San Gregorio Taumaturgo: Discorso sulla Natività di Cristo

Discorso sulla Natività di Cristo

San Gregorio Taumaturgo, Vescovo di Neo-Cesarea (210 – 270)

Icona

Fratelli, ora contempliamo un mistero grande e meraviglioso. Pastori con grida di gioia si fanno avanti come messaggeri per i figli dell’umanità, non sui loro pascoli collinari con le loro greggi a conversare e non nei campi con le loro pecore che si divertono, ma piuttosto nella città di Davide, Betlemme, scandendo canti spirituali. Nei cieli cantano gli Angeli, proclamando inni; i celesti Cherubini e Serafini cantano lodi alla gloria di Dio: “Santo, Santo, Santo…”. Tutti insieme celebrano questa festa gioiosa, vedendo Dio sulla terra e l’umanità della terra in mezzo ai cieli.

Per divina provvidenza ciò che era in basso è stato elevato in alto, e l’Altissimo, per l’amore di Dio per gli uomini, si è chinato all’estremo, per cui l’Altissimo, per la sua umiltà, “è esaltato per mezzo dell’umiltà”. In questo giorno di grande festa, Betlemme è diventata simile al cielo, prendendo posto tra le stelle scintillanti ci sono Angeli che cantano il gloria e prendendo il posto del sole visibile – è l’indefinibile e incommensurabile Sole della Verità, che ha fatto esistere tutte le cose. Ma chi oserebbe indagare su un così grande mistero? “Dove Dio lo vuole, lì si capovolge l’ordine della natura”, e le leggi non possono impedirlo. E così, ciò che era impossibile per l’umanità da intraprendere, Dio lo ha fatto ed è sceso, facendolo per la salvezza dell’umanità, poiché nella volontà di Dio questa è la vita per tutta l’umanità.

In questo giorno gioioso, Dio è venuto per nascere; in questo grande giorno dell’avvento, Dio è diventato ciò che non era: essendo Dio, è diventato Uomo, per così dire, come se fosse stato rimosso dalla Divinità (sebbene la Sua Natura Divina non sia stata spogliata); fatto uomo, è rimasto Dio. Perciò, sebbene egli crescesse e fiorisse, tuttavia non fu come per un potere umano raggiungere la Divinità, né per alcuna capacità umana di essere fatto Dio; ma piuttosto come il Verbo, per miracolosa sofferenza, in cui si è incarnato e manifestato non essendo trasformato, non essendo fatto altro, non privato di quella natura divina che possedeva prima. In Giudea nasce il nuovo Re; ma questa nuova e meravigliosa natività che i gentili pagani sono giunti a credere, l’ebreo l’ha evitata. I farisei comprendevano in modo errato la Legge e i profeti. Quello che in esso era contraddittorio per loro, l’hanno spiegato erroneamente. Anche Erode si sforzò di conoscere questa nuova nascita, piena di mistero, eppure Erode lo fece non per riverire il re appena nato, ma per ucciderlo.

Colui che abbandonò gli angeli, gli arcangeli, i troni, i domini e tutti gli spiriti costanti e luminosi, solo lui che ha percorso un nuovo sentiero, esce da un inviolato grembo verginale di seme. Il Creatore di tutto viene per illuminare il mondo, non lasciando orfani i suoi angeli, e si manifesta anche come Uomo, uscito da Dio.

E io, sebbene io non veda nel Nuovo Nato né trombe (né altri strumenti musicali), né spada, né ornamenti corporei, né lampadari né lampade da cammino, e vedendo il coro di Cristo composto da coloro che sono umili di nascita e senza influenza, mi sembra persuadermi a lodarlo. Vedo animali muti e cori di giovani, come una specie di tromba, risonante di canto, come se prendesse il posto delle lampade e come risplendesse sul Signore. Ma cosa dirò di ciò che illuminano le lampade? Egli è la Speranza stessa e la Vita stessa, è la stessa Salvezza, la stessa Beatitudine, il punto focale del Regno dei Cieli. Egli stesso viene portato come offerta, perché traspaia in potenza l’annuncio degli Angeli celesti: “Gloria a Dio nell’Altissimo”, e con i pastori di Betlemme sia pronunciato il canto gioioso: ” La prima nascita è inspiegabile e la seconda è insospettabile; la prima nascita fu senza travaglio e la seconda fu senza impurità … Sappiamo, che ora è nato dalla Vergine, e crediamo, che è Lui, nato dal Padre prima di tutti i tempi. Ma che tipo di nascita fosse non vorremmo sperare di spiegarlo. Né con le parole tenterei di parlarne, né con il pensiero oserei avvicinarlo, poiché la natura divina non è soggetta all’osservazione, né avvicinabile al pensiero, né contenibile dall’infelice ragionamento. L’unico bisogno è credere nella potenza delle Sue opere. Le leggi della natura corporea sono evidenti: una donna sposata concepisce e partorisce un figlio secondo lo scopo del matrimonio; ma quando la Vergine non sposata partorisce miracolosamente il figlio, e dopo la nascita rimane Vergine, — allora è la natura corporea manifesta e superiore. Possiamo comprendere ciò che esiste secondo le leggi della natura corporea, ma di fronte a ciò che è al di là delle leggi della natura, rimaniamo in silenzio, non per paura, ma soprattutto per la fallibilità causata dal peccato. Dobbiamo necessariamente tacere, in silenziosa quiete per venerare la virtù con degna riverenza e, non oltrepassando i limiti (della parola), per ricevere i doni celesti.

Che dire e che cosa proclamare? Per parlare di più della Vergine che genera? Per deliberare di più sulla nascita miracolosa? Non ci si può che stupire, nel contemplare la nascita miracolosa, poiché essa capovolge le leggi ordinarie e l’ordine della natura e delle cose. Delle opere mirabili (di Dio) si potrebbe dire in breve, che sono più mirabili delle opere della natura, poiché nella natura nulla genera se stesso per volontà propria, sebbene vi sia la libertà di essa: meravigliose quindi sono tutte le opere del Signore, che le ha fatte esistere. Oh mistero immacolato e inspiegabile! Colui che prima della stessa creazione del mondo era l’Unigenito, Senza Paragone, Semplice, Incorporeo, si è incarnato e discende (nel mondo), vestito di un corpo corruttibile, affinché sia ​​visibile a tutti. Perché se non fosse visibile, allora in che modo ci insegnerebbe a osservare i suoi precetti e come ci condurrebbe alla realtà invisibile? Fu per questo dunque che si fece apertamente visibile, per condurre quelli del mondo visibile all’invisibile.

Tanto più le persone ritengono che la loro vista sia un testimone più credibile che un semplice sentito dire; si fidano di ciò che vedono e dubitano di ciò che non vedono. Dio ha voluto essere visibile nel corpo, per risolvere e dissipare i dubbi. Volle nascere dalla Vergine, non iniziare da Lei qualcosa di superfluo e in cui la Vergine non conosceva le ragioni della cosa, ma il mistero della Sua nascita è un atto di bontà immacolato, in cui la Vergine stessa chiese a Gabriele: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?» (Lc 1, 34), alla quale domanda Ella riceve in risposta: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra» (Lc 1,35). Ma in che modo il Verbo, che era Dio, uscì dunque dalla Vergine? Questa… è una meraviglia inspiegabile. Proprio come un orafo, ottenuto il metallo, ne fa una cosa adatta all’uso, così fece anche Cristo: trovando la Vergine senza macchia sia nello spirito che nel corpo, assunse da lei un corpo conformato allo spirito, conforme ai suoi intenti, e vi si rivestì, come in un vestito. In questo mirabile giorno della Natività, il Verbo non ebbe né paura né vergogna di uscire dal grembo verginale, né giudicò indegno di sé assumere la carne dalla sua creazione, perché la creazione, fatta la veste del Creatore, dovesse essere stimata degna di gloria, e così che la misericordia dovrebbe essere resa nota quando si è rivelata, nel modo in cui Dio è disceso per la sua bontà. Come sarebbe impossibile che un vaso di creta appaia prima che sia creta nelle mani del vasaio, così parimente sarebbe impossibile che il vaso corruttibile (della natura umana) si rinnovi altrimenti, per farne l’abito del Creatore, che ne è rivestito.

Che altro dire, cosa devo ancora esporre? Le nuove meraviglie mi colpiscono con soggezione. L’Antico dei Giorni si è fatto Bambino, per rendere gli uomini figli di DioSeduto in gloria nei Cieli, a causa del Suo amore per l’umanità, Egli ora giace in una mangiatoia di bestie mute. 

L’Inappassionato, l’Incorporeo, l’Incomprensibile è preso dalle mani dell’uomo, per espiare la violenza dei peccatori e degli iniqui e liberarli dalla loro schiavitù, per essere avvolto in fasce ed essere nutrito sulle ginocchia della Donna, affinché la vergogna sia trasformata in onore, l’empietà essere condotta alla gloria, e al posto delle spine una corona. Egli ha preso il mio corpo, in modo che io sia reso capace di avere in me il Suo SpiritoEgli si è appropriato (la mia natura), vestendosi del mio corpo, e mi dà il Suo Spirito, così che io, dando e ricevendo a sua volta, cosa devo dire e cosa proclamare? “Ecco, una Vergine nel grembo concepirà e partorirà un figlio, e lo chiameranno Emmanuele, che significa: Dio è con noi” (Mt 1,23). Il detto qui non tratta di qualcosa per il futuro di cui potremmo imparare a sperare, ma piuttosto ci parla di qualcosa che è già accaduto e ci riempie di stupore per qualcosa che è già stato realizzato. Ciò che prima era detto agli ebrei e si è adempiuto in mezzo a loro, ora è così realizzato in mezzo a noi come un avvenimento, di cui abbiamo ricevuto (questa profezia), e l’abbiamo adottata, e abbiamo creduto in essa. Il profeta dice agli ebrei: «Ecco, una vergine concepirà» (Is 7,14); per i cristiani, invece, il detto spetta al compimento dell’atto effettivo, l’intero tesoro dell’evento reale. In Giudea una Vergine ha partorito, ma tutte le terre del mondo hanno accolto Suo Figlio. Là era la radice della vite; qui, la vite della verità. I Giudei hanno spremuto il torchio e i Gentili hanno gustato il Sangue sacramentale; quegli altri hanno piantato il chicco di grano, e questi prosperano grazie alla mietitura della fede. I Giudei sono stati trafitti dalle spine, i Gentili sono saziati dalla messe; quegli altri sedevano sotto l’albero della desolazione, e questi – sotto l’albero della vita; quelli esponevano i precetti della Legge, ma i Gentili raccolgono i frutti spirituali. La Vergine ha partorito non Se stessa da Se stessa, ma come ha voluto Lui avendo bisogno di nascere. Dio non ha agito in modo corporeo, Dio non si è subordinato alla legge della carne, ma il Signore della natura corporea si è manifestato per apparire nel mondo con una nascita miracolosa, per rivelare la sua potenza e mostrare che essendosi fatto uomo, è nato non come un semplice uomo, che Dio si è fatto uomo, poiché per la sua volontà nulla è difficile.

Nel presente grande giorno Egli è nato dalla Vergine, avendo superato l’ordine naturale delle cose. È superiore al matrimonio e libero da contaminazione. Bastava che Egli, maestro di purezza, risplendesse gloriosamente, per emergere da un grembo puro e immacolato. Poiché Egli è Quello stesso, che nel principio creò Adamo dal suolo vergine, e da Adamo senza matrimonio gli generò sua moglie Eva. E come Adamo era senza moglie prima di averne una e la prima donna fu allora messa al mondo, così anche oggi la Vergine senza uomo partorisce Colui del quale parlò il profeta: “Egli è Uomo, chi è che lo conosce?” L’Uomo Cristo, chiaramente visto dall’umanità, nato da Dio, è tale che occorreva il genere femminile per perfezionare quello del genere umano, affinché nascesse perfettamente uomo da donna.

Perciò la Vergine, senza convivenza con l’uomo, partorì Dio Verbo, fatto Uomo, sicché in egual misura fu per lo stesso miracolo conferito eguale onore all’una e all’altra metà, uomo e donna. E come da Adamo fu tolta la donna senza che essa diminuisse, così anche dalla Vergine fu tolto il corpo (Nato da lei), nel quale anche la Vergine non subì diminuzioni e la sua verginità non subì danno. Adamo dimorava sano e salvo, quando gli fu tolta la costola: e così senza macchia dimorò la Vergine, quando da Lei fu generato Dio il Verbo. Per questo motivo, in particolare, la parola ha assunto dalla Vergine la sua carne e il suo vestito (corporeo), in modo che non fosse considerato innocente del peccato di Adamo. Poiché l’uomo, colpito dal peccato, era divenuto vaso e strumento del male, Cristo prese su di Sé questo ricettacolo del peccato nella Sua stessa carne affinché, essendo il Creatore unito al corpo, questo fosse così liberato dalla sozzura del nemico e l’uomo fosse così rivestito di un corpo eterno, che non perirà né sarà distrutto per tutta l’eternità. Inoltre, Colui che è diventato il Dio-Uomo nasce, non come ordinariamente nasce l’uomo, nasce come Dio fatto uomo, manifestando ciò per la sua stessa potenza divina, poiché se fosse nato secondo le leggi generali della natura, la Parola sarebbe sembrata come qualcosa di imperfetto. Quindi, nacque dalla Vergine e risplendette; perciò, essendo nato, conservò indenne il grembo verginale, affinché il modo finora inaudito della Natività fosse per noi segno di grande mistero. 

Cristo è Dio? Cristo è Dio per natura, ma non per ordine della natura si è fatto uomo. Così dichiariamo e crediamo in verità, chiamando a testimoniare il sigillo della verginità intatta: come Onnipotente Creatore del grembo e della verginità, scelse una modalità di nascita indecorosa e si fece Uomo, come volle.

In questo grande giorno, ora celebrato, Dio è apparso come Uomo, come Pastore della nazione d’Israele, che ha ravvivato tutto l’universo con la sua bontà. O cari guerrieri, campioni gloriosi dell’umanità, che avete predicato Betlemme come luogo della Teofania e della Natività del Figlio di Dio, che avete fatto conoscere a tutto il mondo il Signore di tutti, giacendo in una mangiatoia, e avete indicato Dio contenuto in una stretta caverna!

E così, ora glorifichiamo con gioia una festa degli anni. Come quindi le leggi delle feste sono nuove, così ora anche le leggi della nascita sono meravigliose. In questo grande giorno ora celebrato, di catene frantumate, di Satana svergognato, di tutti i demoni in fuga, la morte che tutto distrugge è sostituita dalla vita, il paradiso è aperto al ladro, le maledizioni si trasformano in benedizioni, tutti i peccati sono perdonati e il male bandito , la verità è venuta, e hanno proclamato notizie piene di riverenza e amore per Dio, i tratti puri e immacolati sono impiantati, la virtù è esaltata sulla terra, gli angeli sono venuti insieme alle persone e le persone hanno il coraggio di conversare con gli angeli. Da dove e perché è successo tutto questo? Da questo, che Dio è disceso nel mondo ed ha esaltato l’umanità al Cielo.

Si compie una certa trasposizione di tutto: Dio che è perfetto è disceso sulla terra, sebbene per natura rimanga interamente nei cieli, anche nel momento in cui nella sua interezza si trova sulla terra. Egli era Dio e si fece Uomo, non negando la sua Divinità: non si fece Dio, poiché tale fu sempre per sua stessa natura, ma si fece carne, perché fosse visibile a tutto ciò che è corporeo. Colui, che nemmeno gli abitanti del cielo possono guardare, scelse come sua abitazione una mangiatoia, e quando venne, tutto intorno a lui divenne silenzioso. E per nient’altro giaceva nella mangiatoia, se non per questo, che nel dare il nutrimento a tutti, avrebbe dovuto per sé estrarre il nutrimento dei bambini dal seno materno e con questo benedire il matrimonio.

In questo grande giorno le persone, lasciando le loro faccende ardue e serie, si fanno avanti per la gloria del Cielo, e apprendono dal luccichio delle stelle che il Signore è disceso sulla terra per salvare la Sua creazione. Il Signore, seduto sopra una nuvola veloce, entrerà in Egitto in carne e ossa (Is 19,1), visibile fuggendo da Erode, proprio in quel gesto che ispira il detto di Isaia: «In quel giorno Israele sarà terzo tra gli Egiziani” (Is 19,24).

La gente entrava nella Grotta, senza pensarci prima, ed essa divenne per loro un tempio sacro. Dio è entrato in Egitto, nel luogo dell’antica tristezza per portare la gioia, e nel luogo dell’oscurità oscura per diffondere la luce della salvezza. Le acque del Nilo erano diventate contaminate e dannose dopo che i bambini vi erano morti con morte prematura. Apparve in Egitto Colui che un tempo trasformò l’acqua in sangue e che in seguito trasformò queste acque in sorgenti d’acqua di rinascita, mediante la grazia dello Spirito Santo che purificava i peccati e le trasgressioni. Il castigo una volta colpì gli egiziani, poiché nei loro errori sfidarono Dio. Ma ora Gesù è venuto in Egitto e ha seminato in esso il rispetto per Dio, così che, rigettando dall’anima egiziana i suoi errori, si sono resi amici di Dio.

Per non dilungarci troppo nel discorso e per concludere brevemente quanto detto, domandiamo: in che modo il Verbo impassibile si è fatto carne e si è reso visibile, dimorando immutabile nella sua natura divina? Ma cosa devo dire e cosa dichiarare? Vedo il falegname e la mangiatoia, l’Infante e la Vergine partoritrice, abbandonati da tutti, appesantiti dalla fatica e dal bisogno. Ecco a quale grado di umiliazione è disceso il grande Dio. Per noi «povero, che era ricco» (2 Cor 8,9): fu messo in pessime fasce, non su un morbido letto. O povertà, fonte di ogni esaltazione! O miseria, che riveli tutti i tesori! Egli appare ai poveri e arricchisce i poveri; Egli giace in una mangiatoia per animali e con la sua parola mette in moto tutto il mondo.

Cosa dovrei ancora dire e proclamare? Vedo il Bambino, in fasce e adagiato nella mangiatoia; Maria, la Vergine Madre, le sta davanti insieme a Giuseppe, detto Suo Sposo. Egli è chiamato Suo marito, e Lei sua moglie, di nome ma così e apparentemente sposata, anche se in realtà non erano coniugi, era promessa sposa di Giuseppe, ma lo Spirito Santo discese su di lei, così come dice il santo evangelista: “Lo Spirito Santo verrà su di te, e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra: e Colui che nascerà è Santo”. (Lc 1,35) ed è del seme del Cielo. Giuseppe non osò parlare in opposizione, e il giusto non volle rimproverare la Santa Vergine; non volle credere ad alcun sospetto di peccato né pronunciare contro la Santa Vergine parole di calunnia; ma il Figlio che doveva nascere non volle riconoscerlo come suo, poiché sapeva, che Egli non era suo. E sebbene fosse perplesso e avesse dubbi su chi dovesse essere un tale bambino e ci meditasse sopra, ebbe allora una visione celeste, gli apparve un angelo e lo incoraggiò con le parole: “Non temere, Giuseppe, figlio di Davide; Colui che nascerà da Maria è chiamato Santo e Figlio di Dio”; cioè: “lo Spirito Santo scenderà sulla Vergine Immacolata e la potenza dell’Altissimo la coprirà con la sua ombra” (Mt 1,20-21; Lc 1,35).

Veramente doveva nascere dalla Vergine, conservando indenne la sua verginità. Proprio come la prima vergine era caduta, attirata da Satana, così ora Gabriele porta nuove notizie alla Vergine Maria, in modo che una vergine acconsentisse ad essere la Vergine, e alla Natività – per nascita. Sedotta dalle tentazioni, Eva una volta pronunciò parole di rovina; Maria, a sua volta, accogliendo la novella, ha partorito il Verbo incorporeo e vivificante. Per le parole di Eva, Adamo fu scacciato dal paradiso; il Verbo, nato dalla Vergine, rivelò la Croce, mediante la quale il ladrone entrò nel paradiso di Adamo. Sebbene né i gentili pagani, né i giudei, né i sommi sacerdoti credessero che da Dio potesse nascere un Figlio senza travaglio e senza uomo, ora è così ed è nato nel corpo, capace di sopportare le sofferenze, mentre conservava inviolato il corpo della Vergine.

Così ha manifestato la sua onnipotenza, nato dalla Vergine, conservando intatta la verginità della Vergine, ed è nato da Dio senza complicazioni, travagli, male o separazione dall’abbandono dell’immutabile Essenza Divina, nato Dio da Dio. Poiché l’umanità ha abbandonato Dio, in luogo Suo adorava immagini scolpite dagli uomini, il Dio Verbo ha assunto l’immagine dell’uomo, affinché, bandendo l’errore e restaurando la verità, consegnasse all’oblio il culto degli idoli e per esserGli riconosciuto il Divino onore, poiché a lui spetta ogni gloria e onore nei secoli dei secoli.

Amen!




Vladimir Guettée: Il Moderno Papato condannato dal Papa San Gregorio il Grande (1861) – I

PRIMA PARTE

Biografia – Introduzione – LETTERA DI S. GREGORIO MAGNO AL PATRIARCA GIOVANNI DI COSTANTINOPOLILETTERA DI S. GREGORIO MAGNO AL DIACONO SABINIANO

L’Archimandrita Vladimir Guettée

BREVE BIOGRAFIA

Vladimir Guettée, alla nascita René-François Guettée, è nato il 1 dicembre 1816 e morto il 22 marzo 1892. Fu prima un prete cattolico poi convertito all’Ortodossia. Ha scritto molte opere di storia religiosa che, durante la sua vita, hanno suscitato polemiche all’interno della Chiesa cattolica di Francia.

Ordinato sacerdote cattolico romano nel 1839, fu prima assistente parroco in un piccolo paese di campagna, e successivamente ebbe il suo gregge altrove, dove organizzò una scuola per bambini. A 32 anni, uscì con la sua Storia della Chiesa in Francia (1847-1856) in 12 volumi. Nel 1855 fondò l’Observateur Catholique. Venne presto in conflitto con il suo vescovo, così Padre Guettée fondò un nuovo periodico, l’Unione cristiana, che, sotto l’influenza di Alexis Khomiakiov, divenne gradualmente filo-ortodosso; “il primo giornale ortodosso apparso in Occidente”. Dopo la sua consacrazione prese il nome di Vladimir. I suoi successi missionari includono anche la traduzione in francese della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo, con note esplicative, e la pubblicazione di ‘Una spiegazione della dottrina della Chiesa ortodossa: differenze con altre Chiese cristiane’.

INTRODUZIONE

Se diamo uno sguardo franco e imparziale alla società cattolica, non si può fare a meno di ammettere che il livello intellettuale difficilmente può scendere più in basso. Si comprenda che non vogliamo parlare di intelligenza in generale, ma della comprensione della verità religiosa. Tanti scrittori, per ragioni più o meno onorevoli,

si applicarono alla falsificazione delle credenze cattoliche, alla diffusione di loro sistemi, per sostituire alla pura verità cristiana le loro teorie adattate alle circostanze, che si incontrano appena tra coloro che sono onorati del titolo di cattolici, in quelle persone che abbiano una nozione esatta dei principi della loro fede. La maggior parte non ha che una fede convenzionale, sul divino e sull’umano, su dogmi e opinioni, formano un miscuglio confuso, un caos su cui aleggia l’oscurità più fitta. Fosse almeno che i neo-cattolici siano consapevoli della loro ignoranza! Ma no; si credono forti, solidi nella conoscenza delle verità della religione, e sono tutti pronti ad anatemizzarti se esiti anche solo un po’ a condividere le loro teorie.

Questa intolleranza, insieme all’ignoranza e alla caparbietà, costituisce il carattere distintivo del neocattolico: formato alla scuola ultramontana non ammette alcuna obiezione. Se sollevi qualche difficoltà che tocca i suoi sistemi, egli vi guarderà come un eretico; se hai il coraggio di osservare questo non era insegnato in passato come lo è oggi; che dobbiamo attenerci, nella Chiesa, a ciò che si è sempre creduto fin dagli apostoli, egli ti segnala come un innovatore pericoloso; se voi chiedete la ragione, le prove di questi nuovi dogmi che vediamo schiudersi ogni giorno sotto l’azione della corte di Roma, egli ti stigmatizza come un libero pensatore, abbastanza audace da non fare affidamento sulla parola del Papa. Che questa parola esista o meno, che sia chiara o oscura, il neocattolico si concede sempre. Il Papa è infallibile; io sono con il Papa, quindi sono infallibile io stesso. È più o meno su questo sillogismo che si basa tutta la logica del neocattolico. E guai a te se non sei sopraffatto da un argomento così conclusivo allora sei solo un ribelle, non sei più cattolico, se l’Inquisizione si rianimasse, saresti affidato ai suoi santi rigori per la salvezza della tua anima.

Come far penetrare la verità cattolica anche in quelle menti corazzate dell’ultramontanismo, che ostinatamente rifiutano sistematicamente qualsiasi chiarimento?

Non sappiamo.

Tuttavia, ci sembrava che se ci fosse qualche modo per illuminarli, non potrebbe essere meglio che attraverso l’insegnamento di un Papa riconosciuto come uno dei più grandi e santi che si sono assisi sul seggio di Roma. Abbiamo quindi raccolto nelle opere di san Gregorio Magno, ciò che scrisse sul papato, sui suoi diritti e sulle sue prerogative nella Chiesa. Questo grande Papa, morto solo all’inizio dell’VIII secolo, riassume perfettamente la tradizione cattolica della Chiesa primitiva. La sua parola, in quanto tale, deve godere di una alta autorità: la scienza, la santità del santo dottore, la posizione elevata che occupò, l’influenza che esercitò nella società cristiana, tutto contribuisce a dare alla sua parola eccezionale carattere di accuratezza e verità.

I neocattolici non possono sfidarlo.

San Gregorio Magno fu Papa e se i Papi godono, per diritto divino di assoluta autorità nella Chiesa, egli ne ha goduto; se i Papi sono infallibili, egli lo era; se c’è un dovere rigoroso d’accettare l’insegnamento papale, dobbiamo accettare il suo insegnamento. Egli possiede tutti i diritti di cui Papi moderni possono legittimamente godere, in virtù del loro titolo, poiché era Papa come loro: ed egli ha più di loro, un alone di scienza e di santità che i nostri papi Ultramontani non hanno ancora meritato.

Che i neo-cattolici ci dicano se rifiutano o se accettano la dottrina del Papa san Gregorio il Grande sul Papato. Se dicono che l’abbiamo mal esposto, lascia che lo dimostrino; se la ammettono così come l’abbiamo esposta e continuano ad affermare che le nostre convinzioni non hanno nulla di molto ortodosso, poiché sono conformi a questa dottrina, e rifiutandola, si degnino di dirci perché Papa san Gregorio Magno non meriti tanto credito quanto i Papi ultramontani.

La tesi è abbastanza importante: che i sostenitori dell’ultramontanismo ci dicano cosa ne pensano.

IL MODERNO PAPATO

condannato

dal Papa San Gregorio il Grande

All’inizio del suo episcopato, Gregorio rivolse una lettera di comunione ai patriarchi Giovanni di Costantinopoli, Eulogio di Alessandria, Gregorio di Antiochia, Giovanni di Gerusalemme, e ad Anastasio, dell’antico patriarcato di Antiochia, suo amico.

Se si fosse ritenuto capo e sovrano della Chiesa, se avesse creduto di esserlo per diritto divino, egli si sarebbe certamente rivolto ai patriarchi come a subordinati; si troverebbero, in questa circolare, qualche traccia della sua superiorità. Ma è completamente diverso. Egli di dilunga molto sui doveri dell’episcopato, e non si sogna lontanamente di parlare dei diritti che la sua dignità gli avrebbe conferito. Insiste particolarmente sul dovere, per il vescovo, di non occuparsi affatto della cura delle cose esteriori, e termina la sua circolare facendo la sua professione di fede, per provare che fosse in comunione con gli altri patriarchi, e, attraverso di loro, con tutta la Chiesa[1]. Questo silenzio di san Gregorio sul presunto diritto del papato è già di per sé molto significativo, e gli ultramontani avrebbero difficoltà a spiegarlo. Cosa potrebbero opporre alle lettere che andremo a tradurre, e nelle quali San Gregorio condanna, nel modo più esplicito, l’idea fondamentale che gli ultramontani ci vorrebbero dare del papato, cioè il carattere universale della sua autorità?

L’occasione di queste lettere era l’ambizione del patriarca Giovanni di Costantinopoli, che rivendicò che la sua città episcopale divenuta capitale dell’impero, dovesse essere riconosciuta universalmente come la sede del primo vescovo della Chiesa. A questo fine, egli ha inventato il titolo di patriarca ecumenico o universale e se lo attribuì.

La prima idea di un potere centrale e universale nella Chiesa veniva dunque da Costantinopoli; fu proprio da Roma che sorse la prima opposizione a questa pretesa ambiziosa, e da uno dei più grandi papi che sedettero sulla cattedra apostolica di Roma.

San Gregorio avendo appreso che Giovanni di Costantinopoli rivendicava il titolo di patriarca ecumenico o universale, scrisse diverse lettere che meritano di essere lette e meditate, soprattutto al giorno d’oggi, dove le persone cercano di imporci, come fosse di diritto divino, un dispotismo papale opposto sia alla parola di Dio che alla disciplina generale della Chiesa. Ecco quello che Gregorio scrisse allo stesso Giovanni. Lo traduciamo testualmente:

LETTERA DI S. GREGORIO MAGNO

AL PATRIARCA GIOVANNI DI COSTANTINOPOLI (V, 18) [2]

“Gregorio a Giovanni, vescovo di Costantinopoli.

La Vostra Fraternità si ricorda certamente di quanta pace e concordia ci fosse tra le Chiese quando Ella è stata elevata alla dignità sacerdotale. Ma, ignoro per quale azzardo o per quale superbia, ella ha cercato di impossessarsi di un nuovo titolo, onde potesse causarsi scandalo nei cuori di tutti i fratelli. E della qual cosa assai mi stupisco, poiché ricordo che non volevate giungere all’episcopato, ma volevate fuggirlo. Eppure, una volta ottenutolo, volete esercitarlo così come se lo aveste ricercato con ambizioso desiderio. Voi, infatti, che vi dicevate di essere indegno d’esser chiamato vescovo, siete arrivato ora, disprezzando i vostri fratelli, al punto di voler avere voi solo il titolo di vescovo. E su questo argomento furono trasmessi alla vostra santità dei gravi scritti del mio predecessore Pelagio di santa memoria, nei quali rifiutò, per il titolo nefando di superbia, gli atti del sinodo che presso di voi era stato riunito in favore della causa del nostro allora fratello e co-episcopo Gregorio, e proibì di celebrare messa insieme a voi all’arcidiacono, che, secondo consuetudine, aveva mandato alla corte imperiale. Dopo la sua [di Pelagio] morte, invero, essendo stato condotto io indegno al governo della Chiesa e prima per mezzo dei miei inviati, e ora per il nostro comune figlio il diacono Sabiniano, ho avuto cura di rivolgermi alla vostra fraternità non già per iscritto, ma di persona, affinché rinunciasse a tale presunzione. E qualora rifiutaste di correggervi, gli ho proibito di celebrar messa insieme alla vostra fraternità, per instillare alla Vostra Santità un qualche timore della vergogna, prima che, qualora il nefando e profano orgoglio non potesse correggersi con la vergogna, procedessimo per le vie prescritte e canoniche. E poiché, prima di amputare la ferita essa va palpata dolcemente, vi prego, vi supplico, e v’imploro con quanta dolcezza posso, che la vostra fraternità si opponga a tutti i suoi adulatori e a quanti gli attribuiscono un titolo errato, e non permetta di farsi chiamare con un titolo tanto stolto e superbo. In verità, piangendo lo dico e con profondo dolore del cuore, attribuisco ai miei peccati il fatto che un mio fratello non ha voluto sino ad ora ritornare all’umiltà, lui che non è stato stabilito nella dignità episcopale che per ricondurre all’umiltà le anime degli altri; che colui che insegna agli altri la verità non l’ha voluta insegnare a sé stesso, né ha consentito, nonostante le mie preghiere, a che io mi prendessi questa cura.

Considerate, vi prego, che da questa presunzione temeraria è turbata la pace di tutta la Chiesa, e che voi vi fate nemico della grazia che e stata donata a tutti in comune. Più crescerete in questa grazia, più diventerete umile ai vostri stessi occhi. E tanto più grande potrete divenire, quanto più vi asterrete dall’usurpazione di tanto stravagante e orgoglioso titolo. Allo stesso tempo sarete più ricco se non tenterete di spogliare i vostri fratelli a vostro profitto. Amate dunque, fratello carissimo, l’umiltà con tutto il vostro cuore, per mezzo della quale possa esser custodita la concordia di tutti i fratelli e l’unità della santa Chiesa universale. Certamente l’apostolo Paolo quando udiva alcuni dire: “Io son discepolo di Paolo, io d’Apollo, io invero di Pietro” (I Cor. 1, 13), non poteva assistere senza orrore alla divisione del corpo del Signore per vedere poi riattaccare le membra divise a più teste, e così esclamava dicendo: “Forse che per voi è stato crocifisso Paolo, o siete stati battezzati in nome di Paolo (Ibid., 13)?” Se dunque quegli si sforzava d’evitare che le membra del corpo del Signore fossero attaccate a delle teste che non fossero quella di Cristo, ancorché queste teste fossero di apostoli, tu che dirai a Cristo, ovvero al capo della Chiesa Universale, nell’interrogatorio dell’estremo giudizio, tu che tutte le sue membra vuoi sottomettere a te col titolo di universale? Chi, ditemelo, vi prego, imitate voi attraverso questo perverso titolo, se non colui che, sprezzate le legioni di angeli costituite con sé in società, si proponeva di salire in cima per non essere sottomesso a nessuno ed essere solo al di sopra degli altri; qui disse: “Salirò al cielo, eleverò il mio trono sopra gli astri del cielo; piazzerò il mio seggio sul monte dell’alleanza, sulle rocce dell’Aquilone. Salirò sopra la vetta delle nubi, sarò simile all’Altissimo (Isaia 14, 13).

