Nel periodo magno-greco la polis di Curinga si chiamava Laconia, posta tra le città greche di Hipponion e Temesa. L’antico nome probabilmente richiamava quello della corrispondente regione greca oggi denominata Peloponneso (sudorientale). In effetti molti dei toponimi esistenti in questa zona ed in tutta la Calabria sono di chiara derivazione ellenistica.
Di particolare rilievo storico ed archeologico il Monastero di S. Elia, edificio risalente all’anno mille che è situato nella frazione Corda che si affaccia sul Golfo di S. Eufemia.
Il complesso architettonico comprende i resti del “Sancta Sanctorum”, un vano a pianta quadrata chiuso da una cupola in buono stato di conservazione.
Sono anche visibili i resti della navata e dell’antico cenobio. Il monastero, eretto da monaci provenienti dall’Oriente, era costituito dalla Chiesa munita di una notevole abside sormontata da una cupola in pietra, con evidenti richiami all’architettura armena. Nell’interno dell’abside, alla base della cupola, esiste un fregio a carattere curvilineo. Più in basso, tra il quadrato e il cilindro si trova una fascia di blocchi di pietra arenaria scolpita con un bellissimo motivo “a treccia”, con nastro concavo a “bottone” convesso. Gli scavi del 1991 hanno permesso di individuare all’interno del complesso la cella del priore, il corridoio centrale e il cellare. Tra gli altri locali è venuta alla luce, al piano terra, la Cappella di S. Elia. [https://www.comune.curinga.cz.it/novita/la-storia-di-curinga/]
Secondo alcuni studi, mentre il monastero ascenderebbe all’anno 1000 d.C., la cupola risulterebbe più tardiva e forse costruita intorno al 1600 così come testimonia la treccia decorativa al suo interno e lo stemma dei Caracciolo e Loffredo, apposto sull’arco che collegava l’antica chiesa rettangolare di cui oggi rimangono solo le creste dei muri perimetrali.
Dall’analisi strutturale eseguita sulle murature del complesso monastico, sembra sia possibile tuttavia riconoscere almeno cinque distinte fasi di vita, la più antica delle quali risalirebbe presumibilmente a epoca pre-normanna. (vedi documento sotto pubblicato)
Legato a questo luogo monastico è la storia del Platano millenario. Il platano orientale è un grande albero deciduo originario del Mediterraneo orientale e dell’Asia occidentale, con areale esteso sino all’Afghanistan. In Italia è spontaneo in Sicilia e nell’Italia meridionale. L’esemplare che si trova a Curinga è alto 31,5 metri, largo oltre 12 metri, con una cavità nel tronco ampia più di 3 metri. Questo maestoso albero vanta una storia di oltre mille anni, ma le sue radici potrebbero risalire a tempi più antichi. L’ipotesi più accreditata e che sia stato piantato proprio da qualche monaco proveniente dall’Oriente quando giunse in Calabria nel IX secolo, appartenente allo stesso gruppo che edificò le prime fondamenta dell’eremo poi divenuto monastero. Per secoli, il platano è stato luogo di incontro per contadini e pastori, oltre che luogo di riparo contro le intemperie e nascondiglio per i briganti. Infatti, grazie al suo tronco completamente cavo, al suo interno possono raggrupparsi fino a dieci persone.
Benché già i greci contribuirono alla sua diffusione in Italia del Sud, come raccontano fonti antiche, la specie potrebbe essere giunta in Italia in tempi precedenti, paleointrodotta dall’uomo o senza necessariamente il vettore uomo, come specie trans-jonica e anfi-adriatica, al pari di tantissime altre specie viventi che connotano i regni del vivente del sud Italia, nelle varie vicissitudini geologiche e climatiche del passato, nelle quali si ebbero anche periodi con il livello del mare molto più basso dell’attuale e l’emersione conseguente di maggiori ponti di terra tra Balcani e Penisola italiana. (FONTE WEB)
San Fantino il Giovane dal sito http://www.ortodoxia.it/
Padre Benedetto (VIDEO 2) ieromonaco del Monastero dei Santi Elia e Filareto di Seminara (RC)
SEMINARA: (VIDEO 1) Monastero dei Santi Elia il Giovane e Filareto
Visita al Monastero (VIDEO 1)
San Filarete l’Ortolano (1020-1070) – 8 Aprile
INTRODUZIONE
“L’umile e sconosciuto Santo Contadino, Uomo meraviglioso, parlava da giusto e ciò che diceva era frutto di ponderata riflessione, “L’uomo non deve insuperbirsi” non deve affannarsi per le cose del mondo. Attaccarsi alle cose materiali porta inesorabilmente l’essere umano al nichilismo, alla totale negazione di ogni valore morale. Il paradosso della felicità è che mai si raggiunge affannandosi a cercarla per se stessi, ma facilmente portandola sempre con sé per donarla disinteressatamente a chiunque si incontri. San Filarete, suscitando gioia inaspettata, donava il frutto del suo orto al primo che incontrava senza neanche sapere chi fosse. E’ questo il contenuto del suo sublime messaggio; la felicità è implicitamente in noi solo quando comprenderemo che essa è reciproca. Misero è colui che la sottrae agli altri, perché, nello stesso istante, la si sta togliendo a se stessi”.1
FESTA
L’8 Aprile, memoria del nostro santo padre Filarete l’Ortolano, di Seminara in Calabria. Il bios greco si trova nei codici, Mess. Gr. 20 (ff 3-14). Neapol. II, A, 26 e Palerm. II, E, 11, (f 409). La sua ufficiatura si trova nel Vat. Gr. 1538 (ff 264-265)
VITA
San Filarete l’Ortolano ha origini siciliane. Alcuni biografi cattolici e una minoranza di ortodossi sostengono che fosse originario della città di Palermo. Altri sostengono che sia originario della Val Demone, territorio ricompreso tra la provincia montuosa di Messina, Caronia e Catania. Con la conquista dei Franchi, la latinità cattolica attivò ogni strumento per cancellare la memoria della tradizione greco-ortodossa e di fatti il ricordo di questo umile santo ci è pervenuto grazie a un solo manoscritto, bios, del 1308 (Mess. Gr 29, ff. 3\14). Questo bios è opera d’un certo Nilo, monaco nello stesso Monastero in cui Filarete praticò la sua ascesi, ma a lui successivo. Molto probabilmente non lo conobbe personalmente nonostante la sua stessa dichiarazione.
