STORIA: Dalla pentarchia al dittico

Come si formava l'”ordine d’onore” nelle Chiese ortodosse

articolo di Pavel Kuzenkov, dottore di ricerca in storia, professore associato, Patriarcato di Mosca

Per la Chiesa ortodossa, l’unico vero Capo è il Signore Gesù Cristo, al quale è stato dato ogni potere in cielo e in terra (Matteo 28:18). E se per i cattolici il Papa “ha sulla Chiesa la potestà piena, suprema e universale” in quanto Vicario di Cristo (Catechismo della Chiesa Cattolica, 882), nella tradizione ortodossa i primati delle Chiese locali autocefali sono considerati uguali in dignità gerarchica. Nello stesso tempo, tra di loro esiste un certo ordine d’onore, secondo il quale vengono commemorati nei dittici liturgici. Come si è sviluppata questa tradizione secolare?

Cristo e gli apostoli sul primato nella chiesa

Secondo i Vangeli, il Signore non ha individuato alcun “leader” tra gli apostoli che avrebbe diritti speciali sugli altri. Inoltre, Gesù Cristo represse rigorosamente i tentativi dei discepoli di scoprire chi di loro avesse il vantaggio (Luca 22: 24-30; Matteo 18: 1-2), e disse loro: “Il più grande tra sia come il più piccolo; e chi governa sia come colui che serve “(Luca 22: 24-26; cfr. Matt. 23: 11-12). Dopo di ciò, egli stesso diede un esempio di questa insolita comprensione del potere, lavando i piedi degli apostoli durante l’Ultima Cena.

Il sistema, in cui più alto è il capo, più deve servire ai suoi subordinati, era incomprensibile per i pagani. E infatti, nelle condizioni di “questo mondo” è inconcepibile. Ma nella Chiesa di Cristo da duemila anni regna questo principio di amore, che è l’opposto della logica del potere mondano, basato sulla forza e sull’orgoglio. L’ideale del governo della chiesa è il biblico Buon Pastore, che offre la sua vita per le sue pecore (Giovanni 10: 11-16; cfr. Isa. 40:11 e altri).

 La nascita della gerarchia 

Già l’apostolo Paolo menziona il ministero ecclesiastico del vescovo (letteralmente “colui che sorveglia, supervisore”) e diacono (letteralmente “servitore”) (1 Tim. 3). All’inizio, il vescovo è difficilmente distinguibile dai presbiteri (“anziani”) che governavano le comunità nell’era apostolica (Atti 15:23, 16: 4 e altri). Dal secondo secolo in poi, i vescovi ricevevano per tutta la vita il potere di “legare e sciogliere”, presiedevano le riunioni eucaristiche e guidavano la preghiera dei fedeli come successori degli apostoli.

Il vescovo di Roma – capitale dell’impero e luogo di sepoltura dei più autorevoli tra gli apostoli, Pietro e Paolo – aveva una posizione del tutto particolare. Già nel II secolo era considerato il vescovo più influente non solo all’interno dell’Impero Romano, ma anche al di fuori di esso.

I concili e la sinodalita’

Entro il III secolo appaiono le riunioni (concili) dei vescovi delle città di una particolare provincia romana (in greco “eparchia”) sotto la presidenza del vescovo della città principale, la metropoli. Il vescovo di questa città (metropolita) era obbligato a consultarsi con i vescovi della sua provincia, che dovevano onorarlo come capo. Allo stesso tempo, nelle loro diocesi i vescovi rimanevano governanti sovrani (34 ° Canone Apostolico, 9 ° Canone del Concilio di Antiochia).

Nel 325, Costantino il primo imperatore cristiano, invitò i vescovi a Nicea per l’anniversario del suo regno. Questo incontro ha aperto una serie di Concili straordinari dell’episcopato, convocati dalle autorità statali per risolvere i disaccordi ecclesiali. I sette Concili Ecumenici dei secoli IV-VII formularono i fondamenti dogmatici e canonici dell’Ortodossia (tra cui quello dell’ortodossia, e della cattolicità).

Consegna del Simbolo – Parrocchia di Quartirolo

 Poiché l’episcopato di tutto l’impero si riuniva ai Concili Ecumenici, nacque la necessità di una gerarchia cerimoniale per il clero più alto. Inizialmente, lo status dei vescovi dipendeva dalla loro autorevolezza personale. Ma già a Nicea nel 325 era stabilito (6°  regola del Primo Concilio Ecumenico):

“In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi”

Fu proprio questa regola che fu successivamente utilizzata dai Papi per confermare le rivendicazioni del loro primato È curioso che già nelle antiche versioni latine questa regola inizia con parole che non ci sono nell’originale greco: “La sede romana ha sempre avuto il primato”. Ma in realtà la regola parla solo del riconoscimento dei diritti dei vescovi delle città più grandi nei confronti dei vescovi delle province circostanti.

