STORIA: Dalla pentarchia al dittico

Come si formava l'”ordine d’onore” nelle Chiese ortodosse

articolo di Pavel Kuzenkov, dottore di ricerca in storia, professore associato, Patriarcato di Mosca

Per la Chiesa ortodossa, l’unico vero Capo è il Signore Gesù Cristo, al quale è stato dato ogni potere in cielo e in terra (Matteo 28:18). E se per i cattolici il Papa “ha sulla Chiesa la potestà piena, suprema e universale” in quanto Vicario di Cristo (Catechismo della Chiesa Cattolica, 882), nella tradizione ortodossa i primati delle Chiese locali autocefali sono considerati uguali in dignità gerarchica. Nello stesso tempo, tra di loro esiste un certo ordine d’onore, secondo il quale vengono commemorati nei dittici liturgici. Come si è sviluppata questa tradizione secolare?

Cristo e gli apostoli sul primato nella chiesa

Secondo i Vangeli, il Signore non ha individuato alcun “leader” tra gli apostoli che avrebbe diritti speciali sugli altri. Inoltre, Gesù Cristo represse rigorosamente i tentativi dei discepoli di scoprire chi di loro avesse il vantaggio (Luca 22: 24-30; Matteo 18: 1-2), e disse loro: “Il più grande tra sia come il più piccolo; e chi governa sia come colui che serve “(Luca 22: 24-26; cfr. Matt. 23: 11-12). Dopo di ciò, egli stesso diede un esempio di questa insolita comprensione del potere, lavando i piedi degli apostoli durante l’Ultima Cena.

Il sistema, in cui più alto è il capo, più deve servire ai suoi subordinati, era incomprensibile per i pagani. E infatti, nelle condizioni di “questo mondo” è inconcepibile. Ma nella Chiesa di Cristo da duemila anni regna questo principio di amore, che è l’opposto della logica del potere mondano, basato sulla forza e sull’orgoglio. L’ideale del governo della chiesa è il biblico Buon Pastore, che offre la sua vita per le sue pecore (Giovanni 10: 11-16; cfr. Isa. 40:11 e altri).

 La nascita della gerarchia 

Già l’apostolo Paolo menziona il ministero ecclesiastico del vescovo (letteralmente “colui che sorveglia, supervisore”) e diacono (letteralmente “servitore”) (1 Tim. 3). All’inizio, il vescovo è difficilmente distinguibile dai presbiteri (“anziani”) che governavano le comunità nell’era apostolica (Atti 15:23, 16: 4 e altri). Dal secondo secolo in poi, i vescovi ricevevano per tutta la vita il potere di “legare e sciogliere”, presiedevano le riunioni eucaristiche e guidavano la preghiera dei fedeli come successori degli apostoli.

Il vescovo di Roma – capitale dell’impero e luogo di sepoltura dei più autorevoli tra gli apostoli, Pietro e Paolo – aveva una posizione del tutto particolare. Già nel II secolo era considerato il vescovo più influente non solo all’interno dell’Impero Romano, ma anche al di fuori di esso.

I concili e la sinodalita’

Entro il III secolo appaiono le riunioni (concili) dei vescovi delle città di una particolare provincia romana (in greco “eparchia”) sotto la presidenza del vescovo della città principale, la metropoli. Il vescovo di questa città (metropolita) era obbligato a consultarsi con i vescovi della sua provincia, che dovevano onorarlo come capo. Allo stesso tempo, nelle loro diocesi i vescovi rimanevano governanti sovrani (34 ° Canone Apostolico, 9 ° Canone del Concilio di Antiochia).

Nel 325, Costantino il primo imperatore cristiano, invitò i vescovi a Nicea per l’anniversario del suo regno. Questo incontro ha aperto una serie di Concili straordinari dell’episcopato, convocati dalle autorità statali per risolvere i disaccordi ecclesiali. I sette Concili Ecumenici dei secoli IV-VII formularono i fondamenti dogmatici e canonici dell’Ortodossia (tra cui quello dell’ortodossia, e della cattolicità).

Consegna del Simbolo – Parrocchia di Quartirolo

 Poiché l’episcopato di tutto l’impero si riuniva ai Concili Ecumenici, nacque la necessità di una gerarchia cerimoniale per il clero più alto. Inizialmente, lo status dei vescovi dipendeva dalla loro autorevolezza personale. Ma già a Nicea nel 325 era stabilito (6°  regola del Primo Concilio Ecumenico):

“In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi”

Fu proprio questa regola che fu successivamente utilizzata dai Papi per confermare le rivendicazioni del loro primato È curioso che già nelle antiche versioni latine questa regola inizia con parole che non ci sono nell’originale greco: “La sede romana ha sempre avuto il primato”. Ma in realtà la regola parla solo del riconoscimento dei diritti dei vescovi delle città più grandi nei confronti dei vescovi delle province circostanti.

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Le due Rome

 La fondazione di Costantinopoli nel 330 fu una sfida all’antica tradizione politica ed ecclesiastica, in cui Roma non aveva e non poteva avere rivali. La “Città Eterna” era considerata non solo un simbolo della potenza della “sovranazione” romana, ma anche un sacro garante dell’esistenza del mondo stesso. Anche gli scrittori cristiani hanno riconosciuto che l’indebolimento di Roma avrebbe portato a una catastrofe mondiale. E così la Nuova Roma apparve in Oriente, dove si trasferì lo stesso imperatore. L’emergere della nuova capitale richiedeva una revisione del sistema dei “privilegi” delle cattedre episcopali, fissati a Nicea. Il vescovo della città di Bisanzio, località dove Costantino il Grande costruì la Nuova Roma, era un vescovo ordinario della provincia di Tracia, subordinato al metropolita della sua capitale, Irakleia. Ma questo status non corrispondeva in alcun modo a quello della capitale dell’impero che presto divenne un megapoli. Allora al II Concilio Ecumenico di Costantinopoli (381) fu adottato il seguente canone (3° regola):

“Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma”.

 La Nuova Roma era equiparata alla Vecchia Roma non solo per quanto allo status politico, ma anche dal punto di vista ecclesiastico. Tuttavia, la natura dei “privilegi d’onore”, da lei ricevuti, non fu precisata, il che diede origine a una serie di conflitti. I vescovi di Costantinopoli, non avendo una propria provincia, iniziarono ad estendere la loro autorità tanto lontano quanto lo permettevano le circostanze, provocando proteste dei metropoliti vicini. La reazione di Efeso, una metropoli dell’Asia Minore, orgogliosa del suo status dell cattedra di San Giovanni il Teologo, è stata particolarmente acuta.Illustration_6.jpg

In Occidente, il II Concilio Ecumenico non fu immediatamente riconosciuto come tale, e la suddetta regola fu ignorata dai papi, che continuarono a considerare i tre troni elencati nei canoni di Nicea  (Roma, Alessandria ed Antiochia) come i principali. Qui, un ruolo è stato svolto sia dalla tendenza di seguire gli antichi costumi, caratteristica della mentalità romana, sia dalla tendenza di ricondurre l’autorevolezza di alcune cattedre episcopali ai tempi apostolici. La chiesa romana fu fondata da San Pietro e San Paolo; anche ad Antiochia agirono entrambi questi principi degli apostoli, il trono di Alessandria fu fondato dal discepolo di Pietro, il santo evangelista Marco. E di cosa poteva vantarsi Bisanzio, che era una città insignificante? Solo molti secoli dopo apparirà la leggenda sulla visita in quella località di Sant’Andrea, che trasformerà Costantinopoli in una sede apostolica e, per di più, fondata dal primo chiamato tra gli apostoli e il fratello maggiore di San Pietro.Illustration_7.jpg

Canone 28 di Calcedonia e la giurisdizione di Costantinopoli 

Era impossibile negare il “peso” ecclesiastico di Costantinopoli, specialmente dopo che l’Impero Romano fu definitivamente diviso nel 395 e la sua metà occidentale iniziò a declinare sempre più notevolmente. Inoltre, era necessario definire formalmente i confini della giurisdizione della cattedra della Nuova Roma, in modo che il suo patriarca (come iniziarono ad essere designati i principali vescovi dal V secolo) non invadesse le diocesi altrui. Perciò, nel 451, il IV Concilio Ecumenico di Calcedonia adottò alcune importanti regole, tra cui quella 28° è particolarmente importante:

“Seguendo in tutto le disposizioni dei santi padri, preso atto del canone or ora letto, dei 150 vescovi cari a Dio, che sotto Teodosio il Grande, di pia memoria, allora imperatore si riunirono nella città imperiale di Costantinopoli, nuova Roma, stabiliamo anche noi e decretiamo le stesse cose riguardo ai privilegi della stessa santissima chiesa di Costantinopoli, nuova Roma. Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell’antica Roma, perché la città era città imperiale. Per lo stesso motivo i 150 vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l’imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell’antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella. Di conseguenza, i soli metropoliti delle diocesi del Ponto, dell’Asia, della Tracia, ed inoltre i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla sacratissima sede della santissima chiesa di Costantinopoli. E’ chiaro che ciascun metropolita delle diocesi sopraddette potrà, con i vescovi della sua provincia, ordinare i vescovi della sua provincia, come prescrivono i sacri canoni; e che i metropoliti delle diocesi che abbiamo sopra elencato, dovranno essere consacrati dall’arcivescovo di Costantinopoli, a condizione, naturalmente, che siano stati eletti con voti concordi, secondo l’uso, e presentati a lui”.

 Questi canoni sono estremamente importanti, poiché è su di essi che ormai nel XX secolo alcuni teologi cercheranno di costruire una teoria della giurisdizione ecclesiastica mondiale di Costantinopoli (Istanbul). Ma è sufficiente leggere attentamente questi testi per essere sicuri che qui non si tratta di alcuna “giurisdizione universale”. Al contrario, i padri del Concilio limitano la giurisdizione dell’arcivescovo di Costantinopoli, dandogli il diritto di nominare metropoliti delle tre diocesi, nonché vescovi delle comunità straniere di queste stesse diocesi. Nell’impero romano di quell’epoca, c’erano molte tribù, germaniche e altre, che si stabilivano nell’impero come alleati (federati); non erano inclusi nella struttura amministrativa imperiale e le loro strutture ecclesiastiche erano dirette da vescovi speciali, direttamente subordinati al patriarca.

Quindi, la 28° Regola di Calcedonia equiparava la Vecchia Roma e la Nuova Roma nei loro privilegi e trasferiva tre diocesi nella sfera della giurisdizione ecclesiastica di Costantinopoli: Asia, Ponto e Tracia.

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I cinque “patriarcati dell’ecumene ” 

Allo stesso Concilio di Calcedonia fu presa un’altra decisione importante. La Città Santa di Gerusalemme fu definitivamente separata in uno speciale distretto ecclesiastico. Si formarono così le cinque principali cattedre dell’Impero Romano, ai cui primati fu assegnato il titolo di patriarca: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. Le loro aree di giurisdizione differivano notevolmente dalla divisione amministrativa: dall’intero Impero d’Occidente con la prefettura dell’Illirico (Roma) ad alcune piccole province (Gerusalemme). Tuttavia, l’enorme “Patriarcato d’Occidente” era una finzione convenzionale: nel V secolo, l’Impero Romano d’Occidente cessò di esistere e il controllo di Roma sulle strutture ecclesiastiche dei regni barbari, che sorsero sulle sue rovine, era illusorio. Inoltre, la Chiesa nell’ Africa Latina proibiva esplicitamente gli appelli “oltreoceano”, cioè a Roma (Canoni di Cartagine 32, 37, 118, 139), mentre l’arcivescovo di Aquileia (Grado, Venezia) rivendicava il titolo di patriarca.

Pentarchia - Wikipedia

 L’imperatore Giustiniano il Grande si riferisce a Roma e Costantinopoli come alle cattedre principali dell’impero (editto del 533; 131° novella del 545), e riduce la pienezza della Chiesa cattolica e apostolica al consenso dei cinque “santissimi patriarchi dell’ecumene” e dei vescovi a loro subordinati (109° novella del 541). Allo stesso tempo, il titolo onorifico di “Patriarca ecumenico” è stato aggiunto nel titolo dell’arcivescovo di Costantinopoli, il che ha sottolineato lo status di Nuova Roma come di uno dei patriarcati dell’universo (“ecumene”, come era solennemente chiamato l’Impero Romano). Va tenuto presente che la divisione della Chiesa in cinque patriarcati non era assoluta: non teneva conto né dell’autocefala Chiesa del Cipro, né della sede particolare dell’arcivescovo della città nativa di Giustiniano, Giustiniana (fondata nel 545 dallo stesso imperatore), per non parlare delle Chiese fuori dall’impero.

