una diocesi non si occupino delle chiese che sono fuori dei confini loro assegnati né le gettino nel disordine; ma, conforme ai canoni, il vescovo di Alessandria amministri solo ciò che riguarda l’Egitto, i vescovi dell’Oriente, solo l’oriente, salvi i privilegi della chiesa di Antiochia, contenuti nei canoni di Nicea; i vescovi della diocesi dell’Asia, amministrino solo l’Asia, quelli del Ponto, solo il Ponto, e quelli della Tracia, la Tracia.

A meno che vengano chiamati, i vescovi non si rechino oltre i confini della propria diocesi, per qualche ordinazione e per qualche altro atto del loro ministero. Secondo le norme relative all’amministrazione delle diocesi, è chiaro che questioni riguardanti una provincia dovrà regolarle il sinodo della stessa provincia, secondo le direttive di Nicea. Quanto poi alle chiese di Dio fondate nelle regioni dei barbari, sarà bene che vengano governate secondo le consuetudini introdotte ai tempi dei nostri padri.

III. Che dopo il vescovo di Roma, sia secondo quello di Costantinopoli.

Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma.

IV. Della illecita ordinazione di Massimo.

Quanto a Massimo il Cinico e ai disordini avvenuti a Costantinopoli per causa sua intorno a lui, questo grande sinodo giudica che Massimo non è mai stato né è vescovo, e non lo sono quelli che egli ha ordinato in qualsiasi grado del clero: tutto quello, infatti, che è stato compiuto a suo riguardo o da lui è da considerarsi nullo.

V. Il tomo degli Occidentali è bene accetto.

Per quanto riguarda il tomo (=documento) degli Occidentali, anche noi riconosciamo quelli di Antiochia che professano la medesima divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

VI. Chi può essere ammesso ad accusare un vescovo o un chierico.

Poiché molti volendo turbare e sconvolgere l’ordine ecclesiastico, da veri nemici e sicofanti, inventano accuse contro i vescovi ortodossi incaricati del governo della Chiesa, nient’altro cercando che di contaminare la buona fama dei sacerdoti e di eccitare tumulti tra i popoli che vivono in pace, è sembrato bene al santo concilio dei vescovi radunati a Costantinopoli di non ammettere gli accusatori senza previo esame, né di permettere a chiunque di poter formulare accuse contro gli amministratori delle diocesi, né, d’altra parte, di respingere tutti. Se, quindi, uno ha dei motivi privati, personali, contro il vescovo, perché sia stato defraudato, o perché abbia dovuto sopportare da parte sua qualche altra ingiustizia, in questo genere di accuse non si guardi né alla persona dell’accusatore, né alla sua religione. E’ necessario, infatti, assolutamente, che la coscienza del vescovo si conservi libera dalla colpa e che quegli che afferma di essere trattato ingiustamente, quali che possano essere i suoi sentimenti religiosi, ottenga giustizia. Se, però, l’accusa che si fa al vescovo ha attinenza con la religione in sé e per sé, allora bisogna tener conto della persona degli accusatori. In questo caso, primo, non si permetta agli eretici di formulare accuse contro i vescovi ortodossi in cose riguardanti la chiesa (per eretici intendiamo sia quelli che già da tempo sono stati pubblicamente banditi dalla Chiesa, sia quelli che poi noi stessi abbiamo condannato; sia quelli che mostrano di professare una fede autentica, ma in realtà sono separati e si riuniscono contro i vescovi legittimi). Inoltre, quelli che sono stati condannati, scacciati o scomunicati per vari motivi dalla Chiesa, sia chierici che laici, non possono accusare un vescovo, prima di essersi lavati della loro colpa. Analogamente non possono accusare un vescovo o altri chierici, coloro che siano sotto una precedente accusa, se prima non abbiano dimostrato di essere innocenti delle colpe loro imputate. Se, però, vi è chi senza essere eretico, né scomunicato, né condannato o accusato di alcun delitto, ha delle accuse in cose di chiesa contro il vescovo, questo santo sinodo comanda che questi presenti la sua accusa ai vescovi della provincia e dimostri davanti a loro la fondatezza delle accuse. Se poi i vescovi della provincia non sono in grado di correggere le mancanze di cui viene accusato il vescovo, allora gli accusatori possono adire anche il più vasto sinodo dei vescovi di quella diocesi (cioè il sinodo patriarcale), che saranno convocati proprio per questo. Non può però, essere ammesso a provare l’accusa, chi non abbia prima accettato per iscritto di subire una pena uguale a quella che toccherebbe al vescovo se nell’esame della causa si constatasse che le accuse contro il vescovo erano calunnie. Se qualcuno, disprezzando ciò che è stato decretato, osasse importunare l’imperatore, o disturbare i tribunali civili, o il concilio ecumenico, con disprezzo di tutti i vescovi della diocesi, la sua accusa non deve essere ammessa, perché egli ha disprezzato i canoni, ed ha tentato di sconvolgere l’ordine ecclesiastico.

