ll Patriarca di Gerusalemme durante la Divina Liturgia della Domenica della Samaritana:
ll Patriarca di Gerusalemme ha pronunciato il seguente sermone prima della Santa Comunione durante la Divina Liturgia della Domenica della Samaritana:
«Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chiunque beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; ma l’acqua che io gli darò sarà in lui una fonte d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,13-14)
Carissimi Fratelli in Cristo,
stimati cristiani e pellegrini,
La Grazia dello Spirito Santo ci ha riuniti tutti oggi in questo luogo santo del Pozzo del Patriarca Giacobbe, per celebrare la festa della Samaritana, del Santo martire Foteini.
Nel successivo dialogo con la Samaritana, Gesù le dice: «L’acqua che io gli darò sarà in lui una fonte d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14). Interpretando queste parole del Signore, san Cirillo d’Alessandria dice: dobbiamo sapere che il Salvatore qui chiama “acqua” la Grazia del Santo Spirito. Se qualcuno diventa partecipe di questa Grazia, allora avrà la provvista della conoscenza divina proveniente da Lui stesso, in modo che non abbia più bisogno dell’ammonizione degli altri. Saranno invece sufficientemente capaci di esortare/incoraggiare con facilità coloro che hanno sete della parola divina e celeste. Questi furono i Santi, i profeti e gli Apostoli durante la loro vita terrena, ma anche gli eredi del loro servizio/ministero, di cui è scritto: “Perciò con gioia attingerete acqua alle fonti della salvezza” (Isaia 12, 3).
Interpretando nuovamente le parole del profeta Isaia, san Cirillo dice: «Egli chiama l’acqua parola vivificante di Dio, mentre chiama le sorgenti i Santi Apostoli, Evangelisti e Profeti. Salvezza Egli chiama Cristo. Infatti, per la potenza illuminante del Santo Spirito i Santi Profeti, Apostoli ed Evangelisti hanno scritto le Sacre Scritture. Le Sacre Scritture sono quelle che alimentano la fede salvifica in Cristo mediante la loro conoscenza, come dice Paolo al suo discepolo Timoteo: «E che fin da bambino hai conosciuto le sante Scritture, le quali possono darti la sapienza per la salvezza mediante la fede che è in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura è data per ispirazione di Dio ed è utile per insegnare, per rimproverare, per correggere, per istruire nella giustizia: affinché l’uomo di Dio possa essere perfetto, completamente fornito per tutte le buone opere». (2 Tim 3, 15-17)
In altre parole, l’acqua che Cristo offrì alla Samaritana era il dono del Santo Spirito, che conduce l’uomo dal cuore puro alla sua divinità, cioè alla vita eterna. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio», dice il Signore (Matteo 5,8).
È interessante notare che Gesù nel dialogo con la Samaritana, da un lato, insegna che «Dio è Spirito e coloro che lo adorano in Spirito e Verità lo adorano» (Gv 4,24), dall’altro quando la Samaritana dice: «So che viene il cosiddetto Cristo; quando verrà, ci annuncerà ogni cosa (Gv 4,25), perché è il Messia», le rivela «Io che ti parlo sono lui» (Gv 4,26).
Commentando le parole di Gesù sopra riportate, san Teofilatto dice: Molti rendono culto spirituale a Dio, cioè con la mente, ma sono fuori dalla verità redentrice. Lo dice il Santo Padre della Chiesa perché la purezza della vita e la correttezza delle dottrine costituiscono il culto vero e salvifico di Dio.
E San Cirillo di Alessandria dice: Cristo non si rivela semplicemente e solo alle anime non istruite e completamente sprovvedute (come la Samaritana), ma in quelle anime risplende e si fa vedere, che si sono preparate a imparare qualcosa e in loro è nata la fede e “verso la conoscenza più perfetta si affrettano”, cioè si affrettano a imparare i misteri più perfetti. Questo è esattamente ciò per cui si distingue la Samaritana, nella ricerca della conoscenza della fede più perfetta, che si distingue in introduttiva e completa.
San Cirillo d’Alessandria commenta: «Cristo interrompe il dialogo con la Samaritana, quando i suoi discepoli si avvicinarono e si meravigliarono che parlasse con quella donna», (Gv 4,27) [Così Cristo tace, dice la Scrittura. Avendo piantato nella Samaritana la calda scintilla della fede, Cristo permette che, nel corso del tempo, questa scintilla si trasformi in una grande fiamma. Ecco come dovrete comprendere ciò che Egli disse: «Io sono venuto ad accendere un fuoco sulla terra; e che mi resta da desiderare, se già è acceso? (Luca 12,49)
Questa scintilla divina e calda, impiantata nel cuore innocente della Samaritana, fece di lei una grande martire e apostola del Vangelo di Cristo, per questo la nostra Santa Chiesa la onora particolarmente nella propria patria, la Samaria, come l’innografa : “Sei venuto a Samaria, mio Salvatore, Tu, Signore onnipotente, e parlando con una donna, l’hai supplicata di avere dell’acqua, Tu che per gli Ebrei facevi scaturire acqua fresca da una roccia di pietra; e l’hai portata alla fede in Te, e ora gode della vita nei cieli per sempre”. (Mattutino, Exaposteilarion).
Va notato che questa “scintilla calda della parola di vita” unse i discepoli di Cristo come “cristiani”, come riporta l’evangelista Luca nel libro degli Atti degli Apostoli: “Allora Barnaba partì per Tarso, per cercare Saulo: E quando lo ebbe trovato, lo condusse ad Antiochia. E avvenne che per un anno intero si riunirono con la Chiesa e insegnarono a molte persone. E i discepoli furono chiamati per la prima volta cristiani ad Antiochia” (At 11, 25-26).
Con questo nome, i primi chiamati cristiani esprimevano l’aspettativa di ereditare il Regno del Signore nei cieli; di diventare “eredi di Dio” e “coeredi di Cristo” (Rm 8,17). Questo nome fu adottato e onorato dalla Samaritana con il suo sangue di martire, che nacque come co-erede di Cristo, “colui che disse alla gente: ‘Guardate, venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto’” (cfr. Gv 4,28-29).
Anche noi, miei cari fratelli, abbiamo ricevuto questa inestimabile eredità, cioè il nome “cristiano”, al momento del nostro battesimo, essendo stati incorporati al corpo della Chiesa. Tuttavia, questo nome implica conformità al nostro modo di vivere simile a Cristo. «Che cosa? non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi, che avete da Dio, e non siete vostri? Poiché siete stati comprati a caro prezzo» (1 Cor 6,19-20), predica san Paolo. Infatti, non apparteniamo più a noi stessi, perché siamo stati comprati con il santo Sangue del nostro Cristo Salvatore Crocifisso e Risorto. Ora siamo membra del Corpo mistico di Cristo, cioè della Sua Chiesa.
Noi, miei amati, che oggi onoriamo la memoria della santa Samaritana, imploriamo con lei il Signore misericordioso, dicendo: “Concedimi l’acqua della fede, e riceverò le acque della fonte del battesimo, con straordinaria gioia e redenzione. O datore di vita, Signore, gloria a te” (Vespri, stichera, 9).
Cristo è risorto!
Le diaconesse nella Chiesa primitiva erano simili alle donne mirofore
Sermone della Domenica delle Mirofore, dell’Archimandrita Gregorios (Estephan), igumeno del monastero ortodosso della santa Dormizione a Bkeftine, Libano
Fonte: Orthochristian.com, 23 maggio 2024
Cristo è risorto dai morti, con la morte ha vinto la morte e a chi giace nei sepolcri ha elargito la vita.
Oggi [domenica scorsa], seconda domenica dopo Pasqua, ricordiamo le Mirofore, le quali, come ci dicono le Sacre Scritture, si dedicarono al servizio del Signore Gesù Cristo. Lo seguirono, lo servirono e servirono i suoi discepoli.
Dopo che Dio creò Adamo e gli concesse l’autorità, creò Eva affinché fosse un aiuto per Adamo. Pertanto, Dio ha assegnato un servizio all’uomo e un altro servizio alla donna, in modo che si completassero a vicenda. La Chiesa ha seguito quest’ordine che Dio ha determinato per la sua creazione. Tuttavia, ai nostri giorni, stiamo assistendo ad un’inversione di questo ordine e a una distorsione del sistema che Dio ha stabilito fin dall’inizio della creazione.
Oggi assistiamo a una spinta verso il sacerdozio femminile negli ambienti ecclesiali, sia da parte del clero che dei laici. Recentemente abbiamo sentito parlare dell’ordinazione di una diaconessa nella Chiesa ortodossa dello Zimbabwe, che è sotto il Patriarcato di Alessandria. Questa diaconessa partecipa al servizio liturgico, legge le petizioni e amministra ai fedeli il corpo e il sangue del nostro Signore Gesù Cristo. Va notato che le diaconesse nella Chiesa primitiva erano simili alle donne mirofore, e il loro servizio era limitato ad assistere i vescovi nel battesimo delle donne e ungerle con il santo crisma, in modo che il vescovo non toccasse il corpo della donna. A quel tempo, molti convertiti al cristianesimo erano adulti. Tuttavia, man mano che il cristianesimo si diffuse più ampiamente all’interno dell’impero, la necessità di questo servizio diminuì, poiché il battesimo dei bambini divenne più comune di quello degli adulti. A quel punto nella Chiesa cessò l’ordinazione delle diaconesse.
Ora all’interno della Chiesa si promuovono strane pratiche che non hanno mai fatto parte della sua storia o tradizione. Tali ordinazioni sono innovazioni che equivalgono a un’eresia. Sentiamo voci che chiedono l’uguaglianza tra uomini e donne, come se la Chiesa avesse fatto un torto alle donne assegnando loro un ruolo specifico! Assistiamo a un’inversione di ruoli, a un’inversione di servizio. Dio, come ho detto all’inizio, ha assegnato a ciascuno il proprio ruolo, ma ora ognuno cerca di assumere il ruolo dell’altro. Assistiamo anche a una significativa promozione dell’omosessualità, del transgenderismo e dell’ordinazione delle donne da parte di chierici e laici ortodossi.
Vescovi e sacerdoti sono nominati da Dio servitori della sua parola e amministratori della Tradizione della Chiesa. Qualsiasi vescovo, sacerdote o laico che tradisce questa fiducia e distorce la fede della Chiesa e la Sacra Tradizione è un servitore di satana, non di Cristo. Non esiste una via di mezzo nel cristianesimo. Cristo disse: “O siete con me o con il diavolo”. Chiunque distorce la fede e la Tradizione e dissacra i santi sacramenti, come ha fatto il vescovo ortodosso dell’arcidiocesi americana sotto il Patriarcato ecumenico che ha battezzato i bambini adottati da una coppia dello stesso sesso, è un servitore di satana e un profanatore dei misteri della Chiesa.
Questo è ciò che sta accadendo ai nostri giorni e ci si aspetta che ne succedano ancora. Leggiamo nella Bibbia di un periodo di apostasia. Questa apostasia è un allontanamento dalla vera fede in Gesù Cristo, il vero Dio, e la promozione di un Cristo distorto. Quei vescovi e sacerdoti che promuovono un Cristo distorto sono servitori dei governanti di quest’epoca, servitori di un nuovo ordine mondiale che cerca di cambiare l’intero ordine della creazione, e servitori dello spirito dell’epoca che vuole modernizzare la Chiesa, la Chiesa celeste di Cristo, e trasformarla in un’istituzione mondana non diversa dalle altre istituzioni, organizzazioni e partiti mondani.
La Chiesa deve rimanere fedele a tutto ciò che ha ricevuto da Cristo, proprio come le Mirofore che non si discostarono dall’obbedienza di Cristo e non innovarono, ma servirono il Signore e i suoi Apostoli con tutte le loro forze. Gli Apostoli di Cristo predicarono e amministrarono i sacramenti, divenendo fondamento per la diffusione della Chiesa di Cristo.
Ognuno di noi deve confrontarsi con questo spirito mondano e satanico che cerca di distruggere tutta la Tradizione della Chiesa e i fondamenti della fede. Oggi assistiamo ad un pericoloso allontanamento dalla fede. Ancora più pericoloso è il silenzio. Qualsiasi vescovo ortodosso che tace su quanto sta accadendo è complice di questo atto. La missione primaria di un vescovo è preservare la fede, e se rimane in silenzio, è, volenti o nolenti, complice di questo tradimento. Coloro che vengono nominati custodi della fede diventano profanatori della fede e dei misteri della Chiesa, celebrando tutto ciò che contraddice la sacra Tradizione della Chiesa e diventando mercenari dello spirito del tempo.
Tutti coloro che contribuiscono a ciò non conoscono né vivono secondo la Tradizione. Vogliono una Chiesa che accetti tutte le eresie e le trasformazioni di questa epoca. Diventano così figli di uno spirito satanico e servitori di satana, che cerca di indebolire la Chiesa di Cristo per imporre il suo governo e la sua legge in questo mondo.
La Chiesa è rafforzata dalla sua fede e dalla conservazione della santa Tradizione. È così che rimane fedele a Cristo e si confronta con i governanti di quest’epoca. Ma se permetterà alle eresie di entrare e distruggere la fede, le porte dell’inferno lo supereranno. Questo è ciò che desiderano Satana e i suoi agenti, da parte di vescovi, sacerdoti e laici che hanno ceduto allo spirito del tempo.
Non lasciatevi influenzare da tutte queste cose derivanti dalla logica umana, che richiede solo un amore falso. Il vero amore è in Cristo ed è il frutto della vera fede in lui. Chi non crede in Gesù Cristo può amare solo se stesso. Chi ama Cristo sarà fedele a lui, ai suoi comandamenti e alla Tradizione della Chiesa. È così che amiamo Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, sottomettendo la nostra volontà alla volontà di Cristo e diventando servitori fedeli.
Teodoro Studita: un’epistola dogmatica sulle sante icone
Lettera 380, A Naucrazio
Introduzione
Teodoro Studita ( 759 – + 11 novembre 826), un monaco e teologo, igumeno del monastero di Stoudios a Costantinopoli. Nato da una famiglia benestante e socialmente inserita, il padre era un funzionario del tesoro imperiale, la madre era di famiglia senatoria e una sua cugina divenne la seconda moglie di Costantino VI (sed. 780-797). Seguendo il suo esempio, la maggior parte dei membri della sua famiglia divennero monaci e monache. Sotto la sua direzione, il monastero di Stoudios divenne un importante centro di cambiamento sociale e culturale. L’obiettivo di Teodoro era quello di liberare la vita monastica dall’influenza e dal controllo del governo. Zelante oppositore dell’iconoclastia, trascorse più di quindici anni in esilio, in gran parte per la sua difesa delle sante icone, e gli fu conferito il titolo di Confessore della Fede. Fu anche uno scrittore prolifico. Tra le sue opere ci sono tre Confutazioni degli Iconoclasti; una Piccola e Grande Catechesi; più di una dozzina di omelie su feste e santi vari; un’orazione funebre per sua madre; e una celebre Omelia pasquale che incorpora l’Omelia pasquale di San Giovanni Crisostomo. Scrisse anche numerosi canoni e regolamenti riguardanti la vita monastica, e un gran numero di poesie, inni e canoni, compreso il primo canone del Theotokarion, oltre a più di 500 lettere, molte delle quali sono importanti trattati teologici. Le sue ultime parole furono: “Mantieni incrollabile la tua fede e pura la tua vita”.
La lettera tradotta di seguito, Lettera 380: A Naukratios , è datata all’818, quando Teodoro era esiliato in Anatolia. [1] Il monaco Naucrazio fu discepolo di Teodoro e futuro successore; all’epoca era l’amministratore (οἰκονόμος) del Monastero di Studios. Insieme alla lettera 57 (a suo zio Platone), la lettera 380 è per molti versi un epitome della teologia dell’icona di Teodoro. [2]
A mio figlio Naucrazio (Ep. 380)
Mi rallegro di te, fratello mio Naucrazio, perché sei veramente il figlio della mia gioia, il che significa che hai sofferto per Cristo, perché cosa potrebbe esserci di più gioioso e glorioso di questo? A imitazione di Cristo sei stato flagellato; sei stato trascinato da una cella all’altra; e fosti consegnato nelle mani dell’empio Giovanni, [3] col quale anch’io dovetti contendere. E sebbene ti abbia attaccato con veemenza, tu non hai indebolito o annacquato le tue convinzioni, ma al contrario hai resistito a quell’uomo stolto e gli hai risposto con un severo rimprovero, che mi ha fatto rallegrare molto e mi ha riempito di letizia. Possa il Signore continuare ad aiutarti in qualunque cosa ti accada nei giorni a venire! Mi hai informato che, durante il tuo interrogatorio, e nei loro sforzi per indebolire le icone sacre, hanno portato avanti argomenti di Asterio, [4] Epifanio, [5] e Teodoto. [6] Ritengo quindi necessario confutare questi argomenti, anche se ciò estenderebbe la lunghezza della mia lettera.