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Pentarchia nell’impero bizantino medievale 

La definitiva formalizzazione canonica del sistema dei cinque patriarcati avvenne nel 692 al Quinisesto Concilio ecumenico (Concilio in Trullo). Il canone 36, ivi adottato, dice:

“Rinnovando la legge ordinata dai 150 santi padri che si sono riuniti in questa città regnante e protetta da Dio, e dei 630 che si sono riuniti a Calcedonia, determiniamo: la sede di Costantinopoli abbia uguali privilegi con la sede dell’antica Roma; e venga altrettanto elevata negli affari della chiesa, essendo la seconda dopo di essa; dopo quella poi venga elencata la sede della grande città di Alessandria, poi la sede di Antiochia, e dopo di essa la sede della città di Gerusalemme”.

Un’altro ordine di “sedi principali” è stato adottato invece nell’Occidente. Nel “Dono di Costantino” (un famoso falsificato dell’VIII secolo, che confermava il diritto dei Papi al potere secolare), Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli sono menzionate come sedi subordinate a Roma. L’autore di questo falsificato medievale non era imbarazzato dal fatto che il “decreto” fosse datato 315, quando Costantinopoli non esisteva nemmeno nel progetto: per lui era importante mettere il “nuovo arrivato” all’ultimo posto. I papi più di una volta hanno sottolineato lo status secondario di Costantinopoli in quanto patriarcato e hanno protestato contro il titolo “ecumenico”, che in epoca bizantina divenne consuetudinario per i patriarchi di  Costantinopoli. Nel VII secolo tutte le altre sedi orientali furono conquistate dagli arabi e Costantinopoli rimase l’unico patriarcato ecumenico sul territorio dell’impero.

Tuttavia, gli altri patriarchi erano comunque considerati i principali vescovi dell’unica Chiesa universale. La Pentarchia, sebbene fosse interpretata dagli scrittori bizantini come l’organica pienezza ecclesiastica, simile ai cinque sensi dell’uomo, non fu mai intesa come un elenco chiuso. Nei secoli X-XIII apparvero Chiese autocefali che non facevano parte di essa (la Chiesa bulgara o quella serba). È curioso che anche lo scisma di Roma nell’XI secolo non ha cambiato il concetto: Teodoro Balsamon (XII secolo) e Matteo Blastares (XIV secolo) parlano della divisione dell’universo tra i cinque patriarchi, “senza contare le piccole chiese”.

Mosca invece di Roma 

L’elevazione del metropolita di Mosca al rango di patriarca dal patriarca Geremia II di Costantinopoli (1589), sancita dai Concili dei Patriarchi Orientali nel 1590 e 1593, ha introdotto una nuova concezione della Pentarchia. Il Patriarca di Mosca e di tutta la Rus’ San Giobbe lo ha descritto in questo modo:

“Al posto del papa, il padre maggiore dovrebbe essere il santissimo signor Geremia, l’arcivescovo di Costantinopoli – Nuova Roma e il patriarca ecumenico, e poi dovrebbero esserci quattro patriarchi: di Alessandria, d’Antiochia, di Gerusalemme e della città regnante di Mosca e del regno russo”.

Foto La Cattedrale di San Basilio a Mosca - 366x550 - Autore: Redazione (3  di 3)

Il Concilio del 1590 decretò che il Patriarca di Costantinopoli era d’ora in poi il primo, e quello di Mosca – il quinto. E al Concilio del 1593 fu espressamente stabilito che Mosca fu dichiarata patriarcato per rispetto dello status politico della Russia: “poiché Dio ha onorato questo paese con il regno”.

Quindi, Mosca ricevette la dignità patriarcale in quanto capitale dell’unico regno ortodosso al mondo, proprio come accadde a Costantinopoli a suo tempo. Allo stesso tempo, non fu elevata allo stesso livello con essa, ma ottenne l’ultimo, quinto posto nella Pentarchia.Illustration_12.jpg

A quel tempo, i quattro patriarcati orientali si trovavano sul territorio del più grande stato del mondo islamico: l’Impero Ottomano. Ciononostante, il patriarca di Costantinopoli aveva i diritti del capo dell’intero millet ortodosso, il che gli dava opportunità del tutto particolari. Tuttavia, quando Fener (il quartiere di Istanbul dove si trova la residenza del patriarca) violava i diritti canonici dei suoi confratelli ad Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, incontrava ferme proteste.

Le nuove pretese di Costantinopoli e la posizione della Chiesa russa 

Nel XX secolo, dopo l’emergere della Repubblica Turca e la deportazione della popolazione greca dall’Asia Minore, la posizione di Costantinopoli apparve davvero drammatica. Allora i Patriarchi ecumenici, con il sostegno dell’Intesa, hanno deciso di trasformare il loro titolo onorifico nel vero status di “patriarca dell’universo”. Approfittando della posizione più difficile della Chiesa russa, che aveva subito persecuzioni senza precedenti, Costantinopoli iniziò a prendere unilateralmente, in modo anticanonico, sotto la sua “giurisdizione suprema” le Chiese locali, sorte nei nuovi stati nazionali dell’Europa orientale. Reinterpretando il 28 ° canone di Calcedonia, Fener iniziò a considerare “stranieri” tutti i popoli che non avevano proprie antiche Chiese ortodosse e considerarli sotto la sua giurisdizione.

Incontro a fine agosto tra Kirill e Bartolomeo, una occasione a rischio - La  Stampa

 Non accontentandosi del tradizionale status canonico di “primus inter pares”, i patriarchi di Costantinopoli iniziarono a rivendicare il posto di un “vescovo mondiale”, “primus sine paribus”, come disse uno degli sostenitori di questo concetto, l’arcivescovo Elpidophoros (Lambriniadis) d’America. Un passo importante su questo percorso è stata l’organizzazione e lo svolgimento, contrariamente alla posizione di un certo numero di Chiese ortodosse, del “Santo e Grande Concilio Panortodosso” a Creta nel 2016, che ha tentato di trasferire a Costantinopoli i diritti di “coordinatore” tra tutte le altre Chiese ortodosse. La natura di questo “coordinamento” può essere vista nelle azioni del Patriarca Bartolomeo in relazione alla scismatica Chiesa ortodossa dell’Ucraina. Queste azioni, calpestando grossolanamente gli antichi canoni, hanno portato e continuano a portare scandalo e divisione nella Chiesa ortodossa.

 La Chiesa ortodossa russa preserva fermamente il principio apostolico di sinodalità e riconosce l’uguaglianza dei diritti canonici dei primati di tutte le 15 Chiese locali autocefale, tra cui quelle di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Russia, Georgia, Serbia, Romania, Bulgaria, Cipro, Grecia, Albania, Polonia, delle Terre Ceche e della Slovacchia, d’America. Tutte queste Chiese sorelle sono membri uguali dell’Unica Chiesa Cattolica e Apostolica di Cristo.




CONCILIO DI NICEA

Convocato dall’imperatore Costantino nel 325 a Nicea. A questo concilio ecumenico parteciparono 318 padri. Erano invitati tutti i vescovi della cristianità, mentre l’Imperatore si è fatto carico delle spese, ma dall’Europa occidentale vennero soltanto 4 o 5 vescovi; lo stesso vescovo di Roma non partecipò personalmente, ma mandò 2 sacerdoti a rappresentarlo. La maggioranza vennero dalle città Elleniche o ellenizzate. Fra questi si distinguevano il vecchio Alessandro, Vescovo di Alessandria, accompagnato dal suo giovane consigliere Atanasio. Costantino partecipò nelle discussioni, come dice Eusebio: “parlando greco perché non era estraneo a questa lingua”. I vescovi si incontrarono nella metà di giugno del 325, ma la riunione ufficiale si tenne il 5 o 6 di luglio. L’incontro durò 20 giorni e risolse la questione del rapporto fra il Padre ed il Figlio usando il termine “omoousios” (consustanziale)

Sant’Atanasio il Grande, Il Concilio di Nicea

“Anche i giudei infatti, [come gli ariani ndr] confutati dalla verità e incapaci di guardarla in faccia, dicevano pretestuosamente: Che segno fai, perché vediamo e crediamo in te? Che opera fai? Eppure già erano stati fatti molti segni, al punto che essi stessi dicevano: Che cosa facciamo, poiché quest’uomo fa molti segni? In effetti, c’erano morti che risuscitavano, storpi che camminavano, ciechi che vedevano, lebbrosi che venivano purificati; inoltre, una volta l’acqua venne cambiata in vino e da cinque pani vennero sfamati cinquemila uomini. Tutti erano
nella meraviglia e adoravano il Signore, riconoscendo che in lui si erano adempiute le profezie e che egli stesso era Dio, Figlio di Dio. Soltanto i farisei, anche se i segni apparivano più splendenti del sole, di nuovo mormoravano da ignoranti e dicevano: ·Perché tu, che sei uomo, ti fai Dio?·. Insensati e veramente ciechi nella mente! 5. Avrebbero invece dovuto dire: •Perché tu, che sei Dio, ti sei fatto uomo?•. Le opere infatti mostravano che egli era Dio, ed essi avrebbero dovuto adorare la bontà del Padre e ammirare la disposizione da lui attuata a causa nostra. […]

Come gente empia, che ama contestare e cerca di opporsi a Dio, quelli [gli ariani ndr] proferivano parole piene di empietà. I vescovi invece, che si erano radunati in numero più o meno di trecento, con atteggiamento mite e benevolo chiedevano loro di dare ragione di quanto dicevano e [di fornire] dimostrazioni conformi alla retta fede. Ma poiché anche solo ad aprir bocca si condannavano e disputavano tra di loro, vedendo l’estremo imbarazzo della loro eresia, rimasero senza parola, e con il loro silenzio confermavano la vergogna insita nella loro cattiva dottrina. I vescovi allora, annullando le parole escogitate da quelli, esposero contro di essi la sana fede della Chiesa. Tutti, anche quelli della cerchia di Eusebio, sottoscrissero quelle parole, di cui ora questi si lamentano. Mi riferisco a “dalla sostanza” (ek tes ousias) e “consostanziale” (homoousios), con cui si esprime che il Figlio di Dio non è creatura od opera, né è una delle realtà divenute, ma che il Logos è generato dalla sostanza del Padre”.

Concilio di Nicea I - Wikipedia

I TESTI CONCILIARI

PROFESSIONE DI FEDE DEI 318 PADRI

Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili. Ed in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre [secondo i Greci: consustanziale], mediante il quale sono state fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che quelle che sono sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto e risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà per giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo.

Ma quelli che dicono: Vi fu un tempo in cui egli non esisteva; e: prima che nascesse non era; e che non nacque da ciò che esisteva, o da un’altra ipostasi o sostanza che il Padre, o che affermano che il Figlio di Dio possa cambiare o mutare, questi la chiesa cattolica e apostolica li condanna.

CANONI

I. Di quelli che si mutilano o permettono questo da parte di altri su se stessi.

Se qualcuno, malato, ha subito dai medici un’operazione chirurgica, o è stato mutilato dai barbari, può far parte ancora del clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è castrato da sé, costui, appartenendo al clero, sia sospeso, e in seguito nessuno che si trovi in tali condizioni sia promosso allo stato ecclesiastico. E’ evidente, che quello che è stato detto riguarda coloro che deliberatamente compiono una cosa simile e osano mutilare se stessi ma se qualcuno, fosse stato castrato dai barbari o dai propri padroni, ma fosse degno sotto ogni aspetto, i canoni lo ammettono nel clero.

II. A coloro che dopo il battesimo sono subito ammessi nel clero.

Poiché molte cose per necessità, o sotto la pressione di qualcuno, sono state fatte contro le disposizioni ecclesiastiche, sicché degli uomini, venuti da poco alla fede dal paganesimo e istruiti in breve tempo, sono stati subito ammessi al battesimo e insieme sono stati promossi all’episcopato o al sacerdozio, è sembrato bene che in futuro non si verifichi nulla di simile: è necessario del tempo, infatti, a chi viene catechizzato, ed una prova più lunga dopo il battesimo. E’ chiara infatti, la parola dell’apostolo: (il vescovo) non sia un neofita, perché non gli accada di montare in superbia e di cadere nella stessa condanna (1).