VII. Come bisogna accogliere coloro che si avvicinano all’ortodossia.

Coloro che dall’eresia passano alla retta fede nel novero dei salvati, devono essere ammessi come segue: gli Ariani, i Macedoniani, i Sabaziani, i Novaziani, quelli che si definiscono i Puri (Catari), i Sinistri, i Quattuordecimani o Tetraditi e gli Apollinaristi, con l’abiura scritta di ogni eresia, che non s’accorda con la santa chiesa di Dio, cattolica e apostolica. Essi siano segnati, ossia unti, col sacro crisma, sulla fronte, sugli occhi, sulle narici, sulla bocca, sulle orecchie e segnandoli, diciamo: Segno del dono dello Spirito Santo. Gli Eunomiani, battezzati con una sola immersione, i Montanisti, qui detti Frigi, i Sabelliani, che insegnano l’identità del Padre col Figlio e fanno altre cose gravi, e tutti gli altri eretici (qui ve ne sono molti, specie quelli che vengono dalle parti dei Galati); tutti quelli, dunque, che dall’eresia vogliono passare alla ortodossia, li riceviamo come dei gentili. E il primo giorno li facciamo cristiani, il secondo, catecumeni; poi il terzo, li esorcizziamo, soffiando per tre volte ad essi sul volto e nelle orecchie. E così li istruiamo, e facciamo che passino il loro tempo nella chiesa, e che ascoltino le Scritture; e allora li battezziamo.


Note

(1) Cfr. At 7, 53
(2) Cfr. Gal 6, 17
(3) Cfr. Sal 50, 3
(4) Cfr. Sal 66, 12
(5) Cfr. 1 Cor 4, 8
(6) Cfr. Sal 55, 7
(7) Cfr Sal 21, 22
(8) 1 Cor 1, 12
(9) Cfr. Rm 14, 10




L’IMPORTANZA DELLA BIBBA LXX (dei Settanta)

LA VERSIONE GRECA DEL VECCHIO TESTAMENTO:
LA SETTANTA

Introduzione al libro: Il Salterio della Tradizione. L. Mortari, GRIBAUDI

Il prologo del libro del Siracide (o Ecclesiastico) ci attesta che, attorno al 135 a. C., il Vecchio Testamento era già stato quasi tutto tradotto dall’ebraico in greco. Alcune fonti del giudaismo alessandrino raccontano dei particolari molto interessanti sull’origine della versione della Torah, la Legge, cioè il Pentateuco. Fonte primaria a questo riguardo è la cosiddetta Lettera di Aristea48, che si può riassumere a grandi linee così: un alessandrino di nome Aristea scrisse a suo fra­tello Filocrate raccontandogli come Demetrio, capo della famosa li­breria di Alessandria, aveva persuaso Tolomeo II Filadelfo (285-246 a. C.) a mandare una delegazione a Eleazaro, sommo sacerdote in Ge­rusalemme, con la richiesta di incaricare sei anziani di ogni tribù di Israele, segnalati per probità di vita ed esperti nella legge, di tradurre la Torah in greco. Demetrio aveva detto e ripetuto al re che questa legislazione era degna di essere tradotta (§ 10) perché «ben precisa, piena di sapienza e pura» (§ 31). I 72 anziani — divenuti poi 70 nella tradizione per analogia coi settanta saliti con Mosè sul monte secondo Es 24, 1 ss — si recarono da Gerusalemme ad Alessandria, accompa­gnati dagli alessandrini che erano stati inviati in delegazione a Geru­salemme, Aristea stesso e Andrea.