Secondo Asterio, “Non si deve rappresentare un’immagine di Cristo, poiché l’unica umiliazione della sua incarnazione, che egli accettò di subire volontariamente per il nostro bene, era sufficiente; dovresti invece portare spiritualmente nella tua anima la Parola incorporea”. [7] Ci si chiede, però, perché egli si oppone a fare un’immagine di Cristo, dicendo che «è stata sufficiente la prima umiliazione della sua incarnazione», come se si trattasse di un fatto inglorioso e unico accaduto nel passato, e Cristo voleva evitare una seconda rappresentazione (cioè in un’icona) della sua umiliazione. Ma come potrebbe essere ingloriosa l’incarnazione del Verbo è stata volontaria, dal momento che tutto ciò che è volontario è glorioso e non ha nulla della mancanza di gloria che si trova in ciò che è involontario? Se così non è, e l’icona di Cristo è, come dice lui, una “seconda” umiliazione, come potrebbe essere “seconda” se l’immagine ci mostra proprio la somiglianza della prima umiliazione?
E come potrebbe evitare di ripudiare il ricordo della passione di Cristo, che il racconto scritto offre al nostro udito, se denigra il ricordo visivo in quanto replica dell’evento? Poiché vedere e udire sono capacità uguali, ciascuna operante in congiunzione con l’altra, come ha dichiarato la bocca divina, Basilio il Grande. Consideriamo, ad esempio, che una seconda immagine dell’unica croce è un’altra croce, il che è vero anche per il Vangelo. E poiché entrambi vengono riprodotti e copiati continuamente, ci sono innumerevoli croci e innumerevoli Vangeli, e non semplicemente uno! Allo stesso tempo, esiste solo una croce e non un’altra, anche se riprodotta migliaia di volte. E il Vangelo è uno solo, e non un altro, anche se ne esistono innumerevoli copie. E Cristo è uno, non due o più, anche se, allo stesso modo, la sua forma è riprodotta in innumerevoli immagini. Quando Cristo è raffigurato in un’icona, è come se fosse descritto nella Scrittura, e il nostro udito non è mai sazio del suo suono; né i nostri occhi potranno mai riempirsi di vederlo, perché stiamo ascoltando e vedendo Dio che si è fatto uomo; l’Eterno apparso sulla terra come bambino; Colui che sostiene l’universo bevendo il latte di sua madre; Colui che non può essere contenuto essendo contenuto tra le sue braccia; Colui che è al di là della divinità e tuttavia si è fatto uomo; la Profondità della Saggezza immersa nell’acqua del battesimo, facendo le cose che sono proprie sia a Dio che all’uomo, benché sia al di là di ogni essenza ed essere; il Signore della gloria inchiodato alla croce; la vita del mondo sepolta e risorta; Colui che l’universo non può contenere, assunto in cielo come uomo.
Il confuso Asterio smetta dunque di vietare e di argomentare contro la rappresentazione salvifica di Cristo in queste due forme (cioè immagini e parole), cioè smetta di pensare che la gloria del Signore sia disonorevole, [8] e che la sua umiliazione volontaria era invece involontaria. E cessi inoltre di porsi in opposizione a Basilio Magno, la cui voce – che è la voce di Dio – comanda quanto segue: “Sia raffigurato in un’icona Cristo, che presiede alle nostre lotte”. [9] E si escluda dalla compagnia dei santi anche ciò che Asterio afferma, insieme a ciò che cerca di negare, poiché sono ugualmente illogici e assurdi: “Dovresti portare spiritualmente nella tua anima il Verbo incorporeo”. Che follia è questa? Quale bocca di santo ha mai detto che il Verbo era incorporeo dopo essersi fatto carne? Sebbene l’apostolo Paolo non abbia continuato a chiamare Cristo “carne”, non ha detto che la Parola è ora incorporea. Secondo Gregorio il Teologo, le parole: «Anche se una volta consideravamo Cristo secondo la carne, non lo facciamo più» (2 Cor 5,16), significano che non consideriamo più Cristo soggetto a passioni carnali come le nostre, anche se prive di peccato. E altrove Gregorio dice: «non più secondo la “carne”, ma nemmeno “incorporeo”». [10] Pertanto, chiunque affermi che dopo l’Incarnazione il Verbo è “senza corpo”, contraddice non solo questi due Padri, ma tutti i santi e teofori Padri e maestri della Chiesa.
È stato così dimostrato che un’affermazione illogica segue naturalmente da un’altra. Dopo aver rovesciato le loro bugie, quindi, procediamo a presentare la verità. Come potresti riuscire a farlo? Raffigurando Cristo in un’immagine ovunque sia necessario, e farlo facendolo dimorare nel tuo cuore, affinché quando lo leggi in un libro o lo vedi in un’immagine, sarà conosciuto attraverso questi due sensi e illuminerà la tua mente in duplice modo. In questo modo, Colui che hai conosciuto e sentito attraverso il tuo senso dell’udito, arriverai anche a vedere e conoscere con i tuoi occhi. Infatti, quando viene udito e visto in questo modo, Dio non può che essere glorificato, e l’uomo pio non può che essere mosso a compunzione – e cosa potrebbe esserci di più salvifico di questo, e cosa può avvicinare l’uomo a Dio? Noi dunque, che non siamo nulla e senza valore, comprendiamo la Verità in questo modo, anche se alcuni dei nostri santi Padri prima di noi hanno tentato di spiegare la questione in un altro modo.
Dopo aver trattato le opinioni di Asterio, quali sono le opinioni di Epifanio? [11] «Vostra Reverenza capirà», dice, «se è giusto che noi rappresentiamo Dio con i colori». [12] Ma guarda questo spacciatore di menzogne! Non ha detto “Cristo” – al quale ci riferiamo quando parliamo della possibilità di circoscrizione (in un’immagine), e che affermiamo allo stesso tempo fuori circoscrizione, poiché qui si tratta di indicare ciascuno delle sue due nature – ma dice che noi facciamo “raffigurazioni di Dio “, spogliando il Signore della sua natura umana (alla maniera dei manichei) e proponendo un Dio nudo – e lo dice per convincere l’ascoltatore con l’assurdità della proposizione. E infatti è veramente insensato e irrazionale parlare di un “Dio visibile”, poiché la Scrittura dice che «Dio nessuno lo ha mai visto». E in quanto è Dio e visibile, il Figlio unigenito «lo ha fatto conoscere» (Gv 1,18). Ma è ovvio che un Dio nudo di umanità non è mai stato visto da nessuno, ma poiché l’Unigenito non è nudo di umanità dopo essersi fatto carne, ne consegue che è visibile e può essere visto. E così, il Santo Apostolo proclama: «Dio apparve nella carne, fu confermato dallo Spirito, fu visto dagli angeli, fu annunziato fra le nazioni, fu creduto in tutto il mondo e fu assunto nella gloria» (1 Tm 3,16). Ad ogni dichiarazione in comune va applicata l’espressione “nella carne”, perché la prima formula è una sorta di fondamento non solo di quanto segue, ma di tutte le proprietà umane assunte nell’Incarnazione. Quindi, come Dio «apparve» nella carne, così avvenne di tutte le altre cose appena menzionate (perché senza essere «nella carne» non poteva apparire né essere assunto), così anche nella carne si nutriva di latte, cresceva in età, camminava su due piedi, sudava agonizzante e parlava con la lingua, insieme ad ogni altra attività di questo genere.
Se dunque stanno così le cose e se una delle proprietà del corpo è la circoscrizione, è evidente che Dio è circoscritto nella carne, o mediante l’uso dei colori, o mediante qualche altro mezzo. Questo perché, per necessità, entrambe queste due cose devono essere vere. Se egli «è apparso nella carne», allora necessariamente deve anche essere circoscritto, perché ciascuno è tratto concomitante e corrispondente dell’altro. Se dunque la seconda non è vera, allora non lo è nemmeno la prima. Ma se è vera la prima, lo è anche la seconda. Pertanto, coerentemente sia con la Sacra Scrittura che con il pensiero logico, sarebbe insensato non ammettere che Dio possa essere raffigurato nella carne, per il semplice motivo che Egli è stato visto nella carne. Altrove questo impetuoso disgraziato dice: “Ho sentito che alcuni ordinano ad altri di rappresentare in immagini anche l’inafferrabile Figlio di Dio, cosa che è terrificante anche solo a sentirla”. [13] Ma quale persona, dotata anche di una piccola parte di intelligenza, non riderebbe di un’affermazione così ridicola? Non ha mai letto dove dice: «Arrestarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna», il sommo sacerdote? (Gv 18,12) O dove dice: «Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con bende di lino e con aromi»? (Gv 19,40). Non professa che Gesù è Dio? Se è Dio, come mai l’inafferrabile è stato arrestato e legato, se non era nella carne, proprio come ci ha insegnato il saggio Paolo? Lasciamo dunque che quest’uomo illuso trattenga la sua bocca dall’infierire con follia contro Cristo.
Certo, se dovesse venire a sua attenzione che abbiamo un Dio che viene mangiato (cioè nell’Eucaristia), immagino che non solo tremerebbe di terrore, ma si straccerebbe le vesti, non potendo sopportare ciò che ha. sentito. Ma cosa dice Cristo? «Chi mangia me vivrà per me» (Gv 6,57). Naturalmente non c’è altro modo per mangiarlo che nella carne. Questo perché Cristo, che è allo stesso tempo perfetto Dio e perfetto uomo, può essere nominato e identificato da ciascuna delle due nature di cui è composto, e può essere chiamato sia Dio che uomo, letteralmente e in senso stretto di ciascuna parola, senza che la particolarità dell’una o dell’altra venga sminuita o confusa nella sua singolare ed unica ipostasi. E testimone delle mie parole è Dio Verbo stesso, che in un luogo dice: «Perché cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità?» (Gv 8,40) (anche se chi diceva questo era il Dio immortale), e in un altro: «Perché mi accusi di bestemmia perché ho detto: “Sono Figlio di Dio”?» (Gv 10,36) (anche se colui che disse questo era anche il Figlio dell’uomo). Ne consegue che quando attribuiamo i nomi propri ad una sola delle nature, non togliamo assolutamente nulla a Cristo.
Poiché ora possiamo mettere da parte anche le parole di quest’uomo, vediamo qual è l’argomentazione di Teodoto? [14] Ecco le sue stesse parole:
Per quanto riguarda le forme esteriori dei santi, non abbiamo ricevuto la tradizione di raffigurarli in icone fatte di colori materiali, ma piuttosto ci è stato insegnato a ricevere le loro virtù come immagini viventi attraverso ciò che ci è stato detto su di loro nei libri e a lasciarci ispirare da uno zelo come il loro. Ma coloro che hanno collocato tali immagini ci dicano quale beneficio ne traggono, o a quale tipo di contemplazione spirituale li eleva il ricordo di tali forme. Ma è abbastanza ovvio che questi espedienti sono inutili e sono l’invenzione di un inganno diabolico. [15]
A dire il vero, il punto di partenza per la riflessione (vale a dire, negli scritti e nelle vite dei santi) non è di per sé degno di condanna, anche se è inteso a prepararci alle cose assurde e insensate che seguono, dal momento che molti di questi maestri sacri considerano le descrizioni verbali più necessarie delle rappresentazioni visive, senza ovviamente condannare queste ultime. Eppure alcuni insegnano il contrario. Quindi i due hanno in realtà lo stesso valore, come dice Basilio Magno: “Infatti le cose che la parola scritta descrive attraverso l’udito, le stesse cose vengono espresse silenziosamente dall’immagine attraverso l’imitazione”. [16] E non tutti sono artisti, come non tutti sono scrittori; ma a ciascuno Dio ha dato una misura di grazia.
Dopo aver ascoltato ciò che dice San Basilio, lo stolto ripeta: “Coloro che hanno collocato tali immagini, ci dicano quale beneficio ne traggono, o a quale tipo di contemplazione spirituale li eleva il ricordo di tali immagini”. Ora quest’uomo avventato e insolente può rispondere da solo: quale beneficio spirituale e quale visione sacra non possiamo ottenere attraverso le sante icone? Perché, se è natura di ogni immagine essere imitazione dell’archetipo – come dice Gregorio il Teologo [17] – e se, inoltre, l’archetipo si manifesta nella sua immagine – secondo il saggio Dionisio [18] – ne deriva che è del tutto evidente che dall’imitazione, con questo intendo, dall’icona, scaturisce un grande beneficio spirituale, e attraverso l’imitazione ci eleviamo ancora di più alla contemplazione spirituale del prototipo. A testimoniare la verità delle mie parole è lo stesso divino Basilio, il quale dice: “L’onore reso all’immagine ascende [19] all’archetipo”. [20] Se essa “ascende”, allora è appena il caso di dire che discende anche all’immagine dall’archetipo, e quindi nemmeno una persona di intelligenza limitata potrebbe dire che onorare l’icona è senza alcun beneficio, o che la l’imitazione non porta l’impronta né la forma di ciò che imita, sicché ciascuna è presente nell’altra, secondo il divino Dionisio. [21] Cosa potrebbe esserci di più benefico o di più efficace nel sollevarci attraverso l’anagogia di questo? Questo perché l’icona è l’impressione di una visione che si è vista con i propri occhi, non dissimile dalla luce simile della luna – se posso usare un esempio familiare tratto dalla nostra esperienza – in relazione alla luce del sole. Perché se questo non è ciò che l’icona è, allora di che beneficio era per gli antichi la Tenda della Testimonianza, che era un’imitazione delle realtà celesti? [22] Infatti in esso erano contenuti, tra le altre cose, i cherubini gloriosi, che sovrastavano l’altare della propiziazione, cioè immagini realizzate con sembianze antropomorfe. Tutte queste cose avevano una funzione anagogica ed erano allegorie del culto nello spirito (cfr Gv 4,23). Ma secondo la vuota teoria di quest’uomo, anche la forma della croce non ci è assolutamente di alcun beneficio; non ci giova a nulla la forma della lancia, o la forma della spugna, perché sono tutte imitazioni (anche se non sono antropomorfe); e non giovano neppure le altre immagini sensibili, che – per parlare alla maniera di Dionisio – ci sono state tramandate e che anagogicamente ci elevano, per quanto ciò ci è possibile, alla contemplazione delle realtà intelligibili.
Dopo viene l’immaginazione (phantasia), che è una delle cinque potenze dell’anima. [23] L’immaginazione stessa può essere considerata una sorta di immagine, poiché entrambe sono somiglianze. [24] Ne consegue dunque che l’immagine non è priva di utilità, poiché è come la potenza dell’immaginazione. E se la prima è senza beneficio, allora la seconda deve essere di beneficio ancora minore e non avrebbe senso averla come parte della nostra natura. E se fosse senza beneficio, sarebbe parimenti senza beneficio tutto ciò che gli corrisponde, intendo la facoltà del sentimento, dell’opinione, del pensiero logico e dell’intelletto. Così, un’indagine razionale della natura mostra, per induzione, che la persona che denigra l’immagine, cioè l’immaginazione, è essa stessa priva di intelletto. Ma ammiro il potere dell’immaginazione per un motivo diverso. Alcuni raccontano che una donna, la quale, al momento del concepimento, immaginò un etiope, successivamente diede alla luce un etiope. [25] Così avvenne al patriarca Giacobbe, quando tolse strisce di corteccia dai rami, affinché le pecore che nascevano dal gregge prendessero le loro macchie e strisce bianche per l’impressione visiva che ne derivava. (Gen 30,38), e – oh, che meraviglia! – ciò che era immaginato nella mente produceva risultati reali e visibili. [26]
Ma torniamo al punto, cioè alla sua affermazione: “Coloro che propongono tali forme ci dicano quale beneficio ne traggono, o a quale contemplazione spirituale sono innalzati dal loro ricordo”. E chi, si potrebbe chiedere a quest’uomo noioso e faticoso, dopo aver osservato con attenzione e chiarezza le raffigurazioni di varie forme, è in grado di allontanarsene senza che il suo intelletto sia pieno da ogni parte della loro somiglianza e impronta? Se le immagini sono ammirevoli, allora le impressioni saranno ottime, ma se sono vergognose, lo saranno anche le riflessioni, e così accade spesso che, anche quando non usciamo di casa, siamo mossi a compunzione da una o subiamo una caduta a causa dell’altra. E non è forse vero che le immagini viste di notte nei sogni possono farci sentire felici o tristi? E se questo è vero nei sogni, quanto più lo è nel caso delle immagini – belle o brutte – viste da svegli? E questo bravissimo ometto non ha mai letto che per mezzo di “copie” e di “ombre” gli uomini dell’Antico Testamento adoravano le realtà celesti? E cosa erano quelle cose se non immagini? E non era attraverso queste immagini che essi venivano condotti alla contemplazione delle realtà celesti? E, per parlare alla maniera di Davide, «l’uomo che segue i suoi malvagi disegni». (Sal 37,7)? E non sei tu stesso, o iconoclasta, un’immagine di Dio? Non sei nato secondo la somiglianza paterna? Non puoi essere raffigurato su una tavola di legno? Oppure solo tu non puoi essere raffigurato, come se non fossi un essere umano ma una sorta di mostro, ed è per questo che pensi la stessa cosa dei santi?