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Le due Rome

 La fondazione di Costantinopoli nel 330 fu una sfida all’antica tradizione politica ed ecclesiastica, in cui Roma non aveva e non poteva avere rivali. La “Città Eterna” era considerata non solo un simbolo della potenza della “sovranazione” romana, ma anche un sacro garante dell’esistenza del mondo stesso. Anche gli scrittori cristiani hanno riconosciuto che l’indebolimento di Roma avrebbe portato a una catastrofe mondiale. E così la Nuova Roma apparve in Oriente, dove si trasferì lo stesso imperatore. L’emergere della nuova capitale richiedeva una revisione del sistema dei “privilegi” delle cattedre episcopali, fissati a Nicea. Il vescovo della città di Bisanzio, località dove Costantino il Grande costruì la Nuova Roma, era un vescovo ordinario della provincia di Tracia, subordinato al metropolita della sua capitale, Irakleia. Ma questo status non corrispondeva in alcun modo a quello della capitale dell’impero che presto divenne un megapoli. Allora al II Concilio Ecumenico di Costantinopoli (381) fu adottato il seguente canone (3° regola):

“Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma”.

 La Nuova Roma era equiparata alla Vecchia Roma non solo per quanto allo status politico, ma anche dal punto di vista ecclesiastico. Tuttavia, la natura dei “privilegi d’onore”, da lei ricevuti, non fu precisata, il che diede origine a una serie di conflitti. I vescovi di Costantinopoli, non avendo una propria provincia, iniziarono ad estendere la loro autorità tanto lontano quanto lo permettevano le circostanze, provocando proteste dei metropoliti vicini. La reazione di Efeso, una metropoli dell’Asia Minore, orgogliosa del suo status dell cattedra di San Giovanni il Teologo, è stata particolarmente acuta.Illustration_6.jpg

In Occidente, il II Concilio Ecumenico non fu immediatamente riconosciuto come tale, e la suddetta regola fu ignorata dai papi, che continuarono a considerare i tre troni elencati nei canoni di Nicea  (Roma, Alessandria ed Antiochia) come i principali. Qui, un ruolo è stato svolto sia dalla tendenza di seguire gli antichi costumi, caratteristica della mentalità romana, sia dalla tendenza di ricondurre l’autorevolezza di alcune cattedre episcopali ai tempi apostolici. La chiesa romana fu fondata da San Pietro e San Paolo; anche ad Antiochia agirono entrambi questi principi degli apostoli, il trono di Alessandria fu fondato dal discepolo di Pietro, il santo evangelista Marco. E di cosa poteva vantarsi Bisanzio, che era una città insignificante? Solo molti secoli dopo apparirà la leggenda sulla visita in quella località di Sant’Andrea, che trasformerà Costantinopoli in una sede apostolica e, per di più, fondata dal primo chiamato tra gli apostoli e il fratello maggiore di San Pietro.Illustration_7.jpg

Canone 28 di Calcedonia e la giurisdizione di Costantinopoli 

Era impossibile negare il “peso” ecclesiastico di Costantinopoli, specialmente dopo che l’Impero Romano fu definitivamente diviso nel 395 e la sua metà occidentale iniziò a declinare sempre più notevolmente. Inoltre, era necessario definire formalmente i confini della giurisdizione della cattedra della Nuova Roma, in modo che il suo patriarca (come iniziarono ad essere designati i principali vescovi dal V secolo) non invadesse le diocesi altrui. Perciò, nel 451, il IV Concilio Ecumenico di Calcedonia adottò alcune importanti regole, tra cui quella 28° è particolarmente importante:

“Seguendo in tutto le disposizioni dei santi padri, preso atto del canone or ora letto, dei 150 vescovi cari a Dio, che sotto Teodosio il Grande, di pia memoria, allora imperatore si riunirono nella città imperiale di Costantinopoli, nuova Roma, stabiliamo anche noi e decretiamo le stesse cose riguardo ai privilegi della stessa santissima chiesa di Costantinopoli, nuova Roma. Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell’antica Roma, perché la città era città imperiale. Per lo stesso motivo i 150 vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l’imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell’antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella. Di conseguenza, i soli metropoliti delle diocesi del Ponto, dell’Asia, della Tracia, ed inoltre i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla sacratissima sede della santissima chiesa di Costantinopoli. E’ chiaro che ciascun metropolita delle diocesi sopraddette potrà, con i vescovi della sua provincia, ordinare i vescovi della sua provincia, come prescrivono i sacri canoni; e che i metropoliti delle diocesi che abbiamo sopra elencato, dovranno essere consacrati dall’arcivescovo di Costantinopoli, a condizione, naturalmente, che siano stati eletti con voti concordi, secondo l’uso, e presentati a lui”.