Vennero ad Alessandria portando la pergamena su cui la Torah in caratteri ebraici era incisa in oro. Fecero un banchetto di sette giorni durante il quale, interrogati dal re su varie questioni, risposero con sua piena soddisfazione mostrando la loro grande sapienza. Furono quindi condotti alla vicina isola di Faros e alloggiati in un edificio bello e tranquillo, preparato per loro, ove, in 72 giorni, completarono la traduzione, giungendo, mediante confronti, al pieno accordo su ogni punto (§ 302). Allora Demetrio radunò la popolazione giudaica e lesse a tutti la traduzione, che ottenne una «grandiosa accoglienza» (§ 308). Quindi, fra generali acclamazioni, fu pronunziata maledi­zione contro chiunque osasse apportare alla versione il minimo mu­tamento, o aggiunta, o sottrazione, «affinché fosse custodita perenne e fissa per sempre» (§ 311).

Evidentemente la Lettera non è priva di particolari leggendari, ma al di là di essi e della finzione di questa pseudo-lettera viene ricono­sciuto ormai al documento, col vastissimo consenso di studiosi di varia provenienza, ebrei e cristiani, «una certa quantità di materiale attendibile sulle origini della Settanta »49, una «considerevole parte di verità», così che la lettera è «lungi dall’essere antistorica»50. Una fonte giudaica della metà del II secolo a.C., il Frammento di Aristo­bulo, mostra che in quell’epoca era effettivamente già diffusa ad Ales­sandria la tradizione sull’origine della versione greca del Pentateuco per iniziativa di uno dei primi re Tolomei. Testimonianze posteriori aggiungono abbellimenti più o meno fittizi, ma insieme rivelano l’esi­stenza di tradizioni convergenti e indipendenti da Aristobulo e Aristea. Fra queste è attestata la celebrazione di una grande festa annuale all’isola di Faros per il grande dono al mondo ellenico della versione greca”.

Un grande studioso, Orlinsky, promotore da un qualche decennio di una seria rivalutazione della Settanta in campo ebraico, ha segna­lato ripetutamente nei suoi studi «un fatto poco noto sulla prima tra­duzione della Torah», cioè un antichissimo commento rabbinico (b Megillah 9b) che applica alla Settanta il versetto della Genesi: Possa Dio allargare Japhet – ed egli abiti nelle tende di Sem (9, 27). L’esten­dersi di Japhet, capostipite dei greci, sarebbe appunto la versione greca della Torah”.

È lo stesso Orlinsky a sottolineare come in vari punti della lettera di Aristea sia istituito un voluto parallelismo tra la vicenda della Set­tanta e la legge data al Sinai, più alcuni aspetti delle vicende succes­sive del popolo. La lettera afferma così l’equivalenza fra la legge della Settanta e la Torah ebraica. Ritroviamo la stessa affermazione in Filone di Alessandria, giudeo vissuto a cavallo dell’era cristiana. Per lui e per il giudaismo di lingua greca della diaspora non c’è dubbio che il testo greco non è meno autoritativo e canonico di quello ebraico usato dagli ebrei di Palestina”. Da notarsi anche che nel frattempo era stata completata o quasi la traduzione degli altri libri del Vecchio Testamento, oltre al Pentateuco, ed essi cominciarono a diffondersi tra il popolo, anche se all’ombra del Pentateuco, che manteneva un po­sto del tutto privilegiato ed era il solo ad essere «canonizzato dalla promulgazione ufficiale» nella letteratura alessandrina. Orlinsky con­clude che la versione greca era semplicemente la Bibbia dei giudei della diaspora e del tutto naturalmente è tale per i cristiani fin dal loro nascere Orlinsky si ferma qui; ma i cristiani sanno che la Bibbia greca che hanno ricevuto, insieme a quella ebraica, da Gesù e dalla comu­nità apostolica, è la base e la condizione del linguaggio del Nuovo Testamento e il ponte di passaggio obbligato tra le scritture ebraiche e il nuovo messaggio in greco; è il testo citato nella grande maggio­ranza dei casi nelle citazioni veterotestamentarie del Nuovo Testa­mento, anche là dove diverge dal testo ebraico; rappresenta la forma più avanzata e più ricca nella evoluzione del Vecchio Testamento. Lo stesso testo ebraico d’altronde già mostrava nel suo interno una evo­luzione: basti vedere la rilettura interpretativa dei libri dei Re fatta nelle Cronache, il salmo 17 rispetto a 2 Sam 22 ecc. A mano a mano che cresce il tempo di avvicinamento al Cristo, il testo stesso cresce, acquisisce nuovi elementi, evolve, si arricchisce; le scuole ispirate, rileggendo tutta la Bibbia, capiscono cose che non avevano capito prima e le determinano in una nuova forma. L’evoluzione è partico­larmente avanzata nella Settanta, che ha aperto vie nuove nella storia della salvezza e che, anche attraverso il nuovo strumento linguistico, completa e universalizza e inevitabilmente trasforma, arricchisce, e fa progredire la comunicazione della Parola”.