Ma affinché il mio discorso possa trovare ulteriore conferma, e non semplicemente dogmatizzarsi sulla base delle nostre stesse argomentazioni, permettetemi ora di portare avanti quei fari luminosi dell’oikoumene , che risponderanno essi stessi alle vostre domande.
Gregorio di Nissa: “Molte volte ho visto dipinta un’icona della sofferenza (cioè quella di Isacco in Gen 22,9) e non mi sono allontanato dalla sua visione senza versare lacrime, perché l’arte mi ha chiaramente riportato alla vista l’evento storico .” [27]
Giovanni Crisostomo: “Amo anche l’immagine di cera, perché è piena di pietà. Perché ho visto un angelo in un’icona che sconfiggeva schiere di barbari. Ho visto orde di barbari calpestate e ho visto Davide dichiarare con verità: «Signore, tu cancellerai la loro immagine dalla città» (Sal 72,20)». [28]
Cirillo d’Alessandria: “In un dipinto su un muro, ho visto una giovane fanciulla martire, e mi sono commosso fino alle lacrime.” [29]
Gregorio il Teologo: “Quando una cortigiana vide Polemone [30] affacciarsi da un’immagine, subito si allontanò, sconvolta dalla vista (era infatti un’immagine veneranda) e rimase svergognata dal ritratto come se fosse vivo .” [31]
Basilio Magno: “Alzatevi, o eminenti pittori di imprese di combattimento, e glorificate con la vostra abilità l’immagine del generale a cui non ho reso giustizia. Illumina l’incoronato con i colori della tua saggezza, perché l’ho raffigurato troppo debolmente con le mie parole. Possa io andarmene sconfitto dalla tua descrizione delle imprese del martire. Possa io gioire di essere stato sconfitto oggi da questa vittoria del tuo talento superiore. Possa io vedere la lotta della sua mano con il fuoco da te descritta in modo più accurato; potrei vedere il lottatore raffigurato nella tua immagine in modo più luminoso. Piangano ancora una volta i demoni, colpiti dalla prodezza del martire che tu hai reso visibile. Possa la mano, bruciata ma vittoriosa, essere nuovamente mostrata davanti a loro”. [32]
Vedi come quello aggiunge l’immagine dipinta al testo scritto, e come l’esperienza visiva del primo è così grande da far gemere i demoni? Vedi come l’altro chiama un’icona “venerabile”, così che avesse la capacità di portare una cortigiana alla castità? O come mai l’altro non se ne sia andato senza lacrime agli occhi dopo aver visto l’immagine dipinta di un martire che subisce il martirio? O ancora, come un altro dice che l’immagine di cera è amata, poiché in essa ha visto l’archetipo? Oppure colui che li segue, come non ha potuto trattenersi dal piangere alla vista dell’immagine, come se avesse visto l’evento reale? Vedi tutti i vantaggi? Considera per un momento tutti i vantaggi. E poiché ti chiedi quale sia il vantaggio, non ascoltare ciò che dice questo o quell’individuo di poca o nessuna importanza, ma coloro che hanno parlato nello spirito di Dio e la cui voce tuonava attraverso la terra, e vieni alla giusta conclusione, brillante dogmatico! Tu cioè che hai detto: “È evidente che questi artifici sono inutili e che si tratta di un’invenzione di un inganno diabolico”. A queste parole è tempo di gridare con forza: «Stupitene, cieli» (Ger 2,12), che le sacre dottrine dei Padri teologi siano state calunniate come “inutili artifici” e “ingannevoli invenzioni del diavolo”. Ma non è così, o più grande degli ingannatori, anzi tutta la tua appariscente eloquenza si è rivolta contro di te.
Poiché siamo ormai giunti alla fine del nostro argomento, c’è una cosa, fratello, che desidero che tu sappia: qualunque passaggio o testo di prova portato dagli iconoclasti è chiaramente tratto dagli scritti degli eretici (perché la verità non cresce insieme alle falsità, come la zizzania col grano). E se citano passaggi dei Santi Padri, invariabilmente li distorcono e li interpretano male secondo il loro modo di pensare ottenebrato; mentre quei passaggi che identificano l’icona di Cristo con gli idoli dei pagani sono del tutto bizzarri ed estranei alla fede. Non bisogna mai accettare acriticamente ciò che dicono, né entrare in dialogo con gli eretici, cosa contraria al consiglio apostolico. Per quanto riguarda ciò che ci aspetta, possa tu trovare la salvezza, mio caro figlio, e prega affinché anch’io possa essere salvato.
[2] Per il testo della lettera si veda George Fatouros, Theodori Studitae Epistulae , vol. 1 (Corpus Fontium Historiae Byzantinae, Serie Berolinensis 31) (Berlino: De Gruyter, 1991), 511-19.
[3] Giovanni il Grammatico fu l’ultimo patriarca iconoclasta di Costantinopoli (21 gennaio 837 – 4 marzo 843); la sua cultura teologica e il suo potere politico lo resero un avversario formidabile e pericoloso. Sebbene questa lettera sia indirizzata a Naucrazio, è principalmente una risposta alle argomentazioni iconoclaste del patriarca (e quindi Teodoro ammette che la sua “lettera” va oltre la forma propria dell’epistolografia).
[4] Cioè Asterio di Amasea (350-410), vescovo ariano della Cappadocia e autore di sedici omelie sopravvissute (Fozio conosceva altre sue opere). Qui uno dei manoscritti aggiunge a margine il seguente commento: “Va notato che si tratta dello stesso Asterios che fu anatemizzato da san Sofronio di Gerusalemme nelle sue lettere sinodali, così come da un altro Padre, che lo trovò della stessa mente di Apollinario ed Eutiche”.
[5] Cioè Epifanio di Salamina (310-403). Gli iconoclasti invocavano l’autorità di Epifanio, sebbene i passaggi da loro citati fossero interpolazioni o di dubbia autenticità; vedere Kenneth Parry, Depicting the Word: Byzantine Iconophile Thought of the Eighth and Ninth Centuries (Leiden: Brill, 1996), 148-51.
[7] Asterios di Amasea, Omelia sul ricco e Lazzaro 4 (a cura di C. Datema, Asterius di Amasea, Omelie I-XIV [Leiden: Brill, 1970], 10-13); citato nella Sesta Sessione del Settimo Consiglio; trans. Richard Price, Gli Atti del Secondo Concilio di Nicea (787) (Testi tradotti per gli storici 68) (Liverpool: Liverpool University Press, 2018), 505.
[8] Nel Vangelo di Giovanni la “gloria” di Cristo è direttamente associata alla sua crocifissione.
[9] Basilio di Cesarea, Omelia sul martire Barlaam 3 (PG 31:489B).
[10] Gregorio il Teologo, Orazione 30,14: «Egli, anche adesso, come uomo, intercede per la mia salvezza, perché continua a esistere con il corpo che ha assunto, anche se non è più conosciuto secondo la carne, per la quale io significo le passioni carnali” (SC 250:256); e id., Orazione 40,45: «Verrà di nuovo a giudicare i vivi e i morti, non più secondo la carne, ma nemmeno senza il corpo, per ragioni a lui note, ma in un corpo più divino, affinché possa essere visto da coloro che lo trafissero (Gv 19,37; Zac 12,10)» (SC 358,306).
[11] Qui alcuni manoscritti contengono a margine il seguente scolione: “Notare che gli insegnamenti di Valentino e Isidoro si trovano sotto il nome di Epifanio nel capitolo 42 del suo Contro le eresie [PG 41:544 ss.], e che questi due, insieme a Carpocrate, furono anatematizzati da San Sofronio”.
[12] Epifanio, frammento 21 (a cura di K. Holl, Gesammelte Aufsätze zur Kirchengeschichte, II [Tübingen: JCB Mohr (P. Siebeck), 1928; ripr. Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1964]), 360.
[14] Alcuni manoscritti riportano a margine il seguente scolion: “Va notato che questo è uno dei quattro uomini chiamati Teodoto anatematizzati da san Sofronio, anche se solo tre furono menzionati per nome, l’altro implicitamente, e che era condannato anche da un altro Padre, che, come ho letto, lo nominò Teodoto di Ancyra.
[15] Teodoto di Ancira, passaggio citato nella Sesta Sessione del Settimo Concilio (trad. Price 509), e non noto da nessun’altra fonte. Anche Niceforo discute l’autenticità di questo frammento nella sua Refutatio (93), scritta ca. 820-30.
[16] Basilio di Cesarea, Omelia sui Quaranta Martiri 2 (PG 31:509A).
[18] Dionigi l’Areopagita, Sulla gerarchia ecclesiastica IV.3: “Come nel caso delle immagini sensibili, se l’artista guarda senza distrazione la forma archetipica… egli, se si può dire così, duplicherà (εἰ θέμις εἰπεἶν, διπλασιάσει) la stessa persona (αὐτὸν ἐκεῖνον) raffigurata, [e mostrerà la realtà nella somiglianza, e l’archetipo nell’immagine,] e ciascuno essendo presente in ciascuno, salvo la differenza nella sostanza ( ἑκάτερον ἐν ἑκατέρῳ παρὰ τὸ τῆς οὐσίας διάφορον). Così, ai copisti che amano il bello nella loro mente, la contemplazione della bellezza nascosta conferirà l’apparenza infallibile e quasi divina (θειοειδέστατον ἴνδαλμα)” (a cura di Günter Heil e Adolf Martin Ritter, Corpus Dionysiacum II [Berlino: De Gruyter, 1992] , 96, 5-11). Il passaggio tra parentesi sembra essere un’interpolazione successiva, sebbene esistente in molti dei primi manoscritti del corpus Dionysiacum. Sulla frase ἑκάτερον ἐν ἑκατέρῳ, vedi Aristotele, Top. 150a28; Damascio, Parm. 211, 21; e Teodoro, lettere 57, 20; 476, 24; 524, 38, 48; 528, 48-50; 532, 110.
[19] Teodoro ha ἀναβαίνει mentre Basilio ha διαβαίνει, sebbene la differenza sia trascurabile.
[20] Basilio di Cesarea, Sullo Spirito Santo 18,45 (PG 32,149C); citato nella Quarta e Sesta Sessione del Settimo Concilio (Prezzo 312-13; e 518).
[23] La difesa dellaphantasia da parte di Teodoro, che è spesso citata come elemento standard nella teologia iconofila, è in realtà un’opinione minoritaria (anche nel contesto della stessa teologia di Teodoro); Niceforo, ad esempio, non ha praticamente nulla di positivo da dire sull’immaginazione, a lungo denigrata dai filosofi greci. Teodoro probabilmente invocò la categoria perché vide che vi si alludeva implicitamente nella citazione di Teodoto (che parla anche di epinoia). Si noti che la discussione di Teodoro riguarda principalmente l’eccitazione delle passioni attraverso l’immaginazione. Sull’uso da parte della Scrittura di un linguaggio appassionato per descrivere l’attività di Dio e di vari individui, vedere Massimo il Confessore, Risposte a Thalassios, Qu. 1.4 (Constas 2018, 96).
[24] ἰνδάλματα, che significa anche forma o apparenza, ed è spesso usato per descrivere immagini mentali.
[25] L’enfasi qui è sulla trasmissione del colore e non della nazionalità. Eliodoro di Emesa, Aethiopica IX.14, 7 (un romanzo scritto nel III o forse IV secolo d.C.) , racconta la storia di una donna il cui bambino portava le sembianze di un dipinto che lei fissava durante il rapporto; la storia è centrale nella narrazione poiché rivela le vere origini dell’eroina.
[26] Cfr. Aglae Pizzone, “Teodoro e l’uomo nero: immaginare (attraverso) l’icona a Bisanzio”, in Knotenpunkt Byzanz , ed. A Speer e P. Steinkruger (Miscellanea Mediaevalia 36) (Berlino: De Gruyter, 2012), 47-70.
[27] Gregorio di Nissa, Della divinità del Figlio e dello Spirito Santo (PG 46:572C); citato nella Quarta e Sesta Sessione del Settimo Concilio (Prezzo 265-66; e 518).
[28] Giovanni Crisostomo (= Severiano di Gabala), Omelia sul Legislatore 6 (PG 56:407); citato nella Sesta Sessione del Settimo Consiglio (Prezzo 502).
[29] Questa citazione non si trova tra le opere esistenti di san Cirillo, ma è citata da altri autori iconofili, ad esempio, Nikephoros di Costantinopoli, Adversus Epiphanidem 17 (ed. JB Pitra, Spicilegium Solesmense , vol. 4 [Paris: Didot , 1858], 351).
[30] Da non confondere con l’omonimo padre del deserto, Polemone era il capo dell’Accademia platonica nel IV secolo a.C. Era noto per la sua dissolutezza ma si pentì e abbracciò una vita di castità.
[31] Gregorio il Teologo, Carmina 1.2.10 (PG 37:489A); citato da Giovanni Damasceno, Immagini III.109 (a cura di Boniface Kotter, Die Schriften Johannes von Damaskos III [Berlino: De Gruyter, 1975], 189-90); la Quarta Sessione del Settimo Consiglio (Prezzo 268-69); e Nikephoros, Antirrheticus III.17 (PG 100:401AB). Il testo è disponibile in edizione critica a cura di Carmelo Crimi, Gregorio Nazianzeno, Sulla Virtù: Carme giambico [I,2,10] (Pisa: Edizioni ETS, 1995), 170-72.
[32] Basilio di Cesarea, Omelia sul martire Barlaam 3 (PG 31:489AB). Il sermone di San Basilio continua: “Sia raffigurato sulla tavola anche il giudice della gara, cioè Cristo, al quale è la gloria nei secoli dei secoli”.
1994: Lettera al Patriarca Ecumenico Bartolomeo dalla Sacra Comunità del Monte Athos sulla dichiarazione di Balamand
Nel 1993 si tenne un incontro della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali a Balamand (Libano), dove fu redatta una dichiarazione sull’uniatismo. Uno dei tasselli del movimento ecumenico, la paneresia come la definì il teologo ortodosso e Santo Justin Popovitch.
La Dichiarazione di Balamand fu ampiamente contestata tra gli ortodossi. La seguente lettera al Patriarca Ecumenico Bartolomeo è stata scritto dalla Sacra Comunità del Monte Athos. Apparve originariamente in greco in Orthodoxos Typos, il 18 marzo, 1994, e fu tradotta in russo, serbo e inglese. La riproponiamo in una nostra traduzione in italiano.
8 dicembre 1993
[…]
Santissimo Padre e Maestro:
L’unione delle Chiese o, per essere precisi, l’unione degli eterodossi con la nostra Chiesa Ortodossa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica è auspicabile anche per noi affinché si compia la preghiera del Signore… affinché siano una cosa sola (Giovanni 17,21). In ogni caso la comprendiamo e attendiamo secondo l’interpretazione ortodossa. Come ci ricorda il professor John Romanides, “Cristo prega qui affinché i suoi discepoli e i loro discepoli possano, in questa vita, diventare una cosa sola nella visione della sua gloria (che Egli ha per natura dal Padre) quando diventeranno membri del suo Corpo, la Chiesa…” [1]
Per questo motivo, ogni volta che ci visitano cristiani eterodossi, ai quali offriamo amore e ospitalità in Cristo, siamo dolorosamente consapevoli che ci separiamo nella fede e, per questo, non possiamo avere la comunione ecclesiastica.
Lo scisma, la divisione tra ortodossi e non calcedoniani prima e tra ortodossi e occidentali poi, costituisce davvero una tragedia di fronte alla quale non dobbiamo tacere o compiacerci.
In questo contesto, quindi, apprezziamo gli sforzi compiuti con timore di Dio e in conformità con la Tradizione ortodossa che guardano ad un’unione che non può realizzarsi attraverso il silenzio o la minimizzazione delle dottrine ortodosse, o attraverso la tolleranza delle false dottrine degli eterodossi, perché non sarebbe un’unione nella Verità. E alla fine questo non sarebbe accettato dalla Chiesa né benedetto da Dio, perché, secondo il detto patristico, “Una cosa buona non è buona se non è realizzata in modo buono”.
Al contrario, porterebbe nuovi scismi e nuove divisioni e miserie nel corpo già [dis]unito[2] dell’Ortodossia. A questo punto vorremmo dire che di fronte ai grandi cambiamenti in atto nelle terre di presenza ortodossa, e di fronte a tante condizioni di instabilità su scala mondiale, l’Una, Santa, Cattolica e Apostolica, in in altre parole, la Chiesa Ortodossa avrebbe dovuto rafforzare la coesione delle Chiese locali e dedicarsi alla cura dei suoi membri colpiti dal terrore e alla loro stabilizzazione spirituale, da un lato e nella sua coscienza [come Chiesa Una Santa], dall’altro, avrebbe dovuto suonare la tromba del suo potere e della sua Grazia redentrice unici e manifestarli davanti all’umanità caduta.
In questo spirito, nella misura in cui il nostro ufficio monastico ce lo consente, seguiamo da vicino gli sviluppi del cosiddetto movimento e dialogo ecumenico. Notiamo che a volte la parola della Verità viene giustamente tenuta divisa e, a volte, si fanno compromessi e concessioni su questioni fondamentali della Fede.