Secondo il monaco Nilo, Filarete nacque intorno al 1020 e fu battezzato con il nome di Filippo, in omaggio al grande esorcista di Agira, detto appunto “scacciaspiriti”.
La sua vita nella Sicilia islamica non dovette essere funestata da persecuzioni di stampo religioso anche se, al compimento dei suoi diciotto anni, un avvenimento lo porto ad emigrare. L’imperatore di Costantinopoli Michele IV Paflagone (1034-1041) con l’aiuto del generale macedone Giorgio Maniace cercò di liberare la Sicilia dal giogo musulmano, operazione che terminò con la vittoria temporanea di Troina del 1040. A causa di questa guerra, pare che Filippo dovette trasferirsi prima a Reggio Calabria e poi a Sinopoli, dove a 25 anni divenne monaco presso la valle delle Saline, ricadente nel territorio dell’attuale Seminara (RC). Questa era una zona dove il monachesimo era diffuso ed aveva una lunga tradizione. Qui il santo ricevette l’ordinazione monastica ad opera dell’igumeno Oreste del Sacro Imperiale monastero delle Saline, fondato da Sant’Elia il Giovane nell’880, originario di Enna, a cui appunto l’imperatore Leone IV il Sapiente gli conferì il titolo “imperiale”. Con la tonsura monastica, Filippo prese il nome di Filarete, che secondo la tradizione latina significa “pescatore”, mentre secondo quella greca significa “amante della virtù”.
“Oreste che lo istruì nelle regole e lo preparò alla vita ascetica, vedendo che il giovane ‘si distingueva in modo straordinario per l’obbedienza, per la pazienza, per la grande fortezza e per tutte le altre forme di virtù’ gli affidò ‘ogni sorta di servizio’. Compiuto il tempo del noviziato fu fatto entrare come ‘commilitone e compagno di lotta’ nella ‘santa comunità dei fratelli’, venne rivestito dell’abito angelico […]. Per meglio esercitarsi nelle lotte spirituali, che sono ‘come la luce che nasce dalle tenebre’, rinunciò ad indossare la tunica, decise di camminare a piedi scalzi e ‘ per una settimana intera a talvolta anche per due, si asteneva dal prendere cibo’. Suo modello di vita religiosa era Elia il Giovane e ‘cercava con tutto il cuore di seguire le sue orme, era felice di ascoltare la narrazione delle sue buone azioni, e avere sempre tra le mani il libro che parlava di lui. Dall’igumeno Oreste fu incaricato di prendersi cura dei buoi e dei cavalli del monastero e si trasferì in una modesta ‘dimora di pastore’. I mandriani al servizio dei monaci si nutrivano di ‘formaggio, latte e burro’ e ‘gustavano un po’ di tutto’, ma Filarete ‘soddisfaceva alle necessità del corpo solo col pane ed alcune erbe’, consuetudine che ‘mantenne per tutta la vita’.1
Di fatto condivideva la vita dei pastori vivendo in maggiori ristrettezze ed ascesi. Li guidava nella vita spirituale e godeva del silenzio della sua occupazione sostenendo i poveri e curando i malati.
“Richiamato al monastero dopo anni di vita trascorsi in solitudine, fu incaricato dall’igumeno di dissodare una boscaglia. In essa si costruì una capanna e rese coltivabile il terreno affinché producesse gli ortaggi utili alla comunità. Anche nello svolgimento della nuova mansione, Filarete continuò a praticare la preghiera e la penitenza. Mangiava ogni giorno all’ora nona e si nutriva di erbe selvatiche bollite, rifiutando di servirsi delle verdure da lui coltivate e dei frutti che abbondavano nel giardino. Beveva acqua e solo ogni tanto assaggiava del vino, mangiava del pesce quando non poteva farne a meno e cedeva ad altri, come aveva fatto quand’era pastore, il cacio, il latte e il burro. La veste che indossava sul nudo corpo era di paglia intrecciata come quella usata per fare i panieri e il mantello era intessuto con rozza canapa. Dormiva sul suola sopra rami coperti di fieno, aveva per cuscino una pietra rivestita di paglia ed erano pure di paglia il velo che gli copriva il capo e i calzari”3
Filarete non ebbe fama di erudito e nel monastero ricoprì sempre cariche molto umili. Dicevamo che fu pastore e soprattutto agricoltore. Da qui il nome di ‘Ortolano’ che lo contraddistingue nel calendario. Pastori e contadini furono i suoi principali interlocutori. Persone povere che aiutava con le verdure che coltivava e con parole di edificazione. Coltivava un appezzamento di terreno del Monastero avendo sempre addosso una pesante catena a ricordo della schiavità del peccato. Filarete era instancabile nella coltivazione e la sua perizia gli permetteva di donare parte dei raccolti alle persone del territorio particolarmente povere soprattutto “negli anni di durissima carestia provocata dalle continue razzie dei Normanni che nel 1059 occuperanno Reggio, iniziando poi la lenta ma graduale conquista della Sicilia. Ciò, del resto, rispecchia gli accordi stabiliti fra il pontefice Niccolò II e Roberto il Guiscardo, capo dei predoni francofoni: la legittimazione papale delle conquiste passate, presenti e future, nel Mezzogiorno e in Sicilia, in cambio dell’imposizione forzosa del rito latino in quelle regioni; e poco importa se il vescovo romano non dispone della minima autorità giuridica per imporre un ricatto del genere, essendo i Meridionali sudditi dell’Impero Romano di Costantinopoli, ma, si sa, la Storia viene sovente riscritta dai vincitori. Filarete muore negli anni ’70 dell’XI secolo, mentre già i Normanni stanno provvedendo a sradicare il culto greco-ortodosso dalla Calabria a favore di quello latino-papista, favorendo la fondazione di abbazie benedettine nel territorio reggino, una delle quali, quella di Sant’Eufemia d’Aspromonte, si vedrà presto assegnata la proprietà del Monastero Imperiale delle Saline, in seguito intitolato ad Elia il Giovane ed allo stesso Filarete, la cui sede principale si trova oggi a Seminara di Palmi”4.