Fra gli ebrei però, dopo qualche secolo di favore per la versione greca, avvenne un profondo mutamento, fino a giungere a dire che il giorno in cui la Torah fu tradotta in greco fu come quello in cui Israe­le fece il vitello d’oro, perché la Torah non poteva essere tradotta adeguatamente”. Questo grande cambiamento è frutto di vari fattori: la distruzione del secondo tempio nel 70 d. C., l’annientamento della sovranità giudaica, la diffusione del cristianesimo con l’assunzione da parte dei cristiani della Bibbia greca come la Bibbia e come fonda­mento delle loro argomentazioni. A questo non solo contribuì la com­posizione prevalente delle comunità cui era proclamato l’Evangelo —comunità di lingua greca della diaspora ebraica o di popolazioni pa­gane — ma anche lo stato più avanzato della rivelazione divina di cui la Settanta è portatrice, la sua preparazione più diretta e la maggiore prossimità al Cristo. Il giudaismo disperso, riorganizzandosi pian piano sotto la guida dei farisei, si trincera dietro il testo ebraico per la difesa dell’antichità e della «ortodossia» giudaica e per la polemica contro i cristiani. Quanto ad essi invece, «si può dire che la Settanta ha costituito l’Antico Testamento per tutta la Chiesa fino alla metà del quarto secolo. Si può dunque affermare senza esagerazione che è proprio la Settanta a rappresentare l’Antico Testamento per tutta la fase creatrice della teologia patristica

Oltre alla consacrazione della Settanta — e non solo del Penta­teuco — fatta dal Nuovo Testamento, oltre al suo uso pressoché uni­versale nei primi secoli, abbiamo anche non poche dichiarazioni for­mali dei Padri sul valore da essi attribuitole. Basti qui citarne qualcuna, rimandando per il resto ad altri studi. Ireneo e Clemente Ales­sandrino vedono l’opera dei Settanta in continuità con quella di Esdra, che, ispirato da Dio, aveva restituito le Scritture integre. Ireneo di­ceva anche che «l’unico e medesimo Spirito, che nei profeti aveva annunciato l’avvento del Signore, nei [Settanta] anziani ha interpre­tato bene ciò che bene era stato profetato», e negli apostoli ha annun­ciato la pienezza dei tempi. E Clemente: «Niente di strano che l’ispirazione di Dio, dopo aver dato la profezia, ne abbia fatta anche la traduzione come profezia in greco».

Origene, rispondendo a Giulio Africano che obiettava contro le parti in più della Bibbia greca non aventi il corrispondente ebraico, dichiarava che «non bisogna spostare i confini stabiliti dai padri» (cf. Pr 22, 28), che le Scritture sono quelle che le Chiese di Cristo da più di due secoli leggevano come tali, donate dalla Provvidenza a edificazione di tutte le Chiese di Cristo, nella sollecitudine di Dio per tutti coloro che sono stati redenti dal sangue di Cristo.

Agostino attribuisce decisamente allo Spirito Santo le particolarità e le varianti stesse del testo greco rispetto a quello ebraico: «Tutto ciò che manca nei codici ebraici, mentre c’è nei Settanta, è il mede­simo Spirito che ha preferito dirlo con questi invece che con quelli, mostrando con ciò che entrambi erano profeti». E Giovanni Criso­stomo attribuisce alla divina dispensazione, all’economia dello Spiri­to, pur nella diversità dei carismi, l’ispirazione di Mosè e di Esdra, l’invio dei profeti, l’interpretazione dei Settanta.

Tutto questo è rimasto attuale fino ad oggi, senza alcun dubbio, nella Chiesa d’Oriente, mentre in Occidente è stata provocata una gravissima frattura da Girolamo che, dopo aver venerato egli stesso dapprima la Settanta, si buttò poi unilateralmente nel principio della veritas hebraica. Molto interessante su questo punto considerare la disputa con lui di Agostino, che esprime il suo dissenso, in favore delle Scritture usate dagli apostoli, venerate dalle Chiese, note e diffuse tra il popolo. Ago­stino racconta perfino che il vescovo di Ea (attuale Tripoli di Libia), avendo letto in chiesa un passo del profeta Giona nella versione di Girolamo dall’ebraico, contenente cose molto diverse dal testo «ormai fissato nel pensiero e nella memoria di tutti e così trasmesso per tante generazioni», provocò un tale tumulto che dovette tornare al testo precedente per non restare senza fedeli! Agostino, che pure apprezza moltissimo e loda più volte Girolamo come traduttore, gli dice però recisamente: «Non voglio che la tua versione dall’ebraico venga letta nelle chiese, perché, introducendola come una novità contro l’autorità dei Settanta, non turbiamo con grande scandalo i fedeli di Cristo, le cui orecchie e i cui cuori sono abituati ad ascoltare quella versione che è stata approvata anche dagli apostoli».