I
Pertanto, le azioni e le dichiarazioni dei rappresentanti delle Chiese Ortodosse, inaudite fino ad oggi e del tutto contrarie alla nostra santa fede, ci hanno causato un profondo dolore.
Citeremo innanzitutto il caso di Sua Beatitudine [Parthenios], il Patriarca di Alessandria, il quale, in almeno due occasioni, ha affermato che noi cristiani dovremmo riconoscere Maometto come profeta. Fino ad oggi, tuttavia, nessuno gli ha chiesto di dimettersi, e questo Patriarca terribilmente incurante continua a presiedere la Chiesa di Alessandria come se non ci fosse nulla di sbagliato.
In secondo luogo, citiamo il caso del Patriarcato di Antiochia, che, senza una decisione pan-ortodossa, ha proceduto alla comunione ecclesiastica con i non calcedoniani [monofisiti]. Ciò è stato compiuto nonostante il fatto che un problema molto serio non sia stato ancora risolto. È proprio la non accettazione da parte di quest’ultimi dei Concili ecumenici successivi al Terzo e, in particolare, il Quarto, il Concilio di Calcedonia, che costituisce di fatto una base inamovibile dell’Ortodossia. Purtroppo anche in questo caso non abbiamo assistito ad una sola protesta da parte delle altre Chiese ortodosse.
La questione più grave, tuttavia, è il cambiamento inaccettabile nella posizione degli ortodossi che emerge dalla dichiarazione congiunta della commissione mista per il dialogo tra cattolici romani e ortodossi alla Conferenza di Balamand del giugno 1993. Hanno adottato posizioni antiortodosse, ed è soprattutto su questo che richiamiamo l’attenzione di Vostra Santità.
In primo luogo, dobbiamo confessare che le dichiarazioni che Vostra Santità ha fatto di tanto in tanto, secondo cui il movimento Uniate è un ostacolo insormontabile alla continuazione del dialogo tra ortodossi e cattolici romani, ci hanno finora tranquillizzato.
Ma il suddetto documento [di Balamand] dà l’impressione che le sue affermazioni vengano eluse. Inoltre, l’Unia riceve l’amnistia ed è invitata al tavolo del dialogo teologico nonostante la decisione contraria della Terza Conferenza Panortodossa di Rodi che richiedeva: “il ritiro completo dalle terre ortodosse da parte degli agenti e propagandisti uniati del Vaticano; l’incorporazione delle cosiddette Chiese uniate e la loro sottomissione sotto la Chiesa di Roma prima dell’inaugurazione del dialogo, perché Unia e dialogo allo stesso tempo sono inconciliabili”.
II
Santità, lo scandalo più grande, però, è causato dalle posizioni ecclesiologiche contenute nel documento. Ci riferiremo qui solo alle deviazioni fondamentali.
Al paragrafo 10 leggiamo:
La Chiesa cattolica… (che ha svolto un’opera missionaria contro gli ortodossi e) si è presentata come l’unica alla quale è stata affidata la salvezza. Per reazione, la Chiesa ortodossa, a sua volta, arrivò ad accettare la stessa visione secondo la quale solo in essa si poteva trovare la salvezza. Per assicurare la salvezza dei «fratelli separati» avvenne addirittura che i cristiani venissero ribattezzati e che alcune esigenze della libertà religiosa delle persone e del loro atto di fede fossero dimenticate. Questa prospettiva era quella verso la quale quel periodo mostrò poca sensibilità.
Come ortodossi, non possiamo accettare questo punto di vista. Non è stato per reazione contro l’Unia che la nostra Santa Chiesa Ortodossa ha cominciato a credere di possedere esclusivamente la salvezza, ma lo ha creduto prima che esistesse l’Unia, fin dai tempi dello Scisma, avvenuto per ragioni dogmatiche. La Chiesa Ortodossa non ha atteso la venuta dell’Unia per acquisire la coscienza di essere la continuazione incontaminata della Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica, perché ha sempre avuto questa autocoscienza, così come ha avuto la consapevolezza che il Papato era in eresia. Se non usò frequentemente il termine eresia, fu perché, secondo san Marco di Efeso, “I latini non sono solo scismatici, ma anche eretici. Tuttavia, la Chiesa ha taciuto su questo perché la loro razza è grande e più potente della nostra… e noi abbiamo voluto non cadere nel trionfalismo sui latini come eretici, ma accettare il loro ritorno e coltivare la fratellanza”.
Ma quando gli uniati e gli agenti di Roma furono scatenati contro di noi in Oriente per fare proselitismo tra gli ortodossi sofferenti con mezzi per lo più illegali, come fanno anche oggi, l’Ortodossia fu costretta a dichiarare quella verità, non a fini di proselitismo ma per proteggere il gregge.
San Fozio definisce ripetutamente il Filioque come un’eresia e i suoi credenti come cacodossi [credenti errati].
San Gregorio Palamas dice dell’occidentale Barlaam, che quando arrivò all’Ortodossia, “non accettò l’acqua santificante della nostra Chiesa… per cancellare le [sue] macchie dall’Occidente”. San Gregorio lo considera ovviamente un eretico bisognoso della grazia santificante per entrare nella Chiesa Ortodossa.
L’affermazione contenuta nel paragrafo in questione scarica ingiustamente la responsabilità sulla Chiesa ortodossa per alleggerire quella dei papisti. Quando gli ortodossi hanno calpestato la libertà religiosa degli uniati e dei cattolici romani battezzandoli contro la loro volontà? E se ci sono state delle eccezioni, gli ortodossi che hanno firmato il documento di Balamand dimenticano che coloro che sono stati ribattezzati contro la loro volontà erano discendenti degli ortodossi resi uniati con la forza, come è avvenuto in Polonia, Ucraina e Moldavia. (Vedi paragrafo 11)
Al paragrafo 13 leggiamo:
Infatti, soprattutto a partire dall’inizio delle Conferenze panortodosse e dal Concilio Vaticano II, la riscoperta e la valorizzazione della Chiesa come comunione, sia da parte degli ortodossi che dei cattolici, ha cambiato radicalmente prospettive e quindi atteggiamenti. Da entrambe le parti si riconosce che ciò che Cristo ha affidato alla sua Chiesa — professione di fede apostolica, partecipazione agli stessi sacramenti, soprattutto l’unico sacerdozio celebrante l’unico sacrificio di Cristo, la successione apostolica dei vescovi — non può essere proprietà esclusiva di una delle nostre Chiese. In questo contesto è chiaro che ogni forma di ribattesimo va evitata.
La nuova scoperta della Chiesa come comunione da parte dei cattolici romani ha, ovviamente, un certo significato per loro che non avevano via d’uscita dal dilemma della loro ecclesiologia totalitaria e, quindi, hanno dovuto rivolgere il loro sistema di pensiero al carattere comunitario della Chiesa. Così, accanto ad un estremo del totalitarismo, essi pongono l’altro della collegialità, sempre motivata sullo stesso piano antropocentrico. La Chiesa ortodossa, però, ha sempre avuto la coscienza di non essere una semplice comunione, ma una comunione teantropica o una «comunione di theosis [divinizzazione]», come dice san Gregorio Palamas nella sua omelia sulla processione dello Spirito Santo. Inoltre, la comunione della theosis non solo è sconosciuta, ma è anche inconciliabile con la teologia cattolica romana, che rifiuta [la dottrina delle] energie increate di Dio che formano e sostengono questa comunione.
Date queste verità, è con la più profonda tristezza che abbiamo confermato che questo paragrafo [13] rende la Chiesa Ortodossa uguale alla Chiesa cattolica romana che dimora nella cacodossia [credenza sbagliata].
Gravi differenze teologiche, come il Filioque, il primato e l’infallibilità papale, la grazia creata, ecc., ricevono l’amnistia e si sta forgiando un’unione senza accordo dogmatico.
Si verificano così le premonizioni che l’unione disegnata dal Vaticano, nella quale, come diceva san Marco di Efeso, “i volenterosi vengono involontariamente manipolati” (cioè gli ortodossi, che vivono oggi anche in circostanze ostili etnicamente e politicamente e sono prigioniera di nazioni di altre religioni), viene spinta a svolgersi senza accordo riguardo alle differenze dottrinali. Il progetto è che l’unione avvenga, nonostante le differenze, attraverso il riconoscimento reciproco dei Misteri e della successione apostolica di ciascuna Chiesa, e l’applicazione dell’intercomunione, limitata all’inizio e più ampia poi. Dopo di ciò, le differenze dottrinali possono essere discusse solo come opinioni teologiche.
Ma una volta avvenuta l’unione, che senso ha discutere di differenze teologiche? Roma sa che gli ortodossi non accetteranno mai i suoi insegnamenti estranei. L’esperienza lo ha dimostrato nei vari tentativi di unione fino ad oggi. Pertanto, nonostante le differenze, Roma sta costruendo un’unione e spera, da un punto di vista umanistico (come è sempre la sua prospettiva), che, come fattore più potente, col tempo assorbirà quello più debole, cioè l’Ortodossia. Padre John Romanides lo aveva presagito nel suo articolo “Il movimento uniate e l’ecumenismo popolare”, pubblicato su The Orthodox Witness, febbraio 1966.
Vorremmo porre queste domande agli ortodossi che hanno firmato questo documento:
Il Filioque, il primato e l’infallibilità [papale], il purgatorio, l’Immacolata Concezione e la grazia creata costituiscono una confessione apostolica? Nonostante tutto ciò, è possibile per noi ortodossi riconoscere come apostolica la fede e la confessione dei cattolici romani?
Queste gravi deviazioni teologiche di Roma costituiscono eresie oppure no?
Se lo sono, come sono stati descritti dai Concili e dai Padri ortodossi, non comportano l’invalidità dei Misteri e la successione apostolica di eterodossi e cacodossi di questo tipo?
È possibile che esista la pienezza della grazia dove non c’è la pienezza della verità?
È possibile distinguere il Cristo della Verità dal Cristo dei Misteri e dalla successione apostolica?
La successione apostolica è stata proposta innanzitutto dalla Chiesa come conferma storica della continua conservazione della sua verità. Ma quando la verità stessa viene distorta, che significato può avere una preservazione formulistica della successione apostolica? I grandi eresiarchi non avevano spesso questo tipo di successione esterna? Come è possibile che anch’essi siano considerati portatori di Grazia?
E come è possibile che due Chiese siano considerate “Chiese sorelle” non per la loro discendenza comune pre-scismatica, ma per la cosiddetta confessione comune, la grazia santificante e il sacerdozio nonostante le grandi differenze nei dogmi?
Chi tra gli ortodossi può accettare come vero successore degli Apostoli colui che è infallibile, colui che ha il primato di autorità per governare su tutta la Chiesa e per essere la guida religiosa e laica dello Stato Vaticano?
Non sarebbe questa una negazione della Fede e della Tradizione Apostolica?
Oppure i firmatari di questo documento non sono consapevoli del fatto che molti cattolici romani oggi gemono sotto i piedi del Papa (e del suo sistema ecclesiologico scolastico e centrato sull’uomo) e desiderano entrare nell’Ortodossia?
Come possono queste persone che sono tormentate spiritualmente e desiderano il santo Battesimo non essere accolte nell’Ortodossia perché si suppone che la stessa Grazia sia qui e là? Non dovremmo, a quel punto, rispettare la loro libertà religiosa, come richiede in un’altra circostanza la dichiarazione di Balamand, e concedere loro il battesimo ortodosso? Quale difesa presenteremo al Signore se neghiamo la pienezza della Grazia a coloro che, dopo anni di agonia e di ricerca personale, desiderano il santo Battesimo della nostra Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica?
Il paragrafo 14 del documento cita Papa Giovanni Paolo II: “L’impegno ecumenico delle Chiese sorelle d’Oriente e d’Occidente, fondato sul dialogo e sulla preghiera, è la ricerca della comunione perfetta e totale, che non è né assorbimento né fusione, ma incontro nella Verità e nella Amore.”
Ma come è possibile un’unione nella Verità quando le differenze nei dogmi vengono eluse ed entrambe le Chiese vengono descritte come sorelle nonostante le differenze?
La Verità della Chiesa è indivisibile perché è Cristo stesso. Ma quando ci sono differenze nei dogmi non può esserci unità in Cristo.
Da quello che sappiamo della storia della Chiesa, le Chiese erano chiamate Chiese sorelle quando avevano la stessa fede. La Chiesa ortodossa non è mai stata definita sorella di alcuna chiesa eterodossa, indipendentemente dal grado di eterodossia o cacodossia che manteneva.
Ci poniamo una domanda fondamentale: il sincretismo religioso e il minimalismo dottrinale – sottoprodotti della secolarizzazione e dell’umanesimo – hanno forse influenzato i firmatari ortodossi del documento?
È evidente che il documento adotta, forse per la prima volta da parte ortodossa, la posizione secondo cui due Chiese, quella ortodossa e quella cattolica romana, insieme costituiscono l’unica Santa Chiesa o sono due legittime espressioni di essa.
Sfortunatamente, è la prima volta che gli ortodossi accettano ufficialmente una forma della teoria dei rami.
Permetteteci di esprimere il nostro profondo dolore per questo in quanto questa teoria entra fino ad ora in stridente conflitto con la tradizione e la coscienza ortodossa.
Abbiamo molti testimoni della coscienza ortodossa che solo la nostra Chiesa costituisce l’Unica Santa Chiesa, e sono riconosciuti come autorità pan-ortodosse. Questi sono il:
1. Concilio di Costantinopoli, 1722;
2. Concilio di Costantinopoli, 1727;
3. Concilio di Costantinopoli, 1838;
4. Enciclica dei Quattro Patriarchi d’Oriente e loro sinodi. 1848;
5. Concilio di Costantinopoli, 1895.
Questi hanno decretato che solo la nostra Santa Chiesa Ortodossa costituisce l’Unica Santa Chiesa.
Il Concilio di Costantinopoli del 1895 riassume tutti i Concili precedenti:
L’Ortodossia, cioè la Chiesa d’Oriente, giustamente si vanta in Cristo di essere la Chiesa dei sette Concili ecumenici e dei primi nove secoli del cristianesimo e quindi di essere la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica, “colonna e baluardo della verità.”E l’attuale Chiesa Romana è la chiesa del modernismo e dell’adulterazione degli scritti dei Padri della Chiesa e della distorsione delle Sacre Scritture e dei decreti dei Santi Concili. Giustamente e a ragione è stato denunciato e viene denunciato finché persiste nel suo delirio. «Meglio una guerra lodevole», dice san Gregorio Nazianzeno, «che una pace separata da Dio».
I rappresentanti delle Chiese ortodosse hanno dichiarato le stesse cose alle conferenze del Consiglio ecumenico delle Chiese. Tra loro c’erano illustri teologi ortodossi, come padre George Florovsky. Così, alla Conferenza di Lund del 1952, si dichiarò:
Siamo venuti qui non per giudicare le altre Chiese, ma per aiutarle a vedere la verità, per illuminare il loro pensiero in modo fraterno, informandole sugli insegnamenti della Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, cioè la Chiesa Greco-Ortodossa , che è inalterato rispetto al periodo apostolico.
A Evanston nel 1954:
In conclusione, siamo obbligati a dichiarare la nostra profonda convinzione che solo la Santa Chiesa Ortodossa ha preservato “la fede una volta trasmessa ai santi” in tutta la sua pienezza e purezza. E questo non per qualche nostro merito umano, ma perché Dio si compiace di custodire il suo tesoro in vasi di creta…
E a Nuova Delhi nel 1961:
L’unità è stata spezzata ed è necessario riconquistarla. Per l’Ortodossia la Chiesa Ortodossa non è una Confessione, non una delle tante o una tra le tante. Per gli ortodossi la Chiesa ortodossa è la Chiesa. La Chiesa ortodossa ha la percezione e la coscienza che la sua struttura interna e il suo insegnamento coincidono con il kerygma apostolico e con la tradizione della Chiesa antica e indivisa. La Chiesa ortodossa esiste nella successione ininterrotta e continua del ministero sacramentale, della vita sacramentale e della fede. La successione apostolica dell’ufficio episcopale e del ministero sacramentale, per gli ortodossi, è veramente una componente essenziale e, per questo, un elemento necessario dell’esistenza di tutta la Chiesa. Secondo la sua convinzione interiore e la consapevolezza delle circostanze, la Chiesa Ortodossa occupa una posizione speciale e straordinaria nella cristianità divisa come portatrice e testimone della tradizione dell’antica Chiesa indivisa, da cui provengono le attuali denominazioni cristiane attraverso riduzione e separazione.
Potremmo qui riportare anche le testimonianze dei più illustri e riconosciuti teologi ortodossi. Ci limiteremo a uno, il defunto padre Dumitru Stăniloae, un teologo distinto non solo per la sua saggezza ma per l’ampiezza e la mentalità ortodossa della prospettiva ecumenica.