Se poi col passar del tempo si venisse a scoprire qualche colpa commessa da costui e fosse accusato da due o tre testimoni, questi cesserà di far parte del clero. Chi poi osasse agire contro queste disposizioni e si ergesse contro questo grande sinodo, costui metterebbe in pericolo la sua stessa dignità sacerdotale.

III. Delle donne che vivono nascostamente con i chierici.

Questo grande sinodo proibisce assolutamente ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e in genere a qualsiasi membro del clero di tenere delle donne di nascosto, a meno che non tratti della propria madre, di una sorella, di una zia, o di persone che siano al di sopra di ogni sospetto.

IV. Da quanti debba essere consacrato un vescovo.

Si abbia la massima cura che un vescovo sia istituito da tutti i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per sopravvenute difficoltà, o per la distanza, almeno tre, radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima per iscritto il consenso degli assenti, celebrino la consacrazione. La conferma di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna provincia al vescovo metropolita.

V. Degli scomunicati: che non siano accolti da altri; e dell’obbligo di tenere i sinodi due volte all’anno.

Quanto agli scomunicati, sia ecclesiastici che laici, la sentenza dei vescovi di ciascuna provincia abbia forza di legge e sia rispettata la norma secondo la quale chi è stato cacciato da alcuni non sia accolto da altri. E’ necessario tuttavia assicurarsi che questi non siano stati allontanati dalla comunità solo per grettezza d’animo o per rivalità del vescovo o per altro sentimento di odio.

Perché poi questo punto abbia la dovuta considerazione, è sembrato bene che in ogni provincia, due volte all’anno si tengano dei sinodi, affinché tutti i vescovi della stessa provincia riuniti al medesimo scopo discutano questi problemi, e così sia chiaro a tutti i vescovi che quelli che hanno mancato in modo evidente contro il proprio vescovo sono stati opportunamente scomunicati, fino a che l’assemblea dei vescovi non ritenga di mostrare verso costoro una più umana comprensione. I sinodi siano celebrati uno prima della Quaresima perché, superato ogni dissenso, possa esser offerto a Dio un dono purissimo; l’altro in autunno.

VI. Della precedenza di alcune sedi, dell’impossibilità di essere ordinato vescovo senza il consenso del metropolita.

In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi. Inoltre sia chiaro che, se qualcuno è fatto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba esser vescovo. Qualora poi due o tre, per questioni loro personali, dissentano dal voto ben meditato e conforme alle norme ecclesiastiche degli altri, prevalga l’opinione della maggioranza.

VII. Del vescovo di Gerusalemme.

Poiché è invalsa la consuetudine e l’antica tradizione che il vescovo di Gerusalemme riceva particolare onore, abbia quanto questo onore comporta, salva sempre la dignità propria della metropoli.

VIII. Dei cosiddetti càtari.

Quanto a quelli che si definiscono càtari, cioè puri, qualora si accostino alla chiesa cattolica e apostolica, questo santo e grande concilio stabilisce che, ricevuta l’imposizione delle mani, rimangano senz’altro nel clero. E’ necessario però, prima di ogni altra cosa, che essi dichiarino apertamente, per iscritto, di accettare e seguire gli insegnamenti della chiesa cattolica, che cioè essi comunicheranno con chi si è sposato per la seconda volta e con chi è venuto meno durante la persecuzione, per i quali sono stabiliti il tempo e le circostanze della penitenza, così da seguire in ogni cosa le decisioni della chiesa cattolica e apostolica. Quando, sia nei villaggi che nelle città, non si trovino che ecclesiastici di questo gruppo essi rimangano nello stesso stato. Se però qualcuno di essi si avvicina alla chiesa cattolica dove già vi è un vescovo o un presbitero, è chiaro che il vescovo della chiesa avrà dignità di vescovo e colui che presso i càtari è chiamato vescovo, avrà dignità di presbitero, a meno che piaccia al vescovo che quegli possa dividere con lui la stessa dignità. Se poi questa soluzione non fosse per lui soddisfacente, gli procurerà un posto o di corepiscopo o di presbitero, perché appaia che egli fa parte veramente del clero e che non vi sono due vescovi nella stessa città.

IX. Di quelli che senza il debito esame sono Promossi al sacerdozio.

Se alcuni sono stati promossi presbiteri senza il debito esame, o, se esaminati, hanno confessato dei falli, ma, contro le disposizioni dei canoni, hanno ricevuto l’imposizione delle mani, la legge ecclesiastica non li riconosce; la chiesa cattolica infatti vuole uomini irreprensibili.

X. Di coloro che hanno rinnegato la propria fede durante la Persecuzione e poi sono stati ammessi fra il clero.

Se alcuni di quelli che hanno rinnegato la fede cristiana sono stati eletti sacerdoti o per ignoranza o per simulazione di quelli che li hanno scelti, questo non porta pregiudizio alla disciplina ecclesiastica: una volta scoperti, infatti, costoro saranno deposti.

XI. Di quelli che hanno rinnegato la Propria fede e sono finiti tra i laici.

Quanto a quelli che, senza necessità, senza confisca dei beni, senza pericolo o qualche cosa di simile – ciò che avvenne sotto la tirannide di Licinio – hanno tradito la loro fede, questo santo sinodo dispone che, per quanto essi siano indegni di qualsiasi benevolenza, si usi tuttavia comprensione per essi. Quelli dunque tra i fedeli che fanno davvero penitenza, trascorrano tre anni tra gli audientes, sei anni tra i substrati (2), e per due anni preghino col popolo salvo che all’offertorio.

XII. Di coloro che, dopo aver lasciato il mondo, vi sono poi ritornati.

Quelli che chiamati dalla grazia, dopo un primo entusiasmo hanno deposto il cingolo militare, ma poi sono tornati, come i cani, sui loro passi (3), al punto da versare denaro e da ricercare con benefici la vita militare, facciano penitenza per dieci anni, dopo aver passato tre anni fra gli audientes (4). Ma, per questi penitenti, bisognerà guardare la loro volontà ed il modo di far penitenza. Quelli, infatti, che col timore, con le lacrime, con la pazienza, con le buone opere dimostrano con i fatti, e non simulano la loro conversione, costoro, compiuto il tempo prescritto da passare fra gli audientes (5), potranno essere ammessi ragionevolmente a partecipare alle preghiere; dopo ciò, il vescovo potrà prendere nei loro riguardi qualche decisione anche più mite. Ma quelli che si comportano con indifferenza, e credono che per la loro espiazione sia sufficiente questa penitenza, devono senz’altro scontare tutto il tempo stabilito.

XIII. Di quelli che in punto di morte chiedono la comunione.

Con quelli che sono in, fin di vita, si osservi ancora l’antica norma per cui in caso di morte nessuno sia privato dell’ultimo, indispensabile viatico. Se poi avvenisse che quegli che era stato dichiarato disperato, ed era,stato ammesso alla comunione e fatto partecipe dell’offerta, guarisca, sia ammesso tra coloro che partecipano alla sola preghiera (fino a che sia trascorso il tempo stabilito da questo grande concilio ecumenico). In genere, poi, il vescovo, dopo inchiesta, ammetterà chiunque si trovi in punto di morte e chieda di partecipare all’eucarestia.

XIV. Dei catecumeni lapsi.

Questo santo e grande concilio stabilisce che i catecumeni lapsi per tre anni siano ammessi solo tra gli audientes (6), e che dopo questo tempo possano prender parte alla preghiera, con gli altri catecumeni.

XV. Del clero che si sposta di città in città.

Per i molti tumulti ed agitazioni che avvengono, è sembrato bene che sia assolutamente stroncata la consuetudine, che in qualche parte ha preso piede, contro le norme ecclesiastiche, in modo che né vescovi né preti, né diaconi si trasferiscano da una città all’altra. Che se qualcuno, dopo questa disposizione del santo e grande concilio, facesse qualche cosa di simile, e seguisse l’antico costume, questo suo trasferimento sarà senz’altro considerato nullo, ed egli dovrà ritornare alla chiesa per cui fu eletto vescovo, o presbitero, o diacono

XVI. Di coloro che non dimorano nelle chiese nelle quali furono eletti.

Quanti temerariamente, senza santo timore di Dio, né alcun rispetto per i sacri canoni si allontanano dalla propria chiesa, siano essi sacerdoti o diaconi, o in qualsiasi modo ecclesiastici, non devono in nessun modo essere accolti in un’altra chiesa; bisogna, invece, metterli nell’assoluta necessità di far ritorno alla propria comunità, altrimenti siano esclusi dalla comunione. Che se poi uno tentasse di usar violenza ad alcun dipendente da un altro vescovo e di consacrarlo nella sua chiesa contro la volontà del vescovo, da cui si è allontanato, tale ordinazione sia considerata nulla.

XVII. Dei chierici che esercitano l’usura.

Poiché molti che sono soggetti ad una regola religiosa, trascinati da avarizia e da volgare desiderio di guadagno, e dimenticata la divina Scrittura, che dice: Non ha dato il suo denaro ad interesse (7), prestando, esigono un interesse, il santo e grande sinodo ha creduto giusto che se qualcuno, dopo la presente disposizione prenderà usura, o farà questo mestiere d’usuraio in qualsiasi altra maniera, o esigerà una volta e mezza tanto:, o si darà, in breve, a qualche altro guadagno scandaloso, sarà radiato dal clero e considerato estraneo alla regola.

XVIII. Che i diaconi non debbano dare l’eucarestia ai presbiteri; e che non devono prender posto avanti a questi.

Questo grande e santo concilio è venuto a conoscenza che in alcuni luoghi e città i diaconi danno la comunione ai presbiteri: cosa che né i sacri canoni, né la consuetudine permettono: che, cioè, quelli che non hanno il potere di consacrare diano il corpo di Cristo a coloro che possono offrirlo. Esso è venuto a conoscenza anche di questo: che alcuni diaconi ricevono l’eucarestia perfino prima dei vescovi. Tutto ciò sia tolto di mezzo, e i diaconi rimangano nei propri limiti, considerando che essi sono ministri dei vescovi ed inferiori ai presbiteri. Ricevano, quindi, come esige l’ordine, l’eucarestia, dopo i sacerdoti, e per mano del vescovo o del sacerdote. Non è neppure lecito ai diaconi sedere in mezzo ai presbiteri; ciò è, infatti, sia contro i sacri canoni, sia contro l’ordine. Se poi qualcuno non intende obbedire, neppure dopo queste prescrizioni, sia sospeso dal diaconato.

XIX. Di quelli che dall’errore di Paolo di Samosata si avvicinano alla chiesa cattolica e delle diaconesse.

Quanto ai seguaci di Paolo, che intendono passare alla chiesa cattolica, bisogna osservare l’antica prescrizione che essi siano senz’altro ribattezzati. Se qualcuno di essi, in passato, aveva appartenuto al clero, purché, del tutto irreprensibile, una volta ribattezzato potrà essere ordinato dal vescovo della chiesa cattolica. Ma se l’esame dovesse far concludere che si tratta di inetti, è bene deporli. Questo modo d’agire sarà usato anche con le diaconesse e, in genere, con quanti appartengono al clero. Quanto alle diaconesse in particolare, ricordiamo, che esse, non avendo ricevuto alcuna imposizione delle mani, devono essere computate senz’altro fra le persone laiche.

XX. Che non si debba, nei giorni di domenica e di Pentecoste, pregare in ginocchio.

Poiché vi sono alcuni che di domenica e nei giorni della Pentecoste si inginocchiano, per una completa uniformità è sembrato bene a questo santo sinodo che le preghiere a Dio si facciano in piedi.

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Note

(1) I Tm 3, 6-7
(2) Audientes e substrati indicano gli appartamenti a due fasi dei catecumenato, che dovevano essere adempiute da chi, convertito al cristianesimo, aspirava al battesimo
(3) Cfr. Pr 26, 11. 
(4) V. nota 2.
(5) V. nota 2.
(6) V. nota 2.
(7) Sal 14, 5




TRACCE BIZANTINE: Madonna del Pilerio, Cosenza

tratto da un articolo di Riccardo Brunetti

II titolo ed il culto alla Madonna del Pilerio si fanno risalire comunemente all’anno 1576. Si può invece ritenere, almeno quanto al titolo, che siano di data molto più remota, se si considera che il Dipinto su tavola è un originale del XII secolo. Da documenti storici (l) risulta intanto che, tra il 1575-1576, un’orribile pestilenza infieriva per le molte regioni d’Italia, tra cui la Calabria e che la stessa Cosenza, non risparmiata dall’immane calamità, dovette lamentare moltissime vittime!