 Questi canoni sono estremamente importanti, poiché è su di essi che ormai nel XX secolo alcuni teologi cercheranno di costruire una teoria della giurisdizione ecclesiastica mondiale di Costantinopoli (Istanbul). Ma è sufficiente leggere attentamente questi testi per essere sicuri che qui non si tratta di alcuna “giurisdizione universale”. Al contrario, i padri del Concilio limitano la giurisdizione dell’arcivescovo di Costantinopoli, dandogli il diritto di nominare metropoliti delle tre diocesi, nonché vescovi delle comunità straniere di queste stesse diocesi. Nell’impero romano di quell’epoca, c’erano molte tribù, germaniche e altre, che si stabilivano nell’impero come alleati (federati); non erano inclusi nella struttura amministrativa imperiale e le loro strutture ecclesiastiche erano dirette da vescovi speciali, direttamente subordinati al patriarca.

Quindi, la 28° Regola di Calcedonia equiparava la Vecchia Roma e la Nuova Roma nei loro privilegi e trasferiva tre diocesi nella sfera della giurisdizione ecclesiastica di Costantinopoli: Asia, Ponto e Tracia.

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I cinque “patriarcati dell’ecumene ” 

Allo stesso Concilio di Calcedonia fu presa un’altra decisione importante. La Città Santa di Gerusalemme fu definitivamente separata in uno speciale distretto ecclesiastico. Si formarono così le cinque principali cattedre dell’Impero Romano, ai cui primati fu assegnato il titolo di patriarca: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. Le loro aree di giurisdizione differivano notevolmente dalla divisione amministrativa: dall’intero Impero d’Occidente con la prefettura dell’Illirico (Roma) ad alcune piccole province (Gerusalemme). Tuttavia, l’enorme “Patriarcato d’Occidente” era una finzione convenzionale: nel V secolo, l’Impero Romano d’Occidente cessò di esistere e il controllo di Roma sulle strutture ecclesiastiche dei regni barbari, che sorsero sulle sue rovine, era illusorio. Inoltre, la Chiesa nell’ Africa Latina proibiva esplicitamente gli appelli “oltreoceano”, cioè a Roma (Canoni di Cartagine 32, 37, 118, 139), mentre l’arcivescovo di Aquileia (Grado, Venezia) rivendicava il titolo di patriarca.

Pentarchia - Wikipedia

 L’imperatore Giustiniano il Grande si riferisce a Roma e Costantinopoli come alle cattedre principali dell’impero (editto del 533; 131° novella del 545), e riduce la pienezza della Chiesa cattolica e apostolica al consenso dei cinque “santissimi patriarchi dell’ecumene” e dei vescovi a loro subordinati (109° novella del 541). Allo stesso tempo, il titolo onorifico di “Patriarca ecumenico” è stato aggiunto nel titolo dell’arcivescovo di Costantinopoli, il che ha sottolineato lo status di Nuova Roma come di uno dei patriarcati dell’universo (“ecumene”, come era solennemente chiamato l’Impero Romano). Va tenuto presente che la divisione della Chiesa in cinque patriarcati non era assoluta: non teneva conto né dell’autocefala Chiesa del Cipro, né della sede particolare dell’arcivescovo della città nativa di Giustiniano, Giustiniana (fondata nel 545 dallo stesso imperatore), per non parlare delle Chiese fuori dall’impero.

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Pentarchia nell’impero bizantino medievale 

La definitiva formalizzazione canonica del sistema dei cinque patriarcati avvenne nel 692 al Quinisesto Concilio ecumenico (Concilio in Trullo). Il canone 36, ivi adottato, dice:

“Rinnovando la legge ordinata dai 150 santi padri che si sono riuniti in questa città regnante e protetta da Dio, e dei 630 che si sono riuniti a Calcedonia, determiniamo: la sede di Costantinopoli abbia uguali privilegi con la sede dell’antica Roma; e venga altrettanto elevata negli affari della chiesa, essendo la seconda dopo di essa; dopo quella poi venga elencata la sede della grande città di Alessandria, poi la sede di Antiochia, e dopo di essa la sede della città di Gerusalemme”.