Ritornando al nostro Filarete, si recava al monastero per la liturgia e per ritirare quel poco di pane e sale che spesso per dimenticanza non gli veniva consegnato. Era così ritirato che seguiva la liturgia in un angolo della chiesa passando il resto del tempo nella sua cella sul terreno assegnatogli, al punto che molti monaci neanche se ne ricordavano. L’ascesi di Filarete, come tradizione dei monaci greco calabri, si basò inoltre in lunghe veglie ed estenuanti digiuni, spesso si nutriva solo di erbe bollite. Non era uso lamentarsi mai per le vicissitudini della vita che accoglieva con spirito di ringraziamento al Signore.
“Come accade spesso in Italia, chi lavora senza lamentarsi, invece di essere elogiato, viene trattato da scemo: Filarete non sfuggì a tale sorte. Infatti, quando egli si ammalò gravemente, i confratelli lo portarono nel monastero e fattolo distendere sul letto lo lasciarono riposare, credendo che avesse energie sufficienti per poter vivere, per cui lo privarono della necessaria assistenza ed il santo morì abbandonato e solo, così come condusse la sua vita. Il giorno seguente i confratelli gli celebrarono il funerale frettoloso, senza tener conto del profumo che emanava il suo corpo. Solo alla sua morte si accorsero di lui per una serie di miracoli che avvenivano sulla sua tomba. Seguendo il bios, una donna affetta da cecità, a seguito di una grave emorragia cerebrale, si recò sulla tomba ad implorare l’aiuto di Sant’Elia il Giovane, fondatore del monastero, che era estremamente vivo nella devozione dei fedeli a causa dei suoi innumerevoli miracoli, per ricevere un’intercessione. In una visione gli apparve il santo che gli disse di rivolgersi alla tomba di San Filarete, che era in grado di guarirla. La donna chiese ai concittadini del santo, ma molti risposero di non conoscerlo e, quindi, si recò presso il monastero chiedendo di potersi recare sulla sua tomba, ma i monaci, provarono a cacciarla a male parole”5.
Ma la donna era irremovibile per la visione e le parole riferitele da Sant’Elia. Alla fine ad un monaco venne in mente che l’unico Filarete del convento fosse l’ortolano morto un paio d’anni prima, per cui, con molto scetticismo, accompagno la signora cieca a pregare sulla sua tomba. Qui avvenne il miracolo e la cieca riacquistò la vista.
Altri miracoli si susseguirono aumentando enormemente la popolarità del Santo rimasto anonimo in vita. “La fama del prodigio si diffuse nei paesi e nelle città vicine e ‘anche da lontano accorse a quella santa e veneranda tomba una moltitudine di gente afflitta da ogni sorta di malattie e di sofferenze e ciascuno straordinariamente e incredibilmente otteneva la guarigione”. Dal sepolcro si levava “un soave profumo di unguento”. Nel luogo, sulle fondamenta di un precedente edificio sacro, fu costruito “un bellissimo oratorio” che venne dedicato al Santo. Anche le sue vesti lacere, che dopo la morte erano state appese a un legno e dimenticate, furono trovate intatte e da esse si effondeva un gradevole profumo. Le vesti “furono sminuzzate in piccoli pezzi e distribuite per essere usate quali rimedi salutari in tutte le malattie e infermità”. Il bios di San Filarete si chiude con un invito alla “intera comunità dei Calabresi” a celebrare con letizia la festa del Santo, a recarsi alla sua tomba innalzando a Dio canti di ringraziamemo e sforzandosi di imitarne le virtu’.
“Nel 1133 il monastero venne ricostruito sulle rovine dell’originario e dedicato ai Santi Elia e Filarete. Però, si assistette ad un fenomeno curioso, in quanto la devozione di San Filarete si sviluppò enormemente al punto che il monastero venne successivamente conosciuto unicamente con il nome del santo ortolano, facendo così vivere alla sua ombra quello del fondatore ovvero Sant’Elia. Risulta essere un paradosso in quanto l’umile ortolano era estremamente devoto del santo fondatore, al punto da portare sempre con sé il libro della sua vita”6.
“Dopo l’abbandono del monastero di Sant’Elia il Giovane alle Saline a causa delle incursioni dei Saraceni le spoglie del Santo furono trasferite nelle vicinanze di Seminara nel monastero denominato Sant’Elia Nuovo, al quale in seguito fu aggiunto il titolo di San Filarete. Nel 1345 fu scritto un inno in lingua greca in onore del Santo. In esso, i fedeli raccolti intorno all’urna pregano San Filarete affinché scenda nel suo tempio. Il monastero fu visitato nel 1457 da Chalkeopoulos e nel 1551 da Marcello Terracina, archimandrita del monastero di San Pietro d’Arena. In esso abitavano il priore e cinque monaci, ma i beni erano stati assegnati in commenda. In seguito si perdette la memoria della sepoltura del Santo. I resti venerati furono rinvenuti il 22 febbraio 1693 dopo il terremoto che 1’11 dello stesso mese aveva distrutto il monastero. I particolari del ritrovamento furono descritti dal notaio Domenico Guardata il 25 aprile di quell’anno. Il vescovo di Mileto Domenico Antonio Bernardini il 24 ottobre 1697 eseguì la ricognizione delle spoglie venerate. Il terremoto del 5 febbraio 1783 causò la distruzione del monastero e la morte di sette religiosi. Dopo il terremoto i beni furono incamerati dalla Cassa Sacra e il monastero non fu più ricostruito. Nel 1709 alcune reliquie furono donate alla chiesa palermitana di San Basilio, da dove in seguito furono trasferite nella cattedrale. Nella basilica della Madonna dei Poveri a Seminara è custodito un avambraccio del Santo in un reliquiario proveniente dal monastero ed eseguito dall’orafo Luigi De Sanguini. Pure dal monastero fu trasferito nel santuario il cranio del santo rinchiuso in un reliquario d’argento probabile lavoro di un orafo messinese eseguito nel 1717”.7
Ben presto però, con l’avvento della dominazione normanna e la latinizzazione, la sua memoria scemò progressivamente come per tutti i santi italo-greci. Solo con il Cardinale Giannettino Doria ci fù una circoscritta svolta. Il presule volle rilanciare l’orgoglio civico di Palermo, città sempre più marginale nei domini spagnoli, in un recupero della tradizione greca e normanna. Iniziò il culto di Santa Rosalia fino ad allora sconosciuta ai più e incrementò la conoscenza di altri santi palermitani come si riteneva essere Filarete.