I Cosentini, minacciati da un tale flagello, cui non era possibile porre rimedio con risorse umane, fiduciosi, fecero ricorso a Dio ed ai Santi protettori, implorando misericordia. Ora avvenne che un giorno mentre un pio devoto, pregava con particolare fervore, dinnanzi ad un’antica Icone della Madonna (2), vide apparire all’improvviso sulla guancia sinistra della sacra Immagine una macchia simile a bubbone di peste. Immediatamente corse trepidante ad avvertire il Vicario generale dell’Archidiocesi  in quel periodo teneva le veci dell’Arcivescovo Andrea Matteo Acquaviva, che si trova da qualche tempo e che, colpito anch’egli dall’inesorabile morbo, lo stesso anno vi moriva  e veniva sepolto in S. Giovanni in Laterano, nel  sepolcro preparatogli dal nipote Card. Giulio Acquaviva (3). Il Vicario, seguito da Clero e numeroso popolo, accorse per verificare lo straordinario prodigio . Osservato il segno miracoloso si ebbe certo che con esso la Vergine Ss.  aveva voluto dimostrare di prendere quasi su di sé il flagello della peste, per liberarne i suoi figli e devoti, «alla stessa guisa, annota il Botta, del Redentore divino, che assunse sé per la sua passione e morte tutti i peccati  degli uomini». Cosi confermarono infatti gli eventi che seguirono. Da quel momento il contagio cominciò a regredire, poi man mano cessò del tutto. Gli stessi ammalati e quelli appena affetti dal ferale morbo sollecitamente e felicemente guarirono. Questo prodigio strepitoso(4) spinse il Popolo a dare fin d’allora alla Vergine della Cattedrale di Cosenza il titolo di Protettrice della Città (5).  La notizia non tardò a divulgarsi per i dintorni. Dai Casali circostanti, dalle campagne e dai paesi vicini fu un ininterrotto e crescente accorrere di pellegrini, i quali venivano per vedere il prodigioso Dipinto e per invocare la Madonna di Cosenza. Tali pellegrinaggi continuarono nel tempo e  gradatamente crebbero di numero e d’intensità tanto che, nel 1603, dopo più di cinque lustri dall’evento miracoloso, l’Arcivescovo mons. Giovanni Battista Costanzo (1591-1617), per meglio favorire l’afflusso dei pellegrini, fece rimuovere il sacro Dipinto dal sito dove trovavasi per farlo collocare, dapprima su di un pilastro del Duomo, indi sull’altare maggiore ed infine, quattro anni dopo, nel 1607, nella Cappella “de’ li Pilieri”, dove era stata disposta la costruzione di un altare, come è documentato da un atto del notaro Giacomo Mangerio del 20 giugno1602 (6). Agevolmente da ciò può dedursi che il titolo “Pilerio” è certo anteriore all’avvenimento del 1603,  la  collocazione cioè del  Quadro sul pilastro del Duomo. Quindi il titolo “Pilerio” non sarebbe derivato dal gesto dell’appoggiarlo sul pilastro o colonna del Duomo.

A tal punto, è opportuno far rilevare, gli storici, i quali si sono occupati della vicenda, si siano, ovviamente, limitati a riferire soltanto i fatti e le circostanze concomitanti e susseguenti il prodigioso evento del 1576 e null’altro. Difatti nessuno di essi, sembra, abbia fatto riferimento alcuno all’origine, valore artistico e vetustà del Dipinto e del Titolo; cose queste peraltro rimaste inspiegabilmente nell’ombra e nel silenzio secolare, fin quasi ai nostri giorni. Devesi alla fervida inventiva e genialità  pastorale dell’illustre e dinamico Presule Enea Selis (1971-1979) l’iniziativa, certamente provvidenziale, di far curare dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici della Calabria, il restauro dell’Icona bizantina della Madonna del Pilerio, ritenuta comunemente «un dipinto su tavola e copia, per giunta rimaneggiata, di un’immagine della Madonna, di non rilevante valore artistico». Il restauro era stato richiesto in vista ed in ordine alla ricorrenza del IV Centenario del miracolo (1576-1976), che il Presule mons. Selis intendeva commemorare con particolari festeggiamenti, secondo un suo geniale stile, così come aveva già fatto nella ricorrenza del 750° anniversario della Consacrazione del Duomo (1222-1972), all’inizio del suo governo episcopale. Tutti quelli, che ebbero la ventura di presenziarli, ricorderanno certo come, per l’intervento della Radiotelevisione, ne fu ripresa e diffusa in diretta sulla rete nazionale in tutta Italia la solenne cerimonia e la visione delle strutture interne del nostro Duomo. Per quanto poi si riferisce al restauro del dipinto fu la felice occasione della sorprendente scoperta e ricognizione. La sacra Icona risultata essere «un dipinto originale di pregevole artistica fattura del secolo magistralmente riportato al suo primitivo splendore bizantino» (7). Di ciò evidentemente con il trascorrere degli anni e per averla del tutto alterata, per il vezzo o mania, talora ricorrente, di abbellire opere d’arte, se n’era perduta la memoria. A tal punto riesce più agevole risalire all’origine del sacro dipìnto e del titolo, rimando indietro nel tempo e nel contesto storico onde poterne determinare l’epoca e la primitiva collocazione. Alcuni studiosi oggi sostengono con argomentazioni valide che si tratta di “antica icona bizantina su legno” posta al di fuori del nostro Duomo, probabilmente presso una delle porte della città, a custodia e difesa di essa. Citiamo perciò uno scritto di Elio Vivacqua (8), il quale fa anche riferimento ad un altro sullo stesso argomento del compianto prof. Serravalle: — «Che l’Immagine della Madonna del Pilerio, venerata nella Cattedrale di Cosenza, sia di molto anteriore alla dominazione spagnola tra noi, con la pace di Cateau Cambrèsis, è un fatto ammesso da tutti».

Dunque Madonna del Pilerio, che si vorrebbe far derivare da “Pilar” = pilastro o colonna, non sembra verosimile. Insieme al Serravalle, scrive testualmente il Vivacqua “noi crediamo invece che il titolo e la devozione alla Madonna del Pilerio siano molto più antichi e quindi preesistenti alla peste del 1576”.

Ecco da che cosa lo si deduce:

  1. Dobbiamo ricordare che Cosenza, fin dal sec. IV, faceva parte dell’Eparchia greca della Calabria, quale suffraganea di Reggio. Inoltre è impossibile che essa non abbia  sentito l’influsso della vicina Rossano, capitale bizantina nei sec. X e XI.
  2. Nella liturgia bizantina la devozione alla Madonna ha un ruolo preponderante, ecco perché in quel periodo si solevano porre immagini della Vergine nei punti strategici, come a difesa del ponte  levatoio oppure alle porte della città.
  3. Nel contesto della religiosità greca o bizantina il titolo “Pilerio” non può dunque avere che una etimologia greca. E’infatti in greco “pule” significa porta e “puleròs” guardiano, custode della porta. Porre la Madonna a custodia della porta voleva dire riporre in Lei la fiducia di essere scampati da qualsiasi pericolo e quindi mettere la città sotto la sua materna protezione.

A riprova c’è un esempio illuminante a Rossano, dove una vetusta chiesina, che trovasi davanti ad una delle antiche porte della città, è dedicata alla Madonna del Pilerio».

 Note

(1) Andreotti D., Storia  dei  Cosentini, vol.   Il,  cap.10 & 3. • Botta C., Storia d’Italia, anno 1763, Pagnoni, Milano.

(2) N. B. È un dipinto su tavola, originale del secolo XII-XIII, esposto in un sito remoto del nostro Duomo o piuttosto all’esterno di esso o addirittura in una nicchia, presso una delle porte della città.                  

(3)Andreotti D., op.cit., Vol. Il p.329. Litta, Famiglie celebri d’Italia, Milano,1819-1880.
P. Russo F, Storia dell’archidiocesi di Cosenza, Rinascita Artistica Editrice, Napoli,1958.

(4)Botta C., op.cit

(5) Andreotti D., op. cit.    

(6) Archivio Notarile Statale, Cosenza, – Atti Notaro G. Mangerio, 1602.

(7) Relazione sul restauro del Quadro a cura della Sovrintendenza ai Beni culturali della Calabria. 1976.

(8) Vivacqua E., Le origini del culto della Madonna del Pilerio, Periodico “L’Unione” 31-3-1981, Cosenza.


LETTURA DELL’ICONA

Tratto da un articolo di Antonio Marchianò

Messaggio dell'Arcivescovo per la Festa della Madonna del Pilerio –  Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano

L’icona misura 95 x 65 cm ed è stata eseguita in ambito mediterraneo occidentale; grazie alle sue caratteristiche iconografiche è definita “bizantina”. La tavola su cui è rappresentata la Vergine che allatta il Bambino ha subito nel tempo vari rimaneggiamenti, ma anche danneggiamenti, fino ad essere stata completamente ridipinta. Solo con i restauri voluti dall’arcivescovo Mons. Enea Selis nel 1976-77 ed eseguiti presso la Sovrintendenza per i Beni culturali è stata ripristinata la bellezza originale, che ha permesso una lettura approfondita della immagine dipinta sul legno. L’icona infatti fino ad allora era considerata di scarso valore artistico, e solo una mera riproduzione di una più antica icona medievale. Secondo la Di Dario Guida, l’icona sembra essere stata eseguita durante l’ultimo scorcio della dominazione Sveva. Risulta come uno dei prodotti artistici più rilevanti di un vasto movimento artistico e culturale che subì sia gli influssi del “bizantinismo aulico delle opere messinesi del XIII secolo, sia le affinità delle ricerche plastiche perseguite dai maestri toscani pre-cimabueschi ”L’icona si inserisce, inoltre, in una linea che unisce, dal punto di vista artistico, Monreale, Messina e la Campania.

Partendo dalla figura della Vergine rappresentata possiamo affermare, confortati da autorevoli studi, che l’immagine è la sintesi tra una Galaktotrophousa (Colei che dona il latte) e la Kikkotissa (Vergine dal rosso manto). I due particolari pittorici relativi all’allattamento del Divin Bambino e del Maforiuòn (manto rosso) emergono nella loro immediatezza appena ci si accosta all’icona.