Un’altro ordine di “sedi principali” è stato adottato invece nell’Occidente. Nel “Dono di Costantino” (un famoso falsificato dell’VIII secolo, che confermava il diritto dei Papi al potere secolare), Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli sono menzionate come sedi subordinate a Roma. L’autore di questo falsificato medievale non era imbarazzato dal fatto che il “decreto” fosse datato 315, quando Costantinopoli non esisteva nemmeno nel progetto: per lui era importante mettere il “nuovo arrivato” all’ultimo posto. I papi più di una volta hanno sottolineato lo status secondario di Costantinopoli in quanto patriarcato e hanno protestato contro il titolo “ecumenico”, che in epoca bizantina divenne consuetudinario per i patriarchi di  Costantinopoli. Nel VII secolo tutte le altre sedi orientali furono conquistate dagli arabi e Costantinopoli rimase l’unico patriarcato ecumenico sul territorio dell’impero.

Tuttavia, gli altri patriarchi erano comunque considerati i principali vescovi dell’unica Chiesa universale. La Pentarchia, sebbene fosse interpretata dagli scrittori bizantini come l’organica pienezza ecclesiastica, simile ai cinque sensi dell’uomo, non fu mai intesa come un elenco chiuso. Nei secoli X-XIII apparvero Chiese autocefali che non facevano parte di essa (la Chiesa bulgara o quella serba). È curioso che anche lo scisma di Roma nell’XI secolo non ha cambiato il concetto: Teodoro Balsamon (XII secolo) e Matteo Blastares (XIV secolo) parlano della divisione dell’universo tra i cinque patriarchi, “senza contare le piccole chiese”.

Mosca invece di Roma 

L’elevazione del metropolita di Mosca al rango di patriarca dal patriarca Geremia II di Costantinopoli (1589), sancita dai Concili dei Patriarchi Orientali nel 1590 e 1593, ha introdotto una nuova concezione della Pentarchia. Il Patriarca di Mosca e di tutta la Rus’ San Giobbe lo ha descritto in questo modo:

“Al posto del papa, il padre maggiore dovrebbe essere il santissimo signor Geremia, l’arcivescovo di Costantinopoli – Nuova Roma e il patriarca ecumenico, e poi dovrebbero esserci quattro patriarchi: di Alessandria, d’Antiochia, di Gerusalemme e della città regnante di Mosca e del regno russo”.

Foto La Cattedrale di San Basilio a Mosca - 366x550 - Autore: Redazione (3  di 3)

Il Concilio del 1590 decretò che il Patriarca di Costantinopoli era d’ora in poi il primo, e quello di Mosca – il quinto. E al Concilio del 1593 fu espressamente stabilito che Mosca fu dichiarata patriarcato per rispetto dello status politico della Russia: “poiché Dio ha onorato questo paese con il regno”.

Quindi, Mosca ricevette la dignità patriarcale in quanto capitale dell’unico regno ortodosso al mondo, proprio come accadde a Costantinopoli a suo tempo. Allo stesso tempo, non fu elevata allo stesso livello con essa, ma ottenne l’ultimo, quinto posto nella Pentarchia.Illustration_12.jpg

A quel tempo, i quattro patriarcati orientali si trovavano sul territorio del più grande stato del mondo islamico: l’Impero Ottomano. Ciononostante, il patriarca di Costantinopoli aveva i diritti del capo dell’intero millet ortodosso, il che gli dava opportunità del tutto particolari. Tuttavia, quando Fener (il quartiere di Istanbul dove si trova la residenza del patriarca) violava i diritti canonici dei suoi confratelli ad Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, incontrava ferme proteste.

Le nuove pretese di Costantinopoli e la posizione della Chiesa russa 

Nel XX secolo, dopo l’emergere della Repubblica Turca e la deportazione della popolazione greca dall’Asia Minore, la posizione di Costantinopoli apparve davvero drammatica. Allora i Patriarchi ecumenici, con il sostegno dell’Intesa, hanno deciso di trasformare il loro titolo onorifico nel vero status di “patriarca dell’universo”. Approfittando della posizione più difficile della Chiesa russa, che aveva subito persecuzioni senza precedenti, Costantinopoli iniziò a prendere unilateralmente, in modo anticanonico, sotto la sua “giurisdizione suprema” le Chiese locali, sorte nei nuovi stati nazionali dell’Europa orientale. Reinterpretando il 28 ° canone di Calcedonia, Fener iniziò a considerare “stranieri” tutti i popoli che non avevano proprie antiche Chiese ortodosse e considerarli sotto la sua giurisdizione.