“Dopo la distruzione del suo convento nel grande terremoto del 1693, l’abate Generale dell’ordine basiliano di Palermo, Pietro Minniti, chiese la restituzione delle reliquie del santo affinché tornassero nella terra natia, cosa concessa da Clemente IX. La traslazione, con destinazione la cattedrale di Palermo fu celebrata con solenni suppliche il 14 gennaio del 1703. Ed in tale data fu inscritta la celebrazione nel martirologio romano. La festa della traslazione fu celebrata sino al 1929, mentre quella del santo fino al 1958, anno in cui la sua festa fu definitivamente cancellata dal calendario liturgico romano”8.
In foto, il monastero dei Santi Elia di Enna e Filarete a Seminara.
Ma le vie del Signore sono infinite. La memoria dei Santi Elia il Giovane e Filarete l’ortolano era destinata a ritornare e rimanere in questa terra di Calabria. Lo scrittore e medico Santo Gioffré, appassionato studioso di Barlaam di Seminara, donò intorno al 2000 un suo uliveto, per far costruire dopo secoli la più grande chiesa ortodossa dell’Italia meridionale, dedicata proprio a Elia il Giovane e Filarete, associata a un monastero femminile ortodosso. Sua Santità Bartolomeo I Patriarca Ecumenico di Costantinopoli ha benedetto la sua prima pietra nel 2001 e il cantiere è andato avanti per un anno e mezzo. Lo stesso donatore ricorda:
“Sono passati 20 anni da quella mattina quando Sua Santità, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, posò la prima pietra di quella che poi sarebbe divenuta la Chiesa Greco-Ortodossa dei Santi Elia e Filarete, a Seminara. Erano trascorsi 800 anni dall’ultima volta che era stata costruita una chiesa di rito greco, prima che gli Angioni bandissero la liturgia ortodossa dalla Calabria. Bartolomeo I, che porta tra i suoi titoli anche quello di Despota di Costantinopoli, cioè, ultimo dei successori non solo della cattedra Patriarcale ma, anche, del Trono degli Imperatori di Bisanzio, mi guardò con una stizza d’incredulità quando m’indicarono come colui che aveva voluto donare il terreno. Chiese di potermi parlare in privato. Il Patriarca si esprimeva perfettamente in italiano. Ci appartammo sotto l’albero spoglio di un vecchissimo fico bianco, nato insieme a mio padre, perché era stato piantato nel 1921. Mi chiese se io fossi di religione ortodossa e il motivo della donazione al Patriarcato. Risposi, con posato ritegno, che io non sono credente e che la mia decisione, in una terra dove nessuno regala niente a nessuno, nasceva, innanzi tutto, per motivi culturali e, poi, perché il mondo dell’emigrazione ortodossa, allora molto numeroso a Seminara e nei dintorni, potesse contare su un luogo, sicuro, di culto. Sorrise il Patriarca quando mi sentì aggiungere: -“Santità, il vero motivo, se vogliamo, è la speranza di veder revocare la scomunica, per eresia, pronunciata nel giugno del 1342, a Santa Sophia, a Costantinopoli, contro il mio antico compaesano, il Teologo- Astronomo e Letterato Barlaam”-. Il Patriarca, uomo di raffinatissima cultura e di spiccata intelligenza, mi guardò e, sorridendo, rispose: -“Dottore, per togliere la scomunica a Barlaam, la Chiesa Ortodossa dovrebbe indire sette Concili… lasciamo le cose così e ricordiamo Barlaam, nella Sua città natale, come grande Intellettuale, letterato e umanista. […]
L’input di donare la terra dove costruire la chiesa, era giunto a seguito una discussione tenuta con due monaci Ortodossi, presso il Monastero di San Giovanni Therestis, a Bivongi, il 17 agosto del 2000, ricorrenza di Sant’Elia. Quel giorno, nella mia veste di assessore provinciale alla Cultura, mi recai a Bivongi e intrattenni, tra i vari incontri, colloqui con Padre Nilo e il monaco athonita Cosmas. Nacque una piacevole disputa culturale e storica che finì con una sfida: se qualcuno avesse ceduto un terreno, a Seminara, la Chiesa Ortodossa sarebbe rinata.