Cosa sono dunque i tuoi fratelli, tutti i vescovi della Chiesa universale, se non le stelle del cielo, la cui vita e il cui insegnamento risplendono tra i peccati e gli errori degli uomini come tra le tenebre della notte? Quando per titolo ambizioso brami di elevarti al di sopra di loro e svilire il loro titolo a confronto del tuo, che altro dici se non: “Salirò al cielo, eleverò il mio trono sopra gli astri del cielo?”  Forse che non son tutti i vescovi le nubi che stillano le parole della predicazione e splendono della luce delle buone opere? Quando la vostra fraternità, disprezzandoli, tenta di metterli sotto i suoi piedi, che altro dice, se non ciò che fu detto dal nemico antico: “Salirò sopra la vetta delle nubi?” E mentre piangendo vedo tutto ciò, e temo gli occulti giudizi di Dio, crescono le lacrime, i miei gemiti traboccano dal cuore, perché il signor Giovanni, quell’uomo così santo, di sì grande astinenza e umiltà, per la seduzione delle lusinghe dei suoi familiari, è giunto a tal grado di superbia che, per la brama di quel titolo perverso, tenta d’esser simile a quegli che, volendo superbamente esser simile a Dio, perse pure la grazia della somiglianza che gli era stata donata; e perciò perse la vera beatitudine, poiché bramava una falsa gloria. Certamente Pietro, primo degli apostoli, e membro della santa e universale Chiesa; Paolo, Andrea, Giovanni, che altro sono se non capi di certi popoli? E pure tutte le membra son sotto un solo capo. E, per dir tutto in breve, i santi prima della Legge, i santi sotto la Legge, i santi sotto la grazia, non formano tutti insieme il corpo del Signore? Non sono tutti membri della Chiesa? e nessuno volle mai esser chiamato universale. La Vostra Santità, dunque, riconosca quanto sia gonfia, poiché brama d’esser chiamato con quel titolo con cui nessuno ebbe la presunzione di farsi chiamare.

Come sa la vostra Fraternità, forse che il venerando Concilio di Calcedonia ha conferito onorificamente il titolo di universale ai vescovi di quella sede apostolica di cui, per volontà di Dio, io son servitore? Eppure, nessuno mai avrebbe voluto essere chiamato con tale titolo, nessuno si attribuì un tanto temerario titolo, affinché, bramando la gloria della singolarità nella dignità episcopale, sembrasse negarla a tutti i fratelli.

Ma so bene che questo titolo è stato conferito alla Vostra Santità da quei famigli che la lusingano e la ingannano, contro i quali chiedo che la Vostra Fraternità sia solertemente vigile, e che non si lasci ingannare dalle loro lusinghe. Tanto più infatti debbono esser ritenuti pericolosi i nemici, quanto più adulano con finte lodi. Scacci queste persone; e se devono necessariamente ingannare, almeno ingannino i cuori degli uomini terreni e non quelli dei sacerdoti. “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Luca 9, 60). Voi invece col Profeta dite: “Si ritirino subito arrossendo, quanti mi dicono: Bene! Bene!”. E ancora: “Ma l’olio del peccatore non profumerà il mio capo” (Sal 140, 5). Bene ammonisce il Saggio: “Con molti tu sia in pace, ma il tuo consigliere sia uno solo tra mille” (Ql 6,6). “Le cattive parole corrompono infatti i buoni costumi” (I Cor 15, 33). Quando infatti l’antico nemico non può penetrare in un cuore robusto, cerca persone deboli che gli siano vicine e per mezzo loro, come scale appoggiate contro alte mura, vi ascende. Così ingannò Adamo per la donna che le era vicina (Gn 3), così quando uccise i figli al beato Giobbe e gli lasciò la moglie malata (Gb 2, 10), affinché, non essendo da sé in grado di giungere al suo cuore, almeno potesse penetrarvi per le parole della moglie. Quanti dunque presso di voi sono infermi e mondani, siano scacciati nella loro adulazione e lusinga, poiché da lì proviene l’eterna inimicizia di Dio, da dove essi si mostrano come adulatori perversi.

Un tempo l’apostolo Giovanni certo gridava: “Figliuoli, questa è l’ultima ora” (I Gv 2, 18); ora avviene secondo la predizione della Verità. Peste e spada infuriano per tutto il mondo, le nazioni insorgono l’une contro le altre, è scosso l’universo, la terra sta per inghiottire i suoi abitanti. Tutto ciò che è stato previsto, infatti, accadrà. Il re della superbia è vicino, e, cosa orribile a dirsi, egli ha pronto un esercito di sacerdoti, poiché pensano solo a elevarsi, loro che sarebbero stati stabiliti solo per condurre gli altri all’umiltà. Ma in questo, ancorché la nostra lingua non sia minimamente contraria, s’ergerà a vindice della sua virtù contro l’insuperbire colui che è per sé stesso speciale avversario del vizio della superba. Perciò infatti sta scritto: “Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà grazia” (Gc 4, 6). Perciò ancora è detto: “Impuro agli occhi di Dio è colui che si esalta in cuor suo” (Prov 16, 5). Perciò contro l’uomo che s’insuperbisce è scritto: “Perché dovresti esser superbo, tu che sei terra e cenere” (Ql 10, 9)? Perciò la Verità stessa dice: “Chiunque si esalta, sarà umiliato” (Lc 14, 11). E per ricondurci sulla via dell’umiltà, la Verità s’è degnata di mostrarlo nella propria persona, dicendo: “Imparate da me, ché son mite ed umile di cuore” (Mt 11, 29). Per questo infatti l’unigenito Figlio di Dio ha preso la forma della nostra debolezza, per questo l’invisibile è apparso non solo visibile, ma pure disprezzato; per questo ha sopportato oltraggi, insulti, tormenti, perché l’uomo imparasse da un Dio umile a non esser superbo. Quanto grande dunque è la virtù dell’umiltà, dacché per insegnarci questa sola in verità colui che è grande senza comparazione, si è fatto piccolo sino al patir la morte? Poiché infatti la superbia del diavolo fu la fonte della nostra perdizione, fu trovato per istrumento della nostra redenzione l’umiltà di Dio. Il nostro nemico infatti voleva esser esaltato sopra tutte le creature in mezzo alle quali era pur lui; il nostro Redentore invece, pur restando grande sopra ogni creatura, s’è degnato di diventar piccolo fra tutte. 

Perché dunque ci chiamiamo vescovi, noi che abbiam ricevuto la nostra dignità dall’umiltà del nostro Redentore eppure imitiamo la superbia del suo nemico? Ecco, sappiamo che il nostro Creatore è disceso dalla vetta della sua grandezza per dare gloria all’umanità, e noi, infime creature, ci gloriamo dell’aver privato i fratelli. Iddio umiliò sé stesso fino alla nostra polvere e la polvere umana brama di porre la sua bocca sopra il cielo e sfiorare appena la terra, e non se ne vergogna, non teme d’elevarsi l’uomo che non è altro che sporcizia, il figlio dell’uomo che non è che un verme (Gb 25). Rimembriamo, fratello carissimo, ciò che fu detto dal saggissimo Salomone: “Il fulmine precede il tuono, e il cuor s’esalta prima di cader” (Ql 32, 14). E d’altra parte soggiunge: “Prima della gloria ci s’umilia”. Umiliamoci dunque nel cuore, se vogliamo giungere a una solida grandezza. Che gli occhi del nostro cuore mai non siano oscurati dal fumo dell’orgoglio, che più in alto s’eleva, tanto più in fretta svanisce. Riflettiamo sui precetti con cui ci ammonì il nostro Redentore, dicendo: “Beati i poveri in spirito, poiché di questi è il regno dei cieli” (Mt 5, 3). Poiché infatti per mezzo del profeta disse: “Su chi riposerà il mio Spirito, se non sull’uomo umile e mansueto, che riverisce le mie parole?” (Is 56, 2) E volendo certo chiamare all’umiltà i cuori ancor deboli dei suoi discepoli, il Signore disse: “Se qualcuno tra voi brama esser primo, sarà di tutti il più piccolo” (Mt 20, 27). In ciò ci fa apertamente capire che veramente esaltato è colui che nei suoi pensieri s’umilia. Temiamo dunque di esser tra coloro che cercano i primi posti nelle sinagoghe e i saluti nella pubblica piazza e vogliono farsi chiamare maestri dagli uomini. Poiché al contrario il Signore ha detto ai suoi discepoli: “Voi invece non fatevi chiamare maestri. Uno infatti è il vostro maestro; voi tutti, invece, siete fratelli. E non chiamate qualcuno Padre sulla terra, uno infatti è il Padre vostro (Mt 23, 7-8).

Che dirai allora, fratello carissimo, in quel terribile interrogatorio del giudizio venturo, tu che non solo padre, ma pure padre universale brami d’esser chiamato nel mondo? Si faccia dunque attenzione al pravo consiglio dei malvagi, si fugga ogni istigazione allo scanalo. È invero necessario che accadano scandali, ma guai all’uomo per mezzo del quale viene lo scandalo. Ecco, a causa di questo nefando titolo di superbia, la Chiesa è divisa, i cuori di tutti i fratelli son scandalizzati. Avete forse dunque dimenticato ciò che dice la Verità: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, convien per lui che gli sia appesa al collo una macina girata da asini, e che sia gettato nel profondo del mare” (Mt 18, 7)? Invero sta scritto: “La carità non cerca ciò che le appartiene” (I Cor 13, 4). Ecco, la Vostra Fraternità brama i beni degli altri. Ancor sta scritto: “Onoratevi gli uni gli altri” (Rm 13, 10). E voi cercate di togliere a tutti quell’onore che illecitamente desiderate usurpare per voi solo. Dov’è, fratello carissimo, ciò che fu scritto: “Abbiate nei riguardi di tutti la pace, e la carità senza la quale nessuno vedrà Iddio” (Ibid.)? E dove ciò che fu scritto: “Beati i pacifici, poiché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9)?

Vi conviene badare che non vi blocchi una radice di amarezza che nuovamente germina nel vostro cuore e dalla quale molti son contaminati. Se infatti trascuriamo di considerarla, i giudizi dall’alto saranno vigilanti sopra il gonfiore di tanta superbia. E noi nei confronti di coloro dai quali una sì grande colpa è stata commessa per un empio azzardo, serbiamo i precetti della Verità, dicendo: “Se il tuo fratello ha peccato contro di te, va’ e riprendilo tra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello. Se invece non ti ascolterà, porta teco uno o due, affinché tutto stia nella bocca di due o tre testimoni. E se questi non li ascolterà, dillo all’assemblea. E se non ascolterà nemmeno l’assemblea, sia per te come un pagano o un pubblicano” (Mt 17, 3). Io dunque per mezzo dei miei legati ho cercato una e due volte di correggere con umili parole il peccato che vien commesso contro tutta la Chiesa e ora da me stesso lo scrivo. Qualunque cosa umilmente dovevo fare, non l’ho tralasciata. Ma se son sprezzato nella mia correzione, mi resta solo d’appellarmi alla Chiesa.

Iddio onnipotente vi renda manifesto da quanto amore son preso nei vostri confronti parlando così e di quanto m’addoloro in questa faccenda non contro di voi, ma per voi. Ma per quanto riguarda i precetti evangelici e le istituzioni canoniche e il vantaggio dei fratelli, non posso preferire una persona, nemmeno quella che molto amo.

Ho ricevuto da vostra santità scritti dolcissimi e sinceri circa la causa dei presbiteri Giovanni e Atanasio, circa la quale, con l’aiuto del Signore, risponderò in altre lettere che seguiranno, poiché sono circondato da tali tribolazioni e premuto dalle spade dei barbari, che non m’è lecito non solo occuparmi di molte cose, ma a malapena respirare.

Dato alle calende di gennaio, indizione decimaterza.

III

Vediamo, per mezzo di questa prima lettera di Papa san Gregorio il Grande:

1° che l’autorità ecclesiastica risiede nell’episcopato e non in un tale vescovo per quanto alto sia il suo rango nella gerarchia ecclesiastica;

2° che non si trattava assolutamente della difesa di una sua causa particolare contro Giovanni di Costantinopoli, ma quella di tutta la Chiesa;

3° che egli non aveva il diritto da sé stesso di giudicare questa causa e che egli dovrà riferire alla Chiesa;

4° che il titolo di vescovo universale è contrario alla parola di Dio, superbo, criminale, stolto e inetto;

5° che nessun vescovo, nonostante l’elevazione del suo rango nella gerarchia ecclesiastica, può ambire ad un’autorità universale senza impegno sui diritti dell’intero episcopato;

6° che nessun vescovo nella Chiesa può pretendere di essere il padre di tutti i cristiani senza attribuirsi un titolo contrario al Vangelo, orgoglioso, stolto e criminale;

Preghiamo i neocattolici a riflettere seriamente su queste verità espresse così chiaramente in questa prima lettera e che apparirà con nuove prove in quelle che seguiranno. San Gregorio aveva risparmiato Giovanni di Costantinopoli dicendogli solo la verità sulle sue ambiziose pretese. Il motivo di questa riserva era stato il rispetto che aveva per lui l’imperatore Maurizio, che Giovanni aveva conquistato alla sua causa. Giovanni persuase Maurizio che alla città di Costantinopoli, avendo sostituito Roma come capitale dell’impero, spettasse il titolo di primo vescovo della Chiesa, poiché i concili l’avevano concessa a quella di Roma solo a causa dell’importanza della sua sede e solo perché questa città fu la prima dell’Impero Romano. Fu in seguito a questa pretesa che si volle usurpare il titolo di ecumenico o universale. Aveva persino esortato Maurizio ad intervenire su Gregorio in modo che quest’ultimo chiudesse gli occhi sulle sue pretese e vivesse con lui in buoni rapporti.

Troviamo questi dettagli nella lettera di San Gregorio al diacono Sabiniano, allora suo agente presso l’imperatore, e che fu poi suo successore sul seggio di Roma. Ecco questa lettera[3]:

IV

LETTERA DI S. GREGORIO MAGNO

AL DIACONO SABINIANO (V, 19)

“Gregorio al diacono Sabiniano.

 Non volevo scrivere due lettere che toccassero la causa del nostro fratello, reverendissimo uomo, Giovanni, Vescovo di Costantinopoli. Ne ho scritto una abbastanza breve che contiene ciò che sarebbe stato oggetto di due, vale a dire, la verità e la mitezza.

Possa la Vostra Dilezione dargli questa lettera che ho scritto per obbedire all’imperatore. Successivamente, ne invierò un’altra che sarà tale che il suo orgoglio non avrà motivo di rallegrarsi. Egli è infatti giunto al punto di approfittare dell’opportunità che gli si è presentata  per scriverci degli affari del sacerdote Giovanni, al fine di prendere, per così dire, in ogni frase, il titolo di Patriarca ecumenico.

Spero da Dio Onnipotente che sua Maestà Imperiale distrugga la sua ipocrisia. Sono sorpreso che possa imbrogliare La tua dilezione al punto da persuadere l’imperatore che dovrebbe trasmettetemi i suoi scritti riguardo a questa vicenda, scritti in cui afferma che avrei dovuto mantenere la pace con lui. Se l’imperatore vuole essere giusto, dovrà avvertirlo di rinunciare al suo orgoglioso titolo e subito sarà fatta la pace tra di noi. Sono sicuro che non hai visto lo stratagemma a cui ricorse il nostro fratello Giovanni in questa circostanza.

Egli ha agito così al fine che, se avessi obbedito al signor Imperatore, sembrasse che avessi approvato la sua vanità; e che se io non avessi obbedito, l’imperatore si sarebbe arrabbiato con me. Ma noi rimarremo saldi sulla retta via, senza temere nulla, in questa circostanza, se non l’Onnipotente Dio. In tal modo, non si spaventi la Tua Dilezione; disprezzi, per la verità, le cose più alte di questo mondo che sono contrarie alla verità; abbia fiducia nella grazia di Dio Onnipotente e nell’aiuto del beato apostolo Pietro; si ricordi queste parole della Verità: “Colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo”. Agisca dunque in ogni cosa con un’autorità superiore: perché quando non possiamo difenderci contro la spada dei nemici; quando, per amore della repubblica, perdessimo il nostro argento, il nostro oro, i nostri beni, i nostri vestiti, sarebbe troppo ignominioso se, per loro (i Greci), perdessimo anche la fede; poiché aderire a questo titolo colpevole non è altro che perdere la fede. Questo, perché, come gli ho scritto precedentemente, non tiene nessun rapporto con lui”.

Quindi, secondo Papa San Gregorio Magno, è perdere la fede l’aderire a un titolo che gli ultramontani rivendicano come appartenente al Papa per diritto divino, e che è la base di tutte le pretese ambiziose che considerano come altrettanti diritti del papato. Nella sua qualità di primo vescovo della Chiesa, san Gregorio ha dovuto prendere l’iniziativa dell’opposizione a questo titolo ambizioso ma abbiamo già visto, e vedremo ancora che non ha difeso una sua causa attaccando Giovanni di Costantinopoli, ma quella di tutto l’episcopato, quella della Chiesa.

Giovanni di Costantinopoli fece ricorso all’imperatore per far autorizzare il suo titolo di universale, San Gregorio scrisse la successiva lettera a questo principe:

V

LETTERA DI S. GREGORIO MAGNO ALL’AUGUSTO MAURIZIO (V, 20)[4]

Gregorio all’Augusto Maurizio.

Nostro piissimo signore stabilito da Dio, in mezzo alle altre sue auguste funzioni, vegliate con particolare cura per custodire la carità sacerdotale, ritenendo, con pietà e sapienza, che nessuno può governare con giustizia le cose della terra, se non sa trattare con le cose di Dio, e che la pace della repubblica dipende dalla pace della Chiesa universale. Quale forza umana, serenissimo signore, quale forza del tempo oserebbe alzare le mani contro il vostro trono cristianissimo, se i sacerdoti, come è loro dovere, si unissero per rivolgere al Redentore, in comune, le loro preghiere e le loro buone opere? La spada delle nazioni feroci immolerebbe crudelmente tanti fedeli se la nostra vita, noi che siamo sacerdoti di nome, ma che non lo siamo in realtà, non fosse viziata da tante opere malvagie?

Lasciando da parte i nostri doveri per occuparci di cosa non ci si addice, uniamo i nostri peccati con le forze dei barbari le nostre colpe affilano la spada dei nemici, e ostacoliamo le forze della repubblica. Cosa dobbiamo dire, noi che caricano il peso dei nostri peccati sul popolo di Dio che guidiamo indegnamente? Noi che distruggiamo con i nostri esempi quello che insegniamo con la bocca? Noi che insegniamo l’iniquità con le nostre opere e che non predichiamo la giustizia che con la bocca? Le nostre ossa sono rotte dal digiuno, e il nostro spirito è pieno di orgoglio. Il nostro corpo è coperto di abiti poveri e, col suo gonfiore, il nostro cuore sorpassa lo splendore della porpora. Ci sdraiamo sulle ceneri e disprezziamo le cose più alte. Insegniamo umiltà e diamo l’esempio dell’orgoglio; che nascondiamo dei denti di lupo sotto la maschera di una pecora. Cosa ne risulta? C’è che ingannando gli uomini, nondimeno siamo conosciuti da Dio. Il nostro piissimo signore agisce dunque con saggezza, cercando di procurare la pace della Chiesa per arrivare e pacificare il suo impero, degnandosi di impegnare i sacerdoti alla concordia e all’unione. Lo desidero ardentemente e, per quanto è in me, io ubbidisco al suo ordini serenissimamente. Ma dal momento che non si tratta di una mia causa, ma di quella di Dio; in quanto non sono solo io che sono turbato, ma tutta la Chiesa è agitata; perché i canoni, i venerabili concili ed i comandamenti Nostro Signore Gesù Cristo stesso sono attaccati dall’invenzione di una certa parola pomposa e superba; che proprio il piissimo Signore tagli questo male; e se il malato vuole resistere, lo abbracci nei vincoli della sua autorità imperiale. Incatenando queste cose darete la libertà alla repubblica; e con tali incisioni diminuirete il male del vostro impero.

Tutti coloro che hanno letto il Vangelo sanno che la cura di tutta la Chiesa è stata affidata dal Signore stesso al Santo Pietro, primo di tutti gli apostoli. In effetti, gli è stato detto: “Pietro, mi ami tu? Pasci le mie pecore. Gli è stato detto ancora: “Satana desidera setacciarvi come il grano; ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno;  quindi, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli”. Gli è stato anche detto: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa; e ti donerò le chiavi del regno;  e tutto quello che tu legherai sulla terra sarò legato in cielo.

Egli dunque ricevette le chiavi del regno celeste; gli fu dato il potere di legare e di sciogliere; a lui fu consegnata la cura di tutta la Chiesa e il primato, eppure non fu chiamato apostolo universale. Ora, il santissimo uomo Giovanni, mio ​​fratello nel sacerdozio, si sforza di prendere il titolo di vescovo universale. Sono obbligato a gridare per dire: “che tempi, che maniere!”

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Non vogliamo perderci queste parole di san Gregorio senza sottolinearne tutta l’importanza. Questo grande dottore intende, come abbiamo visto, i testi del Vangelo relativi a san Pietro, nel senso più favorevole a questo apostolo. Esalta Pietro perché ha il primato nel collegio apostolico, come incaricato dal Signore stesso dalla cura di tutta la Chiesa. Cosa ne conclude? Poiché i papi hanno abusato dei testi citati per rivendicare un’autorità universale e assoluta sulla Chiesa, secondo il loro ragionamento. Essi danno innanzi tutto alle parole del vangelo il senso più largo, il più assoluto, e se lo applicano successivamente in qualità di successori di San Pietro.

San Gregorio agisce in modo ben diverso: riunisce le prerogative di Pietro, la sua umiltà che lo ha impedito di attribuirsi un’autorità universale. Attacca quindi, con l’esempio di san Pietro, l’autorità che i papi si sono attribuiti in nome di san Pietro e come successori di san Pietro!

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Accontentiamoci di aver fatto questa semplice osservazione, e diamo la parola al santo dottore:

“Ecco, in Europa tutto è consegnato ai barbari; le città sono distrutte; i forti sono rovesciati; le province si spopolano; non c’è più nessuno a coltivare la terra visto che gli adoratori degli idoli dominano sui fedeli, li travolgono con la violenza e li minacciano; e i sacerdoti, che dovrebbero giacere sulle ceneri, innaffiando la terra con le loro lacrime, aspirano a titoli pieni di vanità, a gloriarsi di titoli nuovi e profani! È mio dovere, piissimo signore, che io difenda questa circostanza? È per un particolare insulto che voglio vendicarmi? No, è la causa di Dio Onnipotente, la causa della Chiesa universale.

Chi è colui che, contrariamente ai precetti del Vangelo, ai decreti dei canoni, ha la presunzione di usurpare un nuovo titolo? Volesse il cielo ce non ci fosse che uno solo che, senza voler sminuire gli altri, volesse essere universale!

La Chiesa di Costantinopoli fornì vescovi caduti nell’abisso dell’eresia e che divennero addirittura eresiarchi. È di là che uscì Nestorio, il quale, pensava che vi fossero due persone in Gesù Cristo, Mediatore tra Dio e gli uomini, perché non credeva che Dio potesse farsi uomo, discese così nella perfidia dei Giudei. È da qui che è venuto Macedonio, che ha negato che lo Spirito Santo fosse un Dio consustanziale con il Padre e il Figlio. Se dunque qualcuno usurpa nella Chiesa un titolo che riassume in sé tutti i fedeli; la Chiesa universale – oh blasfemia! – cadrà quindi con esso, poiché si fa chiamare l’universale. Rifiutino dunque tutti i cristiani questo titolo blasfemo, questo titolo che toglie l’onore sacerdotale a tutti i preti non appena viene stoltamente usurpato a favore di uno solo.

È certo che questo titolo fu offerto al romano pontefice dal venerabile concilio di Calcedonia per onorare il beato Pietro, principe degli apostoli. Ma nessuno di loro acconsentì ad usare questo titolo particolare, per timore che se a uno fosse dato qualcosa di particolare, tutti i sacerdoti sarebbero stati privati ​​dell’onore loro dovuto. Come, quando noi non aspiriamo alla gloria di un titolo che ci è stato dato, un altro ha la presunzione di prenderselo quando non gli è stato dato da nessuno?”

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Questo passo di San Gregorio è molto notevole. Afferma prima di tutto che si trattava di un concilio che offriva ai vescovi di Roma l’onore di essere chiamati universali; questo concilio avrebbe agito così, allo scopo di onorare questi vescovi, se avesse creduto che per diritto divino avevano autorità universale?

San Gregorio ci assicura inoltre che il concilio ha voluto onorare i vescovi di Roma, per onore di San Pietro; non credevano quindi che l’autorità universale venisse loro per successione da questo apostolo. La Chiesa di Roma giustamente si gloria di San Pietro, perché l’ha resa illustre col suo martirio. Fu quindi in memoria di questo martirio, e per onorare il primo degli apostoli che fu donato dal concilio generale di Calcedonia ai vescovi di Roma un titolo onorifico. Come riconciliare, con questi fatti annotati da papa San Gregorio, le pretese degli attuali vescovi di Roma che si credono investiti di diritto divino, non solo del titolo di Vescovo Universale, di Padre comune dei fedeli, ma di una sovranità universale?

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Continuiamo la lettera di San Gregorio:

“Costui, dunque, deve piegarsi all’ordine del piissimo Signore, visto che rifiuta l’obbedienza ai precetti canonici.

Oppure si deve reprimere chi fa ingiuria alla santa Chiesa universale, chi si gonfia nel suo cuore, chi vuole godere di un titolo che lo distingua dagli altri, chi, con questo titolo particolare, si eleva anche al di sopra del vostro impero. Questa ambizione ci scandalizza tutti. Torni dunque l’autore di questo scandalo a una vita retta, e cesseranno tutte le liti tra i sacerdoti. Quanto a me, io sono il servitore di tutti i sacerdoti purché conducano una vita degna del loro sacerdozio.

Quanto a colui che, perseguendo la vanagloria, alza la testa contro il Signore Onnipotente e contro i decreti dei Padri, non abbasserò la mia testa davanti a lui, anche se dovesse ricorrere per questo alla spada; io ripongo la mia fiducia nel Signore Onnipotente. Ho fatto conoscere al diacono Sabiniano, mio ​​inviato, i dettagli di quanto è stato fatto a Roma quando abbiamo saputo che il titolo in questione veniva usurpato. Che la pietà dei miei Signori pensi bene di me; io sono con loro, mi hanno sempre ricolmato, più di ogni altro, dei loro favori e desidero conservare la loro obbedienza, e solo temo di essere accusato di negligenza nell’ultimo e terribile giudizio; che il piissimo Signore si degni di giudicare la disputa, secondo la richiesta fattane dal diacono Sabiniano, e per costringere l’uomo di cui vi ho tanto parlato a rinunciare alla sua ambizione. Se, per giustissimo giudizio della vostra pietà, o per i vostri indulgenti ordini, egli vi rinuncerà, ringrazieremo Dio onnipotente e gioiremo della pace che avrete ridato a tutta la Chiesa. Se invece persiste nei suoi disegni, seguiremo su questo argomento il sentimento della Verità che disse: ‘Chiunque si eleva sarà abbassato’. Così, infatti, è scritto: ‘Il cuore si eleva prima di cadere’. Obbediente ai comandi dei miei Signori, ho scritto gentilmente al mio fratello nel sacerdozio e l’ho umilmente ammonito a correggersi da questo desiderio di vanagloria. Se vuole ascoltarmi, ha in me un fratello devoto. Ma se persiste nel suo orgoglio, vedo già il prosieguo della sua via, perché ha come avversario Colui del quale è scritto: ‘Dio resiste ai superbi, ma dona la sua grazia agli umili!’”

continua….in traduzione


[1]Papa San Gregorio Magno, Epistolarium, lib. 1, ep. XXV

[2] S. Gregorio Magno, Epistolarium, lib. V, ep. XVIII

[3] Gregorio Magno, Epistolarium, lib. V, ep. XIX

[4] Gregorio Magno, Epistolarium, lib. V, ep. XX




Primo Concilio di Costantinopoli (381)

Dal 1 maggio al luglio 381.
Convocato dall’imperatore Teodosio I.
Tema: Simbolo Niceno-Costantinopolitano. Divinità dello Spirito Santo.

IL SIMBOLO DEI CENTOCINQUANTA PADRI

Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e di quelle invisibili: e in un solo signore Gesù Cristo, figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli. Luce da luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, prese carne dallo Spirito Santo e da Maria vergine, e divenne uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, fu sepolto e risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture, salì al cielo, si sedette alla destra del Padre: verrà nuovamente nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Crediamo anche nello Spirito Santo, che è signore e dà vita, che procede dal Padre; che col Padre e col Figlio deve essere adorato e glorificato, ed ha parlato per mezzo dei Profeti. Crediamo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Crediamo un solo battesimo per la remissione dei peccati e aspettiamo la resurrezione dei morti, e la vita del secolo futuro. Amen.

Πιστεύω είς ενα Θεόν, Πατέρα, παντοκράτορα, ποιητήν ουρανού καί γής, ορατών τε πάντων καί αοράτων. Καί είς ενα Κύριον, Ίησούν Χριστόν, τόν Υιόν του Θεού τόν μονογενή, τόν εκ του Πατρός γεννηθέντα πρό πάντων τών αιώνων. Φώς εκ φωτός, Θεόν αληθινόν εκ Θεού αληθινού γεννηθέντα, ού ποιηθέντα, ομοούσιον τώ Πατρί, δι’ ού τά πάντα εγένετο. Τόν δι’ ημάς τούς ανθρώπους καί διά τήν ημετέραν σωτηρίαν κατελθόντα εκ τών ουρανών καί σαρκωθέντα εκ Πνεύματος ‘Αγίου καί Μαρίας τής Παρθένου καί ενανθρωπήσαντα. Σταυρωθέντα τε υπέρ ημών επί Ποντίου Πιλάτου καί παθόντα καί ταφέντα. Καί αναστάντα τή τρίτη ημέρα κατά τάς Γραφάς. Καί ανελθόντα είς τούς ουρανούς καί καθεζόμενον εκ δεξιών τού Πατρός. Καί πάλιν ερχόμενον μετά δόξης κρίναι ζώντας καί νεκρούς, ού τής βασιλείας ουκ εσται τέλος. Καί είς τό Πνεύμα τό ¨Αγιον, τό Κύριον, τό ζωοποιόν, τό εκ τού Πατρός εκπορευόμενον, τό σύν Πατρί καί Υιώ συμπροσκυνούμενον καί συνδοξαζόμενον, τό λαλήσαν διά τών Προφητών. Είς μίαν, αγίαν, καθολικήν καί αποστολικήν Έκκλησίαν. ‘Ομολογώ εν βάπτισμα είς άφεσιν αμαρτιών.Προσδοκώ ανάστασιν νεκρών. Καί ζωήν τού μέλλοντος αιώνος. Άμήν.

LETTERA DEI VESCOVI RADUNATI A COSTANTINOPOLI
A PAPA DAMASO E AI VESCOVI OCCIDENTALI (382)

Ai signori illustrissimi e reverendissirni fratelli e colleghi Damaso, Ambrogio, Brittone, Valeriano, Acolio, Anemio, Basilio, e agli altri santi vescovi raccolti nella grande Roma, il santo sinodo dei vescovi che professano la vera fede, riuniti nella grande Costantinopoli, salute nel Signore.

E’ forse superfluo informare la Reverenza vostra, quasi che possa esserne all’oscuro, e narrare le innumerevoli sofferenze inflitteci dalla prepotenza ariana. Non crediamo, infatti, che la santità vostra giudichi così poco importante quanto ci riguarda, da esserne ancora all’oscuro, metterebbe anzi conto che se ne piangesse insieme. D’altra parte, le tempeste che si sono abbattute su di noi sono state tali, che non hanno certo potuto rimanervi nascoste; il tempo delle persecuzioni è recente, ne è ancora vivo il ricordo non solo in coloro che hanno sofferto, ma anche in chi per l’amore che li legava ad essi ha fatto proprie le loro sofferenze. Infatti solo ieri, per così dire, e l’altro ieri, alcuni sciolti dai vincoli dell’esilio, sono tornati alle loro chiese in mezzo a mille tribolazioni; di altri, morti in esilio, sono tornati solo i resti: alcuni, anche dopo il ritorno dall’esilio, fatti segno all’odio acre degli eretici, dovettero sopportare più amarezze nella propria terra che in terra straniera, raggiunti, come il beato Stefano, dalle loro pietre (1); altri lacerati da vari supplizi, portano ancora le stigmate di Cristo (2) e le ferite nel proprio corpo. Le perdite di ricchezze, le multe delle città, le confische dei beni dei singoli, gli intrighi, le prepotenze, le carceri, chi potrebbe contarle? Davvero che tutte le tribolazioni si sono moltiplicate contro di noi oltre ogni dire, forse perché scontassimo la pena dei nostri peccati, o forse perché Dio, clemente, voleva provarci con tante sofferenze.

Di ciò siano rese grazie a Dio, il quale volle istruire i suoi servi attraverso prove così grandi (3), e secondo la sua grande misericordia ci ha condotto nuovamente al refrigerio (4). Certo sarebbe stato necessario per noi una lunga pace, e molto tempo, e molto lavoro per il miglioramento delle chiese, perché, cioè, finalmente potessimo ricondurre all’originario splendore della pietà il corpo della chiesa, oppresso come da lunga malattia, ricreandolo a poco a poco con ogni sorta di cure. In questo modo riteniamo di esserci liberati dalla violenza delle persecuzioni, e di aver ripristinato le chiese così a lungo dominate dagli eretici; dei lupi, tuttavia, ci danno molta molestia: scacciati dai loro recinti, rapiscono le pecore negli stessi pascoli boscosi, e tentano di tenere riunioni, e di suscitare sommosse popolari, senza nulla risparmiare pur di arrecare danno alle chiese. Come dicevamo, sarebbe stato necessario che potessimo occuparci di questi problemi per un tempo più lungo.