In molti punti del suo notevole libro, Verso un ecumenismo ortodosso, fa riferimento a temi rilevanti per la dichiarazione congiunta [di cui si discute qui] e rende testimonianza ortodossa. Attraverso di esso, quindi, si mostrerà il disaccordo tra le posizioni assunte nel documento e la fede ortodossa:
“Senza unità di fede e senza comunione nello stesso Corpo e Sangue del Verbo Incarnato, non potrebbe esistere una tale Chiesa, né potrebbe esistere una Chiesa nel senso pieno della parola”.
“Nel caso di chi entra nella piena comunione di fede con i membri della Chiesa Ortodossa e ne diventa membro, si intende per economia [dispensazione] dare validità a un Mistero precedentemente compiuto fuori della Chiesa”.
“Dal punto di vista cattolico romano, la Chiesa non è tanto un organismo spirituale guidato da Cristo quanto piuttosto un’organizzazione nomocanonica che, anche nelle migliori circostanze, vive non a livello divino ma soprannaturale [3] grazia creata.”
«Nella conservazione di questa unità, un ruolo indispensabile è svolto dall’unità della fede, perché questa lega integralmente le membra a Cristo e tra loro».
“Coloro che non confessano Cristo tutto e integro, ma solo alcune parti di Lui, non possono raggiungere una comunione completa né con la Chiesa né tra loro”.
“Come è possibile che i cattolici si uniscano agli ortodossi in una comune eucaristia quando credono che l’unità deriva più dal Papa che dalla Santa Eucaristia? Può scaturire dal Papa l’amore per il mondo, cioè l’amore che scaturisce dal Cristo della Santa Eucaristia?”
“C’è un crescente riconoscimento del fatto che l’Ortodossia, come corpo completo di Cristo, si protende in modo concreto per accogliere le parti che erano separate”.
È evidente che non possono esistere due corpi completi di Cristo.
III
Santità, c’è da chiedersi perché gli ortodossi procedono a fare queste concessioni mentre i cattolici romani non solo persistono ma rafforzano la loro ecclesiologia incentrata sul Papa.
È un dato di fatto che il Concilio Vaticano II [1963] non solo ha trascurato di minimizzare il primato e l’infallibilità [del Papa], ma li ha anzi amplificati. Secondo il defunto professor John Karmiris, “Nonostante il fatto che il Concilio Vaticano II abbia coperto le familiari affermazioni latine sul dominio monarchico assoluto del Papato con il manto della collegialità dei vescovi, non solo tali affermazioni non sono state diminuite; al contrario, sono state rafforzate da questo Concilio. L’attuale Papa [Giovanni XXIII] non esita a promuoverli, anche in tempi inopportuni, con molta enfasi».
E l’Enciclica del Papa, “Ai Vescovi della Chiesa Cattolica” (28 maggio 1992), riconosce solo Roma come chiesa “cattolica” e il Papa come unico vescovo “cattolico”. La Chiesa di Roma e il suo vescovo costituiscono l'”essenza” di tutte le altre Chiese. Inoltre, ogni Chiesa locale e il suo vescovo costituiscono semplicemente espressione della “presenza” e dell’“autorità” diretta del vescovo di Roma e della sua Chiesa, che determina dall’interno l’identità ecclesiale di ogni Chiesa locale.
Secondo questo documento papale, poiché le Chiese ortodosse rifiutano di sottomettersi al Papa, non portano affatto il carattere della Chiesa e sono semplicemente viste come “Chiese parziali”. “Verdienen der titer teilkirchen.”
La stessa ecclesiologia è espressa nella Guida Ecumenica (“una guida per l’applicazione dei principi e dell’agenda riguardanti l’ecumenismo”) della Chiesa Cattolica Romana, presentata dal cardinale Cassidy all’incontro dei vescovi cattolici romani (10-15 maggio 1993, un mese prima di Balamand), alla presenza di non cattolici e addirittura ortodossi.
La Guida ecumenica sottolinea che i cattolici romani «mantengono la ferma convinzione che la Chiesa singolare di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, la quale è retta dal successore di Pietro e da vescovi con lui in comunione», in quanto il «Collegio dei Vescovi ha come capo il Vescovo di Roma, successore di Pietro».
Nello stesso documento, si dicono molte cose belle sulla necessità di sviluppare un dialogo ecumenico e un’educazione ecumenica – ovviamente per confondere le acque e allontanare gli ingenui ortodossi con quell’efficace metodo di unità ideato dal Vaticano, cioè di sottomissione a Roma.
Il metodo, secondo La Guida Ecumenica, è il seguente:
I criteri stabiliti per la collaborazione ecumenica sono, da un lato, il riconoscimento reciproco del battesimo e la collocazione dei simboli comuni della fede nella vita liturgica empirica; e, dall’altro, la collaborazione nell’educazione ecumenica, nella preghiera comune e nella cooperazione pastorale affinché si possa passare dal conflitto alla convivenza, dalla convivenza alla collaborazione, dalla collaborazione alla condivisione, dalla condivisione alla comunione.
Tali documenti, tuttavia, pieni di ipocrisia, sono generalmente accolti come positivi dagli ortodossi.
Siamo rattristati nel constatare che la dichiarazione congiunta si fonda sul suddetto ragionamento cattolico romano. A causa di questi recenti sviluppi in tali termini, tuttavia, cominciamo a chiederci se coloro che sostengono che i vari dialoghi siano dannosi per l’Ortodossia non siano dopo tutto giustificati.
Santissimo Padre e Despota, in termini umani, per mezzo di quella dichiarazione congiunta i cattolici romani sono riusciti a ottenere un certo riconoscimento ortodosso come legittima continuazione dell’Unica Santa Chiesa con la pienezza della Verità, della Grazia, del Sacerdozio, dei Misteri e della Successione Apostolica .
Ma questo successo va a loro discapito perché toglie loro la possibilità di riconoscere e pentirsi della loro grave ecclesiologia e malattia dottrinale. Per questo motivo le concessioni degli ortodossi non sono filantropiche. Non sono per il bene né dei cattolici romani né degli ortodossi. Saltano dalla speranza del Vangelo (Col 1,23) di Cristo, unico Dio-Uomo, al Papa, uomo-Dio e idolo dell’umanesimo occidentale.
Per il bene dei cattolici romani e del mondo intero, la cui unica speranza è l’Ortodossia pura, siamo obbligati a non accettare mai l’unione o la descrizione della Chiesa cattolica romana come “Chiesa sorella”, o il Papa come vescovo canonico di Roma. , o la “Chiesa” di Roma come avente successione apostolica, sacerdozio e misteri canonici senza la loro rinuncia [da parte dei papisti] espressamente dichiarata al Filioque, all’infallibilità e al primato del Papa, alla grazia creata e al resto delle loro cacodossie. Perché non considereremo mai queste differenze senza importanza o semplici opinioni teologiche, ma come differenze che sviliscono irrevocabilmente il carattere teantropico della Chiesa e introducono blasfemie.
Sono tipiche le seguenti decisioni del Vaticano II:
Il Romano Pontefice, successore di Pietro, è fonte e fondamento permanente e visibile dell’unità dei vescovi e della moltitudine dei fedeli.
Questa sottomissione religiosa della volontà e della mente deve manifestarsi in modo speciale davanti all’autentico magistero del Romano Pontefice, anche quando questi non parla ex cathedra.
Il Romano Pontefice, capo del collegio dei vescovi, in virtù del suo ufficio, possiede l’infallibilità quando, confermando i suoi fratelli (Lc 23,32) come pastore e sommo maestro di tutti i fedeli, dichiara un insegnamento mediante un atto di definizione riguardante la fede o la morale. Per questo giustamente si dice che i decreti del Papa sono di natura irreversibile e non soggetti a dispensa da parte della Chiesa, in quanto sono stati pronunciati con la collaborazione dello Spirito Santo… Di conseguenza, i decreti del Papa non sono soggetti a nessun’altra approvazione, a nessun altro appello, a nessun altro giudizio. Il Romano Pontefice, infatti, non esprime la sua opinione come privato, ma come il massimo maestro della Chiesa universale, sul quale poggia personalmente il dono dell’infallibilità della Chiesa stessa e che propone e custodisce l’insegnamento della fede cattolica.
Nell’esercizio della sua responsabilità di vicario di Cristo e pastore di tutta la Chiesa, il Romano Pontefice ha nella Chiesa la più piena, alta e universale autorità, che gli è sempre conferito il potere di esercitare liberamente… Non può esistere un potere del Concilio Ecumenicose non sarà convalidato o almeno accolto dal successore di Pietro. La convocazione, la presidenza e l’approvazione delle decisioni dei Concili sono prerogativa del Romano Pontefice.
Tutti questi insegnamenti, Santità, non arrivano alle orecchie ortodosse come una bestemmia contro lo Spirito Santo e contro il Divino Costruttore della Chiesa, Gesù Cristo, l’unico Capo eterno e infallibile della Chiesa, dal quale solo scaturisce l’unità della Chiesa? Ciò non contraddice completamente l’ecclesiologia ortodossa centrata sul Vangelo e centrata sul Dio-Uomo, ispirata dallo Spirito Santo? Non subordinano forse l’Uomo-Dio all’uomo?
Come possiamo fare concessioni o coesistere con un tale spirito senza perdere la nostra fede e salvezza?
Rimanendo fedeli a tutto ciò che abbiamo ricevuto dai nostri Santi Padri, non accetteremo mai l’attuale “Chiesa” romana come co-rappresentante con la nostra della Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica.
Riteniamo necessario che tra le differenze teologiche si sottolinei la distinzione tra l’essenza e l’energia di Dio, e che le energie divine sono increate, perché se si crea la grazia, come sostengono i cattolici romani, viene annullata la salvezza e la theosis dell’uomo e la Chiesa cessa di essere una comunione di theosis e degenera in un’istituzione nomocanonica.
Profondamente addolorati nella nostra anima per tutto quanto sopra, ricorriamo a te, nostro Padre Spirituale. E con il più profondo rispetto, vi invitiamo e vi imploriamo, nella vostra caratteristica comprensione e sensibilità pastorale, di prendere in mano questa gravissima questione e di non accettare il documento [di Balamand], e in generale di intraprendere ogni azione possibile per evitare le indesiderabili conseguenze che avrebbe per l’unità pan-ortodossa se per caso alcune Chiese lo adottassero.
Inoltre, chiediamo le vostre preghiere sante e obbedienti a Dio affinché anche noi, umili abitanti e monaci della Sacra Montagna, in questo tempo di confusione spirituale, di compromesso, di secolarizzazione e di ottundimento della nostra acutezza dottrinale, possiamo rimanere fedeli fino alla morte a ciò che ci è stato trasmesso dai nostri Santi Padri come forma di dottrina (Rm 6,17), qualunque cosa possa costarci.
Con il più profondo rispetto veneriamo la tua santa mano destra.
Firmato da: Tutti i Rappresentanti e Presidenti dei Venti Sacri Monasteri del Sacro Monte Athos
PS. Si noti che questa lettera è stata inviata anche alle Chiese che hanno partecipato al dialogo teologico e sono, quindi, direttamente interessate, e alle restanti Chiese per tenerle informate.
Note finali
1. Per completare il pensiero dell’autore continuiamo qui il brano: «…che si sarebbe formato nella Pentecoste e i cui membri dovevano essere illuminati e glorificati in questa vita… Così intendono questa preghiera i Padri. Non è certamente una preghiera per l’unione delle chiese… che non hanno la minima comprensione della glorificazione (theosis) e di come arrivarvi in questa vita.” Dalla confutazione dell’Accordo di Balamand da parte del celebre teologo ortodosso, p. John S. Romanides, Professore di Teologia, Scuola Teologica Ortodossa San Giovanni Damasceno (Antiochia), Balamand, Libano; Professore Emerito, Univ. di Salonicco, Grecia; ex professore di teologia ortodossa, scuola teologica greco-ortodossa della Santa Croce, Brookline, MA
2. Nel testo greco apparso in Orthodox Typos c’è un evidente errore tipografico e questa parola era semplicemente “unito”, sebbene il contesto della frase completa implichi chiaramente la parola “disunito”.
3. Nel contesto occidentale qui, il soprannaturale di cui l’uomo sperimenta o partecipa, come la grazia creata, si riferisce a qualcosa che non è increato: «Ciò che è ricevuto nella creatura deve essere esso stesso creato». Enciclopedia Cattolica, vol. 13, New York, 1967, pag. 815.
Il testo completo della Dichiarazione di Balamand dal titolo: L’UNIATISMO METODO DI UNIONE DEL PASSATO E LA RICERCA ATTUALE DELLA PIENA COMUNIONE, Balamand (Libano) 23 giugno 1993
PASQUA: Tutte le creature di Dio, animali e uccelli, lodano il Signore!
Nei giorni pasquali la vita è piena di gioia, e anche le altre creature di Dio, animali e uccelli, lodano il Signore in questi giorni! Questa storia è avvenuta il 24 aprile 2020, durante la processione della croce, che si è svolta con la benedizione dell’arcivescovo Sophrony di Mogilev e Mstislavl della Chiesa ortodossa bielorussa.
Coloro che hanno partecipato alla processione della croce ricordano che ad un certo punto si è unito alla colonna un pellegrino insolito, una cicogna bianca. In Bielorussia fin dall’antichità le cicogne sono state considerate “uccelli della pace”. Il numero dei loro enormi nidi aumenta ogni anno e la gente del posto tratta con cura i “cittadini del cielo” deboli o feriti.
I partecipanti allo straordinario evento hanno ricordato con gioia il “pellegrino alato”. Mentre il corteo camminava tra i campi primaverili che si risvegliavano, da qualche parte apparve una cicogna. Facendo un cerchio sopra la processione della croce, cominciò a scendere, come se sbirciasse sull’icona Belynichi della Santissima Theotokos.
Dopodiché la cicogna scese e camminò avanti! “Cristo è risorto dai morti, calpestando la morte con la morte e donando la vita a coloro che sono nei sepolcri!” i pellegrini cantavano di gioia, mentre l’uccello alto e maestoso si pavoneggiava accanto a loro.
La meravigliosa cicogna camminò in processione insieme ai fedeli lungo il bordo della strada fino a Belynichi, per oltre sette miglia! Quando il “pellegrino alato” rimase leggermente indietro, perché i fedeli camminavano a passo regolare, volò fino al punto in cui venivano portati gli stendardi, e poi riprese a camminare!
I partecipanti al corteo della Croce erano preoccupati per la vita della cicogna quando l’uccello volò nella zona di traffico. L’auto della polizia stradale che ha accompagnato il corteo della Croce ha addirittura fermato più volte il traffico, in modo che le auto non travolgessero accidentalmente l'”adoratore alato”. Allora tutti lo pregarono di attraversare o di volare sul lato sicuro della strada e di proseguire con la colonna, e la cicogna obbedì.
Ma tutti i tentativi dei partecipanti alla processione della croce di convincere la cicogna a riposare furono vani: l’uccello camminava senza sosta, senza paura né delle persone, né delle macchine o dei camion che passavano. La cosa durò più di quattro ore.
Quando fecero l’ultima sosta nel bosco, a poco più di un miglio dal paese, il “pellegrino” miracoloso rimase, circondato dalla gente, ad ascoltare preghiere e canti pasquali. Poi si è avvicinato direttamente all’icona Belynichi della Madre di Dio, si inchinò davanti ad essa e, secondo testimoni oculari, toccò con riverenza l’icona altamente venerata con la punta del becco. Dopo questa pausa, la cicogna procedette come parte della processione della croce verso la sua destinazione finale.
Era già buio quando i pellegrini raggiunsero la città. La cicogna prese il volo e, facendo un giro d’onore, come se benedicesse il popolo, volò via… Questa è una lezione della sconfinata devozione e fiducia in Dio e nella Sua Purissima Madre che un coraggioso uccello insegnò ai pellegrini. Ogni cosa che respira lodi il Signore (Sal 150,3). Cristo è risorto!
PER ACQUISIRE LA PERFETTA UMILTÀ – San Serafino (Sobolev)
Omelia nella festa di San Nicola
San Serafino (Sobolev)
Ogni volta che la Santa Chiesa celebra la memoria di un santo Gerarca, ci presenta le Beatitudini di Cristo nella lettura del Vangelo durante la Liturgia. Ed è su questo che vorrei attirare la vostra attenzione oggi, carissimi fratelli e sorelle in Cristo, nella festa di San Nicola Taumaturgo: Perché il Signore benedice la povertà spirituale, cioè l’umiltà, all’inizio di queste parole?
La risposta a questa domanda si trova nelle parole del troparion a San Nicola: “Tu hai raggiunto le altezze attraverso l’umiltà, e le ricchezze attraverso la povertà”. Da queste parole risulta chiaro che l’altezza della vita morale cristiana e tutta la ricchezza della grazia dello Spirito Santo si acquisiscono con l’umiltà. È la base della nostra salvezza. Da ciò risulta chiaro perché il Signore ha posto la beatitudine dell’umiltà come fondamento di tutte le sue Beatitudini.