Sembrava, come succede in questi casi, una normale discussione tra persone amanti dei luoghi e della loro storia, destinata a non aver seguito. Invece, presi sul serio quella sfida. In fondo, fin da ragazzino, il solo guardare i ruderi del monastero francescano dentro cui ero nato, mi faceva sognare le epoche e il desiderio di vederli riviverle. Sognavo l’Oriente e l’Occidente, perché lì erano nati Barlaam e Leonzio Pilato. Lì erano stati Consalvo da Cordova, Calo V, Tommaso Campanella e Bernardino Telesio. Il mio sogno era mettermi in un posto e scorgere l’Oriente, rappresentato da una Chiesa Ortodossa e dal mondo che stava attorno alla figura del Barlaam e l’Occidente, attraverso la Chiesa Cattolica di Sant’Antonio, lì presente da sempre e dove io fui battezzato. Chiesa che conserva la più importante simbologia Cattolica, in Calabria, del primo 500: lo stemma marmoreo di Isabella di Castiglia e di Ferdinando il Cattolico. Decisi che sarei stato io a donare quel terreno al Patriarcato Ecumenico per far sorgere la chiesa. Mi adoperai a dare inizio all’edificazione e in questo progetto sono stato coadiuvato dal prof. Aurelio Misiti, allora assessore regionale ai LL Pubblici. In quattro anni, contro ogni aspettativa e scetticismo, la chiesa fu costruita. Tra le mura di quella chiesa, hanno ripreso a vivere mattoni e tegole, cotte nelle antichissime, oramai inesistenti, fornaci del paese e che io ho trasportato, da solo, dalle case di campagna di una Seminara che non esiste più. Case e tuguri dove avevano abitato contadini e pastori, oramai emigrati da 70 anni e che si stavano usurando per il tempo ingrato. Finita la chiesa, ebbi la fortuna d’incontrare un grande iconografo che si era innamorato del posto: Vasileios Koutsoura, che poi divenne Protopresbitero e trascorse 9 mesi della sua vita, sdraiato a faccia in su, ad affrescare tutte le pareti, secondo i canoni teologici Ortodossi. Ne venne fuori un capolavoro, godimento per ogni occhio. Non finì la cosa. Ero conscio che la chiesa non potesse rimanere solitaria in mezzo al nulla. Doveva essere custodita e protetta. E poi, io dovevo realizzare, ancora, il mio sogno…
Difronte alla chiesa si trovava una casa, anticamente dimora dei miei avi che erano stati al servizio di una potente famiglia feudale, quella dei Marzano. Casa ormai invasa da siepi e ortiche, Esistevano le mura esterne, i pavimenti in tavola e le pareti di canne impastate con il gesso. La restaurai nel migliore dei modi e la donai, anch’essa, al Patriarcato che la destinò a monastero”.9
Il bios di san Filarete è stato scritto dal monaco Nilo del monastero delle Saline, che si dice contemporaneo del Santo ed è anche biografo di san Nicodemo. La vita è contenuta nel Codice Messinese Greco 29, ff. 3-14, 115, 130, nel Codice Napo-letano II, A, 26, ff. 329-346 e nel Codice Palermitano II, E, II, L 409. La Acolutia è nel Vaticano Greco 1538, ff. 264-265. Nel Codice E, g, I di Grottafer-rata è contenuto il “Syntomon” pubblicato da G. SCHIRÒ, Quattro inni per Santi calabresi dimenticati, in Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, XV (1946), pp. 22-23.
U.MARTINO, Nilo. Vita di san Filarete di Seminara (testo greco con traduzione italiana), Reggio Calabria 1993.
G. MARAFIOTI, Cronache e antichità di Calabria, Padova 1601.
GAETANI, Vitae Sanctorum Siculorum, vol. II, Palermo 1657, pp. 112-127
A. MONGITORE, Vita di San Filareto confessore, Palermo 1703
Acta Sactorum, 8 aprile, Antverpiae 1675, p. 753.
A. BASILE, Il monastero di Sant’Elia Nuovo e di San Filareto presso Seminara, in Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, XV (1944), pp. 143-157, 261-267
E. Russo, San Filarete di Calabria, in Enciclopedia Cattolica, vol. V, Firenze 1950, col. 1290 D. FANGARI, Il monastero di San Filareto in Seminara, in Brutium, XXX (1951);
F. Russo, San Filarete di Calabria, in Bibliotheca Sactorum, vol. V, Ro-ma 1964, coll. 680-682.
N. FERRANTE, Il monastero di Sant’Elianovo e Filareto in Seminara, in Historica, XXXII (1979), pp. 189-199; IDEM, Santi italogreci, Reggio Calabria 1999 (V ed.), pp. 331 -337.
M. H. LAURENT – A. GUILLOU, Le “Libere Visitationis” d’Athanase Chalkeopoulos, Città del Vaticano 1960, pp. 109-112, 295.
APPUNTI STORIA: 774 d.C. Franchi, Stato Pontificio, Bisanzio in Calabria
LE CONSEGUENZE DELLA CONQUISTA FRANCA
Tratto da A. Barbero, Carlo Magno, Un padre dell’Europa
a) La nascita dello Stato Pontificio
Già prima della resa di Desiderio, Carlo era così sicuro del fatto suo che poté lasciare l’assedio di Pavia per andare a festeggiare la Pasqua del 774 a Roma, che visitava per la prima volta. Accolto da papa Adriano con gli onori, a dire il vero abbastanza moderati, spettanti all’esarca di Ravenna e al patrizio dei Romani, Carlo salì in ginocchio gli scalini di San Pietro, baciandoli uno per uno, a conferma della poderosa potenza sacrale che risiedeva, ai suoi occhi, in quel luogo di cui s’era fatto protettore. Ma il momento più importante del soggiorno romano furono i negoziati fra il re e il papa, sul cui effettivo andamento siamo tuttora in dubbio, anche per le discordanze fra i cronisti di parte franca e di parte pontificia. Certamente i due rinnovarono il patto di amicizia stretto vent’anni prima fra Pipino e Stefano II; inoltre, Adriano chiese a Carlo di confermare una promessa scritta che suo padre aveva firmato in quell’occasione. Questo documento venne letto al re, che secondo i cronisti pontifici accettò di sottoscriverlo; esso allargava a dismisura i territori governati direttamente dal papa, la cosiddetta «repubblica di San Pietro», riconoscendogli la sovranità su gran parte d’Italia, mentre ai Franchi restavano soltanto l’arco alpino e la pianura padana fino a Pavia, e a Bisanzio la Calabria, la Sicilia e la Sardegna.