In ogni modo, poiché, mostrando la vostra fraterna carità verso di noi, con lettere dell’imperatore, da Dio amato, avete invitato anche noi come veri membri al sinodo che per volontà di Dio avete convocato a Roma perché, essendo stati noi sottoposti allora da soli alle tribolazioni, ora in questa pia concordia degli Imperatori voi non regnaste senza di noi, ma anche noi, secondo la parola dell’apostolo, potessimo regnare insieme con voi (5), sarebbe stato nostro desiderio, se possibile, lasciare tutti insieme le nostre chiese, e venire incontro ai vostri desideri e alla (comune) utilità. Chi ci darà, infatti, le ali come quelle di una colomba per volare e posarci presso di voi (6)? Ma poiché questo avrebbe spogliato le nostre chiese, appena cominciato il rinnovamento, e la cosa sarebbe stata per moltissimi impossibile, ci eravamo radunati insieme a Costantinopoli, secondo l’invito delle lettere, mandate l’anno scorso dalla vostra carità, dopo il sinodo di Aquileia, all’imperatore Teodosio, caro a Dio. Eravamo preparati per questo solo viaggio fino a Costantinopoli, ed avevamo il consenso dei vescovi rimasti nelle diocesi solo per questo sinodo. Di un più lungo viaggio né prevedevamo la necessità, né avevamo avuto alcun indizio prima di venire a Costantinopoli. Inoltre l’imminenza della data fissata non lascia il tempo di prepararsi per una assenza più lunga, né di avvertire i vescovi della nostra stessa comunione rimasti nelle diocesi, e di chiedere il loro benestare. Poiché, dunque, questi ed altri simili motivi impedivano la partenza della maggior parte di noi, abbiamo preso l’unico partito che restava per il miglioramento delle cose e per corrispondere alla carità che ci avete dimostrato: e abbiamo pregato insistentemente i venerabilissimi e onorabilissimi fratelli e colleghi nostri, i vescovi Ciriaco, Eusebio e Prisciano di affrontare la fatica di venir fino a voi; e così, per mezzo loro, vi abbiamo fatto conoscere i nostri propositi di pace e di unità, e vi abbiamo manifestato il nostro zelo per la retta fede. Noi, infatti, abbiamo sopportato da parte degli eretici le persecuzioni, le tribolazioni, le minacce degli imperatori, le crudeltà dei magistrati e ogni altra prova, per la fede evangelica confermata dai trecentodiciotto Padri di Nicea di Bitinia. Questa fede, infatti, dev’essere approvata da voi, da noi e da quanti non distorcono il senso della vera fede essendo essa antichissima e conforme al battesimo; essa ci insegna a credere nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cioè in una sola divinità, potenza, sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in una uguale dignità, e in un potere coeterno, in tre perfettissime ipostasi, cioè in tre perfette persone, ossia tali, che non abbia luogo in esse né la follia di Sabellio con la confusione delle persone, con la soppressione delle proprietà personali, né prevalga la bestemmia degli Eunomiani, degli Ariani, dei Pneumatomachi, per cui, divisa la sostanza, o la natura, o la divinità, si aggiunga all’increata, consostanziale e coeterna Trinità una natura posteriore, creata, o di diversa sostanza. Riteniamo anche, intatta, la dottrina dell’incarnazione del Signore; non accettiamo, cioè l’assunzione di una carne senz’anima, senza intelligenza, imperfetta, ben sapendo che il verbo di Dio, perfetto prima dei secoli, è divenuto perfetto uomo negli ultimi tempi per la nostra salvezza.

Queste sono, in sintesi, le principali verità della fede, che senza ambagi predichiamo. Esse vi procureranno anche una maggior soddisfazione, se vi degnerete di leggere il tomo composto dal sinodo di Antiochia, e quello pubblicato dal concilio ecumenico, a Costantinopoli, lo scorso anno. In essi abbiamo esposto la nostra fede assai ampiamente, ed abbiamo sottoscritto i nostri anatemi contro le recenti novità delle eresie.

Quanto all’amministrazione delle singole chiese ha forza di legge l’antica norma, come sapete, e la disposizione dei santi padri di Nicea: che, cioè, in ciascuna provincia, e, se essi vorranno anche i vescovi confinanti con loro, si facciano le ordinazioni come richiede l’utilità delle chiese. Sappiate che, conforme a queste disposizioni, vengono amministrate le nostre chiese, e sono stati nominati i sacerdoti delle chiese più insigni. Della chiesa novella, per cosi dire, di Costantinopoli, che da poco, per misericordia di Dio, abbiamo strappato alle bestemmie degli eretici, come dalla bocca di un leone (7), abbiamo ordinato vescovo il reverendissimo e amabilissimo in Dio Nettario. Ciò è stato fatto al cospetto del concilio universale, col consenso di tutti, sotto gli occhi dell’imperatore Teodosio, carissimo a Dio, di tutto il clero, e con l’approvazione di tutta la città. Dell’antica e veramente apostolica chiesa di Antiochia di Siria, nella quale per prima fu usato il venerando nome di cristiani, i vescovi della provincia e della diocesi dell’oriente, radunatisi, consacrarono vescovo, canonicamente, il reverendissimo e da Dio amatissimo Flaviano, con l’approvazione di tutta la chiesa, che, unanime onorava quest’uomo. L’ordinazione è stata riconosciuta conforme alla legge ecclesiastica anche dalle autorità del concilio. Vi informiamo, inoltre, che il reverendissimo e carissimo a Dio Cirillo è vescovo della madre di tutte le chiese, la chiesa di Gerusalemme. A suo tempo egli è stato consacrato, conforme alle norme ecclesiastiche, dai vescovi della provincia, e spesso, in diverse circostanze, ha lottato strenuamente contro gli Ariani.

Poiché, dunque, queste cose sono state compiute da noi legalmente e canonicamente, preghiamo la reverenza vostra di volersi rallegrare con noi, uniti scambievolmente dal vincolo dell’amore che viene dallo Spirito e dal timore di Dio che vince ogni umana passione, e antepone l’edificazione delle chiese all’amicizia ed alla benevolenza verso i singoli. In tal modo, in pieno accordo nelle verità della fede, e fortificata in noi la carità cristiana, cesseremo di ripetere l’espressione già biasimata dagli apostoli: Io sono di Paolo, io sono di Apollo; e io sono di Cefa (8), ma saremo tutti di Cristo, che non può esser diviso in noi; e, se Dio ce ne farà degni, conserveremo indiviso il corpo della chiesa e compariremo tranquilli dinanzi al tribunale di Dio (9).

CANONI

I. Che le decisioni di Nicea restino immutate; della scomunica degli eretici.

La professione di fede dei trecentodiciotto santi Padri, raccolti a Nicea di Bitinia non deve essere abrogata, ma deve rimanere salda; si deve anatematizzare ogni eresia, specialmente quella degli Eunomiani o Anomei, degli Ariani o Eudossiani, dei Serniariani e Pneumatomachi, dei Sabelliani, dei Marcelliani, dei Fotiniani e degli Apollinaristi.

II. Del buon ordinamento delle diocesi, e dei privilegi dovuti alle grandi città dell’Egitto, di Antiochia, di Costantinopoli; e del non dover un vescovo metter piede nella chiesa di un altro.

I vescovi preposti ad una diocesi non si occupino delle chiese che sono fuori dei confini loro assegnati né le gettino nel disordine; ma, conforme ai canoni, il vescovo di Alessandria amministri solo ciò che riguarda l’Egitto, i vescovi dell’Oriente, solo l’oriente, salvi i privilegi della chiesa di Antiochia, contenuti nei canoni di Nicea; i vescovi della diocesi dell’Asia, amministrino solo l’Asia, quelli del Ponto, solo il Ponto, e quelli della Tracia, la Tracia.

A meno che vengano chiamati, i vescovi non si rechino oltre i confini della propria diocesi, per qualche ordinazione e per qualche altro atto del loro ministero. Secondo le norme relative all’amministrazione delle diocesi, è chiaro che questioni riguardanti una provincia dovrà regolarle il sinodo della stessa provincia, secondo le direttive di Nicea. Quanto poi alle chiese di Dio fondate nelle regioni dei barbari, sarà bene che vengano governate secondo le consuetudini introdotte ai tempi dei nostri padri.

III. Che dopo il vescovo di Roma, sia secondo quello di Costantinopoli.

Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma.

IV. Della illecita ordinazione di Massimo.

Quanto a Massimo il Cinico e ai disordini avvenuti a Costantinopoli per causa sua intorno a lui, questo grande sinodo giudica che Massimo non è mai stato né è vescovo, e non lo sono quelli che egli ha ordinato in qualsiasi grado del clero: tutto quello, infatti, che è stato compiuto a suo riguardo o da lui è da considerarsi nullo.

V. Il tomo degli Occidentali è bene accetto.

Per quanto riguarda il tomo (=documento) degli Occidentali, anche noi riconosciamo quelli di Antiochia che professano la medesima divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

VI. Chi può essere ammesso ad accusare un vescovo o un chierico.

Poiché molti volendo turbare e sconvolgere l’ordine ecclesiastico, da veri nemici e sicofanti, inventano accuse contro i vescovi ortodossi incaricati del governo della Chiesa, nient’altro cercando che di contaminare la buona fama dei sacerdoti e di eccitare tumulti tra i popoli che vivono in pace, è sembrato bene al santo concilio dei vescovi radunati a Costantinopoli di non ammettere gli accusatori senza previo esame, né di permettere a chiunque di poter formulare accuse contro gli amministratori delle diocesi, né, d’altra parte, di respingere tutti. Se, quindi, uno ha dei motivi privati, personali, contro il vescovo, perché sia stato defraudato, o perché abbia dovuto sopportare da parte sua qualche altra ingiustizia, in questo genere di accuse non si guardi né alla persona dell’accusatore, né alla sua religione. E’ necessario, infatti, assolutamente, che la coscienza del vescovo si conservi libera dalla colpa e che quegli che afferma di essere trattato ingiustamente, quali che possano essere i suoi sentimenti religiosi, ottenga giustizia. Se, però, l’accusa che si fa al vescovo ha attinenza con la religione in sé e per sé, allora bisogna tener conto della persona degli accusatori. In questo caso, primo, non si permetta agli eretici di formulare accuse contro i vescovi ortodossi in cose riguardanti la chiesa (per eretici intendiamo sia quelli che già da tempo sono stati pubblicamente banditi dalla Chiesa, sia quelli che poi noi stessi abbiamo condannato; sia quelli che mostrano di professare una fede autentica, ma in realtà sono separati e si riuniscono contro i vescovi legittimi). Inoltre, quelli che sono stati condannati, scacciati o scomunicati per vari motivi dalla Chiesa, sia chierici che laici, non possono accusare un vescovo, prima di essersi lavati della loro colpa. Analogamente non possono accusare un vescovo o altri chierici, coloro che siano sotto una precedente accusa, se prima non abbiano dimostrato di essere innocenti delle colpe loro imputate. Se, però, vi è chi senza essere eretico, né scomunicato, né condannato o accusato di alcun delitto, ha delle accuse in cose di chiesa contro il vescovo, questo santo sinodo comanda che questi presenti la sua accusa ai vescovi della provincia e dimostri davanti a loro la fondatezza delle accuse. Se poi i vescovi della provincia non sono in grado di correggere le mancanze di cui viene accusato il vescovo, allora gli accusatori possono adire anche il più vasto sinodo dei vescovi di quella diocesi (cioè il sinodo patriarcale), che saranno convocati proprio per questo. Non può però, essere ammesso a provare l’accusa, chi non abbia prima accettato per iscritto di subire una pena uguale a quella che toccherebbe al vescovo se nell’esame della causa si constatasse che le accuse contro il vescovo erano calunnie. Se qualcuno, disprezzando ciò che è stato decretato, osasse importunare l’imperatore, o disturbare i tribunali civili, o il concilio ecumenico, con disprezzo di tutti i vescovi della diocesi, la sua accusa non deve essere ammessa, perché egli ha disprezzato i canoni, ed ha tentato di sconvolgere l’ordine ecclesiastico.

VII. Come bisogna accogliere coloro che si avvicinano all’ortodossia.

Coloro che dall’eresia passano alla retta fede nel novero dei salvati, devono essere ammessi come segue: gli Ariani, i Macedoniani, i Sabaziani, i Novaziani, quelli che si definiscono i Puri (Catari), i Sinistri, i Quattuordecimani o Tetraditi e gli Apollinaristi, con l’abiura scritta di ogni eresia, che non s’accorda con la santa chiesa di Dio, cattolica e apostolica. Essi siano segnati, ossia unti, col sacro crisma, sulla fronte, sugli occhi, sulle narici, sulla bocca, sulle orecchie e segnandoli, diciamo: Segno del dono dello Spirito Santo. Gli Eunomiani, battezzati con una sola immersione, i Montanisti, qui detti Frigi, i Sabelliani, che insegnano l’identità del Padre col Figlio e fanno altre cose gravi, e tutti gli altri eretici (qui ve ne sono molti, specie quelli che vengono dalle parti dei Galati); tutti quelli, dunque, che dall’eresia vogliono passare alla ortodossia, li riceviamo come dei gentili. E il primo giorno li facciamo cristiani, il secondo, catecumeni; poi il terzo, li esorcizziamo, soffiando per tre volte ad essi sul volto e nelle orecchie. E così li istruiamo, e facciamo che passino il loro tempo nella chiesa, e che ascoltino le Scritture; e allora li battezziamo.


Note

(1) Cfr. At 7, 53
(2) Cfr. Gal 6, 17
(3) Cfr. Sal 50, 3
(4) Cfr. Sal 66, 12
(5) Cfr. 1 Cor 4, 8
(6) Cfr. Sal 55, 7
(7) Cfr Sal 21, 22
(8) 1 Cor 1, 12
(9) Cfr. Rm 14, 10




Anziano Efraim di Philotheou: L’arte della salvezza. Biografia e Prologo

Biografia

da: https://stanthonysmonastery.org/pages/elder-ephraim

Anziano Efraim di Philotheou

Ioannis Moraitis (il futuro Anziano  Efraim) è nato a Volos, in Grecia, da Demetrios e Victoria Moraitis il 24 giugno 1928, giorno in cui la Chiesa ortodossa celebra la nascita di San Giovanni Battista. Sua madre era una grande asceta, passava spesso le notti pregando con le lacrime e facendo innumerevoli prostrazioni, dando così l’esempio al piccolo Ioannis. Un giorno, mentre era seduta accanto a lui in preghiera, ebbe la visione di una stella che usciva di casa e si dirigeva verso il Monte Santo. Sentì una voce che diceva: “Dei tuoi tre figli, solo questo vivrà”. All’inizio, lo prese alla lettera, pensando che i suoi altri due figli sarebbero morti. Tuttavia, capì presto che questa era una profezia secondo cui Ioannis sarebbe diventato un monaco sulla Montagna Sacra. Da quel momento in poi dedicò particolare attenzione alla sua educazione spirituale, facendo di tutto per offrire al Signore un sacrificio senza macchia.

Con la crescita di Ioannis, crebbe anche il suo desiderio di monachesimo. Iniziò a esortare il suo padre spirituale a permettergli di andare sulla Montagna Sacra, ma il suo padre spirituale, padre Efraim di Volos, sperava di avviare un monastero e voleva tenere Ioannis con lui. Dopo alcuni anni, Ioannis si rese conto che padre Efraim non avrebbe mai fondato un monastero e decise di andare al Monte Santo. Sua madre e padre Efraim lo mandarono da san Giuseppe l’Esicasta, che era stato anche geronda di padre Efraim.

Così, nell’anno 1947, Ioannis si trovò sulla barca per Athos. Mentre guardava i monasteri dalla barca, quelle massicce fortezze gli sembravano delle prigioni. Il suo cuore fu costretto dal dolore, come se stesse affrontando una vita di internamento. Chiese a un monaco seduto accanto a lui sulla barca dove si trovava la capanna dell’anziano Joseph l’Esicasta. Il monaco vide che Ioannis era tutto pelle e ossa, poiché era malaticcio, e gli disse che non era idoneo a unirsi a una confraternita così austera. Ma quando Ioannis insistette, il monaco indicò una piccola capanna bianca, in alto sulla montagna come un nido d’aquila. Non appena Ioannis vide quanto fosse aperto e libero, il suo cuore fu sollevato. Gli sembrava il paradiso.

Quando raggiunse il porto dello Skete di Sant’Anna, fu accolto da padre Arsenios, co-asceta di san Giuseppe. Quando padre Arsenios lo vide, chiese: “Non sei Yiannaki di Volos?” “Sì, padre, ma come mi conosci?” rispose. «Oh, il santo Precursore è apparso ieri sera a Geronda Joseph e gli ha detto: “Ti porto un agnellino. Mettilo nel tuo ovile”. Questo fu il primo incontro di Ioannis con il semplice ma santo padre Arsenios, che poi condusse Ioannis su per i ripidi sentieri fino alla loro capanna.

E così Ioannis iniziò una vita di obbedienza e ascesi accanto a San Giuseppe. La loro vita era molto austera. Mangiavano solo una volta al giorno dopo il tramonto, facevano innumerevoli prostrazioni, praticavano la preghiera noetica per ore e continuavano a rimanere in completo silenzio, parlando solo quando necessario. E per di più san Joseph rimproverava e insultava continuamente Ioannis.

Dopo nove mesi, vedendo che Ioannis era un discepolo modello, umile e obbediente in tutto, san Joseph si convinse che era pronto per la tonsura monastica. Il 13 luglio 1948, in mezzo alla solitudine della loro piccola chiesa rupestre, Ioannis fu tonsurato come monaco del grande schema, ricevendo il nome di Efraim. Il santo continuò ad agire duramente nei confronti di padre Efraim, ma lo fece per estirpare dall’anima del suo giovane discepolo la passione dell’orgoglio e di fatto nutriva per lui un amore sconfinato. E sebbene il santo fosse severo, esigente e spesso aspro con i suoi discepoli durante le loro attività quotidiane, durante la loro confessione serale e rivelazione di pensieri era gentile e amorevole, spiegando le ragioni degli errori che commettevano durante la giornata e insegnando loro l’arte della guerra spirituale.

A quel tempo la loro confraternita non aveva un proprio sacerdote per le loro necessità liturgiche. Sant’Efraim di Katounakia veniva più volte alla settimana per celebrare per loro la liturgia. Tuttavia, la geronda di sant’Efraim a Katounakia non sempre lo lasciava andare, così nel 1952 san Joseph decise che padre Efraim fosse ordinato diacono e padre Haralambos sacerdote. Anche padre Efraim cucinava per la confraternita (un’obbedienza che manterrà anche dopo la morte di sua geronda, cucinando per i suoi stessi discepoli). Non avevano una cucina, un fornello, un forno o qualcosa del genere. Doveva cucinare all’aperto su un fuoco, a volte con un clima molto rigido. A volte il vento era così violento da disperdere tutti i suoi utensili.

A causa del clima rigido alla piccola Sant’Anna, la salute della confraternita iniziò a peggiorare. Così nel 1953 san Giuseppe decise che avrebbero dovuto trasferirsi. Il Santo Monastero di San Paolo offrì loro alcune capanne esicastiche presso la torre della Nuova Skete. Scoprendo che queste capanne erano proprio quello che stavano cercando, decisero di trasferirsi lì. A Nuova Skete, hanno un po’ allentato il loro programma ascetico per quanto riguarda il lavoro fisico e la dieta, ma hanno continuato le loro lotte noetiche e le lunghe veglie come prima. In quel tempo fu ordinato sacerdote anche padre Efraim. Nel loro nuovo eremo avevano due cappelle: una dedicata al Santo Precursore, dove celebrava padre Haralambos, e uno dedicato all’Annunciazione della Theotokos, dove celebrava padre Efraim.

Il 15 agosto 1959, giorno in cui la Chiesa ortodossa celebra la Dormizione della Theotokos, San Giuseppe si riposò nel Signore, lasciando orfani i suoi discepoli. San Joseph aveva incaricato i suoi discepoli di separarsi dopo la sua morte e di creare proprie confraternite. Così, padre Efraim divenne il geronda della capanna dell’Annunciazione della Theotokos.

Non passò molto tempo prima che la vita virtuosa di Geronda Efraim iniziasse ad attirare aspiranti monaci. Poiché la sua confraternita stava crescendo rapidamente, nel 1968 si trasferirono allo skete di Provata, nella cella di Sant’Artemios. A quel tempo, la maggior parte dei monasteri sul Monte Santo erano idioritmici, con solo pochi vecchi monaci che vivevano in ciascuno di loro. Così, nel 1973, i monaci del Santo Monastero di Philotheou chiesero al geronda di portare lì la sua confraternita per aiutarli a ripopolarlo e ristabilirlo come monastero cenobitico.

Inizialmente il geronda non voleva abbandonare la loro vita esicastica a Sant’Artemios e farsi coinvolgere dalle distrazioni di un monastero. Ma, dopo essere stato illuminato da Dio, accettò. Così, il 1 ottobre 1973, Geronda Ephraim fu intronizzato come abate del Santo Monastero di Philotheou, carica che mantenne fino al 1991.

La confraternita continuò a crescere rapidamente, raggiungendo nel 1981 ottanta monaci. A quel tempo, il monastero di Konstamonitou chiese al Geronda Efraim di inviare un gruppo di monaci in loro aiuto. Egli acconsentì e mandò un gruppo di venti monaci. Lo stesso accadde nel 1983 e nel 1986, con altri due monasteri, Xeropotamou e Karakalou. Così rivitalizzò quattro monasteri athoniti.

Nel 1979 si recò in Canada per motivi medici e, mentre era lì, fu invitato a confessare, consigliare e insegnare ai cristiani ortodossi nelle loro chiese e case. Attraverso questi incontri acquisì molti figli spirituali, che lo esortarono a tornare ogni anno per confessarli e guidarli nella loro vita spirituale. Capì che era volontà di Dio che tornasse in Canada e visitasse anche le parrocchie degli Stati Uniti. Su appello dei fedeli ortodossi e con la benedizione dei vescovi dell’arcidiocesi greco-ortodossa d’America, l’anziano Efraim iniziò l’opera di fondazione di comunità monastiche in Nord America, cosa che continuò a fare dopo il suo trasferimento definitivo in Arizona nel 1995. I fedeli ortodossi negli Stati Uniti e in Canada hanno abbracciato, sostenuto e collaborato in questo sforzo. Queste comunità forniscono una guida spirituale e aiutano a preservare le sante tradizioni della Chiesa attraverso una vita cristiana esemplare e la devozione a Dio. Inoltre, selezionando i degni successori (abati e badesse), l’anziano Efraim ha assicurato la continuità del suo lavoro apostolico al servizio della Chiesa e dei suoi bisogni.

Fino al 1989 c’era un solo monastero nelle arcidiocesi greco-ortodosse nordamericane. Da allora, per grazia di Dio, l’anziano Ephraim ha fondato diciassette monasteri in Nord America, dieci per monache e sette per monaci. Il Patriarca ecumenico ha visitato e benedetto quattro di questi monasteri, mentre le preghiere da ogni parte della Chiesa continuano a sostenere questa espansione senza precedenti del monachesimo ortodosso nell’emisfero occidentale.

Nella notte del 7 dicembre 2019, prefestivo del concepimento della Madre di Dio da parte di Sant’Anna, Geronda Efraim si è riposata nel Signore. Possa La sua memoria essere eterna.

PROLOGO

di Sua Eminenza Hierotheos Metropolita di Nafpaktos e San Vlasios

Considero un onore speciale ed eccezionale essere l’autore del prologo de “L’arte della salvezza”, il primo volume di omelie dell’anziano Efraim (l’ex abate del Santo Monastero di Philotheou, Monte Athos), come richiesto da lui e dai padri del Santo Monastero. Questo sentimento di onore deriva dal fatto che l’anziano Efraim è un insegnante esperto dello stile di vita vigile della nostra Chiesa ortodossa.

Ho incontrato l’anziano Efraim per la prima volta sul Monte Athos quando viveva a Nuova Skete. Conservo ancora ben viva nel mio cuore l’immagine di questo fervente asceta, che è dotato della memoria incessante di Dio e dell’intuizione spirituale. Sto parlando di un asceta che ha vissuto concretamente la vita spirituale e che ha acquisito una conoscenza diretta delle passioni e di come possono essere superate, nonché di cosa costituisce la comunione con Dio e di come si può raggiungerla. È un abile padre spirituale provvisto di discernimento, che (come ogni vero esicasta monastico) esprime la sua precisa mentalità ecclesiastica, e allo stesso tempo rispetta il Vescovo al quale chiede con estrema umiltà e con la sua invulnerabile grandezza di scrivere il prologo del suo primo volume di omelie.

Qui assistiamo all’associazione tra due doni che si trovano all’interno della Chiesa: la vita del monaco e il ministero del Vescovo. Questo mi ricorda ulteriormente il rapporto, così come l’umiltà, che esisteva tra san Nicodemo l’Aghiorita e il vescovo Hierotheos di Evripos, che è evidente nella loro corrispondenza all’inizio del libro “A Handbook of Spiritual Counsel”.

I testi contenuti in questo libro “L’arte della salvezza” sono omelie ai monaci del Santo Monastero di Philotheou sul Monte Athos, nonché ai laici, principalmente degli Stati Uniti, che sono suoi figli spirituali e che guida nella vita spirituale.

Il tratto caratteristico di queste omelie è la loro combinazione di teologia e pastorale. Quando parlo di teologia, infatti, non mi riferisco alla conoscenza accademica, che certo è necessaria in certi casi nella vita storica della Chiesa, ma alla teologia che è dono, che si manifesta come esperienza di Dio oltre che come conoscenza delle parole e delle idee increate che sono perennemente trasmesse come insegnamento attraverso parole e significati creati. L’anziano Efraim stesso era obbediente a un anziano santificato: l’anziano Joseph l’Esicasta. Viveva con la preghiera noetica, come era stato istruito da questo anziano ascetico ed esicasta. Ha sperimentato la “prima grazia”, seguendo la “seconda grazia” (come l’ha chiamata molto saggiamente l’anziano Joseph), e in seguito ha acquisito la capacità di discernere gli spiriti, che è il vero dono della teologia.

Questa teologia diventa allora una scienza pastorale che serve a pascere e guidare i figli spirituali. Tale teologo conosce per propria esperienza lo stato di Adamo prima della sua disobbedienza e caduta – poiché in precedenza sussisteva nello stato di illuminazione del nous –  e le orribili conseguenze della caduta – poiché “l’immagine” di Dio si era oscurata, il nous si oscurò, e tutte le potenze dell’anima si deformarono e acquisirono le loro inclinazioni innaturali, risultando nella creazione delle passioni come le riconosciamo oggi. Di conseguenza, un tale teologo conosce la metodologia ascetica, vigile ed esicastica (cioè l’obbedienza, la vigilanza, la preghiera e l’esicasmo noetico), attraverso la quale l’uomo è liberato dal dominio del diavolo, dalla morte e dal peccato, e sviluppa la comunione con Dio “nella persona di Gesù Cristo”.

È dunque evidente la stretta unione tra teologia e pastorale, tra conoscenza spirituale e ministero di pascere le anime umane. Solo coloro che hanno una conoscenza empirica dei misteri di Dio possono aiutare gli altri a essere liberati dalla sottomissione delle passioni, del diavolo e della morte, cosa che costituisce l’autentica pastorale della Chiesa. Se a qualcuno mancano questi prerequisiti, parlerà con grazia invece che teologicamente; esteticamente anziché asceticamente.

Le omelie dell’anziano Efraim si svolgono all’interno di questi confini. Inequivocabilmente, il materiale della sua lezione deriva dalle Sacre Scritture, che sono le parole dei profeti e degli apostoli, testimoni immediati del Verbo incorporeo e incarnato; dagli scritti dei santi Padri della Chiesa, che sono i successori dei Santi Apostoli e i portatori dell’esperienza apocalittica della Pentecoste; da “Le vite dei Padri del deserto” e dal Sinaxarion della Chiesa, in cui sono visibili le vite dei membri veri e santificati della Chiesa, che sono simultaneamente membra non del mistico ma del vero Corpo di Cristo; e da narrazioni tratte e riferite ad asceti santificati del Monte Athos. Soprattutto, però, queste parole spirituali sono plasmate dalle esperienze personali dell’anziano Efraim, ed è per questo che vengono offerte in modo autentico, con semplicità, serenità e mitezza, che sono i frutti dell’esicasmo ortodosso.

Ho letto con attenzione e preghiera le omelie contenute in questo primo volume, la maggior parte nella quiete della Dormizione del Sacro Monastero Theotokos Ampelakiotissa, che si trova all’interno della nostra Santa Metropoli. Mentre leggevo questi scritti, fui edificato spiritualmente e si creò dentro di me uno stato di preghiera. Soprattutto, ho visto chi era l’uomo prima della caduta, dove è finito dopo la caduta e come può essere liberato dal dominio della morte. Queste omelie sono davvero vive, istruttive, stimolanti e portano al pentimento, i segni di un autentico insegnamento ortodosso. Queste omelie, proprio come con le parole di uomini che possiedono lo Spirito Santo e hanno raggiunto la comunione con Cristo attraverso il sacro esicasmo, danno l’impressione che la mente di chi parla si stia muovendo oltre i confini umani.

Quando ebbi finito di leggere queste omelie, mi venne in mente il seguente versetto dell’apostolo Paolo: «Nessuno vi derubi del premio con un pretesto di umiltà e di culto degli angeli, fondandosi su cose che non ha visto, essendo temerariamente gonfio a motivo della sua mente carnale,  e non attenendosi al Capo, da cui tutto il corpo, ben nutrito e tenuto insieme mediante le giunture e le articolazioni, cresce con l’accrescimento che viene da Dio» (Col 2,18-19).

L’apostolo Paolo fa qui riferimento a una situazione esistita durante il suo tempo, che riguardava la fede degli angeli, e a visioni originate dall’uomo caduto e secolare. Ancora oggi possiamo affermare che esistono molte fedi angeliche (cioè demoniache), che si basano sulla mente secolare presuntuosa, fantasie immaginarie, visioni demoniache e costumi sociali, e non sull’insegnamento autentico che emana dall’unione con Cristo, il Capo della Chiesa. Sono dunque appropriate le parole dell’apostolo Paolo: «Se pertanto siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché lasciarvi imporre dei precetti, come se viveste ancora nel mondo» (Col 2,20).

Poiché viviamo in una società secolarizzata che spesso influenza lo stato di cose ecclesiastico, dobbiamo lottare umilmente con tutti i prerequisiti ecclesiastici ortodossi descritti dagli insegnamenti dei santi, che sono i veri membri del Corpo di Cristo. Dobbiamo essere strettamente uniti al Capo della Chiesa che è Cristo e, come membra del Corpo di Cristo, dobbiamo essere nutriti e tenuti insieme dal Capo, e crescere spiritualmente, cioè tutto il nostro essere deve “crescere con l’accrescimento che viene da Dio” (Col 2,19). Il nostro scopo nella vita deve essere quello di crescere in Dio e di avanzare dal nostro attuale stato decaduto al Paradiso, dal nostro attaccamento al diavolo alla deificazione, che è esattamente “l’aumento di Dio”.

Questa crescita spirituale è facilitata dalle omelie dell’anziano Efraim, che mi ricordano non solo un autentico insegnamento monastico, ma anche lo spirito del Monte Athos come lo incontrai negli anni ’60 e ’70, e come è testimoniato oggi dai santi monaci athoniti che conducono una vita ascetica ed esicastica.

Sento il bisogno di ringraziare il venerabile anziano Ephraim per le fatiche che ha intrapreso per acquisire questa conoscenza di Dio, e gli chiedo di pregare anche per me e per tutti noi che siamo impegnati nella pastorale del popolo, per non perdere lo scopo più profondo e fondamentale del ministero pastorale, che è quello di condurre le persone, in primis noi stessi, dall’“immagine” alla “somiglianza” di Dio, dalle tenebre della mente all’illuminazione e alla deificazione. Dobbiamo capire bene che lo scopo del cristianesimo non è semplicemente quello di svolgere un certo lavoro sociale, ma secondo l’accurata affermazione di san Gregorio di Nissa, “il cristianesimo è l’emulazione della natura divina”.




Anziano Aimilianos di Simonopetra: Come leggere le Scritture 

Quando uno si impegna a esaminare la Scrittura in modo ozioso e intellettuale, crea odio e litigi. Come mai? Perché l’approccio intellettuale alla Scrittura non ci aiuta a voltarci e a riflettere sui nostri peccati, ma invece ci fa concentrare su problemi e concetti relativi allo studio della Scrittura, con il risultato che le nostre facoltà logiche e intellettuali sono eccitate senza alcuno scopo reale. “Conoscenza” che di per sé non aggiunge nulla. Al contrario, incoraggia la coltivazione dell’individuo e il suo senso privato delle cose; favorisce l’autosufficienza delle sue opinioni personali, che poi cerca di giustificare e imporre agli altri.

Questo tipo di approccio alla Scrittura ti mette immediatamente in conflitto con gli altri; oppone la tua volontà e la tua opinione alla loro, spingendoti a dissentire e discutere con loro, e a farti dei nemici i tuoi fratelli. Pieno come sono delle mie opinioni sulle cose, sono noto per ricevere qualsiasi cosa da Dio. Il modo corretto è leggere la Scrittura con semplicità e permettere a Dio di dirci ciò che vuole dirci. Una cosa è leggere la Scrittura perché vuoi raccogliere informazioni, un’altra è leggerla perché vuoi acquisirne il vero contenuto, cioè lo Spirito Santo. Questo tipo di conoscenza è la vita di Dio (cfr Gv 17,3), l’ingresso e il prolungamento di Dio nella nostra vita, è la discesa e la dimora di Dio in mezzo a noi. Possiamo giudicare se il nostro studio della Scrittura è autentico o meno in base al numero di lacrime che versiamo quando studiamo. Certo, posso anche leggere la Scrittura senza versare lacrime e senza un forte senso dei miei peccati, ma con la speranza che la grazia di Dio, attraverso la mia lettura della Scrittura, spezzi il mio cuore indurito. Leggi la Scrittura, quindi, ma non dimenticare i tuoi peccati e non ridurre la Scrittura ad un oggetto di indagine intellettuale perché, a quel punto, cessa di essere la parola di Dio e inizi a vederla come qualcosa di umano. Il criterio per il tuo studio dovrebbe essere questo: il modo in cui leggi la Bibbia dovrebbe portare pace al tuo cuore, comunione con Dio, amore per il prossimo e consapevolezza della tua peccaminosità: il riconoscimento di quanto sei indegno e mal preparato per stare davanti a Dio .