L’icona è avvolta da una luce tutta particolare che emerge dallo sfondo oro che simboleggia la gloria di Dio che tutto abbraccia. La grazia trasfigura la creatura nella quale “abita l’Altissimo”. Tutte le icone, ma particolarmente quelle della Madre di Dio, sono accompagnate dall’oro che indica il progetto e l’iniziativa di Dio, la gloria scende e prende possesso della tenda. Anche il rosso del velo che scende dal capo e il porpora dell’abito di cui Maria è rivestita sono simboli della divinità che “avvolge” la giovane di Nazareth e ne coinvolge mente e cuore. Il colore porpora dell’abito richiama anche la dimensione sacerdotale e regale ma soprattutto la “potenza dell’Altissimo” di cui l’Angelo annunziante le parla quando le propone il grande progetto della salvezza e della maternità. Il velo rosso che scende sulla spalla vuole significare che la Vergine Maria è stata “avvolta” dall’alto e ricoperta dalla grazia. Il marrone della veste della Vergine è richiamo della sua umanità, mentre l’altra parte di manto di colore blu che avvolge la donna, ed avvolge anche gli abiti, indica il privilegiato rapporto con Dio di questa creatura. Base di ogni colore è il bianco che in tutta la tavola esprime la purezza, l’immacolato concepimento della Vergine. Esso si intravede sulla fronte, nella manica del braccio sinistro ed è l’abito che ella indossa sotto tutti gli altri. Le tre stelle, secondo l’iconografia classica bizantina, sono collocate una sulla fronte e due ai lati sulle spalle. Esse indicano che Maria è inabitata dalla Trinità ma anche la sua Verginità prima, durante e dopo il parto. I medaglioni dorati intorno al capo della Vergine sono undici. Rappresentano la Chiesa Apostolica senza l’apostolo Giuda che aveva tradito il Signore. Questo particolare stellario indica Maria presente nel Cenacolo di Gerusalemme, accanto agli Apostoli, proprio nei giorni e nelle ore della Pasqua fino alla Pentecoste. Le scritte in latino (MR e DOMINI) collocate rispettivamente a sinistra e a destra dell’immagine come prescritto dal Concilio di Nicea (787d.C) indicano la maternità divina di Maria. L’aureola sul capo del Divino Bambino contrassegnato dalla croce è un chiaro richiamo alla Passione di Cristo e al suo regnare glorioso. Il mistero dell’Incarnazione infatti è strettamente collegato con quello della Redenzione. Un ultimo segno che appare sulla tavola è la macchia scura sul volto della Vergine. È il segno della peste di cui Maria si è caricata per liberare miracolosamente la città di Cosenza afflitta dal terribile morbo e di cui storia e devozione popolare sono ancora testimoni. La Vergine Maria regge il Bambino tra le braccia e Gesù è seduto delicatamente sulla mano destra; essa diventa per lui quasi un trono da cui regna. Un drappo rosso posto tra le mani della Madonna richiama la sua signoria, la sua potestà regale e sacerdotale, la sua divinità. Non è escluso anche il richiamo alla Passione. Gesù che prende il latte dalla mammella diventa un particolare iconografico molto evidente: c’è una stretta tensione tra Cristo che è capo della Chiesa e il suo corpo mistico, di cui Maria ne è icona perfetta. Alcuni studiosi vedono proprio nella posizione del collo piegata verso il Bambino questa strettissima dipendenza e questo stretto rapporto tra Gesù e Maria, tra Cristo e la Chiesa. L’iconografia del seno si chiarisce ancora di più se la Vergine è colta nella dimensione di nutrice dei figli (Colei che nutre, imbandisce il banchetto, la mensa) fino a diventare, come la invoca la Chiesa ortodossa,
Trapeza, evidente richiamo alla mensa eucaristica. Il Bambino è rappresentato con due addomi, strettamente legati da una fascia rossa intrecciata, ad indicare che le due nature umana e divina che sono unite in Cristo. Nella piccola fascia rossa intrecciata alcuni hanno intravisto anche un prolungamento del cordone ombelicale che unisce il figlio (divino) alla Vergine (madre) per esprimere visivamente il titolo di Madre di Dio (Theotòkos) inciso sulla tavola. Copre il Bambino un trasparente velo bianco che ricorda la divina purezza di Cristo agnello senza macchia che toglie i peccati del mondo e riscatta con l’effusione del suo sangue l’intera umanità dalla schiavitù, dai peccati e dalla morte. La Vergine come in ogni antica icona indica con la mano sinistra il figlio, si fa Odigitria (indica la Via) per tutti coloro che guardano la sua immagine e che potrebbero cadere nella tentazione di fermare lo sguardo su di lei. Le dita delle mani indicano anche alcune verità di fede: le tre dita della mano destra richiamano il mistero trinitario e ancora il parto verginale di Maria toccata dal mistero dell’Incarnazione; le due dita della mano sinistra invece indicano la doppia natura umana e divina di Cristo.

Bibliografia
Di Dario Guida M. Pia, Itinerario dell’arte dai Bizantini agli Svevi,
in “Itinerari per la Calabria”, ed. l’Espresso, Roma, 1983, p.157.
Di Dario Guida M. P., Cultura artistica della Calabria medievale, di Mauro Edizioni, 1978.
Frangipane A., Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, II – Calabria, Roma 1933, p. 121.
Leone G., Icone della “Theotokos” in Calabria, Ed. Vivarium 1990
Leone G., Icone della “Teotokos” in Calabria, in “Concilio Niceno II e l’iconografia mariana in Calabria”, atti del convegno, Cz, 1987, a cura di Squillace M., Edizioni Vivarium,Catanzaro, 1990, pp.119 e ss.
Napolillo V., Storia e fede a Cosenza, la Madonna del Pilerio, Edizioni Santelli, Cosenza, 2002, p.13.
Tuoto G., La Madonna del Pilerio, Leggenda, Cosenza 2001, p. 32.
Vitari S., Il Duomo di Cosenza, in Bilotto L., Il Duomo di Cosenza, Effesette, Cosenza, 1989, p.101.




ANZIANO PORFIRIO: Una biografia

Tratta da: ANZIANO PORFIRIO Testimonianze ed esperienze

Originale: KLITOS IOANNIDIS, ELDER PORPHYRIOS. Testimonies and experiences, THE HOLY CONVENT OF THE TRANSFIGURATION  OF THE SAVIOR, MILESSI 2013

UNA BREVE BIOGRAFIA

San Porphyrios di Kavsokalyvia

La sua famiglia

L’anziano Porfirio è nato il 7 febbraio 1906, nel villaggio di San Giovanni Karystia, vicino ad Aliveri, nella provincia di Evia. I suoi genitori erano contadini poveri ma devoti. Il nome di suo padre era Leonidas Bairaktaris e quello di sua madre era Eleni, la figlia di Antonios Lambrou.

Al battesimo gli fu dato il nome di Evangelos. Era il quarto di cinque figli e il terzo dei quattro sopravvissuti. Sua sorella maggiore, Vassiliki, è morta quando aveva un anno. Oggi è ancora viva solo la sorella minore, che è una suora.

Suo padre aveva una vocazione monastica ma ovviamente non divenne monaco. Era, tuttavia, il cantore del villaggio e St. Nectarios chiese i suoi servizi durante i suoi viaggi attraverso la zona, ma la povertà lo costrinse a emigrare in America per lavorare alla costruzione del canale di Panama.

I suoi anni d’infanzia

L’Anziano ha frequentato la scuola nel suo villaggio solo per due anni. L’insegnante era malato la maggior parte del tempo e i bambini non imparavano molto. Vedendo come stavano le cose, Evangelos lasciò la scuola, lavorò nella fattoria di famiglia e si prese cura dei pochi animali che possedeva. Ha iniziato a lavorare dall’età di otto anni. Nonostante fosse ancora molto giovane, per guadagnare di più andò a lavorare in una miniera di carbone. In seguito ha lavorato in un negozio di alimentari a Halkhida e nel Pireo.

Suo padre gli aveva insegnato il Canone Supplicativo (Paraklisis) alla Madre di Dio (Panaghia); e qualunque altra cosa della nostra fede poteva. Da bambino si è sviluppato rapidamente. Lui stesso ci ha detto che aveva otto anni quando ha iniziato a radersi. Sembrava molto più vecchio di quanto non fosse in realtà. Fin dall’infanzia fu molto serio, operoso e diligente.

Chiamata monastica

Mentre si prendeva cura delle pecore, e anche quando lavorava nel negozio di alimentari, leggeva lentamente la storia della vita di San Giovanni, l’abitante della capanna. Voleva seguire l’esempio del santo. Così partì molte volte per il Monte Athos, ma per vari motivi non ce la fece e tornò a casa. Infine, quando aveva circa quattordici o quindici anni, partì di nuovo per il Monte Athos. Questa volta era determinato a farcela e questa volta ce l’ha fatta.

Il Signore, che veglia sui destini di tutti noi, fece sì che Evangelos incontrò il suo futuro padre spirituale, lo ieromonaco Panteleimon, mentre si trovava sulla barca tra Salonicco e la Montagna Sacra (Mont. Athos). Padre Panteleimon prese subito il ragazzo sotto la sua ala protettrice. Evangelos non era ancora adulto, quindi non avrebbe dovuto essere ammesso sulla Montagna Sacra. Padre Panteleimon ha detto che era suo nipote e il suo ingresso fu assicurato.

La vita monastica

Il suo maggiore, P. Panteleimon, lo portò a Kavsokalyvia alla Capanna di San Giorgio (una capanna o kalyvi è il termine usato sul Monte Athos per ciascuna delle piccole abitazioni monastiche). P. Panteleimon visse lì con il fratellastro P. Ioannichio. Anche il famoso monaco, il beato Hatzigeorgios, aveva vissuto lì.

In questo modo l’anziano Porfirio acquisì contemporaneamente due padri spirituali. Ha dato volentieri obbedienza assoluta a entrambi. Abbracciò la vita monastica con grande zelo. La sua unica lamentela era che i suoi anziani non gli chiedevano abbastanza. Ci ha parlato molto poco delle sue lotte ascetiche e abbiamo pochi dettagli. Da ciò che ha detto molto raramente ai suoi figli spirituali al riguardo, possiamo concludere che ha lottato felicemente e duramente. Camminava a piedi nudi tra i sentieri rocciosi e innevati del Monte Santo. Dormiva pochissimo, e poi con una sola coperta si trovava sul pavimento della capanna, anche tenendo la finestra aperta quando nevicava. Durante la notte faceva molte prostrazioni, spogliandosi fino alla cintola perché il sonno non lo sopraffacesse. Ha lavorato: intaglio del legno o abbattimento di alberi all’aperto.

Si è immerso anche nelle preghiere, nei servizi e negli inni della Chiesa, imparandoli a memoria mentre lavorava con le sue mani. Alla fine dalla ripetizione continua del Vangelo e dall’impararlo a memoria allo stesso modo, non poteva avere pensieri che non erano buoni o che erano oziosi. Si caratterizzava, in quegli anni, come “perennemente in movimento”.

Tuttavia, il segno distintivo della sua lotta ascetica non era lo sforzo fisico che fece, ma piuttosto la sua totale obbedienza al suo maggiore. Era completamente dipendente da lui. La sua volontà scomparve nella volontà del suo maggiore. Aveva totale amore, fede e devozione per il suo anziano. Si identificò completamente con lui, facendo propria la condotta del suo anziano nella vita. È qui che troviamo l’essenza di tutto. È qui, nella sua obbedienza che scopriamo il segreto, la chiave della sua vita.

Questo ragazzo ignorante della seconda elementare, usando le Sacre Scritture come suo dizionario, ha saputo educare se stesso. Leggendo del suo amato Cristo è riuscito in pochi anni ad apprendere quanto, se non di più, abbiamo mai fatto con tutte le nostre comodità. Avevamo scuole e università, insegnanti e libri, ma non avevamo l’entusiasmo focoso di questo giovane novizio.

Non sappiamo esattamente quando, ma certamente non molto tempo dopo aver raggiunto il Monte Santo, fu tonsurato come monaco e gli fu dato il nome di Nikitas.

La visitazione della grazia divina

Non dovremmo trovare strano che la grazia divina riposi su questo giovane monaco che è stato ripieno di fuoco per Cristo e ha dato tutto per il suo amore. Non ha mai considerato tutte le sue fatiche e lotte.

Era ancora l’alba e la chiesa principale di Kavsokalyvia era chiusa a chiave. Nikitas, invece, era fermo all’angolo dell’ingresso della chiesa in attesa che le campane suonassero e che le porte si aprissero.

Fu seguito dal vecchio monaco Dimas, ex ufficiale russo, ultranovantenne, asceta e nascostamente santo. P. Dimas si guardò intorno e si assicurò che non ci fosse nessuno. Non notò il giovane Nikitas che aspettava all’ingresso. Cominciò a prosternarsi completamente e a pregare davanti alle porte chiuse della chiesa.

La grazia divina si riversò sul santo P. Dimas e scese a cascata sul giovane monaco Nikitas che era allora pronto a riceverlo. I suoi sentimenti erano indescrivibili. Sulla via del ritorno alla capanna, dopo aver ricevuto quella mattina la Santa Comunione nella Divina Liturgia, i suoi sentimenti erano così intensi che si fermò, tese le mani e gridò forte “Gloria a Te, Ο Dio! Gloria a Te, Ο Dio! Gloria a Te, Ο Dio!”

Il cambiamento operato dallo Spirito Santo.

Dopo la visita dello Spirito Santo, si verificò un cambiamento fondamentale nella struttura psicosomatica del giovane monaco Nikitas. Era il cambiamento che viene direttamente dalla mano destra di Dio. Ha acquisito doni soprannaturali ed è stato investito di potere dall’alto.

Il primo segno di questi doni (charismata – si riferisce a doni specifici dello Spirito Santo verso l’uomo. In questo libro indicato semplicemente come “dono”. Da non confondere con il significato comune della parola inglese “charisma”) fu quando i suoi anziani tornavano da un viaggio lontano, poté “vederli” a grande distanza. Li “vide” là, dov’erano, anche se non potevano essere visti dagli occhi umani. Lo ha confessato a P. Panteleimon che gli consigliò di essere molto cauto riguardo al suo dono e di non dirlo a nessuno. Consiglio che seguì con molta attenzione finché non gli fu detto di fare diversamente.