Incontro a fine agosto tra Kirill e Bartolomeo, una occasione a rischio - La  Stampa

 Non accontentandosi del tradizionale status canonico di “primus inter pares”, i patriarchi di Costantinopoli iniziarono a rivendicare il posto di un “vescovo mondiale”, “primus sine paribus”, come disse uno degli sostenitori di questo concetto, l’arcivescovo Elpidophoros (Lambriniadis) d’America. Un passo importante su questo percorso è stata l’organizzazione e lo svolgimento, contrariamente alla posizione di un certo numero di Chiese ortodosse, del “Santo e Grande Concilio Panortodosso” a Creta nel 2016, che ha tentato di trasferire a Costantinopoli i diritti di “coordinatore” tra tutte le altre Chiese ortodosse. La natura di questo “coordinamento” può essere vista nelle azioni del Patriarca Bartolomeo in relazione alla scismatica Chiesa ortodossa dell’Ucraina. Queste azioni, calpestando grossolanamente gli antichi canoni, hanno portato e continuano a portare scandalo e divisione nella Chiesa ortodossa.

 La Chiesa ortodossa russa preserva fermamente il principio apostolico di sinodalità e riconosce l’uguaglianza dei diritti canonici dei primati di tutte le 15 Chiese locali autocefale, tra cui quelle di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Russia, Georgia, Serbia, Romania, Bulgaria, Cipro, Grecia, Albania, Polonia, delle Terre Ceche e della Slovacchia, d’America. Tutte queste Chiese sorelle sono membri uguali dell’Unica Chiesa Cattolica e Apostolica di Cristo.




CONCILIO DI NICEA

Convocato dall’imperatore Costantino nel 325 a Nicea. A questo concilio ecumenico parteciparono 318 padri. Erano invitati tutti i vescovi della cristianità, mentre l’Imperatore si è fatto carico delle spese, ma dall’Europa occidentale vennero soltanto 4 o 5 vescovi; lo stesso vescovo di Roma non partecipò personalmente, ma mandò 2 sacerdoti a rappresentarlo. La maggioranza vennero dalle città Elleniche o ellenizzate. Fra questi si distinguevano il vecchio Alessandro, Vescovo di Alessandria, accompagnato dal suo giovane consigliere Atanasio. Costantino partecipò nelle discussioni, come dice Eusebio: “parlando greco perché non era estraneo a questa lingua”. I vescovi si incontrarono nella metà di giugno del 325, ma la riunione ufficiale si tenne il 5 o 6 di luglio. L’incontro durò 20 giorni e risolse la questione del rapporto fra il Padre ed il Figlio usando il termine “omoousios” (consustanziale)

Sant’Atanasio il Grande, Il Concilio di Nicea

“Anche i giudei infatti, [come gli ariani ndr] confutati dalla verità e incapaci di guardarla in faccia, dicevano pretestuosamente: Che segno fai, perché vediamo e crediamo in te? Che opera fai? Eppure già erano stati fatti molti segni, al punto che essi stessi dicevano: Che cosa facciamo, poiché quest’uomo fa molti segni? In effetti, c’erano morti che risuscitavano, storpi che camminavano, ciechi che vedevano, lebbrosi che venivano purificati; inoltre, una volta l’acqua venne cambiata in vino e da cinque pani vennero sfamati cinquemila uomini. Tutti erano
nella meraviglia e adoravano il Signore, riconoscendo che in lui si erano adempiute le profezie e che egli stesso era Dio, Figlio di Dio. Soltanto i farisei, anche se i segni apparivano più splendenti del sole, di nuovo mormoravano da ignoranti e dicevano: ·Perché tu, che sei uomo, ti fai Dio?·. Insensati e veramente ciechi nella mente! 5. Avrebbero invece dovuto dire: •Perché tu, che sei Dio, ti sei fatto uomo?•. Le opere infatti mostravano che egli era Dio, ed essi avrebbero dovuto adorare la bontà del Padre e ammirare la disposizione da lui attuata a causa nostra. […]

Come gente empia, che ama contestare e cerca di opporsi a Dio, quelli [gli ariani ndr] proferivano parole piene di empietà. I vescovi invece, che si erano radunati in numero più o meno di trecento, con atteggiamento mite e benevolo chiedevano loro di dare ragione di quanto dicevano e [di fornire] dimostrazioni conformi alla retta fede. Ma poiché anche solo ad aprir bocca si condannavano e disputavano tra di loro, vedendo l’estremo imbarazzo della loro eresia, rimasero senza parola, e con il loro silenzio confermavano la vergogna insita nella loro cattiva dottrina. I vescovi allora, annullando le parole escogitate da quelli, esposero contro di essi la sana fede della Chiesa. Tutti, anche quelli della cerchia di Eusebio, sottoscrissero quelle parole, di cui ora questi si lamentano. Mi riferisco a “dalla sostanza” (ek tes ousias) e “consostanziale” (homoousios), con cui si esprime che il Figlio di Dio non è creatura od opera, né è una delle realtà divenute, ma che il Logos è generato dalla sostanza del Padre”.