ZOLTÁN BARA: I “FURTA GRAECORUM”

CRISTIANESIMO E CULTURA ELLENISTICA NEL II E III SECOLO:
LE VERITÀ PARZIALI ED I “FURTA GRAECORUM”

di ZOLTÁN BARA

1. Introduzione
In una generale espansione e lenta penetrazione del cristianesimo nella società e nelle istituzioni civili, il messaggio cristiano si è dovuto ben presto confrontare con il mondo culturale ellenistico. L’annuncio cristiano aveva preso forma inizialmente in categorie semitiche, perché inizialmente formulato in area semitica, per destinatari di cultura semitica. Dal momento in cui esso, però aspirava a una propagazione universale e cominciava a diffondersi nell’area di cultura greca, ha dovuto essere nuovamente formulato secondo le categorie del pensiero tipiche dell’ellenismo. L’ellenizzazione del messaggio cristiano non è una sua deformazione dovuta all’influsso della cultura greca, bensì il risultato di un processo di adattamento, processo inevitabile e naturale, ancorché molto laborioso e sofferto, al fine di cercare da una parte gli indispensabili agganci con il mondo circostante, e di rivelare dall’altra la novità dei contenuti e perciò l’identità stessa della nuova comunità. (M. SIMONETTI, Cristianesimo antico e cultura greca, Roma 1983, 7–8; E. PRINZIVALLI, Incontro e scontro fra «classico» e «cristiano» nei primi tre secoli: aspetti e problemi, Roma, 1994, 543–556).

È chiaro, che venendo a contatto con il mondo ellenistico il cristianesimo si trova a dover affrontare tutta una serie di problemi.

Da una parte, infatti, gli scrittori cristiani sono d’accordo sul condannare a un tempo il paganesimo popolare e la filosofia greca in quanto false concezioni di Dio e opere del demonio, ma d’altra parte gli apologisti fanno appello alla testimonianza di Platone e di Omero per fondare il carattere ragionevole della loro dottrina. (J. DANIÉLOU, Messaggio evangelico e la cultura ellenistica, Bologna, 1975, 51).
Infatti ci furono due centri d’insegnamento, due scuole, dove il contatto tra ellenismo e cristianesimo, tra filosofia e fede, tra civiltà pagana e civiltà cristiana sono venuti maggiormente a confronto: la scuola di Roma di Giustino, Taziano, Rodone e la scuola di Alessandria, di Clemente e Origene. La scuola romana, fondata da San Giustino, non riservava l’insegnamento ai soli cristiani, ma lo proponeva a tutti, a “chiunque voleva andare per ascoltare la dottrina della verità”. Oggetto di questo insegnamento erano la dimostrazione e la difesa della religione cristiana, l’apologetica che mirava a convertire i pagani e i giudei, la controversia che confutava le tesi degli eretici, in particolare di Marcione.
La scuola di Alessandria, fondata da Panteno e resa celebre soprattutto da Clemente e Origene, non aveva un insegnamento esclusivamente religioso e neppure solo apologetico come quello di Roma. Essa offriva un insegnamento enciclopedico, che esponeva primariamente l’insieme delle scienze profane, per elevarsi poi da queste alla filosofia morale e religiosa e infine alla teologia cristiana, esposta sotto forma di commento ai Libri Sacri. (J. QUASTEN, Patrologia, Torino, 1967, 50–55).
A Giustino, Taziano, Tertulliano, Clemente, Origene e agli altri autori cristiani del II e III secolo si pone il problema: l’ellenismo, principalmente considerato nella sua filosofia, è conciliabile con il cristianesimo? I cristiani lo devono considerare un impedimento, un ostacolo, o un aiuto nel ricercare e definire la verità?
È noto come la risposta di Taziano e Tertulliano è stata decisamente negativa, mentre quella di Giustino, Clemente e Origene più aperta e più possibilista.

2. Patres graeci
2.1. Taziano
Taziano nacque in Siria da una famiglia pagana e fu discepolo, a Roma, di Giustino. Con il suo maestro ebbe in comune la ricerca della vera filosofia e della verità, ma con l’atteggiamento sostanzialmente positivo nei confronti della cultura pagana, nei confronti della quale conservò un rigetto totale e pregiudiziale.

La filosofia, la religione e le opere dei greci sono ingannevoli, immorali e senza alcun valore, eccettuato qualche elemento buono, preso a prestito dalla rivelazione cristiana. I teatri greci sono scuola di vizio. Le arene sono come dei macelli. La danza, la musica e la poesia sono peccaminose e non hanno alcun valore. La filosofia e il diritto greco sono tutta una contraddizione. Basti ricordare il dissenso sui principi costitutivi dell’essere: Anassagora l’identifica con il nous, Parmenido con l’uno; Anassimene con l’aria; Empedocle con l’odio e l’amore, Platone con Dio, Aristotele con l’agire e il patire. Il comportamento pratico di Taziano, come del resto quello di altri apologisti, non è coerente con la sua posizione teorica. Taziano quando espone la sua dottrina sulla divinità, il mondo, l’uomo, fa ricorso ai filosofi che critica. La sua definizione di Dio come spirito è presa da Gv 4,24, ma inserita in una tematica di carattere storico; la sua dottrina dei due spiriti opposti, uno spirituale e l’altro materiale, tra i quali si trova l’anima in posizione intermedia, sembra fondere insieme motivi platonici e stoici. Quando, poi, descrive l’anima che, per causa del peccato, perde le ali, costituite dallo Spirito perfetto, egli riecheggia da vicino il passo platonico delle ali dell’anima.
Non è certamente poco significativo che Giustino, che era aperto al dialogo e alla valorizzazione della cultura pagana, morì martire della fede, mentre Taziano, che era intransigente assertore della malizia intrinseca dei valori pagani, al suo ritorno in Oriente, verso il 173, finì eretico, fondatore della setta degli encratiti e falsificatore della dottrina dell’Apostolo.

EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica, 4, 29, 6: “Ardì cambiare alcune parole dell’Apostolo, come se stesse correggendo il suo stile”. Si veda anche F. BOLGIANI, “Taziano”, in A. Di BERNARDINO (ed.), Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato, 1984, 3354–3357. Si può leggere con profitto anche la prefazione di S. Di Cristina alla traduzione italiana del Discorso ai Greci: Taziano, Discorso ai Greci (a cura di S. Di Cristina), Roma 1991.)

2.2. Tertulliano
Anche Tertulliano, come Giustino, è un convertito dal paganesimo alla fede cristiana. Ciò che portò Tertulliano alla fede non è il confronto con i diversi sistemi filosofici, ma la testimonianza eroica dei primi martiri cristiani: “Chiunque, davanti a una costanza così prodigiosa, si sente come preso da una inquietudine e desidera ardentemente ricercare la causa; quando ha scoperto la verità, l’abbraccia immediatamente.” (Tertulliano; Ad Scapulam, 5)
Tertulliano ha abbracciato questa verità e l’ha elevata alla sua suprema aspirazione. In una sua opera, la parola verità ricorre 162 volte. Il problema dei rapporti della fede cristiana con il paganesimo si riduce, per Tertulliano, alla “vera vel falsa divinitas”. Quando Gesù fondò la nuova religione, lo fece per condurre l’umanità alla conoscenza della verità. (Tertulliano: Apologetico 21,30)
Il Dio cristiano è il Dio vero, e coloro che lo incontrano la pienezza della verità! La verità è ciò che odiano i demoni e respingono i pagani; i cristiani, invece, muoiono e soffrono per essa. Ciò che distingue il cristiano dal pagano è la verità. In un primo atteggiamento di apertura e di dialogo, Tertulliano sostiene che ogni uomo ha la possibilità, grazie ai communes sensus, una sorta di conoscenza innata, di conoscere naturaliter Dio e l’immortalità dell’anima. (Tertulliano: De resurrectione mortuorum 3, 1). Nel proporre ai pagani la catechesi su Cristo, dalla nascita di Dio fino alla risurrezione dalla morte, riprende la dottrina giovannea di Cristo-Logos e, per renderlo familiare ai lettori, ricorda come anche la filosofia stoica conoscesse il Logos creatore del mondo; in tale contesto cita Zenone e Cleante, in modo da presentare la dottrina del Logos cristiano, nella sua originalità, rispetto a quello stoico, come un perfezionamento, un completamento di quella. (Tertulliano: Apologetico 21).
Il De anima, la più antica trattazione cristiana dedicata a questo argomento, è tutta fondata su materiale dedotto dalla tradizione filosofica greca. Nell’Adversus Praxeam riprendendo la dottrina del Logos, Tertulliano l’incentra su una concezione materialistica di Dio, di chiara impronta stoica: “Chi negherà che Dio è corpo, anche se Dio è spirito? Infatti, lo spirito è un corpo di tipo speciale nel suo aspetto. Anche le cose invisibili, quali che siano, sono visibili solo a Dio.” (Tertulliano: Adversus Praxeam 7, 8–9). Ma nei momenti maggiori del suo rifiuto della cultura greca e della difesa del cristianesimo, Tertulliano fa della filosofia la matrice dell’eresia gnostica e di tutte le altre eresie. Colpisce la curiositas dei filosofi, cioè la ricerca cavillosa e sottile, che non conduce alla verità, e la mette in contrasto con la semplicità delle ricerca dei cristiani, illuminati dalla rivelazione di Cristo. Afferma che noi non abbiamo più bisogno della curiosità, dopo Gesù Cristo, né della ricerca, dopo il vangelo. Il suo atteggiamento anti-intellettualista lo porta a dire: “credo quia absurdum!”. È nota, poi, la sua affermazione:

Cos’ha da spartire Atene con Gerusalemme? Che cosa l’Accademia con la Chiesa? La nostra formazione è dal portico di Salomone. Che somiglianza ci può essere tra il filosofo e il cristiano, tra il discepolo della Grecia e quello del cielo, tra chi cerca la fama e chi cerca la salvezza, chi vende parole e chi realizza opere, chi costruisce e chi distrugge, chi altera e chi tutela la verità, chi è ladro e chi è custode del vero? (Apologetico 416, 18 – A. MAGRIS, “La filosofia greca e la formazione dell’identità cristiana”, in Annali di storia dell’esegesi, 21, Bologna, 2004, 59–107).

2.3. Giustino e gli Alessandrini
Idee completamente opposte professano Giustino, Clemente e Origene.
Per essi, la filosofia greca è fondamentalmente un dono salutare di Dio, sia che se ne consideri l’azione di un tempo sui pagani, o l’azione presente sui cristiani. Contro coloro che asserivano che “la filosofia è una funesta invenzione del maligno per avvelenare la vita degli uomini”, Clemente arriva ad affermare invece che la filosofia sarebbe un terzo Testamento, paragonabile alla Legge, dato agli uomini per insegnare loro la giustizia.

CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata I, 1, 18, 1; VI, V, 42, 1, in J.-P. MIGNE (ed.), Patrologia Greca, 161 voll., Paris 1857–1866 (d’ora innanzi PG) 8. Cfr. G. GIRGENTI, Giustino martire. Il primo cristiano platonico, Platonismo e filosofia patristica. Studi e testi 7, Milano, 1995; P. MERLO, Liberi per vivere secondo il Logos. Principi e criteri dell’agire morale in san Giustino filosofo e martire, Biblioteca di Scienze Religiose 111, Roma, 1995; C. CORSATO, Alcune “sfide della storia” nel cristianesimo delle origini: Giustino, Cipriano, Gregorio Magno, Padova, 1995, 231–251: (soprattutto 231–235: Giustino e la cultura nel secondo secolo).

Però è singolare l’argomentazione alla quale questi autori cristiani ricorrono per salvare la cultura pagana ed esercitare su di essa una sorta di protezionismo ecclesiale e teologico. Di fronte alla cultura greca e la sua imponenza in campo soprattutto filosofico, essi cercarono di inglobare questa cultura pagana nella Bibbia. La Bibbia, sostenevano, è anteriore a Platone e non ha quindi attinto niente dalla cultura pagana, mentre Platone e altri filosofi hanno attinto alla Bibbia alcune verità fondamentali su Dio, l’uomo, il cosmo. Hanno “rubato” alla Bibbia le verità sul mondo e sull’uomo. È l’argomento dei cosiddetti ‘furta Graecorum’, con il quale Giustino e Clemente Alessandrino, soprattutto, sostengono che la filosofia greca ha conseguito una conoscenza parziale della verità. Vogliamo vedere un po’ più da vicino questi due argomenti molto usati: le verità parziali e il furto delle verità. Ci si chiede innanzitutto: per quale via sono pervenute ai greci le verità parziali di cui essi dispongono sull’uomo e sul mondo?

Furta Graecorum
3.1. L’origine delle verità parziali
Filone riconosceva tre fonti alla verità presentate dai filosofi della Grecia: o le hanno tratte da Mosè; o le hanno scoperte con la ragione; oppure alcuni filosofi hanno ricevuto una ispirazione da Dio, parallela a quella dei profeti.

H. A. WOLFSON, Philo, Cambridge, 1948, I, 141–147; A. J. DROGE, Homer or Moses? Early Christian Interpretations of the History of Culture, Tübingen, 1989 (qui soprattutto per le 59–72.

Giustino riconosce tali fonti nella teoria dei “prestiti” dalla Bibbia o nel riconoscimento della capacità della ragione umana.

Wolfson sostiene che anche in Giustino si trovano le tre fonti di Filone. H. A. WOLFSON, The philosophy of the Church Fathers, Cambridge 1956, I, 41. Holte sostiene che Giustino non ricorre all’argomento della rivelazione. R. HOLTE, “Logos spermatikós. Christianity and ancient philosophy accordino to St. Justin’s Apologies”, in Studia Theologica Lundensia, 12 (1958), 161.
DANIÉLOU, 52; E. DAL COVOLO, “I Padri preniceni davanti alla cultura del loro tempo”, in Ricerche Teologiche, 9 (1998), 133–138.

Clemente Alessandrino dà due elenchi di possibili fonti di queste verità parziali. Nel primo comprende tre fonti: La filosofia greca, dicono alcuni, tocca in qualche modo la verità per l’approssimazione, ma vagamente e parzialmente; altri vogliono che essa riceva il suo impulso dal diavolo; alcuni hanno espresso l’opinione che ogni filosofia sia stata ispirata da qualche potenza subordinata. (Stromata I, 16)

Un secondo elenco riporta le seguenti fonti: alcuni dicono che i greci hanno avuto una nozione naturale (fusiké énnoia) o ancora un “senso comune” (koinòs noùs). Si dice ancora che si tratta di un dono di predicazione o d’ispirazione. Infine, altri vogliono che i filosofi abbiano detto certe cose in quanto riflesso della verità.

Stromata I, 19; Cfr. G. V. VIAN, “Cristianismo y culturas en la época patrística”, in Cristianismo y culturas. Problemática de inculturación del mensaje cristiano. Actas del VIII Simposio de Teología Histórica, Facultas de Teología San Vicente Ferre, Valencia, 1995, 69.

Questi due elenchi distinguono, dunque, due fonti principali: una è la conoscenza naturale di Dio, assai elementare, accessibile a tutti gli uomini e che può essere raggiunta per approssimazione (perìptosis), per nozione naturale (fusiké énnoia), per senso comune (koinòs noùs), per riflesso (émfasis); un’altra è una conoscenza che suppone un’interpretazione soprannaturale, di cui soltanto alcuni sono l’oggetto, e riguarda verità più alte.

E. MOLLAND, The conception of the Gospel in Alexandrian Theology, Oslo, 1938, 45– 52; E. MOLLAND, “Clement of Alexandria on the origin of Greek philosophy”, in Symbolae Osloenses 15/16, Oslo, 1936, 57–85.

La differenza tra Clemente e Giustino sta nel fatto che mentre Giustino, salvo un’eccezione, attribuiva indistintamente a una stessa azione del Logos ogni verità conosciuta dai pagani prima di Cristo. Clemente distingue due temi diversi. Da una parte vi è una conoscenza comune, dovuta al Logos, alla ragione, che è essa stessa, un dono di Dio; questa conoscenza è naturale e accessibile a tutti. Ma d’altra parte vi è un’azione del Logos presso alcuni greci che ne fa una sorta di profeti del mondo pagano, e che richiede un’assistenza speciale di Dio. Per quanto riguarda l’argomento della capacità della ragione umana, Giustino evidenzia il fatto che ogni uomo è in condizione di conoscere alcune verità per mezzo della ragione.(GIUSTINO, Apologia I, 46; Apologia II, 10 (PG 6))

La differenza tra i pagani e i cristiani sta nel fatto che i primi non hanno avuto che una conoscenza parziale della verità. I pagani partecipano al Logos, ma i cristiani hanno ricevuto nel Cristo il Logos stesso. I cristiani possiedono eminentemente nel Cristo la verità di ogni filosofia, perché questa non è che una partecipazione al Logos: Tutto ciò che essi hanno detto di buono appartiene a noi cristiani. Perché dopo Dio noi adoriamo il Verbo nato dal Dio ingenerato e ineffabile, poiché si è fatto uomo per noi, allo scopo di guarirci dai nostri mali, prendendovi parte. Gli scrittori hanno potuto vedere oscuramente la Verità, grazie al seme del Verbo che è stato posto in loro. Ma allora, una cosa è possedere un seme e una somiglianza proporzionale alle proprie facoltà, altra cosa la realtà stessa, la cui partecipazione e imitazione procedono dalla grazia che viene da lui.(Apologia II, 13)

Giustino spiega questa partecipazione dicendo che in ogni uomo vi è un “germe del Logos” (sperma tou Lógou) e che ciò è dovuto all’azione del Verbo che dà il germe (spermatikós Lógos). Questi semi sono una partecipazione del Logos nello spirito umano; essi derivano dall’azione del Logos, che insemina così le intelligenze. Sono dei semi non nel senso stoico o platonico di una conoscenza incoativa che lo spirito deve condurre alla sua perfezione, ma di una conoscenza infima, cui soltanto il Verbo incarnato darà la perfezione.

3.2. I furta Graecorum
Prendiamo in esame ora in modo particolare l’argomento dei ‘furta graecorum’ in base al quale le verità conosciute dai filosofi sono dei prestiti presi dalla rivelazione. Lo faremo attingendo direttamente ad alcuni testi patristici in cui ricorre questo argomento.

“La predizione: una spada vi consumerà non significa che i disobbedienti moriranno sotto i colpi delle spade; ma la spada di Dio è il fuoco, del quale diviene esca chi proferisce il male. Per questo, la predizione dice: la spada vi consumerà; perché la bocca del Signore lo ha detto. Se invece intendesse dire di una spada che recide e subito dà morte non direbbe vi consumerà. Quindi anche Platone quando asserì che la colpa è di chi sceglie, e Dio non ne è causa, lo asserì derivandolo dal profeta Mosè; perché Mosè è più antico di tutti gli scrittori greci. E tutto ciò che dissero i filosofi e i poeti circa l’immortalità dell’anima o le pene successive alla
morte o alla contemplazione delle cose celesti o circa simili verità, hanno potuto pensarlo e lo hanno espresso derivandone il principio dai profeti. Perciò fra tutti costoro sembra che
si trovino semi di verità; ma dimostriamo che essi non hanno compreso esattamente, dal momento che affermano cose in contrasto tra loro. Quindi, se diciamo che è stato vaticinato il futuro, non intendiamo asserirlo quasi che esso si svolga per necessità del fato; ma, essendo Dio preveggente delle future azioni degli uomini e ha stabilito che ciascuno avrà una degna ricompensa delle
proprie opere, egli, per virtù dello Spirito profetico, preannuncia le mercedi che da parte sua verranno agli uomini secondo il merito dei loro atti. E così induce il genere umano a riflettere e ben considerare; e dimostra anche che egli si dà pensiero di loro e a loro provvede”. (Apologia I, 44.
)
“Ma perché sappiate che dai nostri maestri – intendiamo dire dalle scritture
profetiche – Platone tolse l’affermazione che Dio aveva formato il mondo optando sulla materia informe, porgete ascolto alle precise parole di Mosè, che abbiamo già indicato quale primo fra i profeti e anteriore agli scrittori greci. È servendosi di lui che lo spirito profetico, per significare in quale maniera e da quali elementi in principio Dio fabbricò l’universo, così parlò: ‘In principio Dio fece il cielo e la terra. Ma la terra era invisibile e informe, e la tenebra incombeva sull’ abisso, e lo Spirito di Dio andava al di sopra delle acque. E disse Dio: sia fatta la luce. E la luce fu’.
È di qui che tanto Platone quanto chi professa i suoi principi seppero – e noi stessi sappiamo – che l’universo intero ha avuto origine a opera del Verbo di Dio da sottoposta materia, indicata già da Mosè anteriormente a ogni altro; come potete persuadervene anche voi. D’altronde, anche quello che presso i poeti ha nome di Erebo, sappiamo che prima fu nominato da Mosè”. (Apologia I, 59
)
“Anche l’asserzione del Timeo di Platone circa la natura del Figlio di Dio,
quando egli dice: “Dio lo ordinò a forma di X nell’universo, Platone poté
farla prendendola parimenti da Mosè.” Infatti nei libri di Mosè si trova
scritto che proprio nel tempo in cui gli Israeliti uscirono dall’Egitto e
stettero nel deserto, vennero contro loro animali velenosi e vipere e aspidi
e ogni sorta di serpenti che uccidevano il popolo; e che Mosè, mosso da
efficace efflato divino, prese del bronzo e ne foggiò una figura di croce e
la collocò sul tabernacolo santo e disse al popolo: “se volgerete lo sguardo a questo segno e avrete fede, in esso vi salverete”. E scrisse che, dopo ciò, i serpenti morirono, mentre il popolo poté sottrarsi alla morte. Platone lesse, ma non capì bene e, non riuscendo a intuire che quella era la figura di una croce – interpretandola invece per la forma di un X – asserì che la virtù, la quale viene subito dopo il sommo Dio, è ordinata nell’universo a foggia di X. Egli fa parola anche di una terza virtù; pure questo è un concetto tolto da Mosè nel quale egli lesse – e noi ne abbiamo prima riferito il passo – che lo spirito di Dio avanzava sopra le acque. E così egli assegna il secondo posto al Verbo divino, cui affermò essere ordinato a modo di X nel mondo; il terzo allo Spirito, di cui è detto che avanzava sull’acqua. E ciò, quando asseriva: “terze attribuzioni spettano al terzo”. Quindi non siamo noi che abbiamo le stesse opinioni degli altri, ma sono gli altri che parlano contraffacendo le nostre”. (Apologia I, 60
)
“La nostra dottrina si rivela più nobile di ogni dottrina umana, perché l’intero Verbo – il Cristo manifestatosi per noi – volle essere corpo e Verbo e anima. Infatti tutto ciò che di buono dissero ed escogitarono filosofi e legislatori, lo elaborarono a fatica, con l’indagine e l’osservazione, ma solo parzialmente secondo il Verbo. E perché non ebbero intera la conoscenza delle cose riguardanti il Verbo, cioè Cristo,
furono spesso anche in contraddizione con se medesimi”. (Apologia II, 10
)
“Ora ritengo che sia utile dimostrare che la nostra filosofia è più antica delle discipline che sono presso i Greci. Termini di riferimento sono per noi Mosè e Omero: infatti sia l’uno che l’altro sono antichissimi; uno è il più antico dei poeti e degli storici; l’altro principio di ogni saggezza barbara. Ora da noi saranno messi a confronto, e scopriremo che le nostre dottrine non solo sono precedenti alla cultura greca, ma anche all’invenzione delle lettere; non prenderò come testimoni coloro che sono di casa, piuttosto mi servirò di difensori greci. La prima cosa, infatti, non sarebbe ragionevole e neppure da noi sarebbe accettata; la seconda si
rivelerà straordinaria, perché, resistendo a noi con le stesse nostre armi, ottengo per voi prove senza sospetto […] (TAZIANO, Contro i Greci, 31 – PG 6).
Appare quindi che Mosè è più antico degli eroi menzionati, delle città e dei demoni. E bisogna credere a colui che per età è più antico e non ai Greci che vi hanno attinto le dottrine senza rendersene conto. I loro sapienti infatti facendo uso con eccessiva e soverchia cura di quello che impararono da Mosè e da coloro che furono filosofi al suo stesso modo, tentarono di falsificarlo anzitutto perché si credesse che dicevano qualcosa di particolare, in secondo luogo affinché, nascondendo mediante
una verbosità leziosa le cose che non avevano capito, potessero distorcere la verità come una favola. (Contro i Greci, 40)
Con l’aiuto di Dio voglio dimostrarti con la maggior esattezza possibile ciò che riguarda il tempo affinché tu sappia che la nostra dottrina non è né recente, né simile alle fiabe, ma che è più antica e più veritiera di tutti i poeti e gli scrittori che hanno scritto su questioni incerte… Platone invece, che sembra essere stato il più sapiente fra i Greci, a quante sciocchezze giunse! (TEOFILO DI ANTIOCHIA, Ad Autolico III, 16 – PG 6
)
Da questi antichi scrittori si dimostra che gli scritti degli altri sono più recenti degli scritti che ci sono pervenuti da Mosè e anche più recenti dei profeti vissuti dopo di lui. Infatti, l’ultimo dei profeti, di nome Zaccaria, fiorì al tempo del regno di Dario. Ma anche tutti i legislatori hanno sancito le leggi in tempo posteriore. Se infatti qualcuno parlasse di Solone l’Ateniese, questi visse al tempo dei re Ciro e Dario, al tempo del già nominato profeta Zaccaria, vissuto molti anni dopo […] (Ad Autolico III, 23)
Da qui è possibile dimostrare come le nostre Sacre Scritture sono più antiche e più vere di quelle dei Greci e degli Egiziani e anche di alcuni altri storici. Infatti Erodono, Tucidite, Senofonte e altri storiografi hanno cominciato, per la maggior parte, a narrare del regno di Ciro e di Dario, non essendo capaci di raccontare con esattezza i tempi antichi e primitivi. Che cosa dissero di grande se parlarono di Dario, di Ciro e dei re dei barbari; oppure di Zopiro e di Ippia presso i Greci […]
Non ci siamo proposti la materia per una lunga trattazione, ma per dimostrare la quantità degli anni dalla creazione del mondo e per confutare l’inutile fatica e la stoltezza degli scrittori, poiché non sono trascorsi neppure ventimila anni, come disse Platone insegnando che tanti ne erano trascorsi dal diluvio fino ai suoi tempi […]. Né il mondo fu ingenerato, né esiste un principio casuale per tutte le cose
come Pitagora e altri hanno scioccamente raccontato. Ma il mondo è creato
e retto dalla provvidenza di Dio che ha creato tutte le cose: la totalità del
tempo e gli anni lo dimostrano a quanti vogliono persuadersi della verità. (Ad Autolico III, 26
)
Computati quindi i tempi e tutti i fatti narrati, è possibile vedere
l’antichità degli scritti profetici e la divinità della nostra dottrina; la nostra
dottrina, infatti, non è recente e le nostre non sono, come alcuni pensano,
favole o falsità, ma storie molto antiche e molto vere. (Ad Autolico III, 29
)

Clemente Alessandrino inserisce la tesi del “furto dei Greci” nel contesto più generale dell’origine barbara di tutta la filosofia. I filosofi infatti sono gli antichi saggi barbari ai quali Dio, per il tramite degli angeli, ha comunicato le dottrine che essi dovevano insegnare ai loro popoli. I Greci, venuti dopo, hanno saccheggiato queste dottrine, essi non sono che dei bambini nei confronti dei barbari, che, invece, hanno la verità antica. (Stromata I, 29)

L’opposizione non è più quella tra i barbari e i Greci. Quando Clemente parla della filosofia come preparazione provvidenziale al Cristo, non parla delle scuole della filosofia greca, ma innanzitutto della filosofia barbara antica. Dio non ha lasciato alcun popolo senza inviargli delle guide spirituali, che per i Giudei sono Mosè e i profeti, per i diversi popoli i saggi antichi, che sono i filosofi per eccellenza. Egli si è manifestato a loro tramite gli angeli. Tra questi due gruppi i Giudei sono privilegiati sia per l’antichità, sia per l’eccellenza della loro dottrina. I Greci, venuti dopo, hanno attinto all’ una e all’altra fonte: sono così dei ladri che si attribuiscono ciò che non hanno inventato. I passi in cui Clemente espone le sue tesi sono numerosi. Già dal I libro degli Stromata scrive: “I filosofi greci sono dei briganti e dei ladri, perché prima della venuta del Signore hanno preso dai profeti ebrei delle parti della verità senza piena intelligenza, appropriandosene come dottrine proprie”. (Stromata I, 17)
Citando Aristobulo, scrive: “Platone ha imitato la nostra legislazione ed è evidente che ha studiato ciascuna delle cose che vi sono scritte; pure Pitagora ha trasferito molte cose provenienti da noi nella sua dottrina”. Cita anche Filone e menziona Numenio che dice: “Che cos’è Platone se non un Mosè che parla greco?” (Stromata I, 22, 150, 4)

Con ciò vuol dire che il contenuto della filosofia greca non è originale; è venuto dai barbari e innanzitutto da Mosè, ma i filosofi ellenici “l’hanno adattato con parole greche”. In questo modo, osserva Daniélou, l’impresa di Platone non è tanto diversa da quella di Filone: è già una presentazione della legge di Mosè al mondo greco, ma è una presentazione illegale e mutila. I limiti dell’impresa dei filosofi sono per Clemente, il carattere parziale, la deformazione del pensiero e la volontà di appropriazione. (DANIÉLOU, 81) “La vita intera non sarebbe sufficiente a smascherare integralmente il ladrocinio greco e il modo con cui essi hanno fatto propria la scoperta delle loro dottrine più belle, dopo averle prese da noi”. (Stromata VI, 2)
“Le dottrine più belle sono quelle che anticipano la rivelazione: Tutte le nazioni, di qualunque parte del mondo siano, e tutti gli uomini, a qualunque condizione appartengano, hanno una stessa e unica prenozione (prolepsis) di colui che ha stabilito l’autorità, se è vero che le più universali delle sue operazioni si estendono ugualmente a tutti. Ma i ricercatori della Grecia, partendo dalla filosofia barbara, sono andati molto più lontano: hanno dato la preminenza all’invisibile, all’unico, al
più potente, al più attivo e al principale tra ciò che è più bello. Ora, essi non avrebbero conosciuto la conseguenza di queste cose, se non le avessero intese da noi. (Stromata V, 14.)
Il Daniélou fa notare come il “ladrocinio” dei Greci venga definito da Clemente come un filautón klopén, un plagio ingrato.

A. MUSONI, “La pedagogie du Logos. Esquisse d’une théologie de l’histoire chez Clément d’Alexanrie”, in F.J. MAPWAR, A. KABASELE, M. W. LIBAMBU (eds.), Histoire du Christianisme en Afrique. Evangelisation et recontre des cultures – Mélanges offerts au Professeur Abbé Pierre Mukuna Mutanda, Revue Africane de Théologie 32/63–64 (2010), 19–36, qui 22.

Si noti l’aggettivo filautós. In effetti, la gravità del furto non viene dal plagio stesso, ma dal fatto che esso non è riconosciuto. Di colpo, una verità che in realtà viene da Dio i filosofi la dichiarano venuta da loro stessi. Ora, tale è precisamente l’essenziale della filautía, per la quale l’uomo si appropria di ciò che viene da Dio, e che è il contrario della euxaristía. Questa opposizione occupa un gran posto in Filone; forse è da lui che Clemente la riprende. La “vera filosofia risale a Dio e deve essergli attribuita. Ma l’ingratitudine dei Greci proclama dei maestri umani” (Stromata V, 1, 7, 58, 3). Al di là dell’ingratitudine nei confronti di Dio, dal quale veniva la dottrina dei Giudei. Per questo, il compito di Clemente è di provare ai Greci che essi hanno rubato alcune verità, al fine di spogliarsi della loro ingratitudine. (DANIÉLOU, 87–88)
Origene riprende la dottrina dei ‘furta Graecorum’, facendo derivare le parti della filosofia, dell’etica, della fisica, dai libri dell’Antico Testamento attribuiti a Salomone, Proverbi, Siracide, Cantico dei Cantici, e soprattutto riporta la capacità che ogni uomo ha di conoscere, almeno in parte, la verità alla partecipazione di ognuno, in quanto dotato di ragione, a Cristo Logos, principio universale di razionalità.

ORIGENE, De Principiis I, 3 (PG 11). Cfr. I. SANNA, “L’argomento apologetico Furta Graecorum”, in Problemi attuali di filosofia, teologia, diritto, Studia Lateranensia 1 (1989), 119–143.

Ma la filosofia in parte è d’accordo in parte è in disaccordo con la rivelazione di Dio, così che se non ne usiamo in modo poco prudente si corre il rischio di cadere nell’ eresia. (ORIGENE, Homilia in Genesim 14, 3 – PG 11) Tuttavia è interessante notare che, proprio in questo testo, Origene giustifica l’utilizzazione della filosofia greca da parte dei cristiani, con l’allegoria dell’ episodio dell’ Esodo che racconta come gli Israeliti, abbandonando l’Egitto, avessero portato con sé l’oro e l’argento che avevano sottratto agli Egiziani: come quelli si servivano del materiale sottratto agli Egiziani per preparare gli oggetti per il servizio divino, così i cristiani si
servono della sapienza pagana per approfondire la loro conoscenza di Dio, in
quanto le scienze dei Greci possono introdurre allo studio delle Sacre Scritture:
Io mi augurerei che tu prendessi dalla filosofia dei Greci quelle che possono diventare – per così dire – discipline generali e propedeutiche per il cristianesimo, e anche dalla geometria, come dall’astronomia, le nozioni che potranno essere utili all’interpretazione delle Sacre Scritture. (ORIGENE, Epistola ad Gregorium 1 – PG 11)

3.3. Il principio dell’antichità
Dalla lettura dei testi che sono stati riportati, si ricava facilmente che l’argomentazione di Giustino e degli altri apologisti nel denunciare il “furto dei
Greci”, definito anche prestito o plagio, riposa essenzialmente sulla cronologia.
Anche Clemente Alessandrino fonda la sua tesi sulla dimostrazione cronologica: “Si mostrerà in modo incontestabile che la filosofia degli Ebrei è la più antica di tute le sapienze”; “È dimostrato che Mosè è il più antico non soltanto di coloro che si chiamano sapienti e poeti della Grecia, ma pure della maggior parte degli dèi”. (Stromata I, 21)
Gli autori biblici sono più antichi dei filosofi greci e l’antichità è assunta
come criterio di verità. Ciò è proprio dello spirito di un’epoca di crisi filosofica,
dove si crede più alla rivelazione che alla ragione e si affida il destino della
propria salvezza alle rivelazioni apocalittiche dei saggi antichi, quali Enoch o
Lamech in ambienti giudaici, o Ermes Trismegisto e la Sibilla in ambiente
ellenistico.