Questo racconto ha sollevato più d’un dubbio fra gli storici, poco persuasi che Carlo, e prima di lui Pipino, abbiano potuto assumere un impegno così grave. Ma anche ammettendo che si debba prestar fede alla versione pontificia, bisogna pensare che l’incontro fra Carlo e Adriano avvenne quando la guerra contro i Longobardi era ancora in corso, Desiderio resisteva in Pavia assediata e gli assetti futuri della Penisola erano tutti da decidere; sicché non ci si deve sorprendere se, quando ebbe assunto personalmente la corona di re dei Longobardi, Carlo preferì ripensarci. Quel che è certo è che si guardò bene dall’attuare un impegno che, se preso alla lettera, avrebbe significato la dissoluzione del suo nuovo regno: l’autorità del papa venne riconosciuta soltanto sull’antico ducato di Roma, accresciuto della Sabina, e sui territori già bizantini dell’Esarcato e della Pentapoli, collegati da una striscia di territorio appenninico. La «repubblica di San Pietro», alla cui costruzione i pontefici avevano lavorato fin dall’inizio dell’VIII secolo, assumeva così il profilo più o meno definitivo di quello Stato Pontificio i cui ultimi avanzi crolleranno solo mille anni dopo, sotto il cannone di Porta Pia.
TRACCE BIZANTINE: Madonna del Pilerio, Cosenza
tratto da un articolo di Riccardo Brunetti
II titolo ed il culto alla Madonna del Pilerio si fanno risalire comunemente all’anno 1576. Si può invece ritenere, almeno quanto al titolo, che siano di data molto più remota, se si considera che il Dipinto su tavola è un originale del XII secolo. Da documenti storici (l)risulta intanto che, tra il 1575-1576, un’orribile pestilenza infieriva per le molte regioni d’Italia, tra cui la Calabria e che la stessa Cosenza, non risparmiata dall’immane calamità, dovette lamentare moltissime vittime!
I Cosentini, minacciati da un tale flagello, cui non era possibile porre rimedio con risorse umane, fiduciosi, fecero ricorso a Dio ed ai Santi protettori, implorando misericordia. Ora avvenne che un giorno mentre un pio devoto, pregava con particolare fervore, dinnanzi ad un’antica Icone della Madonna (2), vide apparire all’improvviso sulla guancia sinistra della sacra Immagine una macchia simile a bubbone di peste. Immediatamente corse trepidante ad avvertire il Vicario generale dell’Archidiocesi in quel periodo teneva le veci dell’Arcivescovo Andrea Matteo Acquaviva, che si trova da qualche tempo e che, colpito anch’egli dall’inesorabile morbo, lo stesso anno vi moriva e veniva sepolto in S. Giovanni in Laterano, nel sepolcro preparatogli dal nipote Card. Giulio Acquaviva (3). Il Vicario, seguito da Clero e numeroso popolo, accorse per verificare lo straordinario prodigio . Osservato il segno miracoloso si ebbe certo che con esso la Vergine Ss. aveva voluto dimostrare di prendere quasi su di sé il flagello della peste, per liberarne i suoi figli e devoti, «alla stessa guisa, annota il Botta, del Redentore divino, che assunse a sé per la sua passione e morte tutti i peccati degli uomini». Cosi confermarono infatti gli eventi che seguirono. Da quel momento il contagio cominciò a regredire, poi man mano cessò del tutto. Gli stessi ammalati e quelli appena affetti dal ferale morbo sollecitamente e felicemente guarirono. Questo prodigio strepitoso(4) spinse il Popolo a dare fin d’allora alla Vergine della Cattedrale di Cosenza il titolo di Protettrice della Città (5). La notizia non tardò a divulgarsi per i dintorni. Dai Casali circostanti, dalle campagne e dai paesi vicini fu un ininterrotto e crescente accorrere di pellegrini, i quali venivano per vedere il prodigioso Dipinto e per invocare la Madonna di Cosenza. Tali pellegrinaggi continuarono nel tempo e gradatamente crebbero di numero e d’intensità tanto che, nel 1603, dopo più di cinque lustri dall’evento miracoloso, l’Arcivescovo mons. Giovanni Battista Costanzo (1591-1617), per meglio favorire l’afflusso dei pellegrini, fece rimuovere il sacro Dipinto dal sito dove trovavasi per farlo collocare, dapprima su di un pilastro del Duomo, indi sull’altare maggiore ed infine, quattro anni dopo, nel 1607, nella Cappella “de’ li Pilieri”, dove era stata disposta la costruzione di un altare, come è documentato da un atto del notaro Giacomo Mangerio del 20 giugno1602 (6). Agevolmente da ciò può dedursi che il titolo “Pilerio” è certo anteriore all’avvenimento del 1603, la collocazione cioè del Quadro sul pilastro del Duomo. Quindi il titolo “Pilerio” non sarebbe derivato dal gesto dell’appoggiarlo sul pilastro o colonna del Duomo.