Senza umiltà è impossibile piangere per i nostri peccati; infatti come piangerà un orgoglioso i suoi peccati se non ne ha coscienza in se stesso, se sempre si giustifica e accusa gli altri? Senza umiltà è impossibile essere miti, perché un uomo orgoglioso non perdona gli insulti. Senza umiltà, è impossibile avere fame e sete della verità di Cristo, perché un uomo orgoglioso ha fame e sete solo che tutti considerino le proprie opinioni come verità, anche se sono false. Senza umiltà è impossibile essere misericordiosi, perché le persone orgogliose hanno un cuore crudele. Senza umiltà è impossibile avere un cuore puro, perché l’orgoglio è il ricettacolo di ogni empietà e di ogni vizio. Senza umiltà è impossibile essere costruttori di pace, perché l’orgoglio non solo non contribuisce alla pace, ma è fonte di malizia, ostilità e ogni tipo di tumulto tra le persone. Senza umiltà è impossibile intraprendere la strada della persecuzione per la verità di Cristo; e tanto più è impossibile sopportare rimproveri, esilio e qualsiasi calunnia per amore di Cristo, perché l’uomo orgoglioso può essere perseguitato e sopportare tutte le disgrazie, fino alla morte, ma solo per amore del suo orgoglio.
Pertanto, senza umiltà, è impossibile fare anche un solo passo verso il compimento di una buona azione veramente cristiana, la quale, essendo fondata sull’umiltà, se ne accompagna e si distingue come il suo tratto più caratteristico. Il Signore ha testimoniato questa verità nel Discorso della Montagna, non solo esponendo innanzitutto la Beatitudine sull’umiltà, ma anche con le parole con cui ci ha comandato di fare di nascosto l’elemosina, la preghiera e il digiuno e di compiere opere buone in modo che la nostra mano sinistra non sa quello che fa la nostra destra (Mt 6,3). Per questo i santi, veri discepoli di Cristo, cercavano di nascondere agli altri le loro buone azioni. Una volta a San Poemen il Grande fu chiesto quale fosse la virtù più alta. Ha detto: “Ciò che viene fatto in segreto”.
Tenendo presente l’insegnamento di Cristo circa il significato dell’umiltà per la vita cristiana, sapendo che la vita virtuosa dei santi fu permeata di umiltà e da essa contraddistinta come la sua proprietà più essenziale, sforziamoci anche noi, carissimi, di avere l’umiltà, senza la quale non diventeremo mai veri cristiani.
Naturalmente, acquisire l’umiltà è la cosa più difficile di tutti i podvig. Spesso, anche il Signore stesso, mandandoci grandi prove e tribolazioni, non può obbligarci a essere umili. Questo lo sappiamo, amati figli in Cristo, attraverso la nostra esperienza di vita. Tuttavia, senza umiltà, non raggiungeremo mai la salvezza. Cerchiamo quindi di acquisirla almeno in un primo momento nella sua forma più semplice e originale; cioè, siamo consapevoli della nostra peccaminosità e del nostro nulla davanti a Dio. Naturalmente, non è un grande merito essere consapevoli dei nostri peccati davanti a Dio quando sono così evidenti per noi e per gli altri. Ma se acquisiamo questa umiltà iniziale, allora ci avviciniamo anche alla sua forma più alta, che consiste nel considerarci peggiori degli altri. Questa umiltà è molto preziosa agli occhi di Dio. Per questo il Signore ha detto: Chiunque si esalta sarà abbassato (Lc 18,14).
Solo avendo raggiunto un tale grado di umiltà potremo acquisire la sua forma più alta e perfetta, che consiste nell’attribuire tutte le nostre buone azioni non ai nostri sforzi ma a Dio; e insieme al divino Salmista, diciamo dal profondo del cuore: Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria, per la tua misericordia e la tua verità (Sal 113,9). Allora saremo in grado di adempiere perfettamente tutti i comandamenti divini. Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo: Tutto posso in Cristo che mi rafforza (Fil 4,13). Queste parole ci dicono che con l’aiuto di Dio possiamo compiere anche il podvig più difficile, cioè acquisire la vera, perfetta umiltà.
Chiediamo quindi al Signore che ci aiuti, attraverso le preghiere dei santi e del Santo Gerarca Nicola, oggi celebrati dalla Chiesa, ad acquisire questa grande, fondamentale virtù. Quando acquisiamo l’umiltà, allora sapremo per esperienza personale perché il Signore ha messo al primo posto la Beatitudine della povertà spirituale. Allora diventeremo veri seguaci di Cristo, portatori di ogni virtù cristiana, e si compiranno nella nostra vita le parole di Cristo: Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è in cielo (Mt 5,16).
Amen.
Pronunciato nella chiesa russa di San Nicola a Sofia, Bulgaria, il 6 dicembre 1925.
San Serafino (Sobolev)
Teofane il Recluso: “Guerra invisibile, il combattimento spirituale”
CAPITOLO 1: Cosa definisce la perfezione cristiana? La guerra necessaria per ottenerlo. Quattro cose necessarie per riuscire in questo
CAPITOLO 1
Cosa definisce la perfezione cristiana? La guerra necessaria per ottenerlo. Quattro cose necessarie per riuscire in questo
Tutti noi desideriamo e ci viene ordinato di essere perfetti. Il Signore ci guida dicendo: «Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Anche san Paolo ci esorta dicendo: «Nella malizia siate piccoli, e nell’intelligenza diventate perfetti» (1 Cor 14,20). In un altro punto afferma: «Siate perfetti e completi nella volontà di Dio» (Col 4,12), e anche: «Diventiamo perfetti» (Eb 6,1). Nell’Antico Testamento si ritrova lo stesso comandamento. Quindi Dio dice a Israele in Deuteronomio: «Sarai perfetto davanti al Signore tuo Dio» (Dt 18,13). Davide consiglia anche suo figlio Salomone: «E tu, Salomone, figlio mio, conosci il Dio di tuo padre e servilo con cuore perfetto e mente ben disposta» (1 Cr 28,9). Con tutte queste cose non possiamo non vedere che Dio richiede dai cristiani la completezza della perfezione, cioè che dobbiamo essere perfetti in ogni virtù
Ma se tu, caro lettore amato da Cristo, desideri raggiungere vette così elevate, dovresti prima imparare in cosa consiste la perfezione cristiana. Perché se non lo sai, potresti allontanarti dal sentiero corretto e vagare in una direzione completamente sbagliata, supponendo di fare progressi sul sentiero della perfezione.
Ti dichiarerò chiaramente che la cosa più alta e perfetta che si spera di raggiungere è avvicinarsi a Dio e rimanere come uno con Lui.
Sono molti coloro che affermano che la perfezione cristiana è questione di digiuni, veglie, prostrazioni, dormite per terra e altri sforzi ascetici del corpo. Altri ancora sostengono che ciò comporti dire numerose preghiere a casa e frequentare lunghe funzioni religiose. Ci sono ancora altri che suppongono che la nostra perfezione sia fatta interamente di preghiera noetica, reclusione, solitudine e quiete. Tuttavia la maggior parte delle persone limita la perfezione al rispetto rigoroso di tutte le regole e i precetti enunciati nella legge, senza cedere all’eccesso o alla mancanza, ma attenendosi alla media aurea. Ma tutte queste virtù, di per sé, non costituiscono la perfezione cristiana che cerchiamo, ma sono semplicemente metodi per ottenerla.
Indubbiamente qualunque cosa facciano è un mezzo importante per raggiungere una vita di perfezione cristiana. Vediamo molte persone giuste, che esercitano queste virtù come dovrebbero, per ottenere forza e potere per combattere contro la loro natura peccaminosa e malvagia e per ottenere, attraverso questi esercizi, la forza d’animo necessaria per resistere alle tentazioni e alle lusinghe dei nostri tre principali nemici: la carne, il mondo e il diavolo. Con questi metodi si raggiunge il fondamento spirituale, così importante per tutti i servi di Dio, e in particolare per i novizi. Fanno il digiuno, per domare la loro carne indocile. Fanno veglie per rendere la loro mente interiore più acuta. Dormono per terra, per paura di essere resi molli dal sonno. Tengono la lingua in silenzio e si isolano per astenersi dalla più piccola tentazione che possa offendere il Santissimo Dio. Dicono le loro preghiere, vanno alle funzioni religiose e fanno altre pratiche devozionali simili, per mantenere la mente rivolta alle questioni celesti. Leggono la vita e la passione di Nostro Signore, unicamente allo scopo di comprendere più chiaramente le proprie mancanze e l’amore di Dio, per imparare e anche per avere il desiderio di seguire il Signore Gesù Cristo, portando con sé la propria croce con moderazione e rendere sempre più zelante il loro amore per Dio insieme al disprezzo di sé stessi. Tuttavia, queste medesime virtù possono essere più dannose della loro negligenza, per coloro che le comprendono come importanti nella loro vita e ne fanno la loro speranza, anche se non per la loro natura, perché sono virtuose e sante, ma per l’errore di coloro che impiegatele nel modo in cui non debbano essere usate, cioè quando badino solo all’esercizio esteriore di tali virtù e si lascino muovere il cuore dai propri desideri e dalla volontà del diavolo. Perché questi ultimi, accorgendosi che si sono allontanati dalla retta via, si astengono volentieri dall’intromettersi nelle loro opere fisiche e permettono loro addirittura di aumentare le loro fatiche, secondo i propri vani pensieri. Sentendo questi particolari moti e conforti spirituali, tali persone iniziano a pensare di aver raggiunto il rango di angeli e suppongono che Dio sia lì, presente con loro. In certi momenti, presi nella meditazione su alcune cose celesti e astratte, suppongono di aver trasceso questo mondo materiale e di essere stati rapiti nel terzo cielo.
Ma chiunque può vedere il modo evidentemente peccaminoso in cui si comportano queste persone e quanto siano realmente lontane dalla vera perfezione, se esamina il loro carattere. In generale vogliono sempre essere preferiti agli altri. Amano vivere secondo i propri desideri e sono sempre ostinati in ciò che decidono di fare. Sono ciechi rispetto a tutto ciò che li riguarda, ma esaminano in modo chiaro e intrusivo le parole e le azioni degli altri. Se qualcun altro è tenuto in grande considerazione dagli altri, non può accettarlo e diventa chiaramente ostile nei suoi confronti. Se qualcuno interferisce con le loro occupazioni devote e le fatiche ascetiche, in particolare con gli altri (Dio non voglia!), si arrabbiano immediatamente, ribollono di furia e diventano piuttosto diversi da loro essere normalmente.
Se Dio manda loro sofferenze e malattie, con lo scopo di portarli alla consapevolezza di sé e guidarli sulla via della vera perfezione, o permette che siano afflitti, tutte cose con le quali mette regolarmente alla prova i suoi autentici servitori, queste prove dimostrano immediatamente cosa è nascosto nei loro cuori e quanto profondamente sono contaminati dall’orgoglio. Poiché qualunque difficoltà possa turbarli, rifiutano di abbassare il collo per prendere il giogo della volontà di Dio e per confidare nei suoi giusti e nascosti giudizi. Non desiderano seguire l’esempio del Signore nostro Gesù, il Figlio di Dio, che si umiliò e soffrì per causa nostra, e rifiutano l’umiltà, per ritenersi la più vile di tutte le bestie e per guardare verso coloro che li affliggono e considerarli buoni amici, strumenti di una generosità celeste mostrata loro e che possono aiutarli per la loro salvezza.
Quindi è chiaro che corrono un grave pericolo. Il loro occhio più profondo, che è il loro nous, è oscurato dalle tenebre ed essi così si guardano e si vedono male. Supponendo che le loro opere devote esteriori siano buone, credono di aver già raggiunto la perfezione e, gonfiandosi, cominciano a giudicare gli altri. Dopo che ciò accade, non è possibile per nessuno cambiare queste persone, se non con l’intervento di Dio. Un peccatore evidente si volgerà al bene più facilmente di uno nascosto, nascosto sotto una veste di virtù manifeste.
Avendo ora dimostrato che la vita spirituale e la stessa perfezione non sono costituite soltanto da queste virtù manifeste, di cui abbiamo parlato, dovete comprendere che essa consiste unicamente nell’avvicinarsi a Dio e nell’unirsi a Lui, come si è affermato all’inizio di questo lavoro. A ciò si aggiunge una sincera comprensione della giustizia e della maestà di Dio, insieme alla comprensione della nostra stessa inutilità e della nostra predisposizione a tutti i mali; amore di Dio e disprezzo di noi stessi; sottomissione non solo a Dio ma anche a tutta la creazione, a causa del nostro amore per Dio; rinuncia completa alla nostra volontà e obbedienza alla volontà di Dio; ma anche il nostro desiderio di tutte queste cose e il loro compimento con cuore puro per la gloria di Dio, con un desiderio assoluto di gratificare Dio e solo perché Lui lo desidera e perché noi Lo amiamo e fatichiamo per Lui.
Questa è la legge dell’amore, scritta dal dito di Dio nei cuori dei suoi autentici servitori. Questa è la rinuncia a noi stessi che Dio ci richiede. Questo è il sacro giogo di Gesù Cristo e il Suo fardello leggero. Questa è la sottomissione della nostra volontà alla volontà di Dio, che il nostro Salvatore e Maestro ci richiede dalla sua parola e dal suo esempio. Perché il nostro Maestro e Salvatore, nostro Signore Gesù Cristo, non ci ha detto di dire mentre preghiamo il Padre nostro: «Padre nostro… sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (Mt 6,10)? Non ha forse gridato proprio prima della sua passione: «Non sia fatta la mia volontà, ma la tua» (Lc 22,42). Non ha dichiarato Egli, riguardo a tutta la Sua vita: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato» (Gv 6,38)?
Capisci adesso cosa significa tutto questo, fratello mio? Presumo che tu mostri il tuo entusiasmo e il tuo desiderio di raggiungere l’apice di tale perfezione. Gloria al tuo zelo! Tuttavia preparati al lavoro, al sudore e alla fatica fin dai primi passi sul cammino. Devi sacrificare tutte le cose a Dio e compiere solo la Sua volontà. Ma incontrerai in te tanti desideri diversi quanti sono i tuoi talenti e le tue volontà, le quali lottano tutte per essere soddisfatte, senza riguardo per ciò che concorda con la volontà di Dio. Quindi, per raggiungere l’obiettivo desiderato, è necessario prima di tutto sopprimere i propri desideri e alla fine estinguerli e distruggerli completamente. E per riuscire in questo obiettivo, dovresti sempre opporti a qualsiasi male in te stesso e spingerti verso ciò che è giusto. In altre parole, dovresti sempre lottare contro te stesso e contro tutto ciò che asseconda la tua volontà, che la incoraggia e la sostiene. Quindi, preparati per questo combattimento e guerra e comprendi che la corona [cioè il raggiungimento del tuo obiettivo] non è concessa a nessun altro se non ai coraggiosi tra i combattenti e i lottatori. Ma se questa è la più difficile di tutte le battaglie, perché combattendo contro noi stessi è dentro di noi che incontriamo l’opposizione, la vittoria è la più meravigliosa di tutte e, soprattutto, è la più gratificante per Dio. Perché se incoraggiato dallo zelo, vinci e distruggi le tue passioni e concupiscenze selvagge, gratificherai di più Dio e lavorerai per Lui in modo più magnifico che se ti flagellassi fino a far uscire sangue o ti stancassi con il digiuno più di qualsiasi anziano eremita del deserto. Perché anche se redimessi centinaia di schiavi cristiani dai miscredenti e li liberassi, ciò non ti salverebbe, se continui ad essere schiavo delle tue passioni. E qualunque lavoro tu svolga, per quanto meraviglioso, e con qualunque fatica e sacrificio tu possa realizzarlo, esso non ti guiderà verso il tuo obiettivo, se non presti attenzione alle tue passioni, dando loro la libertà di vivere e lavorare in te.
Infine, dopo aver compreso ciò che costituisce la perfezione cristiana e compreso che per raggiungerla devi combattere un’aspra guerra senza fine con te stesso, se vuoi davvero vincere questa guerra invisibile e meritare una corona, dovresti piantare nel tuo cuore queste quattro inclinazioni e le opere spirituali, armandoti di armi invisibili. Queste armi più affidabili e invincibili sono: 1) non dipendere mai da te stesso; 2) porta sempre nel tuo cuore una fiducia perfetta e audace solo in Dio; 3) lottare sempre; e d) rimanere saldi nella preghiera.
Anziano Cleopa Ilie: Sermone sulla chiamata e sull’obbedienza
SERMONE SULLA VOCAZIONE DEGLI APOSTOLI
(Sermone fatto nella seconda domenica dopo la Discesa del Santo Spirito – Matteo 4, 18-23)
Amati fedeli, il Santo e divino Vangelo di oggi contiene molti insegnamenti salvifici. Ma due di questi illuminano di più. Questi sono: quello sulla chiamata di Dio e quello sull’obbedienza a Lui.