Ora, il principio dell’autorità, sul quale si basa la teoria del ‘furto dei Greci’, porta alla conseguenza che ciò che è più antico è più vero. È un principio di autorità, derivato dalla rivelazione e dall’antichità di questa rivelazione. È vero ciò che è rivelato, ciò che è autorevole. Chi lo ha detto prima prevale su chi lo ha detto bene e lo dice sempre. L’autorità degli antichi viene prima della forza della ragione e l’autentica filosofia, quella che oltrepassa le nozioni comuni, riposa essenzialmente sull’ autorità di Dio, mentre le opinioni dei dottori di questo mondo riposano su delle autorità del tutto umane. E si arriva così all’idea di una rivelazione primitiva. Scrisse Clemente Alessandrino: Se vi è insegnamento è necessario che vi sia un maestro. Clemente riconosce Zenone, Teofrasto Aristotele e Platone Socrate. Ma se risalgo a Pitagora, a Ferecide, a Talete e ai primi sapienti io non smetto di cercare
il maestro di costoro. E se tu dici che sono gli Egiziani, gli Indiani, i Babilonesi e i Magi stessi, non smetterò di invocare il maestro di questi: così faccio risalire sino alla creazione dell’uomo. E lì ricomincio a cercare chi è il Maestro: non è uomo, perché non sono ancora stati istruiti; non è neppure un angelo: abbiamo appreso infatti che gli angeli stessi sono stati istruiti sulla verità. Resta essendo noi stati elevati al di sopra di noi stessi, di desiderare il maestro di costoro. (Stromata VI, 7)
Il fatto che Giustino, con il rimprovero ai Greci di aver plagiato la rivelazione cristiana, si metta a difesa della tradizione, dell’antichità, porta un autore come R. Holte a sostenere che non sia affatto documentabile l’opinione comune secondo cui Giustino ha cercato di riconciliare il cristianesimo con la filosofia antica o persino di creare una sintesi di entrambi.

HOLTE, 164: “The view that Justin has tried to reconcile Christianity with ancient philosophy or even to create a synthesis between them is indeed ill-supported by the material. He appears throughout as a theological traditionalist. The Logos spermatikos theory, terminologically an innovation, is nothing but an attempt to translate St. Paul’s doctrine on natural revelation, to the language of contemporary philosophy. This theory does not contradict the loan and demon theories, but all this serves the common purpose of presenting Christianity as the sole bearer of the whole and complete truth.” Diversa è l’opinione di Cantalamessa che scrive: “Giustino ha formulato con parecchio anticipo l’idea di un cristianesimo anonimo, o implicito, di cui si discute tanto animatamente ai nostri giorni. Senza integralismi di sorta, lasciando alla cultura greca il suo carattere profano, e contestandone anzi le insufficienze e le contraddizioni, egli ha trovato il modo di orientarli a Cristo, fondando razionalmente la pretesa di universalità della religione cristiana. Se l’Antico Testamento tende a Cristo come la figura (typos) tende, per dinamismo intrinseco, alla propria realizzazione (aletheia), dal canto suo la verità greca tende anch’essa a Cristo e al Vangelo, come la parte (meros) tende a riunirsi a tutto. Ecco perché essa non può opporsi alla verità evangelica e i cristiani possono attingervi con confidenza, come a un bene proprio.” Quanto fu detto di vero da chiunque appartiene a noi cristiani: questo principio non significa che tale vero è sottratto ai
pagani che ne sono i legittimi e fieri proprietari, ma semplicemente che ai cristiani è lecito attingervi. Non è dunque un tentativo di sequestro indebito di valori laici. Giustino non fa che tradurre sul piano culturale il detto di san Paolo: Tutto è vostro, perché voi siete di Cristo.” Cfr. R. CANTALAMESSA, Cristianesimo e valori terreni, Milano, 1978, 152–153.

Di fatto, Giustino, secondo Holte, sarebbe un teologo tradizionalista. La teoria del Logos spermatikós, una innovazione dal punto di vista terminologico, è nient’altro che un tentativo di tradurre la dottrina di san Paolo sulla rivelazione naturale in un linguaggio della filosofia contemporanea. Questa teoria non contraddice quelle del prestito e del demonio; ma tutte e tre le teorie servono il comune intento di presentare il cristianesimo come la sola depositaria della piena e totale verità.
La teoria del Logos spermatikós, sempre secondo Holte, non mira a dare un carattere di rivelazione ai sistemi religiosi o filosofici nella loro interezza.
Essa, di fatto, è limitata strettamente ad alcune concezioni, come per esempio talune concezioni di Dio, la falsità dell’idolatria, e anche talune concezioni morali di base. Giustino, perciò, non può essere indicato come colui che estese essenzialmente il contenute della concezione di san Paolo sulla rivelazione naturale.
La discussione sulla teoria del prestito è introdotta per spiegare le verità che non rientrano nella categoria delle concezioni poco prima menzionate.
Harnack sostiene che, in base a quanto Giustino scrive nella sua prima Apologia, tutte le verità in filosofia sono assolutamente riferite alla teoria dei prestiti. (A. von HARNACK, Lehrbuch der Dogmengeschichte I, Tübingen, 1909, 511)

Ma, se questo fosse vero, osserva dal suo canto Holte, non si potrebbe più sostenere la teoria del Logos spermatikós. Se d’altra parte si esamina il contesto generale dell’ Apologia di Giustino, si vede che il termine panta non ha questo significato così esaustivo. Giustino infatti specifica molto accuratamente le specie di dottrine alle quali si riferisce, e non menziona la falsità dell’idolatria e le concezioni morali di base: E tutto ciò che dissero i filosofi o i poeti circa l’immortalità dell’anima o le pene successive alla morte o alla contemplazione delle cose celesti o circa simili verità, hanno potuto pensarlo e hanno potuto esprimerlo,
poiché ne hanno derivato il principio della rivelazione. E’ in questo contesto che Giustino parla di “semi di verità”, ma con un’aggiunta molto importante: dokéin éinai, “sembra” che ci siano dei semi della verità in mezzo a tutte quelle. In realtà, i filosofi non hanno capito ciò che hanno letto e perciò anche in questo caso essi si sono contraddetti a vicenda.
La conclusione cui giunge Holte è questa: si può affermare che la concezione di Giustino sia che la teoria dei prestiti spiega l’origine solamente di verità simili o analoghe (analoghe alla dottrina cristiana), anche se la distinzione non può arrivare sino al punto di attribuire queste verità all’influsso del demonio.

HOLTE, 64: “from this it appears to be Justin’s view that the loan theory explains the origin of the seeming truths only (similarities to the Christian doctrines) although the distortion is not here of such a degree that it must be attributed to demons”.

Non si deve dimenticare, d’altra parte, la critica aspra di Giustino, nel Dialogo con Trifone, della versione platonica delle dottrine che sono state prese in considerazione: non accetta affatto la concezione platonica dell’immortalità dell’anima, non ammette che ci sia una punizione dopo la morte nella forma di metempsicosi. Infine, egli non accetta la contemplazione delle idee celesti, quando queste possono essere attinte con la capacità della ragione naturale. Daniélou condivide fondamentalmente questa interpretazione di Holte, secondo la quale, in ultima analisi, la ragione non farebbe conoscere che i principi del bene e del male e la falsità delle idolatrie, mentre i prestiti o i furti farebbero conoscere le dottrine più precise. Fa notare come Giustino, a tale riguardo, nomina Socrate in riferimento alla partecipazione del Logos, e Platone a proposito dei prestiti. Osserva, però, che “le formule sono assai generali e permettono di ammettere pure una duplice fonte per le stesse verità”. Giustino da una parte scrive: “tutti i principi giusti che i filosofi e i legislatori hanno espresso e scoperto, essi li debbono al fatto di aver conosciuto e contemplato parzialmente il Verbo” (Apologia II, X, 2.); e dall’altra: tutto ciò che i filosofi e i poeti hanno detto dell’immortalità dell’anima, dei castighi che seguono la morte, della contemplazione delle cose celesti e altre dottrine simili, essi ne hanno ricevuto i principi dai profeti. Presso tutti si trovano dei semi di verità. (Apologia I, 44). A parziale supporto di una collocazione di Giustino tra i teologi
tradizionalisti, si può portare anche la polemica di Celso contro il cristianesimo.
Gli argomenti della polemica di Celso sono intelligibili solo se considerati
come risposte all’apologetica di Giustino.

J. C. M. van WINDEN, “Le Christianisme et la philosophie. Le commencement du dialogue entre la foi et la raion”, in Kiriakón (Festschrift Johannes Quasten), I., Münster, 1970, 205–213. Per l’opera di Celso cfr. G. LANATA, prefazione a Il discorso vero, Milano, 1987, 27–28: “Celso avverte acutamente nei cristiani quella volontà di penetrazione della società pagana che avrebbe suggerito un paio di decenni dopo a Tertulliano l’affermazione trionfalistica: hesterni sumus et omnia vestra occupavimus, siamo nati ieri e ci siamo appropriati di tutti i vostri beni (Apologetico 37, 4) […] I cristiani pretendevano di sostituirsi a tutta la tradizione, sia a quella giudaica da cui provenivano, sia a quella ellenistica in cui si stavano installando; e al contempo si appropriavano, in modo distorto e contraffatto, di tutto il meglio che il passato poteva offrire, tentavano di rivendicare al cristianesimo l’intero patrimonio della tradizione giudaica e di quella ellenistica. È questo che suscita lo sdegno di Celso … Giustino per costruire la propria teologia della storia non aveva già usato gli identici passi cruciali del Timeo e della Lettera VII di Platone, su cui Celso, con tutto il medioplatonismo fondava la propria concezione della trascendenza di Dio? Essere spossessati dei valori della propria tradizione da un avversario che li snatura e in più ostenta una oltraggiosa superiorità è intollerabile.”

4. Conclusione
L’argomento dei ‘furta Graecorum’ è stato dunque, uno dei primi tentativi di inglobare la cultura pagana nella cultura cristiana, di spogliare d’ogni contenuto di originalità e validità la cultura pagana e di riservare invece esclusivamente alla cultura cristiana ogni originalità e ogni valore. Se qualcosa di valido e di buono e di bello sussiste all’interno delle tradizioni culturali pagane, questo è dovuto non ai valori insiti in quelle tradizioni, ma al fatto che quei valori sono cristiani. E precisamente sono valori cristiani “imprestati” o “rubati”. Il tentativo di risolvere il problema del rapporto cultura cristiana – cultura pagana in una specie di reductio ad unum mediante l’argomento dell’antichità, in base al quale i valori cristiani esistono prima dei valori pagani e perciò sono fondanti nei confronti di questi secondi è infelice. Chi si sforza, ancora oggi, per altre vie e con altre argomentazioni, di ripetere un’impresa analoga a quella degli apologeti, nell’intento di voler giustificare una cultura da cristiani, non può non incorrere nelle stesse aporie. In effetti, Giustino ha iniziato e Clemente ha sviluppato un atteggiamento di dialogo e di grande apertura nei confronti della cultura greca del loro tempo. L’atteggiamento di dialogo non era condiviso unanimemente da tutti i cristiani. C’erano coloro che “avevano paura di essere turbati nella loro fede e preferivano turarsi le orecchie per non udire le sirene.” (Stromata VI, 11)

Altri temevano la filosofia greca come i fanciulli l’orco, avendo paura di essere rapiti da essa. (Stromata V, 10). Altri ancora asserivano che bisogna attenersi alle cose necessarie e che riguardano la fede, e passar sopra alle cose strane e superflue, che ci affaticano inutilmente e trattengono in occupazioni che non riguardano per nulla la fede; la filosofia è stata introdotta nella vita da qualche cattivo inventore per nuocere agli uomini (Stromata I, 1). Altri, infine, “credendosi dotati di tutti i doni, giudicavano buona cosa non toccare la filosofia, o la dialettica, e neppure istruirsi sulla fisica, ma rivendicavano la fede, sola e pura” (Stromata I, 9).
Clemente Alessandrino tiene conto di tutti questi avversari che per “pusillanimità” o “ignoranza” rifiutano la cultura pagana e in modo particolare la filosofia greca. E si adopera a dimostrare che la filosofia è un aiuto a precisare il contenuto della fede e a evitare l’eresia. Il dato della fede ha bisogno di essere interpretato: “La delucidazione coopera con la tradizione della verità e la dialettica aiuta a non cadere nelle eresie che sopravvengono.” (Stromata I, 20)
Indubbiamente l’insegnamento di Gesù è totale e sufficiente, perché è potenza e
sapienza di Dio; la filosofia greca, aggiungendovi, non rende la verità più forte, ma rendendo impossibile l’assalto della sofistica contro di essa e respingendo gli attacchi insidiosi contro la verità, può essere chiamata giustamente una siepe e un muro della vigna. (Stromata I, 20)
La cultura greca e in modo particolare la filosofia sono state viste come propedeutiche alla fede, quasi come una specie di Antico Testamento per i Greci (Stromata I, 5). “I cristiani sono i filosofi di oggi e i filosofi erano i cristiani d’altri
tempi”, arriva a dire Minucio Felice (MINUCIO FELICE, Octavius 20, 1 – PL 3). Ma è indubitabile che in ogni pensatore cristiano di questi tempi convivono come due anime: quella cristiana piena di riserve verso una cultura tutta permeata di ideologia pagana e quella greca che ne è soggiogata e che sente di non poterne fare a meno.

È interessante rilevare l’atteggiamento dialettico del “sì, ma”, che san Basilio applicava già alla semplice lettura degli autori pagani, in Agli adolescenti, sulla lettura dei libri di autori pagani, PG 31, 563–590.

In definitiva un vero caso di coscienza per la Chiesa: un problema insoluto, almeno a livello teorico, fino ad Agostino. Una volta ammesso il valore positivo della paideia greca, incombeva a questi autori l’onere di una giustificazione della cultura. Ora, la giustificazione non consiste nel “funzionalizzare” la cultura alla fede, sia dal punto di vista apologetico che di quello sistematico, né nella “strumentalizzazione” di questa cultura per trasmettere il cristianesimo, “per rafforzare la fede con il ragionamento, partendo dalle nozioni comuni elaborate dalla filosofia greca.” (De Principiis 1, 7. Cfr. W. JAEGER, Cristianesimo primitivo e paideia greca, Firenze, 1966.)

Consiste nel riconoscere e accettare la cultura in quanto tale, come creatura che è buona in se stessa, secondo il giudizio di Dio Creatore: ‘e vide che era buono’. La bontà è nell’essenza delle cose e non nella loro finalizzazione o utilizzazione.
La fede nella creazione è ottimista, perché include nella sua logica la speranza nella consumazione. Se Cristo è il fine unico di tutto il creato, tutto è redimibile e salvabile. Respingendo il dualismo quanto all’origine e quanto alla fine (non vi sono né due principi né due fini), la Scrittura stabilisce virtualmente che l’ordine della grazia e della verità (Gv 1, 14), nella vita in pienezza di Cristo risorto, senza che ciò naturalmente equivalga all’identificazione pura e semplice della natura con la grazia, del profano e del sacro, del progresso e del regno di Dio.




P. John ROMANIDES: DIO E IL MONDO

da: Conoscere nel non conoscere, edizioni Asterios

  1. Relazioni tra Dio e il mondo

Per conoscere  il metodo usato dai padri nell’accostarsi al dogma trinitario e cristologico, dovremo esaminare la relazione esistente fra Dio ed il mondo secondo i profeti, gli apostoli e i santi. Nella concezione platonica, il mondo è una copia delle Idee archetipiche immutabili. Concezione, questa, che sant’Agostino ha fatto propria, come, altresì, tutti i teologi francolatini che su di lui si sono basati. Essa ha avuto ripercussioni sull’intero processo di formazione della teologia romanocattolica, la quale si andava via via distanziando dalla linea di pensiero biblica e patristica. Oggi, con le nuove visioni filosofiche tali teorie vacillano ab imis; in particolare, con la comparsa tanto della teoria darwiniana dell'”evoluzione” quanto dalla fìlosofia esistenzialistica e positivistica, l’occidente si trova innanzi a grandi rivolgimenti.

I padri della chiesa, nel fare teologia ovvero nel fondarsi unicamente sulla sacra Scrittura intesa come tradizione, hanno espresso un insegnamento del tutto differente in ordine alla relazione tra Dio e il mondo. Per capire tale insegnamento bisogna conoscere:

a) la differenza fra “creato” e “increato”;

b) la distinzione fra “essenza” ed “atto” in Dio;

c) l’insegnamento dei padri riguardo al mondo.

2. Distinzione tra “creato” e “increato”. Come la conosciamo? A partire da dove?

Vi è differenza fra “creato” e “increato”1. La qualifica di “creato” è attribuita alle creature, mentre quella di “increato” a Dio. Tale distinzione è stata operata non solo dai padri della chiesa, ma dagli eretici stessi, quali Ario e compagni. Si tratta di una

distinzione basilare, perché, in quanto creatura, l’uomo non può conoscere il creatore, cioè Dio, che è “increato”. Il tentativo dell’uomo di conoscere Dio mediante il proprio intelletto creato sfocia nell’idolatria. Questa distinzione, tuttavia, ingenera la domanda: Come può, quindi, l’uomo conoscere Dio? La risposta, nel nostro caso, verrà data dalla distinzione, in Dio, fra “essenza” ed “atto”‘.

3. Distinzione fra “essenza” ed “atto” in Dio

È noto che l’essenza di Dio è impartecipabile da parte dell’uomo. I padri, seguendo i profeti, conoscono «Ciò che inerisce all’essenza (tò perì tén ousìan)» ma non l’essenza stessa. La distinzione fra essenza ed atto in Dio è una distinzione non della filosofia ma della rivelazione, ed è presente nella sacra Scrittura e nell’intera tradizione patristica greca e latina.

Gregorio Palamas osserva che Barlaam avrebbe dovuto far propria una tale distinzione, perché Ario medesimo la approvava. In oriente, soltanto gli eunomiani non l’accettavano. Nella teologia francolatina questa distinzione non esiste. Sant’Agostino stesso non pare ammetterla”. Parlando della processione dello

Spirito santo, egli fa una confusione evidente fra essenza ed atto in Dio. L’identificazione di essenza e di atto che riscontriamo in occidente ha condotto i teologi di quell’area a esprimere il pensiero che Dio è “atto puro”. L’espressione del suddetto pensiero si deve anche agli altri presupposti filosofici di Agostino: la sua convinzione, ad esempio, circa la conoscibilità dell’essenza divina.

La distinzione, tuttavia, fra essenza ed atto in Dio ci aiuta a comprendere la creazione del mondo dal nulla. I filosofi aristotelici di Antiochia, che si opponevano alla nozione cristiana della “perfezione” di Dio, avanzavano i seguenti argomenti contro il dogma cristiano della creazione dal nulla. Dio, prima della creazione, deve essere stato “in potenza” creatore e, al momento della creazione, deve essere diventato “in atto” creatore. Dio è quindi mutabile e, conseguentemente, “imperfetto”, diventando gli “perfetto” attraverso la creazione. Tale argomentazione viene confutata da alcuni scritti attribuiti a Giustino martire, nei quali si dice che Dio non ha creato il mondo per essenza ma per atto. L’essenza e l’atto non si identificano, ma si distinguono. Ciò significa che Dio crea ciò che vuole, quando vuole, senza intaccare la sua essenza, perché essa rimane intatta e immutabile. La decisione, pertanto, di Dio in ordine

alla creazione del mondo non è riferibile all’essenza di Dio ma alla sua volontà.  E il fatto che avvenga per volontà significa che Dio non ha con il mondo una relazione per necessità. Né egli passa dall’”essere in potenza” all”‘essere in atto”, dato che Dio non crea il mondo per essenza, ma per atto e per volontà. Le relazioni, quindi, di Dio con il mondo sono relazioni non per essenza ma relazioni per atto. Tali atti, poi, di Dio sono increati, in quanto potenze naturali ed eterne di Dio. Di conseguenza, Dio comunica con il creato unicamente mediante gli atti increati e fa lo stesso con l’uomo. Ciò che dunque hanno visto i profeti, Mosè, gli apostoli e i santi della chiesa non è l’essenza di Dio, ma la gloria increata, l’atto naturale increato, la grazia increata e il Suo regno increato. A tale proposito sant’Agostino – già lo abbiamo detto – era di avviso diverso. Come è noto, egli è stato condotto al battesimo dall’idea del credo ut intellegam (“credo per capire”), pensando che, dopo il battesimo, con l’aiuto dell’intelletto, avrebbe potuto comprendere i dogmi della fede, spiegarli con la facoltà razionale e conoscere l’essenza di Dio. L’insegnamento patristico, tuttavia, su questo punto è diverso. Il catecumeno riceve, con il battesimo, la caparra dello Spirito. Al battesimo seguono le nozze, con il cammino di progressiva ascesa verso la perfezione e con la partecipazione alla grazia di Dio, che è increata, come pure agli altri atti che ineriscono a Dio. In tal modo, secondo l’insegnamento della chiesa, l’uomo è deificato e diventa amico di Dio per grazia divina e per atto divino, e non partecipando all’essenza divina, fatto, questo, che porterebbe al panteismo, come ognuno può facilmente intendere. La distinzione, pertanto, fra essenza ed atto in Dio;

la partecipazione dell’uomo agli atti increati di Dio e la sua divinizzazione; la relazione di Dio con le creature mediante gli atti increati: costituiscono dottrine basilari della nostra chiesa.

4. Descrizione generale dell’insegnamento della chiesa sul mondo

Da quanto si è detto fin qui si capisce che il mondo attuale non è una copia di un altro mondo, ma è unico. La sua concezione e la sua creazione hanno a che vedere con l’atto di Dio. Dio, cioè, ha concepito il mondo per atto o per volontà; egli non possiede idee, quali figure o altre forme e specie, nel proprio intelletto. Quest’unico mondo è il mondo in sé stesso perfetto, in un processo di perfezione … L’uomo è stato creato relativamente perfetto, per attingere la perfezione; egli ne attraversa gli stadi: è, cioè, perfetto come un neonato, come un bambino, come un adolescente, ecc. Proviene, inoltre, dal nulla e non da Dio, ma per volontà di Dio. Scopo della creazione del mondo, secondo alcuni padri, è l’incarnazione, che non dipende dalla caduta ma costituisce parte del piano della creazione del mondo. Altri padri vedono nella caduta la causa dell’incarnazione. Movente, poi, della creazione è l’amore di Dio, amore che «non cerca il proprio interesse» (1Cor 13, 5).

L’uomo è creato da Dio, secondo i padri, come un fanciullo, ovvero come perfetto in potenza, con la possibilità di svilupparsi e di perfezionarsi ulteriormente “. La caduta pone nella sua redenzione lo scopo dell’incarnazione. Agostino qui ha una visione differente. L’uomo, dice, è stato creato da Dio perfetto sotto ogni aspetto. Il mondo si distingue in materiale e spirituale. Quello spirituale è costituito dagli angeli, i quali non erano per natura immortali”, ma lo sono diventati attraverso l’ascesa spirituale alla perfezione, come lo diventano gli uomini. Quando parliamo di immortalità, intendiamo la divinizzazione. Il mondo, dunque, è l’effetto degli atti increati di Dio e non della sua essenza; e la relazione di Dio con il mondo è una relazione per atto e non una relazione per essenza.




P. George Metallinos: Il cristianesimo non è una religione!

Protopresbitero George Metallinos

Preside della Scuola di Teologia dell’Università di Atene

Scaricabile in PDF qui: https://www.teandrico.it/testi/

Breve biografia

P. George è nato sull’isola di Corfù, nel nord-ovest della Grecia, nel 1940. Lì ha completato gli studi secondari prima di frequentare l’Università di Atene. Si è laureato all’Università di Atene, dopo aver conseguito una laurea in Teologia nel 1962 e poi un’altra in Lettere Classiche nel 1967.

Dopo aver conseguito la laurea nel 1967, George è diventato assistente di ricerca presso il Dipartimento di Patrologia dell’università. Nel 1969 si stabilisce nella Germania occidentale e inizia gli studi post-laurea. Durante questo periodo ha frequentato le scuole di Bonn e Colonia e ha anche condotto studi e ricerche d’archivio in Inghilterra. Nel 1971 è stato ordinato sacerdote e ha conseguito un dottorato in teologia presso l’Università di Atene e un dottorato in filosofia e storia presso l’Università di Colonia.

Nel 1984, il dottor Metallinos è diventato professore presso la Scuola di Teologia dell’Università di Atene, dove ha insegnato Storia della spiritualità durante il periodo post-bizantinoStoria e teologia del culto e Storia bizantina. Nel 2004 è stato nominato Preside della Facoltà di Teologia, carica in cui ha servito fino al 2007 quando è diventato professore emerito.

Metallinos è considerato uno dei più importanti teologi della Chiesa ortodossa greca e ha scritto circa quaranta volumi di argomento teologico e storico, diversi dei quali sono stati tradotti in altre lingue.

Se volessimo definire convenzionalmente il cristianesimo, come Ortodossia, diremmo che è l’esperienza della presenza dell’Increato (=di Dio) nel corso della storia, e il potenziale della creazione (=umanità) che diventa Dio “per grazia”.

Data la presenza perpetua di Dio in Cristo, nella realtà storica, il cristianesimo offre all’uomo la possibilità della theosis (divinizzazione, glorificazione), così come la scienza medica offre all’uomo la possibilità di preservare o ristabilire la propria salute attraverso una specifica procedura terapeutica e uno specifico modo di vivere.

Chi scrive è in grado di apprezzare la coincidenza tra le scienze mediche ed ecclesiastiche, perché, in quanto diabetico e cristiano, è consapevole che in entrambi i casi deve attenersi fedelmente alle regole che sono state stabilite, per raggiungere entrambi questi due obiettivi.

Lo scopo unico e assoluto della vita in Cristo è la theosis, cioè la nostra unione con Dio, affinché l’uomo – attraverso la sua partecipazione all’energia increata di Dio – diventi “per grazia di Dio” ciò che Dio è per natura (= senza inizio e senza fine). Questo è ciò che significa “salvezza”, nel cristianesimo. Non è il miglioramento morale dell’uomo, ma una ricreazione, una ricostruzione in Cristo, dell’uomo e della società, attraverso un rapporto esistente ed esistenziale con Cristo, che è la manifestazione incarnata di Dio nella Storia. Questo è ciò che implicano le parole dell’apostolo Paolo, in 2 Cor 5,17: «Se uno è in Cristo, è una nuova creazione». Chi è unito a Cristo è una nuova creazione.

Ecco perché – cristianamente – l’incarnazione del Dio-Logos – questa “intrusione” redentrice del Dio Eterno e dell’Aldilà nel tempo Storico – rappresenta l’inizio di un nuovo mondo, di una (letteralmente) “New Age”, che continua nel corso dei secoli, nelle persone dei cristiani autentici: i Santi. La Chiesa esiste in questo mondo, sia come “corpo di Cristo” sia come “in Cristo”, per offrire la salvezza, attraverso la propria incarnazione in questo procedimento rigenerativo. Questo compito redentore della Chiesa è adempiuto per mezzo di un metodo terapeutico specifico, per cui nel corso della storia la Chiesa agisce essenzialmente come infermeria universale. “Infermeria spirituale” (ospedale spirituale) è la caratterizzazione data alla Chiesa dal beato Crisostomo (†407).

Più avanti, esamineremo le risposte date alle seguenti domande:

Qual è la malattia che cura l’ortodossia cristiana?

Qual è il metodo terapeutico che implementa?

Qual è l’identità del cristianesimo autentico, che lo separa radicalmente da tutte le sue deviazioni eretiche, e da ogni altra forma di religione?

1. La malattia della natura umana è lo stato decaduto dell’umanità, insieme a tutta la creazione, che pure soffre («sospira e geme» – Rm 8,22) insieme all’uomo. Questa diagnosi vale per ogni singola persona (cristiana o no, credente o no), a motivo dell’unità complessiva dell’umanità (cfr At 17,26). L’ortodossia cristiana non si confina negli stretti confini di una religione che ha cura solo dei propri seguaci – ma, come Dio, «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla realizzazione della verità» (Timoteo 1,2-4), poiché Dio è «il Salvatore di tutti gli uomini» (Timoteo 1, 4-10). Quindi, la malattia a cui si riferisce il cristianesimo riguarda tutta l’umanità; Romani 5,12: “La morte è caduta su tutti gli uomini, poiché tutti hanno peccato (=hanno deviato dal loro cammino verso la theosis). Proprio come la caduta (cioè la malattia) è una questione panumana, così la terapia della salvezza dipende direttamente dalle funzioni interiori di ogni persona.

Lo stato naturale (autentico) di una persona è (patristicamente) definito dal funzionamento al suo interno di tre sistemi mnemonici; due dei quali sono familiari e monitorati dalla scienza medica, mentre il terzo è qualcosa che viene gestito dalla terapia poetica. Il primo sistema è la memoria cellulare (DNA), che determina tutto all’interno di un organismo umano. Il secondo è la memoria cellulare cerebrale, la funzione cerebrale, che regola la nostra associazione con il nostro sé e il nostro ambiente. Entrambi questi sistemi sono familiari alla scienza medica, il cui compito è di mantenere il loro funzionamento armonioso.

L’esperienza dei Santi è familiare con un altro sistema mnemonico: quello del cuore, o memoria “noetica”, che funziona all’interno del cuore. Nella tradizione ortodossa, il cuore non ha solo un funzionamento naturale, come una semplice pompa che fa circolare il sangue. Inoltre, secondo l’insegnamento patristico, né il cervello né il sistema nervoso centrale sono il centro della nostra autocoscienza; ancora, è il cuore, perché, oltre alla sua funzione naturale, ha anche una funzione soprannaturale. In determinate circostanze, diventa il luogo della nostra comunione con Dio, o la sua energia increata. Questo si percepisce naturalmente attraverso l’esperienza dei Santi, e non attraverso alcuna funzione logica o attraverso una teologizzazione intellettuale.

San Nicodemo del Sacro Monte (†1809), ricapitolando l’intera tradizione patristica nella sua opera “Hortative Manual” (Συμβουλευτικόν Εγχειρίδιον), chiama il cuore un centro naturale e soprannaturale, ma anche un centro paranormale, ogniqualvolta la sua facoltà soprannaturale diventa inattiva a causa del cuore dominato dalle passioni. La facoltà soprannaturale del cuore è il presupposto ultimo per la perfezione, per il compimento dell’uomo, cioè la sua theosis, per una piena incarnazione nella comunione in Cristo. Nella sua facoltà soprannaturale, il cuore diventa lo spazio in cui la mente può essere attivata. Nel codice della terminologia ortodossa, la mente (ΝΟΥΣ – nous – che appare nel Nuovo Testamento come “lo spirito dell’uomo” e “l’occhio dell’anima”) è un’energia dell’anima, per mezzo della quale l’uomo può conoscere Dio e può raggiungere lo stato di ‘vedere’ Dio. Ovviamente dobbiamo chiarire che la “conoscenza” di Dio non implica la conoscenza della sua incomprensibile e inavvicinabile essenza divina. Questa distinzione tra “essenza” ed “energia” in Dio è la differenza cruciale tra l’Ortodossia e tutte le altre versioni del cristianesimo. L’energia della mente all’interno del cuore è chiamata “facoltà noetica” del cuore. Sottolineiamo ancora che secondo l’Ortodossia, la Mente (ΝΟΥΣ) e la Logica (ΛΟΓΙΚΗ) non sono la stessa cosa, perché la logica funziona all’interno del cervello, mentre la mente funziona all’interno del cuore.

La facoltà noetica si manifesta come la “preghiera incessante” (cfr. 1 Ts 5,17) dello Spirito Santo nel cuore (cfr. Gal 4,6, Rm 8,26, 1 Ts 5,19) ed è denominata dai nostri Santi Padri come “la memoria di Dio”. Quando l’uomo ha nel cuore la “memoria di Dio”, in altre parole, quando sente nel cuore “la voce” (Corinzi 14,2; Galati 4,6, ecc.), può sentire Dio che “abita” dentro di lui (Romani 8,11). San Basilio Magno nella sua 2a epistola dice che la memoria di Dio rimane incessante quando non è interrotta dalle preoccupazioni mondane, e la mente “si allontana” verso Dio; in altre parole, quando è in comunione con Dio. Ma questo non significa che il fedele che è stato attivato da questa energia divina si sottrae ai bisogni della vita quotidiana, rimanendo immobile o in una sorta di estasi; significa che la sua Mente è liberata da queste preoccupazioni, che sono elementi che preoccupano solo la sua Logica. Per usare un esempio a cui possiamo riferirci: uno scienziato, che ha riacquistato la sua facoltà noetica, userà la sua logica per affrontare i suoi problemi, mentre la sua mente nel suo cuore conserverà incessantemente la memoria di Dio. La persona che conserva tutti e tre i sistemi mnemonici è il Santo. Per l’Ortodossia è una persona sana (normale). Per questo la terapia dell’Ortodossia è legata al cammino dell’uomo verso la santità.

La non funzione o la funzione al di sotto della media della facoltà noetica dell’uomo è l’essenza della sua caduta. Il tanto dibattuto “peccato ancestrale” è stato proprio il cattivo utilizzo da parte dell’uomo – da quel primissimo momento della sua presenza storica – della conservazione della memoria di Dio (= sua comunione con Dio) nel suo cuore. Questo è lo stato morboso a cui partecipano tutti i discendenti ancestrali; perché non era un peccato morale o personale, ma una malattia della natura dell’uomo (“La nostra natura si è ammalata, di questo peccato”, osserva san Cirillo d’Alessandria – †444), che si trasmette da persona a persona, esattamente come la malattia che un albero trasmette a tutti gli altri alberi che ne derivano.