A tal punto, è opportuno far rilevare, gli storici, i quali si sono occupati della vicenda, si siano, ovviamente, limitati a riferire soltanto i fatti e le circostanze concomitanti e susseguenti il prodigioso evento del 1576 e null’altro. Difatti nessuno di essi, sembra, abbia fatto riferimento alcuno all’origine, valore artistico e vetustà del Dipinto e del Titolo; cose queste peraltro rimaste inspiegabilmente nell’ombra e nel silenzio secolare, fin quasi ai nostri giorni. Devesi alla fervida inventiva e genialità pastorale dell’illustre e dinamico Presule Enea Selis (1971-1979) l’iniziativa, certamente provvidenziale, di far curare dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici della Calabria, il restauro dell’Icona bizantina della Madonna del Pilerio, ritenuta comunemente «un dipinto su tavola e copia, per giunta rimaneggiata, di un’immagine della Madonna, di non rilevante valore artistico». Il restauro era stato richiesto in vista ed in ordine alla ricorrenza del IV Centenario del miracolo (1576-1976), che il Presule mons. Selis intendeva commemorare con particolari festeggiamenti, secondo un suo geniale stile, così come aveva già fatto nella ricorrenza del 750° anniversario della Consacrazione del Duomo (1222-1972), all’inizio del suo governo episcopale. Tutti quelli, che ebbero la ventura di presenziarli, ricorderanno certo come, per l’intervento della Radiotelevisione, ne fu ripresa e diffusa in diretta sulla rete nazionale in tutta Italia la solenne cerimonia e la visione delle strutture interne del nostro Duomo. Per quanto poi si riferisce al restauro del dipinto fu la felice occasione della sorprendente scoperta e ricognizione. La sacra Icona risultata essere «un dipinto originale di pregevole artistica fattura del secolo magistralmente riportato al suo primitivo splendore bizantino» (7). Di ciò evidentemente con il trascorrere degli anni e per averla del tutto alterata, per il vezzo o mania, talora ricorrente, di abbellire opere d’arte, se n’era perduta la memoria. A tal punto riesce più agevole risalire all’origine del sacro dipìnto e del titolo, rimando indietro nel tempo e nel contesto storico onde poterne determinare l’epoca e la primitiva collocazione. Alcuni studiosi oggi sostengono con argomentazioni valide che si tratta di “antica icona bizantina su legno” posta al di fuori del nostro Duomo, probabilmente presso una delle porte della città, a custodia e difesa di essa. Citiamo perciò uno scritto di Elio Vivacqua (8), il quale fa anche riferimento ad un altro sullo stesso argomento del compianto prof. Serravalle: — «Che l’Immagine della Madonna del Pilerio, venerata nella Cattedrale di Cosenza, sia di molto anteriore alla dominazione spagnola tra noi, con la pace di Cateau Cambrèsis, è un fatto ammesso da tutti».
Dunque Madonna del Pilerio, che si vorrebbe far derivare da “Pilar” = pilastro o colonna, non sembra verosimile. Insieme al Serravalle, scrive testualmente il Vivacqua “noi crediamo invece che il titolo e la devozione alla Madonna del Pilerio siano molto più antichi e quindi preesistenti alla peste del 1576”.
Ecco da che cosa lo si deduce:
Dobbiamo ricordare che Cosenza, fin dal sec. IV, faceva parte dell’Eparchia greca della Calabria, quale suffraganea di Reggio. Inoltre è impossibile che essa non abbia sentito l’influsso della vicina Rossano, capitale bizantina nei sec. X e XI.
Nella liturgia bizantina la devozione alla Madonna ha un ruolo preponderante, ecco perché in quel periodo si solevano porre immagini della Vergine nei punti strategici, come a difesa del ponte levatoio oppure alle porte della città.
Nel contesto della religiosità greca o bizantina il titolo “Pilerio” non può dunque avere che una etimologia greca. E’infatti in greco “pule” significa porta e “puleròs” guardiano, custode della porta. Porre la Madonna a custodia della porta voleva dire riporre in Lei la fiducia di essere scampati da qualsiasi pericolo e quindi mettere la città sotto la sua materna protezione.
A riprova c’è un esempio illuminante a Rossano, dove una vetusta chiesina, che trovasi davanti ad una delle antiche porte della città, è dedicata alla Madonna del Pilerio».
Note
(1) Andreotti D., Storia dei Cosentini, vol. Il, cap.10 & 3. • Botta C., Storia d’Italia, anno 1763, Pagnoni, Milano.
(2) N. B. È un dipinto su tavola, originale del secolo XII-XIII, esposto in un sito remoto del nostro Duomo o piuttosto all’esterno di esso o addirittura in una nicchia, presso una delle porte della città.
(3)Andreotti D., op.cit., Vol. Il p.329. Litta, Famiglie celebri d’Italia, Milano,1819-1880. P. Russo F, Storia dell’archidiocesi di Cosenza, Rinascita Artistica Editrice, Napoli,1958.
(7) Relazione sul restauro del Quadro a cura della Sovrintendenza ai Beni culturali della Calabria. 1976.
(8) Vivacqua E., Le origini del culto della Madonna del Pilerio, Periodico “L’Unione” 31-3-1981, Cosenza.
LETTURA DELL’ICONA
Tratto da un articolo di Antonio Marchianò
L’icona misura 95 x 65 cm ed è stata eseguita in ambito mediterraneo occidentale; grazie alle sue caratteristiche iconografiche è definita “bizantina”. La tavola su cui è rappresentata la Vergine che allatta il Bambino ha subito nel tempo vari rimaneggiamenti, ma anche danneggiamenti, fino ad essere stata completamente ridipinta. Solo con i restauri voluti dall’arcivescovo Mons. Enea Selis nel 1976-77 ed eseguiti presso la Sovrintendenza per i Beni culturali è stata ripristinata la bellezza originale, che ha permesso una lettura approfondita della immagine dipinta sul legno. L’icona infatti fino ad allora era considerata di scarso valore artistico, e solo una mera riproduzione di una più antica icona medievale. Secondo la Di Dario Guida, l’icona sembra essere stata eseguita durante l’ultimo scorcio della dominazione Sveva. Risulta come uno dei prodotti artistici più rilevanti di un vasto movimento artistico e culturale che subì sia gli influssi del “bizantinismo aulico delle opere messinesi del XIII secolo, sia le affinità delle ricerche plastiche perseguite dai maestri toscani pre-cimabueschi ”L’icona si inserisce, inoltre, in una linea che unisce, dal punto di vista artistico, Monreale, Messina e la Campania.
Partendo dalla figura della Vergine rappresentata possiamo affermare, confortati da autorevoli studi, che l’immagine è la sintesi tra una Galaktotrophousa (Colei che dona il latte) e la Kikkotissa (Vergine dal rosso manto). I due particolari pittorici relativi all’allattamento del Divin Bambino e del Maforiuòn (manto rosso) emergono nella loro immediatezza appena ci si accosta all’icona.