Concilio di Nicea I - Wikipedia

I TESTI CONCILIARI

PROFESSIONE DI FEDE DEI 318 PADRI

Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili. Ed in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre [secondo i Greci: consustanziale], mediante il quale sono state fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che quelle che sono sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto e risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà per giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo.

Ma quelli che dicono: Vi fu un tempo in cui egli non esisteva; e: prima che nascesse non era; e che non nacque da ciò che esisteva, o da un’altra ipostasi o sostanza che il Padre, o che affermano che il Figlio di Dio possa cambiare o mutare, questi la chiesa cattolica e apostolica li condanna.

CANONI

I. Di quelli che si mutilano o permettono questo da parte di altri su se stessi.

Se qualcuno, malato, ha subito dai medici un’operazione chirurgica, o è stato mutilato dai barbari, può far parte ancora del clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è castrato da sé, costui, appartenendo al clero, sia sospeso, e in seguito nessuno che si trovi in tali condizioni sia promosso allo stato ecclesiastico. E’ evidente, che quello che è stato detto riguarda coloro che deliberatamente compiono una cosa simile e osano mutilare se stessi ma se qualcuno, fosse stato castrato dai barbari o dai propri padroni, ma fosse degno sotto ogni aspetto, i canoni lo ammettono nel clero.

II. A coloro che dopo il battesimo sono subito ammessi nel clero.

Poiché molte cose per necessità, o sotto la pressione di qualcuno, sono state fatte contro le disposizioni ecclesiastiche, sicché degli uomini, venuti da poco alla fede dal paganesimo e istruiti in breve tempo, sono stati subito ammessi al battesimo e insieme sono stati promossi all’episcopato o al sacerdozio, è sembrato bene che in futuro non si verifichi nulla di simile: è necessario del tempo, infatti, a chi viene catechizzato, ed una prova più lunga dopo il battesimo. E’ chiara infatti, la parola dell’apostolo: (il vescovo) non sia un neofita, perché non gli accada di montare in superbia e di cadere nella stessa condanna (1).

Se poi col passar del tempo si venisse a scoprire qualche colpa commessa da costui e fosse accusato da due o tre testimoni, questi cesserà di far parte del clero. Chi poi osasse agire contro queste disposizioni e si ergesse contro questo grande sinodo, costui metterebbe in pericolo la sua stessa dignità sacerdotale.

III. Delle donne che vivono nascostamente con i chierici.

Questo grande sinodo proibisce assolutamente ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e in genere a qualsiasi membro del clero di tenere delle donne di nascosto, a meno che non tratti della propria madre, di una sorella, di una zia, o di persone che siano al di sopra di ogni sospetto.

IV. Da quanti debba essere consacrato un vescovo.

Si abbia la massima cura che un vescovo sia istituito da tutti i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per sopravvenute difficoltà, o per la distanza, almeno tre, radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima per iscritto il consenso degli assenti, celebrino la consacrazione. La conferma di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna provincia al vescovo metropolita.

V. Degli scomunicati: che non siano accolti da altri; e dell’obbligo di tenere i sinodi due volte all’anno.

Quanto agli scomunicati, sia ecclesiastici che laici, la sentenza dei vescovi di ciascuna provincia abbia forza di legge e sia rispettata la norma secondo la quale chi è stato cacciato da alcuni non sia accolto da altri. E’ necessario tuttavia assicurarsi che questi non siano stati allontanati dalla comunità solo per grettezza d’animo o per rivalità del vescovo o per altro sentimento di odio.

Perché poi questo punto abbia la dovuta considerazione, è sembrato bene che in ogni provincia, due volte all’anno si tengano dei sinodi, affinché tutti i vescovi della stessa provincia riuniti al medesimo scopo discutano questi problemi, e così sia chiaro a tutti i vescovi che quelli che hanno mancato in modo evidente contro il proprio vescovo sono stati opportunamente scomunicati, fino a che l’assemblea dei vescovi non ritenga di mostrare verso costoro una più umana comprensione. I sinodi siano celebrati uno prima della Quaresima perché, superato ogni dissenso, possa esser offerto a Dio un dono purissimo; l’altro in autunno.

VI. Della precedenza di alcune sedi, dell’impossibilità di essere ordinato vescovo senza il consenso del metropolita.

In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi. Inoltre sia chiaro che, se qualcuno è fatto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba esser vescovo. Qualora poi due o tre, per questioni loro personali, dissentano dal voto ben meditato e conforme alle norme ecclesiastiche degli altri, prevalga l’opinione della maggioranza.

VII. Del vescovo di Gerusalemme.

Poiché è invalsa la consuetudine e l’antica tradizione che il vescovo di Gerusalemme riceva particolare onore, abbia quanto questo onore comporta, salva sempre la dignità propria della metropoli.