L’inattivazione della facoltà noetica, o della memoria di Dio, e il confonderla con la funzione del cervello (che capita a tutti noi), soggioga l’uomo allo stress e all’ambiente, e alla ricerca della beatitudine attraverso l’individualismo e un atteggiamento anti-sociale. Mentre è malato a causa del suo stato di decadimento, l’uomo usa Dio e il suo prossimo per assicurarsi la propria sicurezza e felicità personali. L’uso personale di Dio si trova nella “religione” (=tentativo di trarre forza dal divino), che può degenerare in un’autodeficazione dell’uomo (“Mi sono fatto idolo di me”, dice sant’Andrea di Creta, nel suo ‘Canone maggiore’). L’uso del prossimo – e di conseguenza la creazione in generale – si ottiene sfruttandolo in ogni modo possibile. Questa, dunque, è la malattia che l’uomo cerca di curare, inserendosi pienamente nell’“ospedale spirituale” della Chiesa.

2. Lo scopo della presenza della Chiesa nel mondo – come comunione in Cristo – è la cura dell’uomo; il ripristino della sua comunione centrata nel cuore con Dio; in altre parole, della sua facoltà noetica. Secondo il professore P. John Romanides, «la tradizione patristica non è né una filosofia sociale, né un sistema morale, né un dogmatismo religioso; è un metodo terapeutico. In questo contesto è molto simile alla Medicina e soprattutto alla Psichiatria. L’energia noetica dell’anima che prega mentalmente e incessantemente all’interno del cuore è uno “strumento” naturale, che ognuno possiede e necessita di terapia. Né la filosofia, né nessuna delle scienze positive o sociali conosciute può curare questo “strumento”. Per questo i casi inguaribili non sono nemmeno a conoscenza dell’esistenza di questo strumento».

La necessità della guarigione dell’uomo è una questione pan-umana, legata in primo luogo al ripristino di ogni persona al suo stato naturale di esistenza, attraverso la riattivazione della terza facoltà mnemonica. Tuttavia, si estende anche alla presenza sociale dell’uomo. Affinché l’uomo sia in comunione con il prossimo come fratello, il suo egoismo (che alla lunga funge da amor proprio) deve trasformarsi in altruismo (cfr. 1 Corinzi  13,8) «amore….non chiede contraccambio.. »). L’amore disinteressato esiste: è l’amore del Dio Triadico (Rm 5,8; 1 Gv 4,7), che tutto dona senza cercare nulla in cambio. Ecco perché l’ideale sociale dell’ortodossia cristiana non è “comune possesso”, ma “mancanza di possesso”, come rassegnazione volontaria da qualsiasi tipo di richiesta. Solo allora la giustizia può essere possibile.

Il metodo terapeutico offerto dalla Chiesa è la vita spirituale; la vita nello Spirito Santo. La vita spirituale è vissuta come esercizio (Ascesi) e come partecipazione alla Grazia Increata, attraverso i Sacramenti. L’ascesi è la violazione della nostra natura senza regole e senza vita a causa del peccato, che ci sta precipitando a capofitto verso una morte spirituale o eterna, cioè l’eterna separazione dalla grazia di Dio. L’Ascesi aspira alla vittoria sulle nostre passioni, con l’intenzione di conquistare l’interiore sottomissione di quei punti nevralgici e pestiferi dell’uomo e di partecipare alla Croce di Cristo e alla sua Risurrezione.

Il cristiano, che esercita tale ritegno sotto la guida del suo Padre terapeuta-spirituale, diventa ricettivo alla grazia, che riceve attraverso la sua partecipazione alla vita sacramentale del corpus ecclesiastico. Non può esserci cristiano che non fa esercizio, così come non può esserci guarito che non segua i consigli terapeutici che il medico gli ha prescritto.

3. Quanto sopra ci porta ad alcune costanti, che verificano l’identità dell’ortodossia cristiana:

(a) La Chiesa – come corpo di Cristo – funge da Ospedale-Centro terapeutico. Altrimenti non sarebbe una Chiesa, ma una “Religione”. Il Clero viene inizialmente selezionato dal curato, per svolgere la funzione di terapeuta. La funzione terapeutica della Chiesa è conservata oggi, per lo più nei Monasteri che, sopravvissuti al secolarismo, continuano la Chiesa dei tempi apostolici.

(b) Gli scienziati della terapia ecclesiastica sono i già guariti. Chi non ha avuto l’esperienza della terapia non può essere terapeuta. Questa è la differenza essenziale tra la scienza terapeutica e la scienza medica. Gli scienziati della terapia ecclesiastica (Padri e Madri) generano altri Terapeuti, così come i Professori di Medicina generano i loro successori.

(c) Il confinarsi della Chiesa al semplice perdono dei peccati per assicurarsi un posto in paradiso costituisce alienazione ed equivale alla scienza medica che perdona il malato, affinché possa essere guarito dopo la morte! La Chiesa non può mandare qualcuno in Paradiso o all’Inferno. Inoltre, il Paradiso e l’Inferno non sono luoghi, sono modi di esistere. Guarendo l’umanità, la Chiesa prepara la persona affinché possa eternamente guardare a Cristo nella sua luce increata come una visione del Paradiso, e non come una visione dell’Inferno, o come “un fuoco che divora” (Ebrei 12:29). E questo naturalmente riguarda ogni singola persona, perché TUTTI gli uomini guarderanno eternamente a Cristo, come “il Giudice” del mondo intero.

 (d) La validità della scienza è verificata dal raggiungimento dei suoi obiettivi (cioè, in Medicina, è la cura del paziente). È il modo in cui l’autentica medicina scientifica si distingue dalla ciarlataneria. Il criterio della terapia poetica da parte della Chiesa è anche il raggiungimento della guarigione spirituale, aprendo la strada alla theosis. La terapia non viene trasferita nell’aldilà; avviene durante la vita dell’uomo, qui, in questo mondo (hinc et nunc). Questo si può vedere nelle reliquie inalterate dei Santi che hanno superato il deterioramento biologico, come le reliquie dei Santi Spiridon, Gerasimos, Dionysios e Theodora Augusta. Le reliquie inalterate sono, nella nostra tradizione, la prova indiscutibile della theosis, ovvero il compimento della terapia ascetica della Chiesa.

Vorrei chiedere agli scienziati medici del nostro paese di prestare particolare attenzione al tema del non deterioramento delle sacre reliquie, dato che non sono state scientificamente comprese, ma, in esse si manifesta l’energia della Grazia Divina? Perché è stato osservato che, nel momento in cui il sistema cellulare dovrebbe cominciare a disintegrarsi, esso cessa automaticamente e, invece di emanare un qualsiasi odore di decomposizione, il corpo emana un profumo caratteristico. Limito questo commento ai sintomi medici, e non mi avventurerò nell’aspetto dei fenomeni miracolosi come prova della theosis, perché quell’aspetto appartiene ad un’altra sfera di discussione.

(e) Infine, i testi divini della Chiesa (testi biblici, sinodici e patristici) non costituiscono sistemi di codificazione di alcuna ideologia cristiana? Hanno un carattere terapeutico e funzionano allo stesso modo in cui funzionano le dissertazioni universitarie nella scienza medica. Lo stesso vale per i testi liturgici, come ad esempio le Benedizioni. La semplice lettura di una Benedizione (preghiera), senza lo sforzo congiunto dei fedeli nella procedura terapeutica della Chiesa, non sarebbe diversa dall’istanza in cui un paziente ricorre al medico per i suoi atroci dolori, e, invece di un immediato intervento del medico, si limita ad essere adagiato su un tavolo operatorio, e a farsi leggere il capitolo relativo al suo specifico disturbo.

Questa, in poche parole, è l’Ortodossia. Non importa se lo si accetta o meno. Tuttavia, per quanto riguarda gli scienziati, ho cercato – come collega di scienze anch’io – di rispondere scientificamente alla domanda: “Cos’è l’Ortodossia”.

Qualsiasi altra versione del cristianesimo ne costituisce una contraffazione e una perversione, anche se aspira a presentarsi come qualcosa di ortodosso.

Note bibliografiche

P. John S. Romanides, “Padri romani o neo-romani della Chiesa”, Salonicco 1984.

P. John S. Romanides, “La religione è un disturbo neurobiologico e l’ortodossia è la sua cura”, dal volume “Ortodossia, ellenismo… Pubblicazioni del Santo Monastero di Koutloumousion, Volume B, 1996, pagg. 66-67.

P. John S. Romanides, “Chiesa, Sinodi e Civiltà”, da TEOLOGIA, vol.63 (1992) pg.421-450 e in greco vol.66 (1995) pg.646-680.

P. Hierotheos Vlachos (attualmente metropolita di Nafpaktos), “Psicoterapia ortodossa”, Edessa 1986.

P. Hierotheos Vlachos (attualmente metropolita di Nafpaktos), “Piccola introduzione alla spiritualità ortodossa”, Atene.

P. Hierotheos Vlachos (attualmente metropolita di Nafpaktos), “Psicologia esistenziale e psicoterapia ortodossa”, Levadia 1995.

Dello stesso autore, i seguenti studi:

P. G. Metallinos, “Una visione ortodossa della società”, Atene 1986.

P. G. Metallinos, “Testimonianza teologica del culto ecclesiastico”, Atene 1996. (NB: In questi libri si può trovare più bibliografia)

Note – Glossario

1. L’increato = Qualcosa che non è stato prodotto. Questo vale solo per il Dio Triadico. Il Creato = Creazione in generale, con l’uomo al suo apice. Dio non è un potere “universale”, come designato dalla terminologia New Age (“tutto è uno, tutti sono Dio!”), perché, come Creatore di tutto, trascende l’intero universo, dato che in sostanza è “Qualcosa” del tutto diverso (Das ganz Andere). Non esiste un’analogia che associa il creato e l’increato. Ecco perché l’Increato si fa conoscere, attraverso la sua autorivelazione.

2. Un significativo testo cristiano del II secolo, “Il pastore di Erma”, dice che per diventare membra del Corpo di Cristo dobbiamo essere pietre “quadrate” (=adatte alla costruzione) e non arrotondati!

3. Secondo P. John Romanides, al quale si deve essenzialmente il ritorno alla visione “filocaliana” (=terapeutica-ascetica) della nostra Fede, e di fatto a livello accademico; La “religione” implica ogni tipo di “associazione” dell’increato e del creato, come si fa nell’idolatria. La persona “religiosa” proietta i suoi “pregiudizi” (=pensieri, significati) nel regno divino, “fabbricando” così il proprio Dio (questo può verificarsi anche nell’aspetto non patristico dell'”Ortodossia”). Lo scopo è “l’espiazione”, la “placazione” del “divino” e, infine, l’“utilizzo” di Dio a proprio vantaggio (formula magica: do ut des). Nella nostra tradizione, invece, il nostro Dio non ha bisogno di essere “placato”, perché “ci ha amato per primo” (Gv 4,19). Il nostro Dio agisce come “Amore” (Gv 4,16) e amore disinteressato a Quello. Ci dà tutto e non chiede mai nulla in cambio delle sue creazioni. Ecco perché l’altruismo è l’essenza dell’amore cristiano, che va ben oltre la nozione di transazione.

4. Lo esprime il canto liturgico familiare e spesso ripetuto: «Noi stessi e gli uni con gli altri, e tutta la nostra vita, applichiamoci a Cristo nostro Signore».

La corretta incorporazione si trova normalmente nei monasteri, ovunque essi funzionino ovviamente secondo la tradizione ortodossa. Ecco perché i Monasteri (ad esempio quelli del Sacro Monte) continuano ad essere le “parrocchie” modello di questo “mondo”.

in inglese: http://www.oodegr.com/english/psyxotherap/psyxotherap3.htm

in greco: http://www.oodegr.com/oode/psyxotherap/therapeia1.htm




P. John S. Romanides: La religione è una malattia neurobiologica. L’Ortodossia la cura!

Una chiave medica per la riunione della Chiesa.

 

“gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”

 (Mt 10,8)

 

Revisione della traduzione condotta sul testo inglese con l’ausilio di traduttori automatici.

Fotocopie, riproduzioni, stampe, citazioni sono caldamente suggerite ma senza scopi commerciali. La tradizione ortodossa non è una merce!

([1])

 La differenza fondamentale tra i tre Vangeli di Matteo, Marco e Luca da un lato e quello del Vangelo di Giovanni dall’altro[2] è dovuto alle due fasi della cura della malattia dell’Antico e del Nuovo Testamento, al secondo centro della personalità umana nel cuore che fa circolare il sangue, l’altro centro è il cervello o l’intelletto che fa parte del sistema del midollo spinale che fa circolare liquido spinale. È il cuore che ha bisogno di essere curato con la sua purificazione e illuminazione per consumarsi nella glorificazione di tutta la persona. I Vangeli di Matteo, Marco e Luca, accompagnati dai testi dell’Antico Testamento, in particolare quelli dei Salmi, sono stati utilizzati come parte del processo di purificazione e illuminazione dei cuori dei catecumeni, che si è consumato con la celebrazione della passione e crocifissione del Signore della Gloria in cui venivano battezzati il Sabato Santo. Questi battesimi furono seguiti dalla celebrazione della risurrezione di Cristo, seguita dall’Eucaristia pasquale, momento in cui il Vangelo di Giovanni iniziò a essere letto e interpretato fino alla domenica di Pentecoste in questo periodo di cinquanta giorni.

Durante questo periodo di istruzione giovannea ci si aspettava che uno progredisse dal proprio stato di purificazione del proprio spirito nel cuore alla sua illuminazione mediante preghiere e salmi incessanti in contrasto con preghiere e salmi dell’intelletto in determinati momenti. A questo punto si sapeva che stava diventando un membro del Corpo di Cristo mentre la preghiera nel cuore prendeva piede e rimaneva sempre presente incessantemente. Che uno avesse questa preghiera e l’abbia persa e si fosse così soddisfatto di averla significa che correva il pericolo di una perdita permanente poiché “la Pentecoste è l’evento mediante il quale la Chiesa dell’Antico Testamento divenne il Corpo di Cristo che ora include anche tutti gli antenati che erano stati illuminati e glorificati prima dell’incarnazione di Yahweh. Come nell’Antico Testamento, coloro che perseveravano nell’illuminazione del loro cuore sarebbero passati alla loro glorificazione che era la loro ordinazione al profetismo. Questo è il motivo per cui Giovanni Battista, già glorificato e ordinato profeta, fu nuovamente glorificato e questa volta sperimentò la strana realtà che stava battezzando Yaweh Stesso Incarnato. Sei giorni dopo aver detto che…alcuni che stanno qui… non assaporeranno la morte finché non vedranno il regno di Dio venire in potenza”[3], Cristo si rivelò di nuovo come Yaweh Incarnato a Pietro, Giacomo e Giovanni”[4].

Tali realtà bibliche non sono aperte alla corretta interpretazione di coloro i quali sono stati contaminati dalla distorsione fatta da Agostino della rivelazione di Dio fatta ai profeti sia dell’Antico che del Nuovo Testamento. Essere profondamente intimiditi dall’argomento ariano secondo cui la prova che il Logos è stato creato è il fatto che era visibile a coloro ai quali si è rivelato. In netto contrasto con la tradizione dell’Antico e del Nuovo Testamento e della Chiesa, Agostino ha inventato l’insegnamento che Dio apparve e fu ascoltato dai profeti e dagli apostoli per mezzo di creature che Dio fa esistere per essere visto e udito e che ritorna alla non esistenza dopo essere stato visto e udito. In netto contrasto con queste apparizioni divine dal nulla, affinché Dio possa essere visto e udito e che scompaiono nel nulla, fu solo la natura umana del Logos che rimase permanentemente in esistenza dopo la Sua incarnazione[5]. Tali presunte creature come la colomba al Battesimo di Cristo, il governo di Dio (erroneamente tradotto con ‘regno’) alla Trasfigurazione e le lingue di fuoco alla Pentecoste sono tra quelle creature che Dio fa esistere per essere viste, udite per poi scomparire dall’esistenza quando la loro missione è compiuta.

Durante questo tempo giovanneo di istruzione, ci si aspettava che i neo-battezzati entrassero nella fase dell’illuminazione del cuore con la preghiera incessante e i salmi, come spiega san Paolo, specialmente in 1Cor 12-15. Questo sarà il punto cardine di questo studio poiché è qui che abbiamo un profilo esoterico della realtà interiore della Chiesa primitiva adorante, guidata da apostoli, profeti e insegnanti la cui autorità era la loro stessa glorificazione (ndr. in greco theosis, in italiano spesso tradotto con divinizzazione) reciprocamente accettata.

Tutte le fantasie, specialmente quella religiosa, sono causate da un cortocircuito al centro della personalità umana. È questo cortocircuito che viene curato dall’illuminazione del cuore da parte di una preghiera incessante, distinta dalla preghiera intellettuale fatta con il cervello in determinati momenti. L’approfondimento di questa cura in San Paolo costituirà il cuore di questo studio.

Ripetiamo che quando l’illuminazione diventa glorificazione, allora sia gli uomini che le donne sono stati ordinati profeti. Questo è ciò che sono i profeti sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento e questo è ciò che rende Padri della Chiesa. Ciò che i profeti hanno visto nelle loro glorificazioni è Yaweh Stesso sia prima che dopo la Sua incarnazione.

 Questo cortocircuito, che deve essere curato, esiste tra il cuore, che pompa il sangue e il midollo spinale, che provoca la circolazione del liquido spinale. Tutte le fantasie sono radicate in questo cortocircuito che non è altro che un cortocircuito elettrico. Questa malattia isola le sue vittime dalla realtà a vari livelli. A causa di questa malattia non sempre si distingue tra realtà e fantasie. Forse la più pericolosa di queste fantasie sono le religioni che affermano di avere scritti dettati da Dio che sono compresi da una casta di cosiddetti capi ispirati. È per mezzo delle fantasie umane che gli esseri umani rimangono prigionieri del potere demoniaco manifestato specialmente nelle religioni. Solo i ciechi non vedono il fatto che le religioni sono una delle principali fonti di disordini sociali.

Tuttavia, all’interno della tradizione dell’Antico e del Nuovo Testamento, tali cosiddetti capi ispirati costituiscono una distorsione di ciò che si accettava nella Chiesa primitiva durante il proprio percorso di catecumenato, mentre si attraversano le fasi della purificazione e dell’illuminazione del proprio cuore nel cammino verso glorificazione. La stessa illuminazione del proprio cuore mediante incessanti preghiere e salmi diventa la propria testimonianza di essere sulla retta via della glorificazione. Coloro che pretendono di aver raggiunto l’illuminazione e la glorificazione non possono ingannare i veri profeti. I due criteri fondamentali dei falsi profeti sono che “è impossibile esprimere Dio e ancor più impossibile concepirlo” e che “non c’è alcuna somiglianza tra il creato e l’increato”. I falsi profeti sono facilmente individuabili dalle loro trasgressioni di questi due criteri fondamentali che Agostino ripetutamente trasgredisce.

In netto contrasto con questi criteri, la maggior parte della dottrina e dell’interpretazione della Bibbia appartiene al regno della fantasia, semplicemente perché coloro che si occupano di questi argomenti sono stati educati a credere che le loro stesse fantasie appartengano al regno del dono della fede. I loro capi, che non hanno la minima conoscenza della vera esistenza dell’illuminazione del cuore e della glorificazione, qui e ora in questa vita, convincono i loro fedeli che la loro stessa fede è la prova che sono sulla via della salvezza. La natura stessa del Movimento Ecumenico per l’Unità dei Cristiani non ha ancora nemmeno intravisto la possibilità che la chiave dell’unità sia la cura della preghiera incessante nel cuore e della glorificazione.

È il cortocircuito in questione che minimizza il livello della propria comunione con la gloria increata di Dio che satura e governa la creazione. Tutti gli esseri creati partecipano alle increate creative e sostenenti energie (tr. attività) di Dio che sono chiamate collettivamente Sua gloria e governo dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Questa è la realtà che sottolinea l’Antico e il Nuovo Testamento e l’ebraismo e il cristianesimo primitivi e i Nove Concili ecumenici convocati dall’imperatore romano che governò da Costantinopoli, Nuova Roma, fino alla conquista dei turchi ottomani nel 1453. Sebbene l’Impero Romano sia poi scomparso, la pratica della cura del cuore mediante la sua purificazione e illuminazione che porta alla glorificazione non è scomparsa, almeno ancora. Sapremo che l’ultimo essere glorificato è morto quando la società umana sarà morta.

Il cortocircuito che esiste tra il cuore che pompa il sangue e il midollo spinale che fa circolare il liquido spinale viene riparato dalla preghiera incessante nel cuore. È solo quando il proprio cortocircuito viene così riparato che si comincia a essere liberati dal regno delle fantasie in base al quale il diavolo governa la società umana.

La comunione umana con le energie increate di Dio, che saturano la creazione, è accresciuta dall’energia purificatrice, illuminante e glorificante di Dio. In netto contrasto con la glorificazione biblica, la tradizione platonica e aristotelica, secondo cui la felicità come destino supremo di una persona è in realtà l’inferno stesso, cioè la completa soddisfazione dei propri desideri egocentrici.

Il risultato più importante della glorificazione è la rivelazione che «non c’è alcuna somiglianza tra il creato e l’increato» e che «è impossibile esprimere Dio e ancor più concepirlo». In altre parole, la Bibbia stessa non è né un’espressione di Dio né è una concezione di Dio. Solo nelle mani dei glorificati può essere usata per guidare gli altri alla cura della purificazione e dell’illuminazione del cuore e della glorificazione. Nelle mani di medici ciarlatani conduce le loro vittime alla loro distruzione.

Per diventare membro del Corpo di Cristo si inizia con la fede dell’accoglienza durante la fase della purificazione del cuore. Questa fede deve diventare fede interiore, come testimonia la preghiera incessante. È la preghiera incessante nel cuore che testimonia il fatto che si è cominciato a diventare membra del Corpo di Cristo. Tuttavia, arrivare allo stato di illuminazione e quindi alla soglia della glorificazione significa che il Signore della Gloria ci sta accogliendo nella sua glorificazione per nostro bene ma, soprattutto, per il bene degli altri. Essendo stato glorificato si ritorna per illuminare “l’uomo”[6].

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Il Primo e il Secondo Concilio Ecumenico hanno condannato la posizione ariana ed eunomiana secondo cui l’Angelo Yahweh della Gloria e il Suo Spirito sono la prima creazione di Dio prima dei secoli. Questi Concili sostenevano invece la posizione che l’Angelo del Gran Consiglio e lo Spirito Santo sono consustanziali al Padre.

Il IX Concilio Ecumenico del 1341, secondo il diritto romano, condannò l’insegnamento agostiniano di Barlaam il Calabrese, senza rendersi conto della sua fonte, che Dio si rivela per mezzo delle creature che Egli fa esistere – GENOMENA in greco – per essere visto e ascoltato e che li richiama nella non esistenza – APOGENOMENA in greco – quando le loro missioni sono compiute. Ciò che questi Padri conciliari non sapevano nel 1341 era che questi insegnamenti erano quelli dello stesso Agostino più e più volte affermati chiaramente nei suoi libri II e III del suo De Trinitate, come abbiamo visto. Ciò significa che il Vaticano accetta da secoli i Concili Ecumenici Romani della Nuova Roma all’interno di categorie agostiniane. La domanda davanti a noi è se i membri luterani e ortodossi di questo dialogo seguano Agostino o i Padri di questi Concili romani[8].

Dobbiamo avere una visione chiara del contesto in cui Chiesa e Stato hanno visto il contributo dei Profeti alla cura della malattia della personalità umana e alla sua perfezione, per comprendere sia la missione dei Sinodi che il motivo per cui l’Impero Romano li ha inseriti nel proprio codice di diritto. Né la Chiesa né lo Stato hanno ridotto la missione della Chiesa alla salvezza mediante il perdono dei peccati per l’ingresso in cielo dopo la morte. Questo sarebbe identico ai medici che perdonano i loro pazienti per essere malati in modo che possano essere curati dopo la morte. Sia la Chiesa che lo Stato sapevano molto bene che il perdono dei peccati era solo l’inizio della cura della malattia dell’umanità che cerca la felicità. Questa cura è passata attraverso la purificazione e l’illuminazione del cuore ed è culminata nella perfezione della glorificazione.

a) Paradiso e Inferno.

 Tutti vedranno la gloria di Dio in Cristo e raggiungeranno quel grado di perfezione che uno ha scelto e per il quale ha lavorato. Seguendo san Paolo e il Vangelo di Giovanni, i Padri sostengono che coloro che non vedono il Cristo risorto in gloria in questa vita, o in maniera offuscata come in uno specchio per le incessanti preghiere e salmi nel cuore, o faccia a faccia nella glorificazione, vedranno la sua gloria come fuoco eterno e consumante e oscurità esteriore nell’altra vita. La gloria increata che Cristo ha per natura dal Padre è il paradiso per coloro il cui amore egoistico è stato curato e trasformato in amore disinteressato, e l’inferno per coloro che scelgono di rimanere non guariti nel loro egoismo.

Non solo la Bibbia e i Padri sono chiari su questo, ma lo sono anche le icone ortodosse dell’ultimo giudizio. La stessa luce dorata di gloria in cui sono avvolti Cristo e i suoi amici diventa rossa mentre scorre verso il basso per avvolgere i dannati. Questa è la gloria e l’amore di Cristo che purifica i peccati di tutti ma non glorifica tutti. Tutti gli esseri umani saranno guidati dallo Spirito Santo in tutta la Verità che è vedere Cristo nella gloria, ma non tutti saranno glorificati. “Quelli che ha giustificato li ha anche glorificati”, secondo san Paolo (Rm 8,30). È chiara la parabola di Lazzaro in seno ad Abramo e del ricco nel luogo del tormento. Il ricco vede ma non partecipa (Lc 16,19-31).

La Chiesa non manda nessuno in paradiso o all’inferno, ma prepara i fedeli alla visione di Cristo nella gloria, che tutti avranno. Dio ama i dannati tanto quanto ama i suoi santi. Vuole la cura di tutti ma non tutti accettano la Sua cura. Ciò significa che il perdono dei peccati non è una preparazione sufficiente per vedere Cristo nella gloria.

Inutile dire che la tradizione anselmiana per cui i salvati sono coloro i quali Cristo avrebbe riconciliato con Dio non è un’opzione all’interno della tradizione ortodossa. Commentando 2 Cor 5,19, per esempio, san Giovanni Crisostomo dice che bisogna “riconciliarsi con Dio. Paolo non ha detto: ‘Riconciliate Dio con voi stessi’, perché non è lui che odia, ma noi. Perché Dio non odia mai”.

È in questo contesto che lo Stato ha compreso la missione di cura della Chiesa nella società. Altrimenti le religioni che promettono felicità dopo la morte non sono molto diverse l’una dall’altra.

b) La finestra di Paolo sulla Chiesa[9].

 1 Cor 12-15 è una finestra unica attraverso la quale si può guardare alla realtà della Chiesa come Corpo di Cristo. L’appartenenza alla Chiesa ha i suoi gradi di cura e perfezione all’interno di due gruppi, gli illuminati e i glorificati. Le membra del Corpo di Cristo sono chiaramente elencate in 1 Cor 12,28. Si inizia diventando un credente comune, individuale (idiotes) che dice “amen” durante la partecipazione al culto collettivo. In questa fase si è impegnati nella purificazione del proprio cuore sotto la direzione di coloro che sono già templi dello Spirito Santo e membra del Corpo di Cristo.

I gradi di illuminazione iniziano con il carisma di fondazione dei “tipi di lingue” in basso all’ottavo posto e arrivano fino ai “maestri” al terzo posto. A capo della Chiesa locale ci sono al secondo posto i “Profeti”, che hanno ricevuto la stessa rivelazione degli “Apostoli” (Ef 3,5), e sono insieme a loro il fondamento della Chiesa (Ef 2,20). Apostoli e profeti sono il fondamento della Chiesa in un modo simile ai medici che sono il fondamento degli ospedali.

I “tipi di lingue” sono le fondamenta su cui sono costruiti tutti i carismi e sono temporaneamente sospesi solo durante la glorificazione (1 Cor 13,8). Come apostolo, san Paolo si pone a capo della lista dei membri che Dio ha posto nella Chiesa. Eppure ha ancora il carisma fondamentale dei “tipi di lingue”. Scrive: «Ringrazio Dio in lingue più di tutti voi» (1 Cor 14,18). Ciò significa che i “tipi di lingue” appartengono a tutti i livelli di carisma all’interno del Corpo di Cristo. La domanda di Paolo, “parlano tutti in lingue?” è un riferimento ai “privati” che non hanno ancora il dono delle lingue e quindi non sono ancora membra del Corpo di Cristo e templi dello Spirito Santo[10].

L’illuminazione e la glorificazione delle membra del Corpo di Cristo non sono gradi di autorità per nomina o elezione umana. Sono coloro che Dio prepara e pone all’interno della Chiesa per l’avanzamento a gradi più elevati di cura e perfezione. Che Paolo inviti tutti i gradi inferiori di appartenenza al Corpo di Cristo a cercare l’avanzamento a stadi spirituali superiori significa chiaramente che tutti dovrebbero diventare Profeti, cioè raggiungere la glorificazione. “Voglio davvero che tutti voi parliate in lingue, affinché possiate profetizzare” (1 Cor 14,5).

c) Clinica Psichiatrica.

Questa Chiesa Paolina è come una clinica psichiatrica. Ma la sua comprensione della malattia della personalità umana è molto più sofisticata di qualsiasi cosa ora sia conosciuta nella medicina moderna. Per vedere questa realtà dobbiamo guardare attraverso Paolo nella comprensione biblica della normalità e dell’anormalità umane. L’essere umano normale è colui che è stato condotto in tutta la Verità dallo Spirito di Verità, cioè nella visione di Cristo nella gloria di Suo Padre (Gv 17). È perché gli apostoli e i profeti sono glorificati in Cristo che le persone credono che Dio ha mandato suo Figlio e che anche loro possono essere curate dall’amore disinteressato (ibid.). Gli esseri umani che non vedono la gloria increata di Dio non sono normali. «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rm 3,23). In altre parole, l’unico essere umano nato normale è il Signore della Gloria. Il quale per scelta assunse le passioni irreprensibili (cioè la fame, la sete, la stanchezza, il sonno, la paura della morte, ecc.), sebbene fosse per natura la fonte della gloria, che li abolisce..  

L’altro lato di questa medaglia è che Dio non rivela a tutti la sua gloria perché non vuole fare del male a coloro che non sono preparati a tale visione. La sorpresa dei profeti dell’Antico Testamento di aver visto Dio e tuttavia continuare vivere e la richiesta del popolo che Mosè chieda a Dio di cessare di mostrare la sua gloria, che era diventata insopportabile, è evidente a questo riguardo.

La preoccupazione delle Chiese apostoliche non era quella di riflettere e speculare su Dio in sé, poiché rimane un mistero per l’intelletto anche quando rivela la sua gloria in Cristo a coloro che partecipano al mistero della croce di suo Figlio con la loro glorificazione. La loro unica preoccupazione era la guarigione di ciascuno in Cristo, che è operata dalla purificazione e dall’illuminazione del cuore e dalla glorificazione in questa vita (1 Cor 12,26) per il servizio alla società. “… Coloro che ha giustificato, li ha anche glorificati” (Rm 8,30) significa che l’illuminazione e la glorificazione sono interdipendenti in questa vita, ma non identiche.

La malattia della personalità umana consiste nell’indebolimento della comunione del cuore con la gloria di Dio (Rm 3,23), nel suo essere sommerso dai pensieri dell’ambiente (Rm 1,21-24 – 2,5).  In un tale stato si immagina che Dio sia a immagine del proprio io malato o addirittura degli animali (Rm 1,22). La persona interiore (eso anthropos) subisce la morte spirituale «a causa della quale (eph’ho)[11] tutti hanno peccato» (Rm 5,12) divenendo schiavi dell’istinto di autoconservazione che deforma l’amore con il suo vincolo alla ricerca egocentrica della sicurezza e della felicità.

La cura di questa malattia inizia con la purificazione del cuore da tutti i pensieri (Rm 2,29), buoni e cattivi, e la loro restrizione all’intelletto. Per fare questo lo spirito dissipato nel cervello deve trasformarsi con la preghiera in una sfera di luce e ritornare al cuore. Diventa come un dischetto riparato da cui i testi di preghiera dal cervello possono essere trasferiti per ritornare di nuovo al cervello. Si diventa così liberi dalla schiavitù di tutto ciò che c’è nell’ambiente, ad esempio dall’autoindulgenza, dalla ricchezza, dalla proprietà e persino dai propri genitori e parenti (Matteo 10,37; Luca 14,26). Lo scopo di questo non è raggiungere l’indifferenza stoica o la mancanza di amore, ma, per permettere al cuore di accettare le preghiere e i salmi che lo Spirito Santo vi trasferisce dall’intelletto ed energizza incessantemente mentre l’intelletto è occupato con le attività quotidiane e mentre dorme. È così che l’amore malato inizia la sua guarigione.

Questo è il contesto del riferimento di san Paolo allo Spirito Santo che prega nel cuore. Lo Spirito Santo in quanto tale è l’avvocato difensore di tutti gli esseri umani “con sospiri non pronunciati” (Rm 8,26). Ma Egli trasferisce le preghiere e i salmi dell’intelletto allo spirito umano nel cuore quando è purificato da tutti i pensieri, buoni e cattivi. A questo punto il proprio spirito potenziato dallo Spirito Santo non fa altro che pregare e recitare salmi incessantemente mentre l’intelletto si impegna nelle sue normali attività quotidiane liberato dall’egocentrismo alla ricerca della felicità. Così si prega incessantemente con lo spirito nel cuore e si prega con l’intelletto in determinati momenti. Questo è ciò che intende Paolo quando scrive: “Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelletto. Reciterò salmi con lo spirito, ma reciterò anche salmi con l’intelletto” (1 Cor 14,15)

Paolo ci ha appena detto che la preghiera per mezzo di lingue diverse dalla propria include i salmi dell’Antico Testamento. Non sta quindi parlando di preghiere udibili ma incomprensibili poiché i salmi erano familiari a tutti. Paolo parla delle preghiere del proprio spirito nel cuore che sono udibili solo da coloro che hanno questo stesso carisma dei “tipi di lingue”. Coloro che non avevano ancora questo dono non potevano ascoltare le preghiere e i salmi nel cuore di coloro che avevano questo dono.