Dio Onnipotente, che ha creato il cielo e la terra, fin dall’inizio del mondo, come Creatore e Dio di tutti, ha il potere di chiamare tutte le Sue creature e tutte Gli obbediscono. Egli – come disse il profeta – chiama il cielo in alto e la terra in basso. Chiama l’acqua del mare e la versa sulla faccia di tutta la terra. Chiama le nuvole, comanda loro di radunarsi e formare le piogge. Chiama la grandine e la tempesta. Chiama i venti e li fa uscire dai Suoi forzieri. Chiama il calore del fuoco e i raggi del sole per illuminare la terra. Ha dato un ordine alla luna e alle stelle. Li chiama tutti e tutti gli obbediscono.
Egli chiama gli uccelli del cielo, ed essi vengono a noi in primavera da luoghi lontani e di nuovo in autunno li richiama indietro e se ne vanno da dove sono venuti. Ora, quale creatura non obbedisce al suo Creatore, se Egli è ovunque ed è Onnipotente e Onnisciente?
Non chiama solo gli elementi inanimati o muti. Fin dalla fondazione del mondo, ha chiamato i suoi eletti. Chiamò Noè 125 anni prima del diluvio e gli comandò di costruire un’arca per la liberazione dal diluvio. Chiamò Abramo, padre di tutte le nazioni, da un popolo pagano, dalla terra di Ur, dalla tribù dei Caldei e lo rese padre di molte nazioni. Chiamò Mosè il legislatore, che era il prototipo e l’immagine di Cristo nell’Antica Legge. Lo chiamò sul monte Horeb e lo mandò a liberarlo dalla prigionia del faraone 638.000 anime. Chiamò Davide profeta dalla custodia delle pecore e lo fece re d’Israele e grande profeta. Ha chiamato tutti i profeti e tutti i suoi eletti.
Tutti quelli chiamati da Lui, che ricevono lo Spirito di Dio, e hanno fede, e conoscono il loro Creatore, e hanno il timore di Dio nei loro cuori, Gli obbediscono. Si diceva così della chiamata di Dio fino all’avvento della Legge della Grazia.
E quando lo stesso Verbo di Dio venne e si incarnò, come dice il divino evangelista Giovanni che «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14), quando vennero la Sapienza e lo stesso Verbo di Dio, egli chiamò di mezzo a noi uomini prima gli Apostoli. Avete sentito dal Vangelo divino di oggi come Egli chiamò i suoi apostoli come i primi.
Avete sentito leggere dal Santo Vangelo che «Gesù, passeggiando presso il lago di Genizaret – che è anche chiamato mare di Tiberiade – vide due fratelli, Pietro e Andrea, suo fratello, che gettavano la rete in mare, perché erano pescatori. Perché la provvidenza di Dio ha disposto che Gesù fosse sulla riva del mare di Tiberiade, quando i due futuri apostoli, due fratelli, stavano gettando la rete in mare? Ecco perché. Perché Cristo stava per creare questi pescatori di uomini e ha voluto mostrare in anticipo che compito dell’apostolo e del predicatore è gettare la rete – cioè la parola di Dio – nel mare di questo mondo, agitato da tribolazioni e tentazioni. Il Vangelo dice espressamente che c’erano dei pescatori che gettavano le reti in mare. Perché vuole dire specificatamente che erano pescatori? Si sarebbe potuto dire semplicemente che pescavano, ma il Vangelo dice espressamente che erano pescatori.
Sai perché dice questo? Dio Onnipotente e il nostro Salvatore Gesù Cristo, attraverso questa parola, che erano pescatori, vuole mostrare al mondo intero, a tutti i suoi filosofi, a tutti gli imperatori, a tutti i potenti, a tutti i sapienti, a tutti coloro che indagheranno il Vangelo di Cristo, che i primi discepoli di Cristo erano persone povere e ignoranti. Cosa può esserci di più povero di un semplice pescatore? E perché Dio lo ha mostrato? Per dimostrare che Lui, quando viene al mondo, non ha bisogno della nostra saggezza, né della nostra abilità.
Dio può operare attraverso gli esseri più indifesi, come una volta parlò attraverso la bocca dell’asino di Valaam (Numeri 22, 26-32). Il divino apostolo Paolo disse che Dio ha scelto gli stolti per svergognare i sapienti, gli impotenti, i deboli e i senza voce, per svergognare i forti e chi è pieno di gloria mondana, per mostrare maggiormente la sua potenza e affinché nessuno possa vantarsi davanti a Dio (1 Corinzi 1, 27-29). Per questo Gesù Cristo, nostro Dio, quando viene nel mondo, sceglie i suoi discepoli tra la gente povera e semplice, alcuni pescatori. Ma perché all’improvviso ha chiamato due fratelli, Pietro e Andrea? Per mostrare che tutti coloro che crederanno in Cristo, attraverso la rete della loro parola, dovranno vivere nell’amore come fratelli, diventando fratelli a causa del divino Battesimo e per la santa fede nel Signore Gesù Cristo. Per questo scelse innanzitutto due fratelli come apostoli. E dopo che li ebbe scelti, lasciando lì la rete, seguirono Gesù Cristo. Quando Gesù Cristo li chiamò, non dissero più: “Signore, abbiamo un lavoro da fare, ecco, ho preparato la rete per pescare i pesci”.
No! Nel momento in cui Gesù Cristo li chiamò, non ricordarono per nessun motivo che avevano ancora del lavoro da fare, ma nello stesso momento, lasciando la rete, seguirono Gesù.
Anche il profeta Eliseo, quando fu chiamato a prendere il posto di Elia il Tisbita, non dimostrò tanta diligenza e obbedienza quanto i due fratelli apostoli. Infatti cosa dice la Scrittura? Quando Elia scese e attraversò il Giordano, sulla via del deserto di Damasco, e il profeta venne da Eliseo, che stava lavorando con 12 paia di buoi, e gli gettò addosso la pannocchia e disse: «Dio ti ha scelto, Eliseo, figlio di Safet, profeta al mio posto», egli, sentendo che Dio lo chiamava alla profezia, disse a Elia di Tsibita: «Dammi il permesso di andare a baciare mio padre, mia madre e i miei fratelli, e poi lo farò». Dopo che andò e ricevette la benedizione dalla sua famiglia, andò a macellare i buoi e fece un banchetto, dando l’aratro e gli altri attrezzi in elemosina. Dopodiché andò dietro a Elia, per essere profeta di Dio con un duplice dono, come dice la Scrittura (III Re 19, 16-21).
Ma con questi divini apostoli non si vede nulla di simile. Appena li chiamò, lasciarono le reti nel mare; le lasciarono dove si trovavano in quel momento, per la sequela di Gesù Cristo. Ma questi discepoli, i primi chiamati, conoscevano Gesù Cristo? Sapevano di Lui? Sì, Lo conoscevano.
Perché sia Andrea che Pietro furono i primi discepoli di Giovanni Battista, che indicò il Salvatore presso il Giordano e disse: «Ecco l’Agnello di Dio, Colui che toglie i peccati del mondo!». Da allora capirono che Gesù Cristo è più grande di Giovanni Battista. E un’altra volta, Giovanni Battista disse loro: «Viene da me colui che è più grande di me, al quale non sono degno di slacciare i lacci dei sandali» (Matteo 3,11; Marco 1,8). E ancora: «Tocca a lui crescere e a me rimpicciolire». Chi ha la sposa è lo sposo, ed ella si prostra per rallegrarsi.
Cristo è lo Sposo e la Sua sposa è la Chiesa. Il Divino Precursore lo sapeva e disse queste parole nel senso seguente: quando viene lo Sposo della Chiesa, io sono il servo della Chiesa; devo essere felice di essere con Lui.
Quindi questi due discepoli chiamati oggi hanno conosciuto Gesù.
Fin dalla bocca del loro maestro, da Giovanni Battista, sapevano che Egli è l’Agnello di Dio, che viene dall’alto e che è più grande di Giovanni Battista. Perciò, appena li chiamò, essi seguirono Gesù.
E dopo questo, che altro dice il divino Vangelo? Mentre Gesù andava oltre, incontrò altri due pescatori. Di chi parla? Di Giacobbe di Zebedeo e di Giovanni suo fratello. Da notare che ci sono due Giacomo tra i 12 apostoli. Uno è chiamato Giacomo di Alfeo, o Giacomo il Minore, e un altro è Giacomo di Zebedeo e Salome e cugino del nostro Salvatore Gesù Cristo. Il divino Vangelo dice che vide questi due apostoli, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello, in mare con il loro padre e li chiamò. “Venite dietro a me – disse loro – e vi farò pescatori di uomini!”. E lasciando Zebedeo, loro padre, sulla barca, seguirono Gesù. Ma perché non è andato anche Zebedeo? Come mai i figli se ne sono andati e il padre no? Ecco perché. Zebedeo non credeva che Gesù Cristo è il Figlio e la Parola di Dio e per questo il suo cuore era più legato alla sua nave e al pesce che pescava che a Gesù Cristo.
I suoi due figli, conoscendolo mediante lo spirito e avendo udito i miracoli che compiva in Galilea e in quelle parti, non dubitarono più. “Questo è il Messia, questo è Dio!” – si dicevano. E lasciarono il padre nel mare agitato di questo mondo e con la nave (che simboleggia l’instabilità del tempo presente, perché è sempre agitata e sempre mossa dalle onde), e vennero a Gesù Cristo. Era la seconda linea degli apostoli, altri due fratelli.
Così nello stesso giorno il Salvatore chiamò quattro dei principali apostoli, Andrea e Pietro, Giacomo e Giovanni. In un giorno furono chiamati i capi o sommità degli apostoli, le grandi colonne che poi fondarono la Chiesa. Due fratelli sono stati chiamati per due volte, per dimostrare ancora che tutti coloro che crederanno in Cristo devono vivere da fratelli e che sono fratelli nella fede nello stesso Dio. Dopo che il Salvatore chiamò anche loro, si dice nel Vangelo: Gesù andava per tutta la Galilea e per tutta la regione lungo il mare, predicando e insegnando la parola di Dio nelle sinagoghe dei Giudei, operando grandi segni e prodigi e guarendo i malati dalle loro infermità.
Questo è in poche parole il Vangelo di oggi.
Fratelli, cristiani, oggi volevo parlarvi della chiamata di Dio, dell’obbedienza dell’uomo a Dio e dell’obbedienza di tutte le Sue creature. Ma volevo soprattutto parlare della chiamata del genere umano, per dirvi in quanti modi Dio ci chiama. Dio chiama i popoli della terra con fame, con carestia, mancanza di pioggia, come se dicesse loro: «Ecco, io sono colui del quale dice il profeta Geremia: «farò piovere su dieci città e su due non pioverà e ancora farò piovere su due città e su dieci non darò pioggia, per dimostrarvi che io sono il Dio delle nuvole e il Padre delle piogge», come disse Giobbe (cfr Gb 12).
Ascoltate Dio che dice: «Farò piovere su dieci città e su due non la darò, e ancora su due la darò e su dieci non la darò» (Geremia 5, 24).
In televisione, quando danno le previsioni del tempo, viene mostrata la cartina del paese, dicendo: qui piove, e vengono mostrati circa 10-15 punti del paese dove piove; vedendolo una volta, mi sono davvero impressionato. Dimostravano che in circa 10-15 punti pioveva e nella maggior parte del paese non pioveva. E mi sono ricordato delle parole del profeta Geremia. Mi sono detto: ecco, adesso si stanno realizzando davanti ai nostri occhi, che in qualche villaggio piove e in 20-30 non piove. Quindi nelle mani di Dio ci sono le piogge, le nuvole, le tempeste e i venti. Perché Cristo dice: «Il Padre ha posto sotto il suo controllo gli anni e i tempi» (Matteo 24,27-36; At 1,7). Nessuno può chiedergli conto della siccità o della tempesta, nessuno può fermare i venti e le piogge, nessuno può provocarli, tranne la mano onnipotente di Dio. Allora, ecco, Dio a volte ci chiama con la siccità, a volte con la grandine, a volte con i fulmini, quando tuona molto, a volte ci chiama con la carestia, a volte con le malattie.
A volte Dio dà malattie e pestilenze e non c’è casa dove non ci sia una persona malata. E questo può farlo quando vuole.
A volte ci chiama con le guerre, a volte con la schiavitù, a volte con la voce delle Scritture quando dice: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). E un’altra volta dice: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 10,38).
Allora ecco, Dio ci chiama e attraverso gli elementi, attraverso i terremoti, attraverso la siccità e la mancanza di pioggia, ci chiama attraverso le malattie e le tribolazioni, attraverso le disgrazie, attraverso tutto chiama a sé i popoli, a conoscere che lui è Padre nei cieli e che può fare con il Suo popolo tutto ciò che vuole.
Cosa dice Isaia? «Signore, tu hai creato la terra come un nulla e tutti i popoli della terra davanti a te sono come una goccia da una vasca» (Isaia 40, 15). Quanto è potente una goccia nella vasca da bagno? O forse prenderai un cucchiaio d’acqua dalle sconfinate acque dei mari? Ecco quanto siamo miseri e deboli davanti a Dio! Dio chiama attraverso la voce della Scrittura, chiama attraverso la voce della creazione che ci piomba addosso con la siccità, o con troppa pioggia, o con un terremoto, o con il caldo. Ma ci chiama anche in un altro modo.
Come? Attraverso la voce della coscienza. Non vedi che quando pecchiamo o sbagliamo, la nostra coscienza ci rimprovera subito? Ti chiede: “Uomo, perché hai fatto questo?”. Perché hai derubato il tuo vicino, perché hai preso la moglie di un altro, perché hai ucciso il bambino innocente che era nel grembo materno, perché hai riso delle cose sante, perché fumi, perché non vai in Chiesa nelle domeniche e nei festivi? Perché non allevi i tuoi figli nel timore di Dio, perché non digiuni durante i quattro digiuni dell’anno, il venerdì e il mercoledì e diventi come gli ebrei? Perché odi tuo fratello, perché bestemmi Dio quando sei disgustato?
In ogni cosa, la nostra coscienza ci rimprovera quando commettiamo errori. Ella è la voce di Dio, che ci chiama a Lui: “Uomo, hai sbagliato! ti perdono Ma non farlo di nuovo! Venite a Me, perché in Me è la fonte del perdono, dell’amore e della misericordia. Comincia bene da oggi, non peccare più!”.
Quindi, la coscienza è la voce di Dio nel nostro cuore.
Questa legge è stata anteposta a tutte le leggi umane.
Alcuni non credenti dicono: “Ma noi cristiani saremo giudicati secondo il Vangelo e Dio ci punirà. Ma i popoli che non conoscono Dio, come la Cina, come il Giappone, che adorano gli dei, gli stregoni e i filosofi, come li punirà Dio? Perché non avevano il Vangelo e non sapevano che era un peccato, e per questo non possono correggersi”.
Ascolta ciò che dice il divino apostolo Paolo nella sua epistola ai Romani: “Le cose invisibili di Dio, fin dall’inizio della creazione del mondo, si vedono attraverso la contemplazione del creato, così come la sua eterna potenza e divinità” (Romani 1, 20). Quindi, tutti i popoli del mondo, nel Giorno del Giudizio, saranno giudicati secondo quattro leggi. È così che dogmatizzano i Santi Padri. Coloro che non avevano la legge scritta saranno giudicati secondo due leggi: secondo la legge della coscienza, che Dio ha posto nell’uomo quando fu creato, e secondo la legge della creazione. Come, secondo la legge della creazione? Ecco come: tutto intorno a noi ci parla. Perché dice San Gregorio di Nissa: “Come una tromba dall’alto del cielo, le creature ci parlano e gridano che c’è un Creatore” (Vita di Mosè). E ciò che dice il profeta Davide: «I cieli raccontano la gloria di Dio, e l’opera delle sue mani dichiara la sua forza» (Salmi). Come ci parlano i cieli? In che modo la sua opera ci parla e annuncia la potenza di Dio? Ecco come.
Quando guardi la sera il cielo stellato e lo vedi pieno di stelle, e adorno come un lampadario pieno di luce, e vedi la luna piena splendere nel cielo e l’ordine troppo bello con cui le stelle, e le galassie, e le costellazioni del cielo sono governate con tanta precisione, che neppure i più grandi studiosi del mondo arrivano ad aggiustare il calendario secondo esse, allora si dice col profeta: «Signore, cos’è l’uomo per cui ti interessi di lui, o il figlio dell’uomo, perché Tu te ne curi?». (Salmi). E poi ti rendi conto che queste stelle, questi loro movimenti sono fatti e portati dalla mano di Dio. É il Creatore, è il loro sovrano. Ti rendi conto che questo mondo ha una mente che li guida, che c’è un Dio che li ha creati e una mano invisibile che si prende cura di loro, proprio come con noi. É così che i cieli ci parlano, così che quando li vediamo, attraverso di loro conosciamo il Creatore dei cieli. Quando guardiamo il sole e vediamo come splende, che possiamo guardarlo solo per pochi minuti o diventiamo ciechi, ricordiamo Colui che ha reso il sole così bello, così luminoso. E ci rendiamo conto che Colui che lo ha creato, il Sole della Giustizia, brilla miliardi di volte più luminoso di lui. E così, il sole loda Dio. Perché è detto: «Lodatelo, sole e luna, lodatelo, stelle e luce tutte!».