Altri seguirono. La sua sensibilità per le cose intorno a lui divenne molto acuta e le sue capacità umane si svilupparono al massimo. Ascoltava e riconosceva voci di uccelli e animali nella misura in cui sapeva non solo da dove venivano, ma cosa stavano dicendo. Il suo senso dell’olfatto era sviluppato a tal punto da poter riconoscere le fragranze a grande distanza. Conosceva i diversi tipi di aroma e il loro trucco. Dopo umile preghiera poté “vedere” le profondità della terra e gli angoli più remoti dello spazio. Poteva vedere attraverso l’acqua e attraverso le formazioni rocciose. Poteva vedere giacimenti di petrolio, radioattività, monumenti antichi e sepolti, tombe nascoste, fessure nelle profondità della terra, sorgenti sotterranee, icone perdute, scene di eventi accaduti secoli prima, preghiere che erano state innalzate in passato, spiriti buoni e cattivi, l’anima umana stessa, quasi tutto. Assaggiò la qualità dell’acqua nelle profondità della terra. Avrebbe interrogato le rocce e loro gli avrebbero parlato delle lotte spirituali degli asceti che lo hanno preceduto. Guardava le persone ed era in grado di guarire. Ha toccato persone beneficandole. Pregò e la sua preghiera divenne realtà. Tuttavia, non ha mai cercato consapevolmente di usare questi doni di Dio per trarne beneficio. Non ha mai chiesto che i suoi stessi disturbi venissero guariti. Non ha mai cercato di ottenere un guadagno personale dalla conoscenza estesa a lui dalla grazia divina. 

Ogni volta che usava il suo dono del discernimento, (diakrisis) gli venivano rivelati i pensieri nascosti della mente umana. Egli è stato in grado, per grazia di Dio, di vedere il passato, il presente e il futuro tutti allo stesso tempo. Ha confermato che Dio è onnisciente e onnipotente. È stato in grado di osservare e toccare tutta la creazione, dai confini dell’Universo alla profondità dell’anima umana e della storia. La frase di san Paolo “Un solo e medesimo Spirito opera tutte queste cose, distribuendo a ciascuno individualmente come vuole” ( 1 Cor 12,11) certamente valeva per l’anziano Porfirio. Naturalmente era un essere umano e ricevette la grazia divina, che viene da Dio. Questo Dio che per ragioni sue a volte non rivelava tutto. La vita vissuta nella grazia è per noi un mistero sconosciuto. Qualsiasi altro discorso sull’argomento sarebbe una rude invasione di questioni che non capiamo. L’anziano lo faceva sempre notare a tutti coloro che attribuivano le sue capacità a qualcosa di diverso dalla grazia. Ha sottolineato questo fatto, ancora e ancora, dicendo: “Non è qualcosa che si impara. Non è un’abilità. È GRAZIA”.

Ritorno nel mondo

Anche dopo essere stato toccato dalla grazia divina, questo giovane discepolo del Signore ha continuato le sue lotte ascetiche come prima, con umiltà, zelo divino e amore per l’apprendimento senza precedenti. Il Signore ora voleva fare di lui un maestro e un pastore delle sue pecore razionali. Lo ha provato, misurato e trovato adeguato.

Il monaco Nikitas non ha mai pensato di lasciare la Montagna Sacra e di tornare nel mondo. Il suo divino amore divorante per il nostro Salvatore lo spingeva a desiderare e sognare di ritrovarsi nel deserto aperto e, salvo il suo dolce Gesù, completamente solo.

Tuttavia, una grave pleurite, trovandolo esausto dalle sue lotte ascetiche sovrumane, lo afferrò mentre stava raccogliendo lumache sulle scogliere rocciose. Questo costrinse i suoi anziani a ordinargli di stabilirsi in un monastero nel mondo, in modo che potesse guarire di nuovo. Obbedì e tornò nel mondo, ma, appena guarito, tornò al luogo del suo pentimento. Si ammalò di nuovo; questa volta i suoi anziani, con molta tristezza, lo rimandarono nel mondo per sempre.

Così, a diciannove anni, lo troviamo a vivere come monaco nel monastero Lefkon di St. Charalambos, vicino alla sua città natale. Tuttavia continuò con il regime che aveva appreso sul Monte Santo, con i suoi salmi e simili uffici. Tuttavia, è stato costretto a ridurre il digiuno fino a quando la sua salute non è migliorata.

Atanasio di Limassol: San Porfirio di Kafsokalyvia – Monastero Ortodosso di  Arona

Ordinazione al sacerdozio

Fu in questo monastero che incontrò l’arcivescovo del Sinai, Porfirio III, ospite in visita lì. Dalla sua conversazione con Nikitas, ha notato la virtù e i doni divini che possedeva. Ne fu così colpito che il 26 luglio 1927, festa di San Paraskevi, lo ordinò diacono. Il giorno successivo, festa di San Panteleimon, lo promosse al sacerdozio, come membro del monastero del Sinai. Gli fu dato il nome Porfirio. L’ordinazione è avvenuta nella Cappella della Santa Metropoli di Karystia, nella diocesi di Kymi. Al servizio ha preso parte anche il metropolita di Karystia, Panteleimon Phostinis. L’anziano Porphyrios aveva solo ventuno anni.

Il Padre Spirituale

Dopo questo il metropolita residente di Karystia, Panteleimon, lo nominò con una lettera ufficiale ad essere padre confessore. Ha realizzato questo nuovo “talento” che gli è stato donato con umanità e fatica. Ha studiato il “Manuale del confessore”. Tuttavia, quando cercò di seguire alla lettera ciò che diceva sulla penitenza, ne fu turbato. Capì che doveva occuparsi individualmente di ciascuno dei fedeli. Trovò la risposta negli scritti di san Basilio, il quale consigliò: “Noi scriviamo tutte queste cose perché possiate assaporare i frutti del pentimento. Non consideriamo il tempo necessario, ma prendiamo atto delle modalità del pentimento”. (Ep. 217 n. 84) Ha preso a cuore questo consiglio e lo ha messo in pratica. Anche nella sua vecchiaia ha ricordato questo consiglio ai giovani padri confessori.

Così maturato il giovane ieromonaco Porfirio, per grazia di Dio, si dedicò con successo all’opera di padre spirituale in Evia fino al 1940. Riceveva un gran numero di fedeli per la confessione, ogni giorno. In molte occasioni ascoltava la confessione per ore senza interruzione. La sua reputazione di padre spirituale, conoscitore di anime e guida sicura, si diffuse rapidamente in tutta l’area vicina. Ciò significava che molte persone si sono accalcate al suo confessionale presso il Santo Monastero di Lefkon, vicino ad Avlonarion, nell’Evia.

A volte interi giorni e notti trascorrevano senza tregua e senza riposo, mentre compiva questa opera divina, questo sacramento. Aiutando coloro che si avvicinano a lui con il suo dono del discernimento, guidandoli alla conoscenza di sé, alla vera confessione e alla vita in Cristo. Con questo stesso dono ha scoperto le insidie ​​del diavolo, salvando le anime dalle sue trappole e congegni malvagi.

Archimandrita

Nel 1938 fu insignito della carica di Archimandrita dal Metropolita di Karystia, «in onore del servizio che finora hai reso alla Chiesa come Padre spirituale, e per le virtuose speranze che la nostra Santa Chiesa nutre per te» ( protocollo n . . 92/10-2-1938) come scritto dal Metropolita. Le loro speranze, per grazia di Dio, si sono realizzate.

Sacerdote, per un breve periodo alla parrocchia di Tsakayi, Evia e al Monastero di San Nicola di Ano Vathia

Fu assegnato dal metropolita residente come sacerdote al villaggio di Tsakayi, nell’Evia. Alcuni degli abitanti del villaggio più anziani, fino ad oggi, conservano bei ricordi della sua presenza lì. Aveva lasciato il Santo Monastero di S. Charalambos perché era stato trasformato in convento. Così, intorno al 1938 lo troviamo a vivere nel Santo Monastero in rovina e abbandonato di San Nicola, Ano Vathia, Evia, nella giurisdizione del metropolita di Halkhida.

Nel deserto della città

Quando il tumulto della seconda guerra mondiale si avvicinò alla Grecia, il Signore arruolò il suo obbediente servitore, Porfirio, assegnandolo a un nuovo incarico, più vicino al suo popolo assediato. Il 12 ottobre 1940 ricevette l’incarico di sacerdote provvisorio presso la Cappella di San Gerasimos nel Policlinico di Atene, che si trova all’angolo tra via Socrate e via Pireo, vicino a piazza Omonia. Egli stesso ha chiesto la posizione per l’amore compassionevole che aveva per i suoi simili che stavano soffrendo. Voleva essere loro nei momenti più difficili della loro vita, quando la malattia, il dolore e l’ombra della morte mostravano la disperazione di ogni altra speranza tranne quella in Cristo.

C’erano altri candidati con ottime credenziali che erano anche interessati alla carica, ma il Signore ha illuminato il direttore del Policlinico. Umile e affascinante, fu scelto Porfirio, che era ignorante secondo gli standard del mondo ma saggio secondo Dio. La persona che ha fatto questa scelta ha poi espresso stupore e gioia nel trovare un vero sacerdote dicendo: “Ho trovato un padre perfetto, proprio come vuole Cristo”.

Ha servito il Policlinico come suo cappellano dipendente, per trent’anni interi e poi per essere al servizio dei suoi figli spirituali che lo hanno cercato, volontariamente, per altri tre anni.

Qui anche il ruolo di cappellano, che svolse con pieno amore e devozione, celebrando i servizi con meravigliosa devozione; confessando, ammonendo, guarendo anime e molte volte anche malattie corporali, agiva anche come padre spirituale per tanti di coloro che venivano da lui.

“Sì, voi stessi sapete che queste mani sono state provvedute per le mie necessità e per coloro che erano con me”. (Atti 20:34)

L’anziano Porphyrios, con la sua mancanza di qualifiche accademiche, accettò di essere cappellano del Policlinico per uno stipendio quasi nullo. Non bastava per mantenere se stesso, i suoi genitori e i pochi altri parenti stretti che facevano affidamento su di lui. Doveva lavorare per vivere. Organizzò in successione un allevamento di pollame e poi una tessitura. Nel suo zelo per i servizi da celebrare nel modo più edificante, si applicò alla composizione di sostanze aromatiche che potevano poi essere utilizzate nella preparazione degli incensi usati nel culto divino. Infatti negli anni ’70 fece una scoperta originale. Unì il carbone con essenze aromatiche incensando la chiesa con il suo carbone a combustione lenta che emanava un dolce profumo di spiritualità. Sembra che non abbia mai rivelato i dettagli di questa scoperta.

Dal 1955 ha affittato il piccolo monastero di San Nicola, Kallisia, che appartiene al Santo Monastero di Pendeli. Coltivò sistematicamente la terra circostante. facendo un sacco di duro lavoro. Fu qui che volle fondare il convento, che poi costruì altrove. Migliorò i pozzi, costruì un sistema di irrigazione, piantò alberi e dissodò il terreno con uno scavatore che utilizzava lui stesso. Tutto questo insieme al dovere, ventiquattr’ore su ventiquattro, come cappellano e confessore.

Apprezzò molto il lavoro e non si concedeva riposo. Apprese dall’esperienza le parole di abba Isacco il Siro: «Dio e i suoi angeli trovano gioia nella necessità; il diavolo e i suoi operai trovano gioia nell’ozio”.

Fr. Seraphim Rose - "Death does not exist. Don't fear death." -St.  Porphyrios (Photo from "The Divine Flame Elder Porphyrios Lit in My Heart,"  by Monk Agapios, published by The Holy Convent

Partenza dal Policlinico

Il 16 marzo 1970, dopo aver compiuto trentacinque anni di servizio sacerdotale, ricevette una piccola pensione dalla Cassa ellenica di assicurazione del personale e lasciò l’incarico presso il Policlinico. In sostanza, però, rimase fino all’arrivo del suo sostituto. Anche dopo ha continuato a visitare il Policlinico per incontrare il suo gran numero di figli spirituali. Infine, intorno al 1973, ridusse al minimo le sue visite al Policlinico e invece ricevette i suoi figli spirituali a San Nicola a Kallisia, Pendeli, dove celebrò la liturgia e confessò.