VIII. Dei cosiddetti càtari.

Quanto a quelli che si definiscono càtari, cioè puri, qualora si accostino alla chiesa cattolica e apostolica, questo santo e grande concilio stabilisce che, ricevuta l’imposizione delle mani, rimangano senz’altro nel clero. E’ necessario però, prima di ogni altra cosa, che essi dichiarino apertamente, per iscritto, di accettare e seguire gli insegnamenti della chiesa cattolica, che cioè essi comunicheranno con chi si è sposato per la seconda volta e con chi è venuto meno durante la persecuzione, per i quali sono stabiliti il tempo e le circostanze della penitenza, così da seguire in ogni cosa le decisioni della chiesa cattolica e apostolica. Quando, sia nei villaggi che nelle città, non si trovino che ecclesiastici di questo gruppo essi rimangano nello stesso stato. Se però qualcuno di essi si avvicina alla chiesa cattolica dove già vi è un vescovo o un presbitero, è chiaro che il vescovo della chiesa avrà dignità di vescovo e colui che presso i càtari è chiamato vescovo, avrà dignità di presbitero, a meno che piaccia al vescovo che quegli possa dividere con lui la stessa dignità. Se poi questa soluzione non fosse per lui soddisfacente, gli procurerà un posto o di corepiscopo o di presbitero, perché appaia che egli fa parte veramente del clero e che non vi sono due vescovi nella stessa città.

IX. Di quelli che senza il debito esame sono Promossi al sacerdozio.

Se alcuni sono stati promossi presbiteri senza il debito esame, o, se esaminati, hanno confessato dei falli, ma, contro le disposizioni dei canoni, hanno ricevuto l’imposizione delle mani, la legge ecclesiastica non li riconosce; la chiesa cattolica infatti vuole uomini irreprensibili.

X. Di coloro che hanno rinnegato la propria fede durante la Persecuzione e poi sono stati ammessi fra il clero.

Se alcuni di quelli che hanno rinnegato la fede cristiana sono stati eletti sacerdoti o per ignoranza o per simulazione di quelli che li hanno scelti, questo non porta pregiudizio alla disciplina ecclesiastica: una volta scoperti, infatti, costoro saranno deposti.

XI. Di quelli che hanno rinnegato la Propria fede e sono finiti tra i laici.

Quanto a quelli che, senza necessità, senza confisca dei beni, senza pericolo o qualche cosa di simile – ciò che avvenne sotto la tirannide di Licinio – hanno tradito la loro fede, questo santo sinodo dispone che, per quanto essi siano indegni di qualsiasi benevolenza, si usi tuttavia comprensione per essi. Quelli dunque tra i fedeli che fanno davvero penitenza, trascorrano tre anni tra gli audientes, sei anni tra i substrati (2), e per due anni preghino col popolo salvo che all’offertorio.

XII. Di coloro che, dopo aver lasciato il mondo, vi sono poi ritornati.

Quelli che chiamati dalla grazia, dopo un primo entusiasmo hanno deposto il cingolo militare, ma poi sono tornati, come i cani, sui loro passi (3), al punto da versare denaro e da ricercare con benefici la vita militare, facciano penitenza per dieci anni, dopo aver passato tre anni fra gli audientes (4). Ma, per questi penitenti, bisognerà guardare la loro volontà ed il modo di far penitenza. Quelli, infatti, che col timore, con le lacrime, con la pazienza, con le buone opere dimostrano con i fatti, e non simulano la loro conversione, costoro, compiuto il tempo prescritto da passare fra gli audientes (5), potranno essere ammessi ragionevolmente a partecipare alle preghiere; dopo ciò, il vescovo potrà prendere nei loro riguardi qualche decisione anche più mite. Ma quelli che si comportano con indifferenza, e credono che per la loro espiazione sia sufficiente questa penitenza, devono senz’altro scontare tutto il tempo stabilito.

XIII. Di quelli che in punto di morte chiedono la comunione.

Con quelli che sono in, fin di vita, si osservi ancora l’antica norma per cui in caso di morte nessuno sia privato dell’ultimo, indispensabile viatico. Se poi avvenisse che quegli che era stato dichiarato disperato, ed era,stato ammesso alla comunione e fatto partecipe dell’offerta, guarisca, sia ammesso tra coloro che partecipano alla sola preghiera (fino a che sia trascorso il tempo stabilito da questo grande concilio ecumenico). In genere, poi, il vescovo, dopo inchiesta, ammetterà chiunque si trovi in punto di morte e chieda di partecipare all’eucarestia.

XIV. Dei catecumeni lapsi.

Questo santo e grande concilio stabilisce che i catecumeni lapsi per tre anni siano ammessi solo tra gli audientes (6), e che dopo questo tempo possano prender parte alla preghiera, con gli altri catecumeni.