La rottura operata da Girolamo non si consumò che lentamente nella Chiesa latina, dove ancora per secoli in letture e testi liturgici e nei Padri troviamo in uso la Vetus latina, cioè le traduzioni latine fatte sulla Settanta anteriormente a Girolamo. Queste poi, nella forma ri­vista da Girolamo stesso, sono rimaste integralmente per i libri deu­terocanonici, i libri cioè scritti direttamente in greco e di cui manca, o mancava, l’originale ebraico, e che Girolamo, a un certo punto, per coerenza al principio dell’hebraica veritas, rigettò. La Chiesa invece risolse positivamente le dispute a loro riguardo e il problema da essi costituito; così ha continuato a custodirli e venerarli come libri sacri ed ispirati. In questo modo la Chiesa, optando per il canone della Settanta, ha attribuito a questa un’autorità così forte da impugnare il canone ebraico e accusare gli ebrei di aver contratto le Scritture.

Ma purtroppo Girolamo ha aperto la strada alla definizione prote­stantica del canone ridotto. Quanto alla versione latina dei protoca­nonici, cioè dei libri conservati in ebraico, in Occidente prese a poco a poco il sopravvento dall’antichità la traduzione bellissima di Giro­lamo dall’ebraico stesso, e la Settanta venne sempre più abbandonata. Nella Bibbia latina dunque, cui da qualche secolo è stato dato il nome di Vulgata, figurano i deuterocanonici tradotti dal greco e i protoca­nonici tradotti dall’ebraico.

RIFERIMENTI

S. JELLICOE, The Septuagint and Modern Study, Oxford 1968, p. 59. P, il parere di una delle più grandi autorità negli studi sulla LXX, scomparso da qualche anno, promotore di una organizzazione internazionale per lo studio della LXX, che pubblica dal 1971 un Bulletin e a cui si deve il progetto di uno strumento basilare che finora purtroppo mancava e che è in preparazione, un lessico della LXX.

H. M. ORLINSKY, The Septuagint. The Oldest Translation of the Bible, in Essays in Biblical Culture and Bible Translation, New York 1974, p. 366.

H. M. ORLINSKY, The Septuagint as Holy Writ and the Philosophy of the Translators, H1JCA 46 (1975), p. 97s, nota 12.

La lettera di Aristea a Filocrate, a cura di R. TRAMONTANO, Napoli 1931;

Adversus Haereses III, 21, 4, SC 211, p. 408-410.

Stromata I, 149, 3, SC 30, p. 152.

De civitate Dei 18, 43, PL 41, 604.

In Epistulani ad Hebraeos homiliae 8, 4, PG 63, 74

AGOSTINO, Ep. 71, Lettere 1, CN XXI, p. 566-569.




ORIGENE: La pietra della Chiesa

ORIGENE, Commento al Vangelo di Matteo

LA RIVELAZIONE A PIETRO-CHIESA.

Ma forse potremmo anche noi dire la stessa cosa che Simon Pietro affermò in risposta: Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo, se come Pietro lo diciamo non per avercelo rivelato la carne e il sangue, ma per essere brillata nel nostro cuore una luce dal Padre che è nei cieli; a questo punto diventiamo anche noi ciò che era Pietro, e saremo dichiarati beati come lui, perché anche per noi si è realizzato quello che era motivo di beatitudine per lui: non la carne e il sangue ci hanno rivelato che Gesù Cristo è il Figlio del Dio vivente, bensì il Padre che è negli stessi cieli, in cui siamo noi, perché è lì che abbiamo la nostra patria, ci ha fatto una rivelazione, che innalza ai cieli coloro che hanno tolto dal cuore ogni velo, e hanno ricevuto lo spirito della sapienza di Dio e della sua rivelazione 9. Ora se avremo detto anche noi come Pietro: Tu sei il Cristo, Figlio di Dio vivo (non perché ce lo abbia rivelato la carne e il sangue, ma perché è brillata nel nostro cuore una luce dal Padre che è nei cieli) diventeremo Pietro, e il Logos potrebbe dire anche a noi: Tu sei Pietro, ecc. Pietra, infatti, è ogni imitatore di Cristo. Da Cristo attingevano coloro che si dissetavano a una pietra spirituale che li accompagnava. E su ogni pietra di tal genere viene edificato tutto l’insegnamento della Chiesa e il modo di vivere conforme ad esso. Infatti in ognuno dei perfetti che hanno l’insieme degli insegnamenti, delle opere e dei pensieri che compiutamente realizzano la beatitudine, è la Chiesa edificata da Dio.