La mia forza è resa perfetta dalla debolezza

L’anziano Porfirio, oltre alla malattia che lo costrinse a lasciare il Monte Athos, e che mantenne particolarmente sensibile il suo fianco sinistro, soffrì di molti altri disturbi, in tempi diversi.

Verso la fine del suo servizio al Policlinico si ammalò di problemi ai reni. Tuttavia, è stato operato solo quando la sua malattia era in fase avanzata. Questo perché ha lavorato instancabilmente nonostante la sua malattia. Si era abituato a essere obbediente “fino alla morte”. Fu obbediente anche al direttore del Policlinico, che gli disse di rimandare l’operazione, per poter celebrare le funzioni per la Settimana Santa. Questo ritardo lo ha portato a scivolare in coma. I medici hanno detto ai suoi parenti di prepararsi per il suo funerale. Tuttavia, per volontà divina, e nonostante tutte le aspettative mediche, l’anziano è tornato alla vita terrena per continuare il suo servizio ai membri della Chiesa.

Qualche tempo prima, si era fratturato una gamba. Collegato a questo incidente è un esempio miracoloso della preoccupazione di San Gerasimos (di cui ha servito la cappella del Policlinico).

Oltre a questo la sua ernia, di cui soffrì fino alla morte, peggiorò, a causa dei pesanti carichi che era solito portare a casa sua, a Turkounia, dove visse per molti anni.

Il 20 agosto 1978, mentre si trovava a San Nicola, Kallisia, ebbe un infarto (infarto del miocardio). Fu portato d’urgenza all’ospedale “Hygeia”, dove rimase per venti giorni. Quando lasciò l’infermeria, continuò la sua convalescenza ad Atene, nelle case di alcuni suoi figli spirituali. Questo per tre ragioni. In primo luogo, non poteva andare a San Nicola, Kallisia, perché non c’era strada, e avrebbe dovuto fare una lunga strada a piedi. Inoltre, la sua casa a Turkounia non aveva nemmeno i comfort più elementari. Infine, doveva essere vicino ai medici.

In seguito, quando si era stabilito in un ricovero provvisorio a Milessi, sede del convento da lui fondato, si è operato all’occhio sinistro. Il dottore ha commesso un errore, distruggendo la vista in quell’occhio. Dopo alcuni anni il Vecchio divenne completamente cieco. Durante l’operazione, senza il permesso dell’anziano Porfirio, il medico gli ha somministrato una forte dose di cortisone. L’anziano era particolarmente sensibile ai farmaci, e soprattutto al cortisone. Il risultato di questa iniezione fu un’emorragia allo stomaco continua che durò per tre mesi circa. A causa del suo stomaco costantemente sanguinante non poteva mangiare cibo normale. Si sosteneva con qualche cucchiaio di latte e acqua ogni giorno. Ciò lo ha portato a diventare così esausto fisicamente che ha raggiunto il punto in cui non poteva nemmeno stare seduto dritto. Ricevette dodici trasfusioni di sangue, tutti nel suo alloggio a Milessi. Alla fine, sebbene fosse di nuovo alla porta della Morte, per grazia di Dio sopravvisse.

Da quel momento in poi, la sua salute fisica fu terribilmente compromessa. Tuttavia, ha continuato il suo ministero di padre spirituale per quanto poteva, confessando continuamente per periodi più brevi e spesso soffrendo di vari altri problemi di salute e nel dolore più spaventoso. In effetti, ha perso lentamente la vista fino a quando nel 1987 è diventato completamente cieco.

Diminuì costantemente le parole di consiglio che dava alle persone e aumentò le preghiere che diceva a Dio per loro. Pregò silenziosamente con grande amore e umiltà per tutti coloro che cercavano la sua preghiera e il suo aiuto da Dio. Con gioia spirituale vide agire su di loro la grazia divina. Così, l’anziano Porfirio divenne un chiaro esempio delle parole dell’apostolo Paolo: “La mia forza è resa perfetta nella debolezza”.

Costruisce un nuovo convento

Era un desiderio radicato nell’anziano di fondare un suo santo convento, di costruire una fondazione monastica in cui potessero vivere alcune donne devote, che erano sue figlie spirituali. Aveva giurato a Dio che non avrebbe abbandonato queste donne quando avrebbe lasciato il mondo perché erano state sue fedeli aiutanti per molti anni. Col passare del tempo sarebbe stato possibile per altre donne che volevano dedicarsi al Signore stabilirsi lì.

Il suo primo pensiero fu di costruire il Convento nel luogo di Kallisia, Pendeli, che aveva affittato nel 1955 dal Santo Monastero di Pendeli. Cercò più volte di convincere i proprietari a donargli o a vendergli la terra richiesta. Non è servito a nulla. Ora sembrava che il Signore, saggio regolatore e dispensatore di tutto, destinasse un altro posto a questa particolare impresa. Quindi l’anziano rivolse gli occhi a un’altra area nella sua ricerca di immobili.

Nel frattempo, però, con la collaborazione dei suoi figli spirituali, redasse lo statuto legale per la fondazione del Convento e lo sottopose alle autorità ecclesiastiche competenti. Poiché non aveva ancora scelto il luogo specifico dove sarebbe stato costruito il suo convento, identificò Turkounia ad Atene come il luogo in cui sarebbe stato fondato. Qui aveva un’umile casetta in pietra, che, senza nemmeno le comodità di base, era stata la sua povera dimora dal 1948.

L’anziano Porfirio non ha fatto nulla senza la benedizione della Chiesa. Così, in questo caso, ha chiesto e ricevuto l’approvazione canonica sia di Sua Eminenza l’Arcivescovo di Atene che del Santo Sinodo. Sebbene le relative procedure fossero iniziate nel 1978, solo nel 1981, dopo aver superato molta burocrazia procedurale e altre difficoltà, ebbe il privilegio di vedere il “Santo Convento della Trasfigurazione del Salvatore” riconosciuto con decreto presidenziale e pubblicato in la gazzetta governativa.

La ricerca di un luogo adatto per fondare il Convento era stata avviata dall’Anziano molto prima del suo infarto, quando era più che certo che non sarebbe stato a Kallisia. Con estrema cura e grande zelo, cercò instancabilmente un sito che avesse i maggiori vantaggi. Quando le sue forze si furono moderatamente recuperate dopo l’infarto e quando sentì di poterlo fare, continuò l’intensa ricerca del posto che desiderava. Non ha risparmiato sforzi. Percorse tutta l’Attica, l’Evia e la Beozia nelle auto di vari suoi figli spirituali. Ha esaminato la possibilità di costruire il suo convento a Creta o in qualche altra isola. Ha lavorato incredibilmente duro. Ha chiesto informazioni su centinaia di proprietà e ne ha visitate la maggior parte. Ha consultato molte persone. Ha viaggiato per migliaia di chilometri. Ha fatto innumerevoli calcoli. Ha soppesato tutti i fattori; e, infine, scelse e acquistò alcune proprietà sul sito di Hagia Sotira, Milessi di Malakasa, Attica, vicino a Oropos.

All’inizio del 1979 si stabilisce in questa proprietà a Milessi, che era stata acquistata per la costruzione di un convento. Per più di un anno, all’inizio, ha vissuto in una casa mobile in condizioni molto difficili, soprattutto in inverno. Successivamente si stabilì in una casa piccola e squallida, nella quale subì tutte le fatiche di tre mesi di continue emorragie allo stomaco e dove ricevette anche numerose trasfusioni di sangue. Il sangue è stato donato con molto amore dai suoi figli spirituali.

Nel 1980 sono iniziati anche i lavori di costruzione, che l’anziano ha seguito da vicino, e ha pagato i lavori con i risparmi che lui, i suoi amici e i suoi parenti avevano realizzato negli anni con questo obiettivo in mente. Fu anche aiutato da vari figli spirituali.

La costruzione della Chiesa della Trasfigurazione

Il suo grande amore per il prossimo era centrato nel guidarlo alla gioia della trasfigurazione secondo Cristo. Insieme a san Paolo apostolo, ha implorato noi, suoi fratelli e sorelle, per la compassione di Dio: «Non conformatevi a questo mondo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, affinché possiate provare ciò che è buono e accettevole e perfetta volontà di Dio”. ( Rom. 12:2 ). Ha voluto guidarci allo stato in cui visse, secondo il quale: «Noi tutti con il volto scoperto, contemplando come in uno specchio la gloria del Signore, ci trasformiamo di gloria in gloria nella stessa immagine, così come da lo Spirito del Signore”. ( 2 Cor.3:18 )

Per questo chiamò anche il suo Convento la “Trasfigurazione” e volle che la chiesa fosse dedicata alla Trasfigurazione. Infine, attraverso le sue preghiere, influenzò i suoi compagni di lavoro in questa impresa e riuscì nel suo scopo. Dopo molte consultazioni e un duro lavoro da parte dell’Anziano, si è arrivati ​​a un design semplice, gradevole e perfetto.

Nel frattempo, per intervento canonico di Sua Eminenza, l’Arcivescovo di Atene, (poiché il Convento rientra nell’Arcidiocesi ateniese) il Metropolita locale, diede il permesso di costruire la chiesa sotto la sua giurisdizione presso l’annesso del Convento, a Milessi.

La posa delle fondamenta è avvenuta a mezzanotte tra il 25 e il 26 febbraio 1990 durante una veglia notturna in onore di San Porfirio, Vescovo di Gaza, Taumaturgo. L’anziano Porfirio, malato e incapace di salire gli undici metri fino al luogo dove doveva essere posta la prima pietra, con grande commozione offrì la sua croce per la pietra angolare. Dal suo letto pregava con queste parole: «O Croce di Cristo, rendi salda questa casa. Ο Croce di Cristo, salvaci con la tua forza. Ricordati, Ο Signore, del tuo umile servitore Porfirio e dei suoi compagni…” Dopo aver pregato per tutti coloro che hanno lavorato con lui, ordinò che i loro nomi fossero posti in una posizione speciale nella chiesa, per la loro eterna commemorazione.

Immediato il lavoro di costruzione della Chiesa (in cemento armato). Accompagnato dalle preghiere del Vecchio, procedette senza interruzioni. Poteva vedere con i suoi occhi spirituali – poiché molti anni prima aveva perso la vista naturale – la chiesa che raggiungeva le fasi finali della sua costruzione. Vale a dire, alla base della cupola centrale. In realtà ha raggiunto questo punto il giorno della partenza finale dell’anziano.

Si prepara al ritorno sul Sacro Monte

L’anziano Porfirio non aveva mai lasciato emotivamente il Monte Athos. Non c’era nessun altro argomento che lo interessasse più della Montagna Sacra, e soprattutto Kavsokalyvia. Quando nel 1984 seppe che l’ultimo abitante della capanna di San Giorgio era partito definitivamente e si era stabilito in un altro monastero, si affrettò alla Santa Grande Lavra di Sant’Atanasio, a cui apparteneva e chiese che gli fosse data. Fu a St. George’s che aveva preso per la prima volta i voti monastici. Aveva sempre voluto tornare, mantenere il voto fatto alla tonsura circa sessant’anni prima, rimanere nel suo monastero fino al suo ultimo respiro. Adesso si stava preparando per il suo ultimo viaggio.

La capanna gli fu data secondo le usanze del Monte Athos, con il pegno sigillato del monastero, datato 21 settembre 1984. L’anziano Porfirio vi stabilì diversi suoi discepoli in successione. Nell’estate del 1991 erano cinque. Questo è il numero che aveva menzionato a un suo figlio spirituale circa tre anni prima come il totale che indicava l’anno della sua morte.

Torna al suo pentimento

Durante gli ultimi due anni della sua vita terrena parlava spesso della sua preparazione per la sua difesa davanti al terribile tribunale di Dio. Diede ordini severi che se fosse morto qui, il suo corpo sarebbe stato trasportato senza clamore e sepolto a Kavsokalyvia. Alla fine decise di andarci mentre era ancora vivo. Ha parlato di una certa storia nei Detti dei Padri:

Un anziano, che aveva preparato la sua tomba quando sentiva che la sua fine era vicina, disse al suo discepolo: «Figlio mio, le rocce sono scivolose e scoscese e metterai in pericolo la tua vita se tu solo mi porterai alla mia tomba. Vieni, andiamo ora che sono vivo”. E sicuramente il suo discepolo lo prese per mano e l’anziano si sdraiò nella tomba e diede in pace la sua anima.