I Corinzi nello stato di illuminazione avevano introdotto l’innovazione di condurre il culto collettivo nel cuore alla presenza degli “individui comuni” che non avevano ancora ricevuto questo dono dei “tipi di lingue”. Ciò rendeva impossibile per questi “individui comuni” essere edificati e dire il loro “amen” al momento opportuno semplicemente perché non potevano sentire.

Paolo afferma chiaramente che “nessuno ascolta”, (1 Cor 14,2). “se vengo da te parlando in lingue, a che ti gioverò se non ti parlo?” (ibid. 14,6-7). Perché se la tromba emette un suono non manifestato, chi preparerà la battaglia? Così anche tu, se non dai una parola ben formata per mezzo della lingua, come si conoscerà ciò che è detto?… Così tanti può capitare che siano i tipi di suoni del mondo e nessuno è senza suono. Perché se non conosco la forza del suono, sarò un estraneo per chi parla e chi parla un estraneo per me”. (1 Cor 14,8-11). Coloro che non hanno il dono dei “tipi di lingue” devono ascoltare la “forza del suono” delle preghiere e dei salmi per reagire con il loro “amen” (ibid. 14,11.16). Non si deve pregare e recitare salmi con “suono non manifesto” alla presenza di coloro che non hanno questo dono delle lingue (ibid. 14,10-11). «Poiché voi rendete bene grazie, ma l’altro non è edificato» (ibid. 14,17).

Quando Paolo dice: «Chi profetizza è più grande di chi parla in lingue, se non si interpreta perché la chiesa riceva l’edificazione» (1 Cor 14,5), intende dire che chi parla solo in lingue deve imparare a tradurre i salmi e le preghiere del suo cuore in salmi e preghiere del suo intelletto da recitare udibilmente. Quando impara così a pregare e a recitare i salmi contemporaneamente con il suo spirito e il suo intelletto, può quindi partecipare al ringraziamento collettivo a beneficio degli “individui comuni” che sapranno quando dire il loro Amen. “Così chi parla in lingue preghi di poter tradurre. Perché se prego in lingua, il mio spirito prega, ma il mio intelletto è senza frutto. Allora qual è (la situazione)? Pregherò con lo spirito, ma lo farò pregando anche con l’intelletto, reciterò i salmi con lo spirito, ma reciterò anche salmi con l’intelletto. Perché se benedici con lo spirito, come dirà l’Amen al tuo ringraziamento colui che occupa il posto del comune uditore? Perché non sa cosa dici. Ringrazi bene, ma l’altro non è edificato. Ringrazio Dio con la lingua più di tutti voi, ma in chiesa preferisco dire cinque parole con il mio intelletto, per istruire gli altri, piuttosto che diecimila parole con la lingua» (1 Cor 14,13-19).

Paolo non dice mai che uno interpreta in lingue ciò che un altro sta dicendo. Si interpreta in lingue ciò che egli stesso dice. In ogni caso in cui Paolo mette in relazione il “parlare in lingue” con la “traduzione”, è sempre colui che ha il dono delle lingue che traduce sé stesso per essere ascoltato udibilmente a beneficio dei “comuni individui”. È in questo contesto che Paolo comanda che “se uno parla in lingue, deve essere raggruppato in due o tre e che uno traduca. Se non c’è un traduttore, taccia in chiesa, parli con sé stesso e a Dio» (1 Cor 14,27-28). L’interprete è chiaramente colui che ha il dono di tradurre le proprie preghiere dal proprio spirito nel proprio cuore nel proprio intelletto affinché diventino udibili per l’edificazione degli altri. Altrimenti deve tacere e limitarsi a pregare in lingue come fanno anche gli altri, ma anche udibilmente. Paolo priva così coloro che hanno solo il dono dei tipi di lingue del loro potere maggioritario di imporre la loro innovazione di preghiere collettive solo con le lingue alla presenza dei “comuni individui”.

Paolo parla di salmi e preghiere non recitate con la propria lingua, ma ascoltate provenire dal cuore. Questa illuminazione del cuore neutralizza la schiavitù dell’istinto all’autoconservazione e inizia la trasformazione dell’amore possessivo in amore disinteressato. Questo è il dono della fede alla persona interiore che è la sua giustificazione, riconciliazione, adozione, pace, speranza e vivificazione.

Queste incessanti preghiere e salmi nel cuore (Ef 5,18-20), altrimenti detti “tipi di lingue” (1 Cor 12,28), trasformano il comune uditore in tempio dello Spirito Santo e membro del Corpo di Cristo. Sono l’inizio della propria liberazione dalla schiavitù dell’ambiente, non ritirandosi da esso, ma controllandolo, non sfruttandolo, ma con amore disinteressato. È così che «la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte…. Se uno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Se Cristo è in te, allora il corpo è morto al peccato, mentre lo Spirito è vita per la giustificazione…». (Rom. 8:2ss).

Poiché l’amore viene curato dalla perfezione, si ricevono i carismi superiori elencati da Paolo in 1 Cor 12,28 che si consumano nella glorificazione. Paolo afferma che «se uno è glorificato, tutte le membra si rallegrano» (1 Cor 12,26) per spiegare perché i profeti sono secondi agli apostoli e prima di tutte le altre membra del corpo di Cristo. Essere giustificati dalle preghiere e dai salmi dello Spirito Santo nel cuore è vedere Cristo in uno specchio offuscato (1 Cor 13,12). La glorificazione è la venuta del “Perfetto” (1 Cor 13,10) vedendo Cristo faccia a faccia (1 Cor 13,12). Nel dire: “Ora so in parte” (ibid.) Paolo si riferisce al suo attuale stato di illuminazione o giustificazione. Con la sua frase successiva, “ma allora sarò conosciuto come sono stato conosciuto” (ibid.), Paolo sta dicendo che sarà glorificato come era stato glorificato. Nello stato di illuminazione si è bambini. Una volta glorificato, si torna a illuminare l’uomo (1 Cor 13,11).

Durante la glorificazione, che è rivelazione, la preghiera nel cuore (lingue), la conoscenza e la profezia, insieme alla fede e alla speranza, sono abolite poiché sostituite da Cristo stesso. Solo l’amore non viene meno (1 Cor 13,8-11). Durante la rivelazione le parole e i concetti su e verso Dio (preghiere) vengono aboliti. Dopo la glorificazione si ritorna all’illuminazione. Conoscenza, profezia, lingue, fede e speranza tornano ad unirsi all’amore che non era finito. Quelle parole e concetti usati nella preghiera e nell’insegnamento da un glorificato per condurre altri alla glorificazione sono ispirati e devono essere aboliti nella glorificazione.

È questa visione del Cristo risorto in gloria che Paolo ebbe e che pone a capo (1 Cor 12,28) e fondamento (Ef 2,20) della Chiesa gli Apostoli e i Profeti. Questo fondamento include donne profeta (Atti 2,17, 21,9, 1 Cor. 11,5) ed è il contesto dell’affermazione di Paolo che in Cristo non c’è né maschio né femmina (Gal 3,28). La glorificazione non è un miracolo, ma la normale fase finale della trasformazione dell’amore egoistico in amore disinteressato. Sia Paolo che Giovanni considerano chiaramente la visione di Cristo in gloria in questa vita come necessaria per la perfezione dell’amore e del servizio alla società (Gv 14,21-24, 16,22, 17,24, 1 Cor 13,10-13, Ef 3,3-6). Le apparizioni del Cristo risorto in gloria non erano e non sono miracoli per sbalordire gli osservatori facendoli credenti nella Sua divinità. Il miracolo fu la crocifissione del Signore della Gloria, non la Sua risurrezione. Il Cristo risorto appare solo per la perfezione dell’amore, anche nel caso di Paolo che era giunto alla soglia della glorificazione (Gal 1,14ss), non conoscendo il Signore della Gloria che stava per vedere nato, crocifisso e risorto. In 1 Cor 15,1-11 ci sono le glorificazioni che completano il trattamento paolino dei doni spirituali iniziato in 1 Cor 12,1.

 Tutti i glorificati nella storia sono uguali agli Apostoli nella loro partecipazione alla Pentecoste perché anch’essi sono stati guidati in tutta la Verità (At 10,47-11,18). Tutta la Verità è il Cristo risorto ed asceso che ritornò nelle lingue di fuoco increate della Pentecoste per dimorare con Suo Padre nei fedeli che sono diventati templi del Suo Spirito custodendolo nei loro cuori. Ha così fatto della Chiesa il suo corpo contro il quale non possono più prevalere le porte della morte.

La glorificazione è la partecipazione sia dell’anima che del corpo all’immortalità e all’incorruttibilità per la perfezione dell’amore. Questo può essere di breve o lunga durata. Dopo un iniziale smarrimento dell’orientamento si procede nel proprio lavoro quotidiano vedendo tutto saturato dalla gloria di Dio che non è né luce né tenebre, né simile a nulla di creato. Le passioni, che erano state neutralizzate e rese irreprensibili dall’illuminazione, sono abolite. Durante la glorificazione non si mangia, non si beve, non si dorme o si fatica e non si è colpiti dal caldo o dal freddo. Questi fenomeni nella vita dei santi (profeti) sia prima che dopo l’incarnazione del Signore della Gloria non sono miracoli ma il ripristino degli esseri umani alla normalità. È in questo contesto che si collocano tali detti di Cristo ai vivi, ma malati, che «i gerontologi hanno concluso che il processo di invecchiamento è una malattia e stanno esaminando se anche la morte stessa sia una malattia. A questo riguardo sia i glorificati che le loro reliquie dovrebbero risultare interessanti poiché molte centinaia di loro rimangono con il corpo intatto per secoli in uno stato intermedio tra corruzione e incorruttibilità. Uno degli esempi più antichi è San Spiridione sull’isola di Corfù che fu padre del Primo Concilio Ecumenico nel 325. Ce ne sono 120 solo a Kiev.

Questo è il contesto dell’affermazione di Paolo che «anche questa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, la libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). È chiaro dal contesto che “la libertà della gloria” è qui libertà dalla mortalità e dalla corruzione. Ma anche coloro la cui persona interiore è stata adottata dall’illuminazione e che hanno assaporato l’immortalità fisica e l’incorruttibilità durante e limitatamente al periodo della loro glorificazione attendono «l’adozione, la liberazione del nostro corpo» (Rm 8,23). “I morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo cambiati… questo corruttibile vestirà l’incorruttibilità e questo mortale vestirà l’immortalità…”. (1 Cor 15,53-54). Lo si sa non dalla speculazione sui testi biblici, ma dall’esperienza della glorificazione, cioè dalla «libertà della gloria dei figli di Dio». L’esperienza della glorificazione e non solo i testi biblici è alla base della fede della Chiesa nella risurrezione fisica della parte biologica della persona.

d) Non del mondo ma nel mondo.

La distinzione tra vita attiva e vita contemplativa non esiste all’interno del Corpo di Cristo. Il dono dello Spirito Santo di incessanti preghiere e salmi nel cuore rende impossibile una tale distinzione. Può esistere solo al di fuori del Corpo di Cristo.

Nessuno può dire Signore Gesù nel cuore se non mediante lo Spirito e nessuno può dire “Gesù è anatema” nello Spirito (1 Cor 12,3). Questa è la spiritualità biblica e patristica e il potere con cui era impossibile torturare un tempio dello Spirito Santo facendogli rinunciare a Cristo. Tale rinuncia provava semplicemente che non si era stati membri della Chiesa. La missione primaria dei templi dello Spirito Santo era di lavorare in qualunque professione fossero impegnati e di cercare di trasmettere la propria cura agli altri. Hanno letteralmente lavorato nelle loro società in una capacità simile a quella degli psichiatri. Diversamente da loro, tuttavia, non cercavano l’equilibrio mentale mediante la conformità agli standard sociali della normalità. Il loro standard di normalità era la glorificazione. Il loro potere curativo non era e non è di questo mondo.

e) Teologia e dogma.

Tutti coloro che sono giunti alla glorificazione testimoniano che «è impossibile esprimere Dio e ancor più impossibile concepirlo» perché sanno per esperienza che non c’è alcuna somiglianza tra il creato e l’increato. Dio è “motore immobile” che “muove” e “né uno, né unicità né unità, né divinità… né filiazione, né paternità, ecc.”, nell’esperienza della glorificazione. La Bibbia e i dogmi sono ‘guide per’ e sono aboliti durante la glorificazione. Non sono fini a se stessi e non hanno nulla a che vedere con la metafisica, né con l’analogia entis né con l’analogia fidei. Ciò significa che le parole e i concetti che non contraddicono l’esperienza della glorificazione e che portano alla purificazione e all’illuminazione del cuore e alla glorificazione sono ortodossi. Parole e concetti che contraddicono la glorificazione e allontanano dalla cura e dalla perfezione in Cristo sono eretici.

Questa è la chiave delle decisioni di tutti i Sette Concili Ecumenici Romani così come quella dell’Ottavo dell’879 e soprattutto del Nono del 1341.

La maggior parte degli storici del dogma non lo vede perché credono che i Padri, come Agostino, cercassero attraverso la meditazione e la contemplazione di comprendere il mistero di Dio dietro le parole e i concetti su di Lui. Introducono anche padri come Gregorio il Teologo nell’esercito della teologia latina, traducendolo per dire che a filosofare su Dio è permesso solo ai “maestri di meditazione del passato”, invece che “a coloro che sono passati alla theoria”, che è visione di Cristo “in uno specchio offuscato”, per “tipi di lingue” e “faccia a faccia” in “glorificazione”.

I Padri non hanno mai inteso la formulazione del dogma come parte di uno sforzo per comprendere intellettualmente il mistero di Dio e l’incarnazione. San Gregorio Teologo mette in ridicolo tali eretici: «Dimmi, dice, qual è l’ingenerazione del Padre, e io ti spiegherò la fisiologia della generazione del Figlio e della processione dello Spirito, e lo faremo entrambi impazziti per aver curiosato nel mistero di Dio».

Né i Padri hanno mai accolto l’idea agostiniana che la Chiesa comprenda meglio la fede con il passare del tempo. Ogni glorificazione è partecipazione a tutta la Verità della Pentecoste, che non può essere né aggiunta né meglio compresa.

Ciò significa anche che la dottrina ortodossa è puramente pastorale poiché non esiste al di fuori del contesto della cura dei mali e della perfezione individuale e sociale.

Essere un teologo è prima di tutto essere uno specialista delle vie del Diavolo. L’illuminazione e soprattutto la glorificazione trasmettono il carisma del discernimento degli spiriti per aver ingannato il Diavolo, specialmente quando ricorre all’insegnamento della teologia e della spiritualità a coloro che sfuggono alla sua presa.

f) I misteri.

Il risultato più importante della franco-latinizzazione dell’educazione teologica ortodossa del XVIII e XIX secolo è stata la scomparsa del contesto dell’esistenza stessa della Chiesa nella purificazione, illuminazione e glorificazione dai Manuali dogmatici, e specialmente i capitoli sui Misteri. Questi manuali non erano a conoscenza del fatto biblico e patristico che il carisma del presbiterato presupponeva lo stato di profezia. “…non trascurare il carisma che è in te che ti è stato dato per mezzo della profezia con l’imposizione delle mani del presbiterato (1 Tm 4,14)”.

g) Profeti e intellettuali.

La creazione dipende completamente da Dio sebbene non vi sia alcuna somiglianza tra di loro. Ciò significa che non c’è alcuna differenza tra il colto e il non educato quando entrambi stanno passando attraverso la cura dell’illuminazione nel loro cammino per diventare profeti mediante la glorificazione. Una conoscenza superiore sulla realtà creata non dà alcuna pretesa speciale sulla conoscenza dell’increato. Né l’ignoranza sulla realtà creata è uno svantaggio per raggiungere la più alta conoscenza della realtà increata.

h) Profeti e Papi.

Dei cinque Patriarcati romani, i Franchi conquistarono quello di Roma e sostituirono i Papi romani con Papi teutonici con la forza militare durante una lotta iniziata nel 983 e terminata nel 1046. Estesero così il loro controllo della successione apostolica al Papato come parte dei loro piani per il dominio del mondo. Trasformarono i Padri romani in greci e latini e si attaccarono a questi ultimi, inventando così l’idea di due cristianità. Per l’Islam il papato è ancora latino e franco, e i patriarchi di Nuova Roma, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme sono ancora romani. L’ignoranza su chi e cosa sono i glorificati e perché sono secondi e successori degli Apostoli ha creato il vuoto che è stato riempito dall’infallibilità del Papa latino.

i) Profeti e Padri.

Gregorio di Nissa informa i suoi lettori che le eresie compaiono in quelle chiese che non hanno profeti. La ragione è che i loro capi tentano di entrare in comunione con Dio mediante la meditazione e la contemplazione su di Lui invece che mediante l’illuminazione e la glorificazione. Confondere i propri concetti su Dio con Dio è idolatria, per non parlare del cattivo metodo scientifico.

A proposito di apostoli e profeti dice san Paolo: «La persona spirituale esamina tutto, ma non è esaminato da nessuno» (1 Cor 3,15). La ragione di ciò è che, mediante la loro glorificazione nella gloria increata di Dio in Cristo, essi divennero testimoni del fatto che «i capi di questo tempo» «hanno crocifisso il Signore della gloria» (1 Cor 2,8). Questo è lo stesso Signore della Gloria (l’Angelo del Gran Consiglio), che si chiama “Colui che è, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe”, l’Onnipotente, la Sapienza di Dio, la Roccia che seguì (1 Corinzi 10,1-4), che videro i profeti dell’Antico Testamento. San Giovanni Battista fu il primo dei Profeti a vedere questo stesso Signore della Gloria nella Carne. Naturalmente anche i Giudei, che formalmente credevano nel Signore della Gloria, «se avessero saputo, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria» (1 Cor 2,8).

Paolo adatta i detti dell’Antico Testamento, “ciò che occhio non ha visto e orecchio non ha udito e non è sorto nel cuore dell’uomo, che Dio ha preparato per coloro che lo amano”, alla crocifissione Signore della gloria, che «Dio ci ha rivelato mediante il suo Spirito» (1 Cor 3,9-10). Quelle così glorificate sono le uniche autorità all’interno della Chiesa ortodossa. Producono le formulazioni dottrinali che servono come guide per la cura del centro della personalità umana e come segnali di avvertimento per stare lontani da dottori ciarlatani che promettono molto e non hanno nulla da dare in preparazione all’esperienza della gloria di Dio in Cristo che ognuno farà finalmente avere.

j) Il Signore della Gloria ei Concili ecumenici[12].

Per ‘Scritture’ sia Cristo che gli Apostoli intendevano l’Antico Testamento a cui era stato aggiunto il Nuovo Testamento. I Vangeli di Marco, Matteo e Luca sono stati redatti per fungere da guide pre-battesimali durante le fasi della purificazione e dell’illuminazione della persona interiore nel cuore. Che Cristo sia lo stesso Signore della Gloria che si rivelò ai suoi profeti dell’Antico Testamento e divenne manifesto al Suo battesimo e trasfigurazione in cui mostrò la gloria e il governo (BASILEIA in greco) di Suo Padre come Suo per natura. Il Vangelo di Giovanni è stato redatto allo scopo di continuare il proprio avanzamento nell’illuminazione (Gv 13,31-36) e proseguire verso la glorificazione (Gv 17) mediante la quale si vede pienamente la glorificazione del Signore della Gloria nel Padre Suo e di quest’ultimo in Suo Figlio (Giovanni 13:31, 32).

Per questo Giovanni fu chiamato il “Vangelo spirituale”[13].

Coloro che sono stati così iniziati al Corpo di Cristo non hanno appreso dell’incarnazione, del battesimo, della trasfigurazione, della crocifis-sione, della morte, della sepoltura, della risurrezione, dell’ascensione e del ritorno pentecostale del Signore della Gloria nelle lingue di fuoco increate del Suo Spirito per diventare il capo della Sua Corpo, la Chiesa, semplicemente studiando i testi della Bibbia. Hanno studiato la Bibbia come parte integrante del processo di purificazione, illuminazione e preparazione alla glorificazione del loro cuore, nello stesso Signore della Gloria, che aveva glorificato i Suoi Profeti dell’Antico Testamento, ma ora nella Sua natura umana nata dalla Vergine Maria.

Fu in questo contesto che la Chiesa antica identificò Cristo con il Signore, Angelo e Sapienza per mezzo del quale Dio creò il mondo e glorificò i suoi amici, i profeti, e mediante il quale liberò Israele dalla schiavitù e la guidò fino al tempo in cui Egli stesso divenne carne per porre fine al dominio della morte sulla Sua Chiesa (A.T.) (Matteo 16,18). Nonostante la loro glorificazione, i Profeti A.T. morirono. Ma ora «se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte» (Gv 8,52-53). Ora c’è una prima risurrezione della persona interiore (Apocalisse 20,5) e una seconda risurrezione del corpo (Apocalisse 20,6) e c’è anche una seconda morte del corpo (Apocalisse 20,14).

Anche eretici come gli Ariani e gli Eunomiani, condannati dal Primo e Secondo Concilio Ecumenico, davano per scontata questa identità di Cristo con il Signore della Gloria dell’Antico Testamento. Tuttavia, hanno affermato che questo Angelo della Gloria era la prima creazione della volontà di Dio dal non essere prima sia del tempo che dei secoli e non coeterna con il Padre. Hanno usato la visibilità dell’Angelo della Gloria ai Profeti come prova della sua natura creata[14] in un modo in qualche modo simile a quegli gnostici che identificarono questo angelo dell’Antico Testamento con il loro dio creatore minore di questo presunto mondo malvagio e che ingannarono Israele.

Gli Ariani e gli Eunomiani o ignoravano o rifiutavano il fatto che per glorificazione si diventa dio per grazia (theosis) e che quindi si vede la gloria e il governo increati (BASILEIA in greco) di Dio in Cristo per mezzo di Dio stesso. In gioco c’era il fatto che Dio stesso si rivela ai suoi amici glorificati e non per mezzo di una creatura, con la sola eccezione della natura creata di suo Figlio. Eppure la grazia e la regola (BASILEIA in greco) di illuminazione e di gloria che Cristo comunica al suo Corpo, la Chiesa, è increata. La dottrina franco-latina della creazione della grazia comunicata non ha posto nella tradizione dei Concili ecumenici.

Il motivo per cui gli aspetti di cui sopra dei Concili ecumenici non giocano alcun ruolo nelle storie della dottrina latina e protestante è il fatto che Agostino deviò nettamente da Ambrogio e dai Padri nella sua comprensione delle apparizioni del Logos ai profeti dell’Antico Testamento[15]. Le sue incomprensioni divennero il fulcro della tradizione franco-latina. Le storie della dottrina protestante e latina, che sono consapevoli della deviazione di Agostino da questa antica identificazione di Cristo con questo angelo della gloria, presuppongono che sia stata eliminata dalla tradizione a causa del suo uso da parte degli ariani. Tuttavia questa tradizione è stata preservata intatta all’interno delle Chiese dell’Impero Romano e continua ad essere il cuore della tradizione ortodossa. Questo è l’unico contesto per i termini trinitari e cristologici: tre sostanze, una sola essenza e l’unione del Logos con il Padre e noi. Erano e rimangono privi di significato nel contesto agostiniano.

Agostino aveva erroneamente creduto che fossero solo gli Ariani ad identificare il Logos con questo Angelo della Gloria A.T. Non sapeva che sia Ambrogio, il vescovo che afferma di aver aperto la sua mente manichea all’Antico Testamento e di averlo battezzato, e tutti gli altri Padri fecero lo stesso. Gli Ariani e gli Eunomiani avevano sostenuto che la prova che il Logos era stato creato era che Egli era per natura visibile ai Profeti, mentre solo il Padre era invisibile. Agostino non aveva compreso le esperienze bibliche di illuminazione e glorificazione, che aveva confuso con l’illuminazione e l’estasi neoplatoniche. Ha relegato la glorificazione alla vita dopo la morte e l’ha identificata con la visione della sostanza divina che presumibilmente soddisfa il desiderio dell’uomo di felicità assoluta. La sua comprensione utilitaristica dell’amore gli rendeva impossibile comprendere l’amore disinteressato della glorificazione in questa vita. A questo proposito non differiva dagli ariani che stava attaccando.

All’interno dei presupposti neoplatonici di cui sopra, Agostino risolve il problema con la seguente spiegazione: le Tre Persone della Santissima Trinità, essendo ugualmente invisibili, presumibilmente rivelano sé stesse e i loro messaggi ai profeti per mezzo di varie creature che portano all’esistenza per essere visti e ascoltati e che poi fanno scomparire dall’esistenza, come la gloria, la nuvola, il fuoco, il roveto ardente, ecc. Dio è diventato permanentemente visibile nella natura umana di Suo Figlio attraverso il quale comunica messaggi e concetti. Tuttavia, si suppone che continui anche a rivelare visioni e messaggi con mezzi creati che Egli passa dentro e fuori dall’esistenza secondo necessità, come l’uccello al battesimo di Cristo, le lingue di fuoco di Pentecoste, la gloria/luce/regola (BASILEIA in greco) di Dio rivelato alla trasfigurazione. Questi simboli verbali con cui gli scrittori dell’Antico e del Nuovo Testamento esprimevano esperienze di illuminazione e glorificazione furono così ridotti a oggetti temporanei e miracoli incredibili[16]. Questa divenne la tradizione franco-latina a cui aderiscono ancora sostanzialmente sia i latini che i protestanti.

Uno degli effetti collaterali più notevoli di tali malintesi è l’uso della parola “regno” che satura le traduzioni del Nuovo Testamento e che non compare mai nell’originale greco. Il termine greco “BASILEIA (in greco) di Dio” designa il governo increato di Dio e non il Regno creato governato da Dio.

k) “…non spegnere lo Spirito” (1 Ts 5,19)

Lo Spirito Santo che si custodisce nel proprio cuore «con sospiri inespressi» (Rm 8,26) non è di per sé appartenenza al Corpo di Cristo. Si deve rispondere con l’incessante preghiera del proprio spirito, perché lo Spirito di Dio testimoni al nostro spirito “che siamo figli di Dio e coeredi di Cristo, affinché, poiché co-soffriamo, anche noi siamo co-glorificati “, (Rom 8,16-17). Sebbene questa risposta sia la nostra, è anche un dono di Dio. Proprio questo presuppone san Paolo quando comanda: «Pregate incessantemente… Non spegnete lo Spirito. Non disattendete le profezie». (1 Ts 5,17-19). Paolo ci sta dicendo qui di aver cura di rimanere templi dello Spirito Santo preservando la preghiera incessante del nostro spirito nel cuore affinché possiamo diventare profeti mediante la glorificazione. Questo è anche il motivo per cui Padri come come San Giovanni Crisostomo dicono: “Non pensiamo di essere diventati membra del Corpo una volta per tutte”[17].

Il battesimo con l’acqua per il perdono dei peccati è un mistero indelebile perché il perdono di Dio per l’essere malati è il dato di fatto per l’inizio della guarigione. Tuttavia, il battesimo dello Spirito non è un mistero indelebile poiché o si ha, o non si ha, o si può perdere, la preghiera incessante nel cuore. Che si risponda o no, lo Spirito Santo è avvocato nel cuore di ogni singolo essere umano, che creda o meno in Cristo. In altre parole, l’amore di Dio chiama tutti allo stesso modo ma non tutti rispondono. Coloro che non rispondono non dovrebbero immaginarsi templi dello Spirito Santo e membra del Corpo di Cristo, impedendo così agli altri di rispondere. Coloro che sono nello stato di illuminazione pregano insieme nelle loro liturgie come templi dello Spirito Santo e membri del Corpo di Cristo che i non membri diventino membri e i membri precedenti tornino membri poiché ciò non era loro garantito dal loro battesimo d’acqua per il perdono dei peccati.

l) Il carisma della traduzione.

Ad un certo punto della storia della Chiesa primitiva il carisma di tradurre simultaneamente i salmi e le preghiere dal cuore all’intelletto a beneficio del culto collettivo dei privati è stato sostituito da testi liturgici scritti stabili, con punti fissi in cui i laici (idiotes) rispondessero con il loro amen, Kyrie eleison, ecc. Anche la preghiera nel cuore era ridotta a una breve preghiera (es. Signore Gesù Cristo abbi pietà di me peccatore) o a una frase di un salmo (una forma che si trova nei Padri del deserto di Egitto e portato in Occidente da San Giovanni Cassiano). Altrimenti il carisma è rimasto intatto.

Gregorio di Tours descrisse i fenomeni sia della preghiera incessante che della glorificazione. Ma non avendo capito cosa sono, li ha descritti come miracoli e in modo confuso[18]. I Franchi continuarono questa confusione e alla fine confusero l’illuminazione e la glorificazione con il misticismo neoplatonico di Agostino, giustamente respinto dalla maggior parte della Riforma.

SELEZIONE DEGLI STUDI SULLE TEMATICHE QUI TRATTATE

  • Raccolta di fonti patristiche sulla preghiera nel cuore intitolata Filocalia, Gribaudi.
  • “La via del Pellegrino”, tradotto dal russo, ed. Adelphi. La Filocalia nella pratica popolare.
  • John S. Romanides, “Il peccato originale secondo San Paolo”, ed. Asterios. Documento consegnato nel 1954 alla facoltà della Scuola Teologica Ortodossa San Sergio a Parigi.
  • The Ancestral (originale) Sin, 1a ed., Atene 1957; 2a ed. Atene 1989, Domos.
  • “Ecclesiologia di Sant’Ignazio di Antiochia”, Atlanta 1956: ristampato in The Greek Orthodox Theological Review, Brookline 1961-62, vol. VII, nn. 1-2, pp. 53-77.
  • “Giustino martire e il quarto Vangelo”, Rivista teologica greco-ortodossa 4 (1958): 115-134.
  • “Dogmatica”, Salonicco 1973.
  •  “Romanità, Romania, Roumeli”, Salonicco 1975.
  • “Esame critico delle applicazioni della teologia”, in Procès Verbaux du Deuxième Congrès de Théologie Orthodoxe, Athènes 1976, ed. SC Agourides, Atene 1978.
  • “Franks, Romans, Feudalism and Doctrine”, Holy Cross Orthodox Press, Brookline 1982.
  • “Gesù Cristo-La vita del mondo”, in Xenia Oecumenica, Helsinki 1983, n. 39, pp. 232-275.
  • “Justice and Peace in Ecclesiological Context”, a cura di Gennadios Limouris, in “Come Holy Spirit Renew the Whole Creation”, Holy Cross Press, Boston 1990, pp. 234-249.
  • “Saint Augustin”, Les Dossiers HL’ Age d’ Homme, editore Patric Ranson, 1988. Di interesse sui punti qui toccati si vedano gli studi di Patric Ranson, Emile Zum Brunn, John Romanides, Laurent Motte, Anne Pannier e Alain de Libera.

NOTE:


[1] La maggior parte del materiale qui presentato faceva parte del mio studio intitolato “Sinodi e civiltà della Chiesa” preparato e già presentato al VI incontro della Commissione mista luterana-ortodossa 31/5-8/6/1991 Mosca, URSS e rivisto per la riunione della sottocommissione, 17-21 giugno 1992, Ginevra e stampato in “THEOLOGIA”, vol. 63 + Numero 3 + luglio-settembre 1992 pagine 424-450 e in greco nel vol. 66 + Edizione 4, 1995 pagine 647-680. È apparso di nuovo con il titolo “LA RELIGIONE È UNA MALATTIA NEUROBIOLOGICA, TUTTAVIA L’ORTODOSSIA È LA SUA CURA”, pubblicato dal Monastero di Koutloumousiou del Monte Athos nel suo volume intitolato “ORTODOSSI-EELLENISMO IN CAMMINO VERSO IL TERZO MILLENNIO”, VOL. 2, pp. 67-87, 1996.

[2]  Per l’inizio dei miei studi sulle ragioni catechetiche della differenza tra le due tradizioni evangeliche nella Chiesa primitiva si veda il mio studio “Giustino Martire e il quarto Vangelo”, in Greek Orthodox Theological Review 4 (1958): 115- 134. Ho ricevuto una lettera da C.H. Dodd in cui si informava che questa posizione doveva essere esaminata.

[3] San Giovanni Crisostomo, Migne, PG 60, 23

[4] Mc 9, 1-8, Mt 16. 28; 17.1-8, Lc 9.27-36

[5] Si veda ad esempio una concentrazione di queste sciocche nozioni nel De Trinitate di Agostino, libri II e III. Ho avuto il privilegio di ascoltare un sermone sulla Pentecoste durante una riunione del Comitato Centrale del Consiglio Ecumenico delle Chiese che ha ripetuto queste posizioni di Agostino. Ciò significa che il materiale di questo sermone è stato preso direttamente da questa fonte o è entrato a far parte delle tradizioni franco-latine e della Riforma. Se è così, allora il divario tra i Nove Concili ecumenici romani dal 325 al 1351 e le posizioni franco-latina e protestante sono incolmabili.

[6] 1 Cor. 13,11

[7] Questa sezione e le sezioni del resto di questo documento sono state incluse nel mio studio “SINODI DELLA CHIESA E CIVILTÀ” che è stato redatto per il VI incontro della Commissione mista luterana-ortodossa 31/5-8/1991 Mosca, URSS. Rivisto per la riunione della sottocommissione, 17-21 giugno 1992, a Ginevra. È stato pubblicato in THEOLOGIA Vol. 63, Numero 3, luglio-settembre 1992 e in greco nel vol. 66, numero 4, 1995.

[8] Vedi sotto “j) Il Signore della Gloria e i Concili Ecumenici”.

[9] Questa interpretazione di Paolo si basa sulla Tradizione Patristica, ma anche su informazioni recepite durante un incontro di dialogo a Bucarest (ottobre 1979) tra ortodossi ed ebrei. Quest’ultimo ha sottolineato che l’illuminazione e la glorificazione patristica che ho descritto loro era quella della tradizione chassidim dell’Antico Testamento. Evidentemente Cristo, il Signore incarnato e i Suoi Apostoli appartengono a questa tradizione.

[10] Commentando 1 Cor 12,27-28 scrive san Simeone il Nuovo Teologo: «Affinché provi le differenze delle membra, ciò che sono e chi sono, dice: Voi dunque siete il corpo di Cristo… tipi di lingue. Fai le differenze tra le membra di Cristo? Hai imparato chi sono le sue membra?” Libro VI sull’etica, intitolato “Come si è uniti a Cristo e a Dio e come tutti i santi diventano uno con Lui”.