In che modo il Sole loda Dio? In che modo Lo lodano la luna, le stelle, il cielo, tutto il firmamento, tutta la creazione? Attraverso la loro esistenza e movimento. Perché «altre sono le contemplazioni delle creature e altre sono le loro leggi» (san Massimo il Confessore, Filocalia).
La contemplazione avviene quando pensiamo a Chi le ha realizzate. E le loro leggi sono le regole secondo le quali si muovono nell’universo. Ed entrambi sono fatte da Dio: la loro esistenza e le leggi secondo le quali si muovono. Così ci parlano il sole, la luna, le stelle e il cielo, i fiori e gli uccelli, gli animali e le bestie, le valli e le acque, le nuvole e l’aria, i venti e tutti gli elementi. Tutti ci parlano e ci dicono che c’è un Creatore, un Dio nel cielo che li ha fatti, li sostiene e li muove.
Quindi, secondo la legge della coscienza e secondo la legge delle creature, coloro che non avevano la legge scritta saranno giudicati. A partire da Mosè, al quale Dio diede le Tavole della Legge sul monte Sinai, il popolo ebraico sarà giudicato secondo la Legge scritta, e tutti i popoli che hanno conosciuto il Vangelo saranno giudicati secondo la Legge della Grazia. Dall’inizio del mondo, oggi e sempre, la creazione parla del suo Creatore. Un certo non credente stava attraversando l’Oceano Atlantico, su una grande nave, un transatlantico. E un povero missionario predicava sulla nave, di notte, su Dio, sui suoi miracoli che si vedono nel cielo, in alto, sulla terra e nell’aria. E l’incredulo, per prendersi gioco del missionario, prese il binocolo e continuò a guardare a lungo le stelle. E il missionario di Cristo predicava con il fuoco, perché Dio dà una grande forza alla parola di coloro che evangelizzano e predicano il vero Dio, il Maestro della creazione. Alla fine, il non credente viene e dice al sacerdote: “Padre, tu continui a predicare su Dio, ma io ho guardato le stelle con il binocolo e non l’ho visto, non so dove sia”. E il missionario di Cristo gli disse: «Dici bene, fratello, che non lo vedi, e così non lo vedrai nei secoli dei secoli. Ma sai perché? Per vedere Dio, devi purificare il tuo cuore dall’incredulità, dal paganesimo. Perché questo ci insegna il Vangelo, dicendoci nella sesta beatitudine: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,7). Quindi, hai giustamente detto che non lo hai visto e non lo vedrai per sempre e in eterno, finché non purificherai il tuo cuore dall’incredulità, dalla malizia e dai peccati. Allora vedrai Dio, attraverso la luce della fede».
E così oggi. Ci sono molte persone che non sentono la chiamata di Dio. E se non la sentiamo, ci frusterà, ci chiamerà più duramente. Se ritorneremo, Egli darà la prima pioggia, e abbondanza, e salute e felicità, perché nella Sua mano è la vita e la morte. Altrimenti sa come tirare le redini del cavallo!
Perché Ilie Miniat dice che questo mondo è come un cavallo selvaggio, che corre sempre verso la perdizione, verso i peccati, verso il fondo dell’inferno. Ma Dio sa come tenere a freno questo cavallo selvaggio. E qual è la briglia del cavallo? Qual è il freno con cui Dio attira a sé il mondo? C’è la siccità, ci sono le malattie, schiavitù, guerre, morte, sofferenza e tutti i problemi. Quando viene la guerra, cosa chiediamo? “Dona, Signore, la pace.” Quando siamo malati, chiediamo: “Dacci la salute, Signore”. Quando non piove: “Dacci, Signore, acqua, perché stiamo morendo di sete”. Quando siamo schiavi: “Liberaci, Signore, dalla schiavitù”. Quindi, Dio ci sta facendo del bene. Egli sa tenere in scacco questo mondo, che corre come un cavallo al galoppo verso la rovina, verso la perdizione. Ascolta cosa dice il profeta: “Ma con briglia e morso, o Signore, stringerai le loro mascelle, quelle di coloro che non si avvicinano a te” (Salmi 31,10). Non ci avviciniamo volentieri, ci mette in scacco, ci mette le redini e ci fa tornare indietro, perché lui ha il potere. Perché è Dio che può scendere agli inferi, suscitare, uccidere, rendere vivo.
Allora, fratelli miei, quando capiremo che Dio ci chiama attraverso la malattia, attraverso la sofferenza, attraverso la pena, attraverso le tribolazioni, attraverso la schiavitù, attraverso la siccità, non restiamo congelati, ma torniamo a casa dal Padre e diciamo: “Perdonaci i nostri peccati, Signore, e abbi pietà di noi”. E così il Buon Dio ci perdona, perché non discute con noi per odio. Il vero genitore non punisce i suoi figli per odio, Dio non voglia! Quale padre o quale madre vorrebbe punire i propri figli per niente, prendersi gioco di loro? No! Ma se vede che oggi non ascolta, e domani non ascolta, e dopodomani ancora, ed è testardo, e risponde contro di lui e agisce secondo la sua cattiva volontà, allora mette la mano non per sua volontà sull’asta o sulla cintura, o su un bastone. Per cosa allora? Poiché vede che questo bambino ha iniziato a seguire una cattiva strada e va di male in peggio, andrà nell’abisso e, se più tardi lo punirà, sarà troppo tardi.
Dio fa lo stesso con noi. Siamo tutti figli di Dio per grazia. Ascoltate cosa dice la Scrittura: «Ho detto: ‘Voi siete dei, siete tutti figli dell’Altissimo’. Eppure morrete come gli altri uomini e cadrete come ogni altro potente» (Sal 81,6-7), cioè come uno dei diavoli. Se siamo figli di Dio per grazia e abbiamo la grazia di figli per il Santo Battesimo, abbiamo la Madre Chiesa e Dio Padre, come diciamo sempre: «Padre nostro che sei nei cieli»; se è così, teniamo sempre gli occhi fissi sul nostro Padre e sappiamo che se non Lo amiamo volontariamente e non sappiamo che esiste, Egli metterà la Sua mano sulla verga. Ma è meglio ascoltare per amore e amare Dio e mettere in pratica i suoi comandamenti per obbedienza, affinché Egli abbia sempre misericordia di noi e si prenda cura di noi.
Gli apostoli ascoltarono Cristo, i profeti ascoltarono, ascoltò il cielo, ascoltò la terra, ascoltarono i venti, ascoltò il mare, ascoltò la pioggia, ascoltò la rugiada, ascoltò la grandine, ascoltò le stelle, ascoltò il sole, ascoltarono gli animali e tutta la natura ascoltò, solo l’uomo, l’essere razionale, non vuole obbedire al suo Padre celeste. Ma attenzione, la mano di Dio ha anche una verga con cui batterci!
Quindi sediamoci bene, ricordiamoci! Non dimenticare, da oggi in poi, che ogni problema che ci capita è una chiamata di Dio. Perché dice: «Dio punisce tutti coloro che riconosce come figli».
E non brontoliamo se siamo chiamati in un modo o nell’altro, perché l’apostolo Paolo dice: «Ciascuno badi ciò a cui è chiamato, rimanga in quello».
Dio ti ha chiamato povero, non voler diventare ricco; ti ha chiamato a farti monaco, rimani monaco fino alla morte; ti ha chiamato ad essere sacerdote, sii un sacerdote degno di esserlo; ti ha chiamato a fare il commerciante, sii un commerciante buono e onesto; ti ha chiamato a fare il filosofo o il meccanico, o a svolgere qualche altro servizio, resta così! Ma servite con onore, sappiate che Dio è Colui che vi ha chiamati in un modo o nell’altro, e lasciate che ognuno di noi rimanga in ciò che è chiamato a fare!
Amin!
CURINGA: IL MONASTERO E IL PLATANO
Nel periodo magno-greco la polis di Curinga si chiamava Laconia, posta tra le città greche di Hipponion e Temesa. L’antico nome probabilmente richiamava quello della corrispondente regione greca oggi denominata Peloponneso (sudorientale). In effetti molti dei toponimi esistenti in questa zona ed in tutta la Calabria sono di chiara derivazione ellenistica.
Di particolare rilievo storico ed archeologico il Monastero di S. Elia, edificio risalente all’anno mille che è situato nella frazione Corda che si affaccia sul Golfo di S. Eufemia.
Il complesso architettonico comprende i resti del “Sancta Sanctorum”, un vano a pianta quadrata chiuso da una cupola in buono stato di conservazione.
Sono anche visibili i resti della navata e dell’antico cenobio. Il monastero, eretto da monaci provenienti dall’Oriente, era costituito dalla Chiesa munita di una notevole abside sormontata da una cupola in pietra, con evidenti richiami all’architettura armena. Nell’interno dell’abside, alla base della cupola, esiste un fregio a carattere curvilineo. Più in basso, tra il quadrato e il cilindro si trova una fascia di blocchi di pietra arenaria scolpita con un bellissimo motivo “a treccia”, con nastro concavo a “bottone” convesso. Gli scavi del 1991 hanno permesso di individuare all’interno del complesso la cella del priore, il corridoio centrale e il cellare. Tra gli altri locali è venuta alla luce, al piano terra, la Cappella di S. Elia. [https://www.comune.curinga.cz.it/novita/la-storia-di-curinga/]
Secondo alcuni studi, mentre il monastero ascenderebbe all’anno 1000 d.C., la cupola risulterebbe più tardiva e forse costruita intorno al 1600 così come testimonia la treccia decorativa al suo interno e lo stemma dei Caracciolo e Loffredo, apposto sull’arco che collegava l’antica chiesa rettangolare di cui oggi rimangono solo le creste dei muri perimetrali.
Dall’analisi strutturale eseguita sulle murature del complesso monastico, sembra sia possibile tuttavia riconoscere almeno cinque distinte fasi di vita, la più antica delle quali risalirebbe presumibilmente a epoca pre-normanna. (vedi documento sotto pubblicato)
Legato a questo luogo monastico è la storia del Platano millenario. Il platano orientale è un grande albero deciduo originario del Mediterraneo orientale e dell’Asia occidentale, con areale esteso sino all’Afghanistan. In Italia è spontaneo in Sicilia e nell’Italia meridionale. L’esemplare che si trova a Curinga è alto 31,5 metri, largo oltre 12 metri, con una cavità nel tronco ampia più di 3 metri. Questo maestoso albero vanta una storia di oltre mille anni, ma le sue radici potrebbero risalire a tempi più antichi. L’ipotesi più accreditata e che sia stato piantato proprio da qualche monaco proveniente dall’Oriente quando giunse in Calabria nel IX secolo, appartenente allo stesso gruppo che edificò le prime fondamenta dell’eremo poi divenuto monastero. Per secoli, il platano è stato luogo di incontro per contadini e pastori, oltre che luogo di riparo contro le intemperie e nascondiglio per i briganti. Infatti, grazie al suo tronco completamente cavo, al suo interno possono raggrupparsi fino a dieci persone.
Benché già i greci contribuirono alla sua diffusione in Italia del Sud, come raccontano fonti antiche, la specie potrebbe essere giunta in Italia in tempi precedenti, paleointrodotta dall’uomo o senza necessariamente il vettore uomo, come specie trans-jonica e anfi-adriatica, al pari di tantissime altre specie viventi che connotano i regni del vivente del sud Italia, nelle varie vicissitudini geologiche e climatiche del passato, nelle quali si ebbero anche periodi con il livello del mare molto più basso dell’attuale e l’emersione conseguente di maggiori ponti di terra tra Balcani e Penisola italiana. (FONTE WEB)
Archivio di Stato di Reggio Calabria: San Filarete, ritrovamento e miracoli
SAN FILARETE, RITROVAMENTO E MIRACOLI
Testimonianza dall’Archivio di Stato di Reggio del nostro Padre tra i Santi, Filareto l’Ortolano di Seminara. La dizione asceta basiliano è ovviamente non corretta e postuma. Non esiste e non è mai esistito un ‘ordine basiliano’ in Oriente. Denominazione che sorse nel momento in cui, con la conquista normanna delle terre del Sud Italia, si volle normalizzare la presenza dell’Ortodossia in Calabria sotto il papismo. Questi Santi erano semplicemente l’espressione dell’ascetismo calabro ortodosso di lingua greca, ascetismo indigeno, ben radicato e tradizionale nella nostra regione tanto da avere una rinomata area monastica tra Calabria e Basilicata denominata Mercurion.
Per le preghiere del nostro Santo Padre Filareto l’Ortolano, Signore Gesù Cristo, Dio nostro, abbi pietà di noi e salvaci!
Giovedì 22 Febbraio 2024 [1] [2]
“In un unico protocollo dell’anno 1693 del notaio Domenico Michele Guardata troviamo gli atti dedicati a San Filarete, asceta basiliano di origine calabrese. Gli atti sono elencati (non tutti) in un indice a parte, diverso quindi dal normale repertorio dei comuni strumenti, preceduto dal titolo ‘San Filarete’ e seguito dalla firma del notaio e dalla data 1693.
La facciata interna della copertina del protocollo, che è in pergamena, porta attaccato un foglio sul quale è incollata una stampa, che riproduce l’immagine del Santo, di circa 17x13cm, e la seguente didascalia:
«S. Filaretus Monachus Ordinis Sancti Basilii Magni vite austeritate, ac miraculorum gloria clarus, cuius sacrum Corpus Seminariae in Monasterio eiusdem Ordinis summa veneratione colitur eiusque festiva dies 6 Aprilis solemniter celebratur. Sup[eriorum] permis [su]»
Al di sopra della stampa, di mano del notaio, è scritto «S. Filereto, protettore della fedelissima Città di Seminara ritrovato il suo corpo nell’anno 1693 a 17 febraro, nel Monas[te]ro in campagna di detto Santo per il terrimuto successo che abisso’ la Sicilia»
Al di sotto della stampa sempre di mano del notaio vi è scritto «S. Fileretus, ora pro me»
L’immagine del santo, in atteggiamento austero, come si vede nella foto, con la mano sinistra sul cuore e la destra protesa in avanti, si staglia sul fondo di un paesaggio collinare, con a sinistra un borgo e a destra un corso d’acqua da cui emerge a metà, ignudo, un uomo in atteggiamento orante.
L’indice sopraricordato non è completo, in quanto riporta la foliazione di 11 atti, mentre il protocollo ne contiene 14, per complessive 26 pagine; abbraccia un periodo di tempo assai ristretto, dal 22 febbraio al 20 aprile, con i primi 12; del 13 giugno è il penultimo atto ; del 26 dicembre l’ultimo. Il notaio enucleò detti atti dal resto dei contratti e degli altri rogiti fatti nell’anno e li contraddistinse con una croce. Tra questi i più importanti sono i primi due, che riguardano il ritrovamento del corpo del santo e le prove del luogo dove era sepolto, mentre gli altri sono attestazioni di miracoli seguiti al ritrovamento.
Il primo, di cui oggi sono 331 anni dal rogito, è ornato con una croce dorata cartacea incollata, di 4,5×3,5 cm, sovrapposta a margine. Nel f. 23 v. e 24 v. rispettivamente le due note:
1) « detto glorioso Santo Filereto se ne mori nel secolo duodecimo idest l’an[n]o 1170 mentre nel secolo undecimo fu la destrutione di tauriana replublica da cui originem habuit Seminaria» [1]
2) « a 24 ottobre 1697. Si fece la confrunta con li reliquie del braccio tiene la Città di Seminara con la presenza di due fisici dottor Romano et dottor Minni, et coram delegatis e si videro esserne giusti, stante la mancansa come nel istru[men]to presente verum quelli della città sono quattro ossi di braccia due maggiore e due minore e quelli del monas[te]rio furno otto in tutto ossa maiuscoli a benché nel instrumento si dice sette, fu per errore allora, stante che erano rotti alcuni d’essi. Il tutto anche fu con mia presenza. Notar Guardata»
NOTE (nostre, non incluse nel post dell’Archivio di Stato):
[1] Fonte delle immagini: ASRC/SP, Fondo notarile Notaio D. M. Guardata, busta 738, vol. 6908
[2] Post apparso sulla pagina facebook dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria in data 22 Febbraio 2024
[2] Tauriana o Taureana (Taurianum in latino, Ταυρανία in greco) fu una città magnogreca, dell’antico territorio Italia e che in epoca remota si estendeva a capoluogo del versante tirrenico fino a comprendere gli attuali territori di Taureana e Palmi. Le sue rovine sono state localizzate nel territorio di Palmi. Il nome della città deriva da quello del populus italico che la fondò, i tauriani. La città italica, che sorgeva sulla riva sud del fiume Metauros (probabilmente il Petrace), segnava il confine del territorio di Région (Reggio Calabria) sul versante tirrenico nord-occidentale, oltre cui iniziava quello di Locri Epizefiri. Successivamente romana e poi bizantina, Tauriana venne distrutta dai saraceni nella metà del X secolo. Gran parte dei rinvenimenti archeologici costituiscono il Parco Archeologico dei Tauriani (Fonte: Wikipedia)