L’icona è avvolta da una luce tutta particolare che emerge dallo sfondo oro che simboleggia la gloria di Dio che tutto abbraccia. La grazia trasfigura la creatura nella quale “abita l’Altissimo”. Tutte le icone, ma particolarmente quelle della Madre di Dio, sono accompagnate dall’oro che indica il progetto e l’iniziativa di Dio, la gloria scende e prende possesso della tenda. Anche il rosso del velo che scende dal capo e il porpora dell’abito di cui Maria è rivestita sono simboli della divinità che “avvolge” la giovane di Nazareth e ne coinvolge mente e cuore. Il colore porpora dell’abito richiama anche la dimensione sacerdotale e regale ma soprattutto la “potenza dell’Altissimo” di cui l’Angelo annunziante le parla quando le propone il grande progetto della salvezza e della maternità. Il velo rosso che scende sulla spalla vuole significare che la Vergine Maria è stata “avvolta” dall’alto e ricoperta dalla grazia. Il marrone della veste della Vergine è richiamo della sua umanità, mentre l’altra parte di manto di colore blu che avvolge la donna, ed avvolge anche gli abiti, indica il privilegiato rapporto con Dio di questa creatura. Base di ogni colore è il bianco che in tutta la tavola esprime la purezza, l’immacolato concepimento della Vergine. Esso si intravede sulla fronte, nella manica del braccio sinistro ed è l’abito che ella indossa sotto tutti gli altri. Le tre stelle, secondo l’iconografia classica bizantina, sono collocate una sulla fronte e due ai lati sulle spalle. Esse indicano che Maria è inabitata dalla Trinità ma anche la sua Verginità prima, durante e dopo il parto. I medaglioni dorati intorno al capo della Vergine sono undici. Rappresentano la Chiesa Apostolica senza l’apostolo Giuda che aveva tradito il Signore. Questo particolare stellario indica Maria presente nel Cenacolo di Gerusalemme, accanto agli Apostoli, proprio nei giorni e nelle ore della Pasqua fino alla Pentecoste. Le scritte in latino (MR e DOMINI) collocate rispettivamente a sinistra e a destra dell’immagine come prescritto dal Concilio di Nicea (787d.C) indicano la maternità divina di Maria. L’aureola sul capo del Divino Bambino contrassegnato dalla croce è un chiaro richiamo alla Passione di Cristo e al suo regnare glorioso. Il mistero dell’Incarnazione infatti è strettamente collegato con quello della Redenzione. Un ultimo segno che appare sulla tavola è la macchia scura sul volto della Vergine. È il segno della peste di cui Maria si è caricata per liberare miracolosamente la città di Cosenza afflitta dal terribile morbo e di cui storia e devozione popolare sono ancora testimoni. La Vergine Maria regge il Bambino tra le braccia e Gesù è seduto delicatamente sulla mano destra; essa diventa per lui quasi un trono da cui regna. Un drappo rosso posto tra le mani della Madonna richiama la sua signoria, la sua potestà regale e sacerdotale, la sua divinità. Non è escluso anche il richiamo alla Passione. Gesù che prende il latte dalla mammella diventa un particolare iconografico molto evidente: c’è una stretta tensione tra Cristo che è capo della Chiesa e il suo corpo mistico, di cui Maria ne è icona perfetta. Alcuni studiosi vedono proprio nella posizione del collo piegata verso il Bambino questa strettissima dipendenza e questo stretto rapporto tra Gesù e Maria, tra Cristo e la Chiesa. L’iconografia del seno si chiarisce ancora di più se la Vergine è colta nella dimensione di nutrice dei figli (Colei che nutre, imbandisce il banchetto, la mensa) fino a diventare, come la invoca la Chiesa ortodossa, Trapeza, evidente richiamo alla mensa eucaristica. Il Bambino è rappresentato con due addomi, strettamente legati da una fascia rossa intrecciata, ad indicare che le due nature umana e divina che sono unite in Cristo. Nella piccola fascia rossa intrecciata alcuni hanno intravisto anche un prolungamento del cordone ombelicale che unisce il figlio (divino) alla Vergine (madre) per esprimere visivamente il titolo di Madre di Dio (Theotòkos) inciso sulla tavola. Copre il Bambino un trasparente velo bianco che ricorda la divina purezza di Cristo agnello senza macchia che toglie i peccati del mondo e riscatta con l’effusione del suo sangue l’intera umanità dalla schiavitù, dai peccati e dalla morte. La Vergine come in ogni antica icona indica con la mano sinistra il figlio, si fa Odigitria (indica la Via) per tutti coloro che guardano la sua immagine e che potrebbero cadere nella tentazione di fermare lo sguardo su di lei. Le dita delle mani indicano anche alcune verità di fede: le tre dita della mano destra richiamano il mistero trinitario e ancora il parto verginale di Maria toccata dal mistero dell’Incarnazione; le due dita della mano sinistra invece indicano la doppia natura umana e divina di Cristo.
Bibliografia Di Dario Guida M. Pia, Itinerario dell’arte dai Bizantini agli Svevi, in “Itinerari per la Calabria”, ed. l’Espresso, Roma, 1983, p.157. Di Dario Guida M. P., Cultura artistica della Calabria medievale, di Mauro Edizioni, 1978. Frangipane A., Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, II – Calabria, Roma 1933, p. 121. Leone G., Icone della “Theotokos” in Calabria, Ed. Vivarium 1990 Leone G., Icone della “Teotokos” in Calabria, in “Concilio Niceno II e l’iconografia mariana in Calabria”, atti del convegno, Cz, 1987, a cura di Squillace M., Edizioni Vivarium,Catanzaro, 1990, pp.119 e ss. Napolillo V., Storia e fede a Cosenza, la Madonna del Pilerio, Edizioni Santelli, Cosenza, 2002, p.13. Tuoto G., La Madonna del Pilerio, Leggenda, Cosenza 2001, p. 32. Vitari S., Il Duomo di Cosenza, in Bilotto L., Il Duomo di Cosenza, Effesette, Cosenza, 1989, p.101.