Alla vigilia della festa della Santissima Trinità, 1991, recatosi ad Atene per confessarsi al suo anziano e malaticcio padre spirituale, ricevette l’assoluzione e partì per la sua capanna sul monte Athos. Si stabilì e aspettò la fine, pronto a dare una buona difesa davanti a Dio.

Poi, quando gli ebbero scavato una fossa profonda, secondo le sue istruzioni, dettò una lettera d’addio di consiglio e di perdono a tutti i suoi figli spirituali, attraverso un suo figlio spirituale. Questa lettera, datata 4 giugno (vecchio calendario) e 17 giugno (nuovo calendario), è stata trovata tra gli abiti monastici che erano stati disposti per il suo funerale il giorno della sua morte. 

“Attraverso la mia venuta di nuovo da te”

L’anziano Porfirio lasciò l’Attica per il Monte Athos con l’intenzione nascosta di non tornare mai più qui. Aveva parlato a un numero sufficiente di suoi figli spirituali in modo tale che sapevano che lo stavano vedendo per l’ultima volta. Ad altri ha appena accennato. Fu solo dopo la sua morte che si resero conto di cosa intendeva. Naturalmente, a coloro che non avrebbero sopportato la notizia della sua partenza, disse loro che sarebbe tornato. Ha detto tante cose della sua morte, in modo chiaro o criptico, tanto che solo la certezza di chi gli sta intorno che sarebbe sopravvissuto come tutte le altre volte (una speranza nata dal desiderio), può forse spiegare il non subitaneo annuncio della sua morte.

Forse lui stesso esitò, come l’apostolo Paolo, che scrisse ai Filippesi: «Perché sono stretto tra i due, avendo il desiderio di separarmi e di stare con Cristo, il che è molto meglio. Tuttavia, per te è più necessario rimanere nella carne». ( Fil 1:23-24 ) Forse…

I suoi figli spirituali ad Atene lo invocavano costantemente e per due volte fu costretto a tornare al Convento contro la sua volontà. Qui ha dato consolazione a tutti coloro che ne avevano bisogno. Ogni volta si fermava solo per pochi giorni, «affinché la nostra gioia per lui fosse più abbondante in Gesù Cristo, venendo a noi». (Parafrasando le parole dell’Apostolo, Fil. 1:26 ) Sarebbe poi tornato di corsa al Monte Athos il più presto possibile. Desiderava ardentemente morire lì ed essere sepolto tranquillamente in mezzo alla preghiera e al pentimento.

Verso la fine della sua vita fisica si sentì a disagio per la possibilità che l’amore dei suoi figli spirituali influisse sul suo desiderio di morire da solo. Era abituato a essere obbediente e a sottomettersi agli altri. Perciò lo disse a uno dei suoi monaci. “Se ti dico di riportarmi ad Atene, impediscimelo, sarà una tentazione.” In effetti, molti suoi amici avevano fatto diversi piani per riportarlo ad Atene, poiché l’inverno si avvicinava e la sua salute stava peggiorando.

Dorme nel Signore

Dio, che è tutto buono e che soddisfa i desideri di coloro che lo temevano, ha esaudito il desiderio dell’anziano Porfirio. Lo rese degno di avere una fine benedetta nell’estrema umiltà e nell’oscurità. Era circondato solo dai suoi discepoli sul monte Athos che pregavano con lui. L’ultima notte della sua vita terrena si confessò e pregò noeticamente (cioè la preghiera di Gesù). I suoi discepoli leggono il Cinquantesimo e altri salmi e il servizio per i moribondi. Dissero la breve preghiera: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”, finché non ebbero completato la regola di un monaco megaloschema.

Con grande amore i suoi discepoli gli offrirono ciò di cui aveva bisogno, un po’ di conforto corporeo e molto spirituale. Per molto tempo poterono sentire le sue sante labbra sussurrare le ultime parole che uscivano dalla sua venerabile bocca. Queste erano le stesse parole che Cristo pregò alla vigilia della sua crocifissione “affinché possiamo essere uno”.

Dopo questo lo sentirono ripetere solo una parola. La parola che si trova alla fine del Nuovo Testamento, a conclusione della Divina Apocalisse (Apocalisse) di San Giovanni. “Vieni” (“Sì, vieni, Signore Gesù”).

Il Signore, il suo dolce Gesù è venuto. L’anima santa dell’anziano Porfirio lasciò il suo corpo alle 4:31 della mattina del 2 dicembre 1991 e si diresse verso il cielo.

Il suo venerabile corpo, vestito alla maniera monastica, fu deposto nella chiesa principale di Kavsokalyvia. Secondo l’usanza, i padri lì leggevano il Vangelo tutto il giorno e durante la notte vegliavano tutta la notte. Tutto è stato fatto in accordo con le dettagliate istruzioni verbali dell’anziano Porfirio. Erano stati scritti per evitare qualsiasi errore.

All’alba, il 3 dicembre 1991, la terra ricopriva le venerabili spoglie del santo Anziano alla presenza dei pochi monaci del santo skete di Kavsokalyvia. Fu solo allora, secondo i suoi desideri, che il suo riposo fu annunciato.

Era quell’ora del giorno in cui il cielo si colorava di rosa, riflettendo la luminosità del nuovo giorno che si avvicina. Un simbolo per molte anime del passaggio dell’Anziano dalla morte alla luce e alla vita.

Un breve schizzo

La caratteristica principale dell’anziano Porfirio per tutta la sua vita è stata la sua completa umiltà. Questo era accompagnata dalla sua assoluta obbedienza, dal suo caldo amore e dalla sua pazienza senza mormorare con un dolore insopportabile. Era noto per la sua saggia discrezione, il suo inconcepibile discernimento; il suo amore sconfinato per l’apprendimento, la sua straordinaria conoscenza (un dono di Dio e non formatasi alla scuola inesistente del mondo); il suo inesauribile amore per il duro lavoro, e la sua continua, umile, (e per questo riuscita) preghiera. Oltre a questo, le sue pure convinzioni ortodosse, senza alcun tipo di fanatismo; il suo vivo interesse, ma per la maggior parte invisibile e sconosciuto, per gli affari della nostra Santa Chiesa; i suoi consigli efficaci; le molteplici sfaccettature del suo insegnamento; il suo spirito longanime; la sua profonda devozione; il modo dignitoso di celebrare i sacri servizi,

Mount Athos Icon of Saint Porphyrios the Kafsokalyvite



BASILIO MAGNO: Rassomigliare a Dio, per quanto sia possibile alla natura dell’uomo!

“Ascoltare non alla leggera la lingua della teologia, ma sforzarsi in ogni parola e in ogni sillaba di scoprire il significato nascosto, non è di persone restie alla pietà, ma di persone che percepiscono lo scopo della nostra vocazione: a noi è proposto di rassomigliare a Dio, per quanto sia possibile alla natura dell’uomo”.

da LO SPIRITO SANTO,

di BASILIO, NOSTRO PADRE ARCIVESCOVO PER I SANTI DI CESAREA DI CAPPADOCIA AD ANFILOCHIO VESCOVO PER I SANTI DI ICONIO




ORIGENE: La pietra della Chiesa

ORIGENE, Commento al Vangelo di Matteo

LA RIVELAZIONE A PIETRO-CHIESA.

Ma forse potremmo anche noi dire la stessa cosa che Simon Pietro affermò in risposta: Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo, se come Pietro lo diciamo non per avercelo rivelato la carne e il sangue, ma per essere brillata nel nostro cuore una luce dal Padre che è nei cieli; a questo punto diventiamo anche noi ciò che era Pietro, e saremo dichiarati beati come lui, perché anche per noi si è realizzato quello che era motivo di beatitudine per lui: non la carne e il sangue ci hanno rivelato che Gesù Cristo è il Figlio del Dio vivente, bensì il Padre che è negli stessi cieli, in cui siamo noi, perché è lì che abbiamo la nostra patria, ci ha fatto una rivelazione, che innalza ai cieli coloro che hanno tolto dal cuore ogni velo, e hanno ricevuto lo spirito della sapienza di Dio e della sua rivelazione 9. Ora se avremo detto anche noi come Pietro: Tu sei il Cristo, Figlio di Dio vivo (non perché ce lo abbia rivelato la carne e il sangue, ma perché è brillata nel nostro cuore una luce dal Padre che è nei cieli) diventeremo Pietro, e il Logos potrebbe dire anche a noi: Tu sei Pietro, ecc. Pietra, infatti, è ogni imitatore di Cristo. Da Cristo attingevano coloro che si dissetavano a una pietra spirituale che li accompagnava. E su ogni pietra di tal genere viene edificato tutto l’insegnamento della Chiesa e il modo di vivere conforme ad esso. Infatti in ognuno dei perfetti che hanno l’insieme degli insegnamenti, delle opere e dei pensieri che compiutamente realizzano la beatitudine, è la Chiesa edificata da Dio.

Ma se ritieni che solamente su quel Pietro Dio edifichi tutta quanta la Chiesa, cosa dirai allora di Giovanni, il figlio del tuono o di ciascuno degli apostoli? Ma veramente oseremo asserire che le porte degli inferi non prevarranno su quel Pietro in particolare, mentre prevarranno sugli altri apostoli e sui perfetti? Non è che la suddetta promessa: le porte degli inferi non prevarranno su di essa e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, viene fatta in rapporto atutti e ad ognuno di loro? Dunque le chiavi del regno dei cieli sono consegnate da Cristo al solo Pietro, e nessun altro dei beati le riceverà? Ma se la promessa: a te darò le chiavi del regno dei cieli è comune ad altri, come non lo saranno tutte le parole precedenti e conseguenti rivolte a Pietro…? In realtà, qui sembrano rivolte a Pietro le parole: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli, ecc.; ma nel Vangelo di Giovanni, il Salvatore è ai discepoli che dà lo Spirito Santo, col suo alitare, e dice: Ricevete lo Spirito Santo, ecc. Orbene, molti diranno al Salvatore: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente, ma non tutti quelli che lo asseriscono glielo diranno per averlo appreso da una rivelazione della carne e del sangue, ma per averlo stesso Padre che è nei cieli rimosso il velo posto sopra il loro cuore, affinché dopo ciò, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, parlino nello Spirito di Dio, dicendo di lui: Gesù è il Signore e dicendo a lui: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E se uno dice a lui questo, non perché glielo abbiano rivelato la carne e il sangue, ma il Padre che è nei cieli, riceverà dette promesse, come dice certo la lettera del Vangelo a quel Pietro, ma come insegna anche lo spirito del Vangelo a chiunque sia divenuto come quel Pietro. Infatti, lo stesso nome di «pietra» hanno tutti gli imitatori di Cristo, pietra spirituale che seguiva coloro che erano salvati, affinché ne attingessero la bevanda spirituale. Costoro dunque, come il Cristo, prendono lo stesso nome dalla pietra, ma essendo anche membra di Cristo si chiamarono «Cristi» derivando da lui questo nome, e si chiamarono «Pietri» dalla pietra. Prendendo spunto da ciò, dirai che i giusti hanno questo nome da Cristo-Giustizia, e i sapienti da Cristo-Sapienza. E così, per tutti gli altri suoi titoli assegnerai rispettivi nomi ai santi: a tutti loro potrebbero essere rivolte le parole dette dal Salvatore: Tu sei Pietro, e così via fino a: non prevarranno contro di essa.Contro di essa: contro chi? Contro la pietra sulla quale il Cristo edifica la sua Chiesa, contro la Chiesa (l’espressione è ambivalente), oppure contro la pietra e la Chiesa insieme?

Questo, a mio parere, è il senso vero: le porte degli inferi non prevarranno né sulla pietra sulla quale Cristo edifica la sua Chiesa, né sulla Chiesa, sì che non si potrà mai trovare il cammino del serpente nella pietra (come sta scritto nei Proverbi). Ora se le porte degli inferi prevarranno su qualcuno, un tale uomo non potrà essere né la pietra sulla quale Cristo edifica la sua Chiesa, né la Chiesa edificata da Cristo sulla pietra. Infatti la pietra è inaccessibile al serpente, ed è più forte delle porte degli inferi che le sono avverse, per cui queste non prevarranno su di essa, a motivo della forza che ha. E la Chiesa, come costruzione di Cristo, che ha saggiamente costruito la sua casa sulla pietra, è inespugnabile dalle porte degli inferi, che se pure prevalgono su ogni uomo che si trova fuori della pietra e della Chiesa, nulla possono contro di questa.