XV. Del clero che si sposta di città in città.

Per i molti tumulti ed agitazioni che avvengono, è sembrato bene che sia assolutamente stroncata la consuetudine, che in qualche parte ha preso piede, contro le norme ecclesiastiche, in modo che né vescovi né preti, né diaconi si trasferiscano da una città all’altra. Che se qualcuno, dopo questa disposizione del santo e grande concilio, facesse qualche cosa di simile, e seguisse l’antico costume, questo suo trasferimento sarà senz’altro considerato nullo, ed egli dovrà ritornare alla chiesa per cui fu eletto vescovo, o presbitero, o diacono

XVI. Di coloro che non dimorano nelle chiese nelle quali furono eletti.

Quanti temerariamente, senza santo timore di Dio, né alcun rispetto per i sacri canoni si allontanano dalla propria chiesa, siano essi sacerdoti o diaconi, o in qualsiasi modo ecclesiastici, non devono in nessun modo essere accolti in un’altra chiesa; bisogna, invece, metterli nell’assoluta necessità di far ritorno alla propria comunità, altrimenti siano esclusi dalla comunione. Che se poi uno tentasse di usar violenza ad alcun dipendente da un altro vescovo e di consacrarlo nella sua chiesa contro la volontà del vescovo, da cui si è allontanato, tale ordinazione sia considerata nulla.

XVII. Dei chierici che esercitano l’usura.

Poiché molti che sono soggetti ad una regola religiosa, trascinati da avarizia e da volgare desiderio di guadagno, e dimenticata la divina Scrittura, che dice: Non ha dato il suo denaro ad interesse (7), prestando, esigono un interesse, il santo e grande sinodo ha creduto giusto che se qualcuno, dopo la presente disposizione prenderà usura, o farà questo mestiere d’usuraio in qualsiasi altra maniera, o esigerà una volta e mezza tanto:, o si darà, in breve, a qualche altro guadagno scandaloso, sarà radiato dal clero e considerato estraneo alla regola.

XVIII. Che i diaconi non debbano dare l’eucarestia ai presbiteri; e che non devono prender posto avanti a questi.

Questo grande e santo concilio è venuto a conoscenza che in alcuni luoghi e città i diaconi danno la comunione ai presbiteri: cosa che né i sacri canoni, né la consuetudine permettono: che, cioè, quelli che non hanno il potere di consacrare diano il corpo di Cristo a coloro che possono offrirlo. Esso è venuto a conoscenza anche di questo: che alcuni diaconi ricevono l’eucarestia perfino prima dei vescovi. Tutto ciò sia tolto di mezzo, e i diaconi rimangano nei propri limiti, considerando che essi sono ministri dei vescovi ed inferiori ai presbiteri. Ricevano, quindi, come esige l’ordine, l’eucarestia, dopo i sacerdoti, e per mano del vescovo o del sacerdote. Non è neppure lecito ai diaconi sedere in mezzo ai presbiteri; ciò è, infatti, sia contro i sacri canoni, sia contro l’ordine. Se poi qualcuno non intende obbedire, neppure dopo queste prescrizioni, sia sospeso dal diaconato.

XIX. Di quelli che dall’errore di Paolo di Samosata si avvicinano alla chiesa cattolica e delle diaconesse.

Quanto ai seguaci di Paolo, che intendono passare alla chiesa cattolica, bisogna osservare l’antica prescrizione che essi siano senz’altro ribattezzati. Se qualcuno di essi, in passato, aveva appartenuto al clero, purché, del tutto irreprensibile, una volta ribattezzato potrà essere ordinato dal vescovo della chiesa cattolica. Ma se l’esame dovesse far concludere che si tratta di inetti, è bene deporli. Questo modo d’agire sarà usato anche con le diaconesse e, in genere, con quanti appartengono al clero. Quanto alle diaconesse in particolare, ricordiamo, che esse, non avendo ricevuto alcuna imposizione delle mani, devono essere computate senz’altro fra le persone laiche.

XX. Che non si debba, nei giorni di domenica e di Pentecoste, pregare in ginocchio.

Poiché vi sono alcuni che di domenica e nei giorni della Pentecoste si inginocchiano, per una completa uniformità è sembrato bene a questo santo sinodo che le preghiere a Dio si facciano in piedi.

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Note

(1) I Tm 3, 6-7
(2) Audientes e substrati indicano gli appartamenti a due fasi dei catecumenato, che dovevano essere adempiute da chi, convertito al cristianesimo, aspirava al battesimo
(3) Cfr. Pr 26, 11. 
(4) V. nota 2.
(5) V. nota 2.
(6) V. nota 2.
(7) Sal 14, 5