Ma se ritieni che solamente su quel Pietro Dio edifichi tutta quanta la Chiesa, cosa dirai allora di Giovanni, il figlio del tuono o di ciascuno degli apostoli? Ma veramente oseremo asserire che le porte degli inferi non prevarranno su quel Pietro in particolare, mentre prevarranno sugli altri apostoli e sui perfetti? Non è che la suddetta promessa: le porte degli inferi non prevarranno su di essa e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, viene fatta in rapporto atutti e ad ognuno di loro? Dunque le chiavi del regno dei cieli sono consegnate da Cristo al solo Pietro, e nessun altro dei beati le riceverà? Ma se la promessa: a te darò le chiavi del regno dei cieli è comune ad altri, come non lo saranno tutte le parole precedenti e conseguenti rivolte a Pietro…? In realtà, qui sembrano rivolte a Pietro le parole: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli, ecc.; ma nel Vangelo di Giovanni, il Salvatore è ai discepoli che dà lo Spirito Santo, col suo alitare, e dice: Ricevete lo Spirito Santo, ecc. Orbene, molti diranno al Salvatore: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente, ma non tutti quelli che lo asseriscono glielo diranno per averlo appreso da una rivelazione della carne e del sangue, ma per averlo stesso Padre che è nei cieli rimosso il velo posto sopra il loro cuore, affinché dopo ciò, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, parlino nello Spirito di Dio, dicendo di lui: Gesù è il Signore e dicendo a lui: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E se uno dice a lui questo, non perché glielo abbiano rivelato la carne e il sangue, ma il Padre che è nei cieli, riceverà dette promesse, come dice certo la lettera del Vangelo a quel Pietro, ma come insegna anche lo spirito del Vangelo a chiunque sia divenuto come quel Pietro. Infatti, lo stesso nome di «pietra» hanno tutti gli imitatori di Cristo, pietra spirituale che seguiva coloro che erano salvati, affinché ne attingessero la bevanda spirituale. Costoro dunque, come il Cristo, prendono lo stesso nome dalla pietra, ma essendo anche membra di Cristo si chiamarono «Cristi» derivando da lui questo nome, e si chiamarono «Pietri» dalla pietra. Prendendo spunto da ciò, dirai che i giusti hanno questo nome da Cristo-Giustizia, e i sapienti da Cristo-Sapienza. E così, per tutti gli altri suoi titoli assegnerai rispettivi nomi ai santi: a tutti loro potrebbero essere rivolte le parole dette dal Salvatore: Tu sei Pietro, e così via fino a: non prevarranno contro di essa.Contro di essa: contro chi? Contro la pietra sulla quale il Cristo edifica la sua Chiesa, contro la Chiesa (l’espressione è ambivalente), oppure contro la pietra e la Chiesa insieme?

Questo, a mio parere, è il senso vero: le porte degli inferi non prevarranno né sulla pietra sulla quale Cristo edifica la sua Chiesa, né sulla Chiesa, sì che non si potrà mai trovare il cammino del serpente nella pietra (come sta scritto nei Proverbi). Ora se le porte degli inferi prevarranno su qualcuno, un tale uomo non potrà essere né la pietra sulla quale Cristo edifica la sua Chiesa, né la Chiesa edificata da Cristo sulla pietra. Infatti la pietra è inaccessibile al serpente, ed è più forte delle porte degli inferi che le sono avverse, per cui queste non prevarranno su di essa, a motivo della forza che ha. E la Chiesa, come costruzione di Cristo, che ha saggiamente costruito la sua casa sulla pietra, è inespugnabile dalle porte degli inferi, che se pure prevalgono su ogni uomo che si trova fuori della pietra e della Chiesa, nulla possono contro di questa.