[11] Per l’interpretazione patristica dell'”eph’ho” di Paolo in Rom 5,12 vedi J.S. Romanides, “Il peccato originale secondo S. Paolo”, Asterios

[12] Per l’identità del Logos incarnato del Nuovo Testamento con il Signore dell’Antico Testamento negli insegnamenti dei Padri del Primo e del Secondo Concilio ecumenico si veda il mio studio “Gesù Cristo la vita del mondo”, in Xenia Oecumenical , Helsinki 1983, pp. 232-275.

[13] J.S. Romanides, “Giustino martire e il quarto vangelo”, in The Greek Orthodox Theologica [l Review, IV, 2 (1958-59),115-139. http://www.romanity.org/htm/rom.22.en.justin_martyr_and_the_fourth_gospel.01.htm

[14] Per i presupposti filosofici comuni tra Paolo di Samosata, i suoi co-lucianisti ariani e i nestoriani si veda il mio “Dibattito sulla cristologia di Teodoro di Mopsuestia”, The Greek Orthodox Theological Review, vol. VII, 2 (1959-60), pp. 140-185.

[15] Per l’analisi di queste deviazioni vedere la bibliografia.

[16] Quanto sopra si può trovare concentrato nei seguenti scritti di Agostino: De Beata Vita, Contra Academicos, e disseminato in tutti i suoi scritti. Particolarmente interessanti sono le sue spiegazioni delle visioni di Dio da parte dei profeti e degli apostoli nel suo De Tinitate, specialmente in Libri II e III.

[17] Migne, PG 60, 23: J.S. Romanides, Peccato originale (in greco) 1a ed. Atene 1957; 2a ed. Atene 1989, pag. 173.

[18] J.S. Romanides, Franchi, Romani, Feudalesimo e Dottrina, Brookline 1981, p. 53-57.




Sant’Ignazio Bryanchaninov (1807–1867): Sulla preghiera di Gesù (III)

Sulla preghiera di Gesù

Sezione III. Sull’esercizio della preghiera di Gesù

Leggi la Parte I

Leggi la Parte 2

Apprendista. Spiegaci il modo corretto di praticare la preghiera di Gesù.

Anziano. Il corretto esercizio della Preghiera di Gesù deriva di per sé da concetti corretti su Dio, sul nome santissimo del Signore Gesù e sulla relazione dell’uomo con Dio.

Dio è un essere infinitamente grande, tutto perfetto, il Creatore e Ricreatore delle persone, il Signore sovrano sulle persone, sugli angeli, sui demoni, su tutta la creazione, visibile e invisibile. Questo concetto di Dio ci insegna che dobbiamo stare davanti a Dio in preghiera nella più profonda riverenza, nel più grande timore e tremore, dirigendo tutta la nostra attenzione su di Lui, concentrando nell’attenzione tutte le forze della mente, del cuore, dell’anima, rifiutando la mente-assente e il sognare ad occhi aperti come violazione dell’attenzione e riverenza, come violazione della correttezza nello stare davanti a Dio, correttezza urgentemente richiesta dalla grandezza di Dio (Giovanni 4 :23–24Matteo 22:37Marco 12:29–30Luca 10:27). Isacco il Siro disse magnificamente: “Quando ti inchini davanti a Dio in preghiera, sii, nel tuo pensiero, come una formica, come un rettile terrestre, come un verme, come un bambino balbettante. Non dire nulla di ragionevole davanti a Lui; avvicinati a Dio in modo infantile» [1]. Coloro che hanno acquisito la vera preghiera sentono un’indescrivibile povertà di spirito quando stanno davanti a Dio, glorificandolo, confessandolo, gettando le loro richieste davanti a Lui. Si sentono come distrutti, come se non esistessero. È naturale! Quando chi prega sente abbondantemente la presenza di Dio, la presenza della Vita stessa, Vita immensa e incomprensibile, allora la sua stessa vita gli appare come la più piccola goccia rispetto all’oceano sconfinato. Il giusto e longanime Giobbe giunse in tale stato, avendo raggiunto il più alto progresso spirituale. Si sentiva “sciolto” (Gb 42,6), come la neve si scioglie e scompare quando i raggi del sole cocente cadono su di essa.

Il nome di nostro Signore Gesù Cristo è Divino; il potere e l’azione di questo nome sono Divini; sono onnipotenti e salvifici; sono al di sopra del nostro concetto, inaccessibili ad esso. Con fede, speranza, zelo, uniti con grande riverenza e timore, compiamo la grande opera di Dio insegnata da Dio: affatichiamoci nella preghiera nel nome di nostro Signore Gesù Cristo. “L’incessante invocazione del nome di Dio”, dice il Grande Barsanufio, “è una guarigione che uccide non solo le passioni, ma la loro stessa azione. Come il medico applica medicine o cerotti alla ferita dell’afflitto, ed essi agiscono, e il malato non sa come si fa, così proprio il nome di Dio, invocato, uccide tutte le passioni, anche se non sappiamo come questo è fatto. [2]

Il nostro stato abituale, lo stato di tutta l’umanità, è uno stato di caduta, illusione, distruzione. Rendendoci conto e, nella misura della coscienza, sentendo questo stato, gridiamo in preghiera, gridiamo con contrizione di spirito, gridiamo con pianto e gemito, gridiamo misericordia. Rinunciamo a ogni godimento spirituale, a tutti gli alti stati di preghiera, in quanto indegni e incapaci di essi. Non c’è modo di cantare “il canto del Signore in terra straniera” – in un cuore pieno di passioni. Se sentiamo un invito a cantarlo, allora puoi sapere con certezza che questo invito è fatto da “coloro che ci hanno ingannato”. “Sui fiumi di Babilonia” si può e si deve solo piangere. (Sal 136:1, 3-4)

Tale è l’istruzione generale per la pratica della preghiera di Gesù, tratta dalla Sacra Scrittura e dagli scritti dei santi Padri, da pochissimi colloqui con veri libri di preghiere. Da istruzioni private, principalmente per principianti, ritengo utile citare quanto segue:

San Giovanni della Scala consiglia di rinchiudere la mente nelle parole di preghiera, e, per quante volte essa venga eliminata dalle parole, di reintrodurla [3]. Questo meccanismo è particolarmente utile e particolarmente conveniente. Quando la mente è in questo modo nell’attenzione, allora il cuore entrerà in simpatia con la mente con tenerezza, – la preghiera sarà eseguita congiuntamente dalla mente e dal cuore. Le parole della preghiera devono essere pronunciate molto lentamente, anche estese, in modo che la mente abbia la possibilità di essere racchiusa nelle parole. Consolando e istruendo i monaci cenobiti impegnati nell’obbedienza monastica, incoraggiandoli alla diligenza e alla diligenza nella preghiera, Ladder dice: “Dai monaci impegnati nell’obbedienza, Dio non richiede la preghiera completamente pura dalla distrazione. Non perderti d’animo se sei derubato dalla distrazione! Sii misericordioso e forza costantemente la tua mente a tornare a te stesso. La perfetta libertà dalla distrazione è proprietà degli Angeli” [4]. «Schiavitù delle passioni! Preghiamo il Signore costantemente, inesorabilmente, perché tutti gli impassibili sono passati» — con tale preghiera — «allo stato di distacco dallo stato di passione. Se alleni instancabilmente la tua mente affinché non vada da nessuna parte» – dalle parole della preghiera – «allora sarà con te durante il tuo pasto. Ma se gli permetti di vagare ovunque senza restrizioni, allora non sarà mai in grado di stare con te. Il grande autore di una preghiera grande e perfetta disse: “ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza (ndt. νοῒ…altra grafia per νοῦς) per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue.» (1 Corinzi 14:19)…  “Tale preghiera” – una graziosa preghiera della mente nel cuore, priva di librarsi – “non è caratteristica dei bambini, e quindi noi, come bambini, ci preoccupiamo della qualità della preghiera” – circa l’attenzione racchiudendo la mente nelle parole – “pregheremo molto. La quantità è la causa della qualità. Il Signore dona una preghiera pura a coloro che pregano pigramente, molto e costantemente con le loro preghiere contaminate dalla distrazione.[5]. I monaci novizi hanno bisogno di molto tempo per imparare a pregare. È impossibile, poco dopo essere entrati in un monastero o dopo essere entrati in un’impresa, raggiungere questa virtù suprema. Sia il tempo che la gradualità nel raggiungimento sono necessari affinché l’asceta sia maturo per la preghiera sotto tutti gli aspetti. Come il fiore e il frutto crescono su uno stelo o su un albero, che essi stessi devono prima essere seminati e crescere, così la preghiera cresce sulle altre virtù, altrimenti non può apparire se non su di esse. Non presto il monaco affronterà la sua mente; non abituerà presto la sua mente a rimanere nelle parole di preghiera, per così dire, in reclusione e isolamento. Distratta dalle passioni, impressioni, ricordi, affanni che gli sono abituati, la mente del novizio rompe incessantemente i legami che lo salvano, abbandona la via stretta, si lascia trasportare in quella larga; ama vagare liberamente nei cieli, in una terra di seduzione, con gli spiriti scesi dal cielo, vagando senza meta, avventatamente, dannoso per sé stessi. Le passioni – questi disturbi morali di una persona – diventano il motivo principale di distrazione durante la preghiera. In corrispondenza dell’indebolimento delle passioni, la distrazione diminuisce. Le passioni sono frenate e mortificate a poco a poco dalla vera obbedienza e dall’abnegazione e dall’umiltà che scaturiscono dalla vera obbedienza. Obbedienza, abnegazione e umiltà sono le virtù su cui si basa il successo nella preghiera. L’indifferenza, accessibile a una persona, è concessa da Dio a tempo debito a un tale asceta della preghiera che, con la costanza e lo zelo nell’impresa, dimostra la sincerità del suo desiderio di acquisire la preghiera. 

Il sacerdote monaco Dorotheos [6] , nostro connazionale, grande mentore dell’impresa spirituale, che in questa dignità si avvicina a sant’Isacco di Siria, consiglia a coloro che stanno imparando la Preghiera di Gesù di pronunciarla prima vocalmente. Dice che la preghiera vocale stessa passa poi nella mente [7] . “Da una preghiera vocalei”, dice il monaco, “scaturisce la preghiera noetica, e dalla preghiera noetica nasce la preghiera del cuore. Non pronunciare la Preghiera di Gesù ad alta voce, ma sottovoce, ad alta voce solo per te stesso” [8]. In una speciale condizione di distrazione, tristezza, sconforto, pigrizia, è molto utile eseguire vocalmente la preghiera di Gesù: in risposta alla preghiera vocale di Gesù, l’anima viene gradualmente risvegliata da un pesante sonno morale, in cui tristezza e sconforto di solito hanno la meglio. È molto utile eseguire vocalmente la preghiera di Gesù durante un’intensa invasione di pensieri e sogni di lussuria e rabbia carnale, quando la loro azione infiamma e ribolle il sangue, la pace e il silenzio vengono portati via dal cuore, quando la mente vacilla, si indebolisce, come sovvertito e vincolato da una moltitudine di pensieri e sogni osceni: Gli ariosi principi della malizia, la cui presenza non è condannata dagli occhi del corpo, ma è riconosciuta dall’anima per il loro effetto su di essa, avendo udito il terribile nome del Signore Gesù, saranno perplessi e confusi, saranno spaventati, non indugeranno ad allontanarsi dall’anima. Il metodo offerto dal sacerdote è molto semplice e conveniente. Deve essere connesso con il meccanismo indicato da San Giovanni della Scala, cioè pronunciare la Preghiera di Gesù ad alta voce, ad alta voce solo per te, lentamente, e racchiudendo la mente nelle parole della preghiera; il racchiudersi della mente nelle parole della preghiera è lasciata in eredità dal monaco stesso [9] .

Il meccanismo di San Giovanni della Scala deve essere osservato anche nel metodo esposto dal monaco Nilo di Sorsk nella 2a Parola della sua Tradizione o nella Carta di Skete. San Nilo ha preso in prestito il suo metodo dai Padri greci, Simeone il Nuovo Teologo e Gregorio del Sinai, e lo ha alquanto semplificato. San Nilo dice: “Quello che hanno detto questi santi sul trattenere il respiro, cioè non respirare spesso, e l’esperienza insegnerà presto che questo è molto utile per raccogliere la mente”. Alcuni, non comprendendo questo meccanismo, gli attribuiscono un’importanza eccessiva, trattengono eccessivamente il respiro e quindi danneggiano i polmoni, danneggiando allo stesso tempo l’anima assimilando ad essa il concetto di sbagliato. Tutte le azioni eccessive e inutilmente intense servono da ostacolo al successo nella preghiera, che si sviluppa solo nel seno di uno stato d’animo pacifico, tranquillo e riverente nell’anima e nel corpo.[10] .

Per coloro che stanno iniziando a imparare la preghiera di Gesù, la regola quotidiana della cella da un certo numero di prostrazioni e inchini, secondo la forza, è molto utile per impararla. Gli inchini vengono fatti lentamente, con un sentimento di pentimento, e ad ogni inchino viene recitata la preghiera di Gesù. Un esempio di questa preghiera può essere visto nel “Discorso sulla fede” di san Simeone, il Nuovo Teologo [11]. Descrivendo l’atto quotidiano di preghiera serale del beato giovine Giorgio, san Simeone dice: pregò il Signore con le lacrime affinché il Signore avesse pietà di lui. Mentre pregava, stava immobile, come una specie di pilastro, non concedendosi alcun movimento né con le gambe né con qualsiasi altra parte del corpo, non permettendo che gli occhi si volgessero ai lati con curiosità: stava in piedi con grande timore e tremore, non permetteva di appisolarsi, non permetteva sconforto e pigrizia. Il numero delle prostrazioni, per la prima volta, può essere limitato a dodici. Considerando le forze, la comodità fornita dalle circostanze, questo numero può aumentare costantemente. Quando moltiplichiamo il numero degli inchini, dobbiamo osservare rigorosamente in modo che la qualità dell’impresa orante sia preservata, in modo da non essere portati via da una quantità infruttuosa e dannosa, per fervore carnale. Attraverso i piegamenti il corpo si scalda, si stanca un po’; un tale stato del corpo favorisce l’attenzione e la tenerezza. Attenzione, attenzione, affinché questo stato non si trasformi in eccitazione carnale, estranea alle sensazioni spirituali, sviluppando un senso della natura dei caduti. La quantità, così utile quando l’umore e lo scopo sono giusti, può essere molto dannosa quando porta alla febbre carnale. Il fervore carnale è conosciuto dai suoi frutti; in essi differisce dal calore spirituale. I frutti dell’eccitazione carnale sono la presunzione, la fiducia in sé stessi, l’arroganza, l’esaltazione, altrimenti l’orgoglio nelle sue varie forme, a cui il prelest è convenientemente innestato. I frutti del calore spirituale sono il pentimento, l’umiltà, il pianto, le lacrime. È più conveniente eseguire la regola con gli inchini quando si va a letto: in questo momento, dopo il completamento delle cure quotidiane, puoi rendere la regola più lunga e più concentrata. Ma sia al mattino che a metà giornata, è utile, soprattutto per i giovani, fare un numero moderato di inchini: 12 e fino a 20. Queste prostrazioni supportano l’umore della preghiera e la crocifissione della carne, mantengono e rafforzano lo zelo per l’impresa orante.

Il consiglio che ho offerto, credo, sia sufficiente per un principiante che vuole imparare la preghiera di Gesù: “La preghiera”, disse il monaco Meletios Confessore, “non richiede un maestro, ma diligenza, diligenza e zelo speciale, e Dio è il suo maestro” [12]. I Santi Padri, dopo aver scritto molte opere sulla preghiera per darne all’operaio una giusta comprensione e una giusta guida al suo esercizio, offrono e incoraggiano ad entrare nell’impresa stessa per ottenere la conoscenza essenziale, senza la quale l’insegnamento dalla parola, seppur tratta da esperimenti, è morta, oscura, non è chiaro come debba essere spiegata e rivitalizzata dagli esperimenti. Al contrario, chi è attentamente impegnato nella preghiera ed è già riuscito in essa, dovrebbe spesso volgersi agli scritti dei Santi Padri sulla preghiera, credere e guidarsi da essi, ricordando che il grande Paolo, pur avendo avuto la testimonianza dello Spirito, che ha superato ogni testimonianza nel suo vangelo, andò a Gerusalemme e offrì agli apostoli che erano là il vangelo, da lui annunziato tra le genti, perché fossero presi in considerazione: – “per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano” (Gal 2:2) ”, dice.

Apprendista. Quali libri dei Santi Padri dovrebbero essere letti da coloro che desiderano impegnarsi nella preghiera di Gesù sotto la guida dell’insegnamento ispirato da Dio?

Anziano. Dipende dal tipo di vita che conduce l’asceta della preghiera. Considera gli scritti di Kallistos e Ignatius Xanthopoulos sul silenzio e la preghiera, e vedrai che è stato scritto per i monaci che sono in isolamento o conducono una vita eremitica, simile alla vita dei monaci dello Skete egiziano, in cui viveva ogni anziano in una cella separata, con uno, due e non più di tre discepoli. Coloro che conducono questo tipo di vita, i Santi Padri chiamano silenziosi [13]. Il silenzioso dispone di se stesso e del suo tempo a propria discrezione o secondo l’usanza mutuata dai suoi mentori, ed i monaci che si trovano nel cenobio sono obbligati a partecipare al culto pubblico e a dedicarsi alle obbedienze monastiche, non avendo né il diritto né il possibilità di disporre arbitrariamente di se stessi e del proprio tempo; inoltre, solo coloro che hanno avuto successo nella vita monastica, che l’hanno precedentemente studiata in un cenobio, e sono stati onorati di una discesa piena di grazia, possono tacere; e quindi i libri dei Santi Padri, scritti per coloro che tacciono, non sono in alcun modo adatti ai principianti e, in generale, ai monaci che lavorano nei monasteri cenobitici. Quanto è stato detto sul libro di Xanthopoulos va detto anche sui libri di Gregorio del Sinai, Isacco il Siro, Nil di Sorsk e il monaco Doroteo. Coloro che sono impegnati nella preghiera, mentre sono impegnati in obbedienze monastiche, possono familiarizzare con questi libri, ma non per guidarli, ma solo per conoscenza, pur osservando la prudenza affinché non lo conducano prematuramente alla solitudine o ad un’impresa insolita. Entrambi accadono spesso a danno più grande degli ingannati da una gelosia sconsiderata. I bambini e i giovani, quando, per stoltezza e frivolezza, tentano di sollevare un peso che supera le loro forze, si lacerano, spesso si autodistruggono completamente: anche chi non è maturato in età spirituale è soggetto a grandi disastri a causa dell’impresa spirituale che non corrisponde alla loro dispensazione, cadono spesso in un disordine irreparabile. Gli scritti dei santi Esichio, Filoteo e Teolitto, collocati nella seconda parte della Filocalia, sono molto utili per i monaci cenobiti e solitari. Particolarmente utili sono le prefazioni dello schemamonaco Basilio: espongono la dottrina della preghiera di pentimento, la dottrina è così utile, tanto necessario per il nostro tempo. Ci sono molte istruzioni istruttive sulla preghiera nel libro di Barsanuphius il Grande; da notare che nella prima metà si trovano risposte ai silenziosi, e nella seconda, dalla 220a risposta, ai monaci che lavoravano nel cenobio.

Apprendista . Che cosa significa il luogo del cuore, di cui parlano i santi Simeone, il Nuovo Teologo, il monaco Niceforo e altri Padri?

Anziano. È la forza mentale o spirito di una persona, presente nella parte superiore del cuore, sotto il capezzolo sinistro, proprio come la mente è presente nel cervello. Quando si prega, è necessario che lo spirito si unisca alla mente e reciti una preghiera insieme ad essa, e la mente agisca con parole pronunciate da un pensiero o con la partecipazione della voce, e lo spirito agisca con un sentimento di tenerezza o piangendo. L’unione è concessa a tempo debito dalla grazia divina, ma per un nuovo inizio è sufficiente che lo spirito simpatizzi e aiuti la mente. Pur mantenendo l’attenzione con la mente, lo spirito proverà sicuramente tenerezza. “Spirito” è solitamente chiamato “cuore”, così come al posto della parola “mente” si usa la parola “testa”. Pregate con attenzione, in contrizione di spirito, aiutandovi con i suddetti meccanismi; allo stesso tempo, si aprirà da sola la conoscenza sperimentale del luogo del cuore.

Apprendista . Mi sembrava che tu fossi riluttante a rispondere alla mia domanda sul posto del cuore, e rimandandomi alle prefazioni di Schemamonaco Basil, hai evitato di esporre i tuoi concetti e punti di vista. Ti prego, per il mio beneficio e per gli altri, rispondi francamente alla mia domanda.

Anziano . La tua domanda ha portato dolore nel mio cuore. Questa domanda mi è stata posta da molti – ed era spesso un’espressione che esprimeva uno stato di autoillusione, uno stato di danno mentale. Con difficoltà, il danno mentale causato da un esercizio improprio nelle imprese spirituali viene corretto – per la maggior parte rimane incorreggibile. Rimane incorreggibile sia per l’orgoglio del ferito, sia per la fine del danno. Il veleno della menzogna è terribile: persiste con ostinazione in chi l’ha accettato arbitrariamente; lascia l’azione mortale in coloro che, accorgendosi di essa, non l’hanno rifiutata e non l’hanno scacciata da sé con risoluta abnegazione. Creatori [14] di castelli in aria, vedendo la loro costruzione innalzarsi al cielo, ammirano e si dilettano di questo spettacolo seducente: non amano il richiamo del comandamento evangelico, che annuncia che conviene che ogni «uomo che costruisce una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sopra la roccia.» (Lc 6,48). La pietra è Cristo. Cristo sta davanti agli occhi della nostra mente nel Vangelo: sta davanti agli occhi della mente con la sua condotta; sta davanti agli occhi della mente per il Suo insegnamento; davanti agli occhi della mente per i suoi comandamenti; davanti agli occhi della mente per la sua umiltà, per la quale «obbedì fino alla morte, ma alla morte di croce» (Fil 2,8). Prende su di sé il duro lavoro di scavare la terra e vi si addentra, chi, contrariamente all’inclinazione del cuore, scende nell’umiltà, chi, rifiutando la sua volontà e la sua mente, cerca di studiare con accuratezza i comandamenti di Cristo e la tradizione della Chiesa Ortodossa, per seguirli con accuratezza; pone solide pietre a fondamento, il quale, prima e al di sopra di tutti gli altri asceti, ha cura di correggere e dirigere la sua moralità secondo il comportamento, l’insegnamento e il testamento di nostro Signore Gesù Cristo. Non c’è posto per la vera preghiera in un cuore che non è ben organizzato e non sintonizzato sui comandamenti del Vangelo. Al contrario, l’illusione è piantata in ciascuno di noi da una caduta: «secondo questo stato di illusione, che è proprietà inalienabile di ciascuno di noi, di solito la mente», dice san Gregorio del Sinai, «soprattutto in gente frivola, sforzarsi prematuramente di assimilare alti stati oranti, e così si perde la piccola dispensa data da Dio, e l’operaio è colpito dalla morte per tutto ciò che è buono. E quindi bisogna riflettere attentamente su sé stessi, per non cercare prematuramente ciò che arriva a tempo debito, e per non rifiutare ciò che viene consegnato, dirigendosi verso la ricerca dell’altro. È naturale che la mente sogni alti stati di preghiera che non ha ancora raggiunto e li “perverta” nel suo sogno o nella sua opinione. È molto pericoloso che un tale lavoratore non perda ciò che gli viene dato, in modo che non subisca follia su follia per l’azione del delirio [15]. Il prelest, in misura maggiore o minore, è una conseguenza logica necessaria di un’impresa orante scorretta.

La vita monastica è una scienza delle scienze, una scienza divina. Questo vale per tutte le imprese monastiche, specialmente per la preghiera. Ogni scienza ha il suo inizio, la sua gradualità nell’insegnamento della conoscenza, i suoi esercizi finali; così nell’insegnamento della preghiera c’è il suo proprio ordine, il suo proprio sistema. L’attenta adesione a un ordine, o, ciò che è lo stesso, a un sistema, è in ogni scienza una garanzia di un completo successo in esso; così il corretto esercizio della preghiera serve come garanzia di successo in essa, quel successo, con il quale piace a Dio avere pietà dell’asceta. Il rifiuto del sistema nello studio delle scienze serve come fonte di concetti perversi, fonte di conoscenza peggiore dell’ignoranza, essendo una conoscenza errata e negativa; tale è la conseguenza di un esercizio indiscriminato della preghiera. Inevitabile la conseguenza naturale di un simile esercizio è l’inganno. Il monachesimo fatto da sé non è monachesimo. Questo è un incantesimo! Questa è una caricatura, una distorsione del monachesimo! Questa è una presa in giro del monachesimo! Questo è autoinganno! Questo è agire, molto capace di attirare l’attenzione e la lode del mondo, ma rifiutato da Dio, estraneo ai frutti dello Spirito Santo, ricco di frutti che vengono da Satana.

Molti, avendo sentito la disposizione e lo zelo per la realizzazione spirituale, intraprendono questa conquista in modo avventato e leggero. Si arrendono a lui con tutto zelo e fervore, con tutta sconsideratezza, non rendendosi conto che questo zelo e fervore sono i più sanguinosi e carnali, che sono pieni di impurità; non rendendosi conto che quando si studia la scienza delle scienze – la preghiera, è necessaria la guida più fedele, la massima prudenza e cautela. Ahimè! Le vie di Dio, quelle giuste, ci sono nascoste; ci sono nascoste a causa della cecità prodotta e mantenuta in noi dalla caduta. Eleggiamo come leader principalmente quei mentori che il mondo ha proclamato santi e che sono o nel profondo dell’illusione o nel profondo dell’ignoranza. I libri scritti da asceti eterodossi, che erano nella più terribile illusione demoniaca, sono eletti come capi, in comunione con i demoni. I Santi Padri della Chiesa Ortodossa sono eletti come capi degli scritti della Chiesa Ortodossa, che espongono la sublime impresa orante dei monaci di successo, un’impresa inaccessibile alla comprensione dei novizi, non solo per seguirla – e il frutto di impresa spirituale è un mostruoso disordine mentale, la morte. “Semina il grano, ma respingi le spine” (Ger 12,13), lo Spirito Santo parla con dolore a coloro che trasformano il bene in male abusando del bene. Triste, solo una triste vista! Sull’opera più sublime della mente, sull’opera che eleva a Dio colui che cammina per i passi stabiliti, l’annebbiamento e la corruzione della mente, la follia, la follia, la schiavitù dei demoni, la morte si acquistano con l’azione sbagliata. Un tale spettacolo, uno spettacolo che spesso si presentava ai miei occhi, è stato motivo di dolore per il mio cuore alla tua domanda. Non mi piacerebbe sentirlo da te o da nessuno degli altri nuovi arrivati. «Non vi è utile», dicevano i Padri, «conoscere il prossimo prima di acquisire una conoscenza sperimentale del precedente» [16]. Tale curiosità è segno di pigrizia e di ragione arrogante [17]. Ho indicato le prefazioni dello schemamonaco Basil come l’opera di un vero orante, particolarmente utile per i tempi moderni. Questo lavoro istruisce una comprensione infallibile degli scritti dei Padri sugli atti di preghiera, scritti compilati per monaci di successo, principalmente per coloro che tacciono.

Per esaudire il tuo desiderio, ti ripeterò, solo in altre parole, ciò che ho già detto. L’esercizio della preghiera di Gesù ha due divisioni o periodi principali, che terminano con la preghiera pura, che è coronata da distacco o perfezione cristiana in quegli asceti ai quali Dio si compiace di donarla. Dice sant’Isacco di Siria: «Non a molti è stata concessa la preghiera pura, ma a pochi: colui che è giunto al sacramento che avviene dopo di questo e passa dall’altra parte (Giordano), difficilmente se ne incontra uno di generazione in generazione, per la “grazia e benevolenza” di Dio” [18]. Nel primo periodo, è lasciato a chi prega di pregare con i propri sforzi; la grazia di Dio assiste senza dubbio colui che prega bene intenzionato, ma non ne rivela la presenza. In questo tempo, le passioni, nascoste nel cuore, mettono in moto ed elevano l’oratore a imprese da martire, in cui vittorie e vittorie si sostituiscono incessantemente [19] , in cui il libero arbitrio di una persona e la sua debolezza sono espressi con chiarezza [20]. Nel secondo periodo, la grazia di Dio manifesta palpabilmente la sua presenza e la sua azione, unendo la mente al cuore, rendendo possibile la preghiera senza librarsi o, il che è lo stesso, senza distrazione, con pianto accorato e calore; allo stesso tempo, i pensieri peccaminosi perdono il loro potere violento sulla mente. I Santi Padri indicano questi due stati. Di questi, il monaco Nilo di Sorsk, riferendosi al monaco Gregorio del Sinai, dice: “Quando viene l’azione della preghiera, allora tiene la mente per sé, la riempie e la libera dal librarsi” [21]. Per coloro che non hanno acquisito un’azione piena di grazia, il monaco riconosce l’allontanamento della mente dalla distrazione e dalla preghiera attenta come l’impresa più difficile; difficile e scomoda [22]. Per raggiungere il secondo stato è necessario passare attraverso il primo, è necessario mostrare e provare la solidità della propria volontà, e «portare frutto con pazienza» (Lc 8,15). Il primo stato di chi prega può essere paragonato agli alberi spogli durante l’inverno; il secondo – agli stessi alberi, ricoperti di foglie e fiori dovuto all’azione del calore primaverile. Gli alberi accumulano il potere di produrre foglie e fiori durante l’inverno, quando il loro stato mostra unì immagine di sofferenza, uno stato nel territorio della morte. Non lasciamoci tentare dal Signore! Non permettiamoci di accostarci a Lui con leggerezza, senza paura, con doppiezza, con uno stato d’animo di esitante curiosità, per la quale è vietato l’ingresso nella terra promessa (Eb 3:8–11, 18–19). Avviciniamoci come coloro che sono periti, come coloro che hanno un bisogno essenziale della salvezza, che è elargita da Dio per il vero pentimento. Per l’anima lo scopo della preghiera, in entrambi gli stati, dovrebbe essere il pentimento. Per il pentimento portato avanti con i suoi stessi sforzi, Dio concederà, a tempo debito, un pentimento pieno di grazia – e lo “Spirito Santo”, essendosi stabilito in una persona, “intercede” per lui con “gemiti che non possono essere pronunciati”: Egli «intercede per i santi» secondo la volontà di Dio, che solo Lui conosce. (Rom 8:26-27).

Da ciò risulta chiaro che per un principiante la ricerca di un luogo del cuore, cioè la ricerca di scoprire in sé l’azione prematura e prematuramente chiara della grazia, è l’impresa più erronea, pervertendo l’ordine, il sistema della scienza. Un’impresa del genere è un’impresa orgogliosa e folle! L’uso dei meccanismi proposti dai Santi Padri per i monaci di successo, per coloro che tacciono, non corrisponde al nuovo inizio. Durante l’esercizio della preghiera, i principianti devono prestare la massima attenzione, racchiudendo la mente nelle parole della preghiera, pronunciando le parole molto lentamente in modo che la mente abbia il tempo di essere contenuta in esse, e respirando tranquillamente ma liberamente. Alcuni pensavano che ci fosse qualcosa di particolarmente importante nella produzione stessa del respiro, e non rendendosi conto che il respiro tranquillo e calmo era comandato dai Padri per evitare la distrazione della mente, cominciarono a trattenere eccessivamente il respiro, e per questo turbavano la salute fisica, che è così utile nell’impresa orante. “Tieni”, dice san Gregorio del Sinai, “il respiro, cioè il movimento della mente, che chiude più bocche mentre si esegue la preghiera, e non il respiro delle narici, cioè sensuale, come fanno gli ignoranti, per non farsi male, gonfiandosi” [23]. Non solo nel processo di respirazione, ma in tutti i movimenti del corpo, si dovrebbe osservare calma, tranquillità e modestia. Tutto ciò contribuisce notevolmente a mantenere la mente dalla distrazione. La mente che prega con attenzione attirerà certamente il cuore alla compassione per sé stessa, a un sentimento di pentimento. Tra la simpatia del cuore con la mente e l’unione della mente con il cuore o la discesa della mente nel cuore c’è la differenza più grande. San Giovanni della Scala riconosce un progresso significativo nella preghiera quando la mente rimarrà nelle sue parole [24]. Questo grande maestro dei monaci afferma che la preghiera di colui che prega costantemente e diligentemente, quando la mente è racchiusa nelle parole della preghiera, per un sentimento di pentimento e di pianto, sarà certamente oscurata dalla grazia divina [25]. Quando la preghiera è oscurata dalla grazia divina, allora non solo si aprirà il luogo del cuore, ma l’intera anima sarà attratta da Dio da una forza spirituale incomprensibile, trascinando con sé il corpo. La preghiera di coloro che vi riescono è pronunciata da tutto l’essere. L’intera persona diventa, per così dire, con una bocca. Non solo il “cuore” di una persona rinnovata, non solo “l’anima”, ma anche la “carne” è colma di consolazione spirituale e di gioia, di gioia nel “Dio vivente” (Sal 83,3), in Dio, agendo in modo tangibile e potente per sua grazia. “Tutte le ossa” in un vero libro di preghiere “dicono: Signore, Signore, chi è come te? libera il povero dalla mano di coloro che lo rafforzano, e il misero da coloro che depredano la sua preghiera e speranza: dai pensieri e dalle sensazioni derivanti da una natura decaduta ed eccitata dai demoni (Sal 34,10). Tutti i cristiani dovrebbero sforzarsi di riuscire nella preghiera di pentimento; i Santi Padri invitano tutti i cristiani ad esercitarsi nella preghiera di pentimento e a riuscirci. Al contrario, proibiscono rigorosamente lo sforzo prematuro di ascendere con la mente nel santuario del cuore per la preghiera piena di grazia, quando questa preghiera non è ancora stata data da Dio. La proibizione è accoppiata con una terribile minaccia. «La preghiera intelligente», dice il monaco Nilo di Sorsk, ripetendo le parole del monaco Gregorio del Sinai, «è al di sopra di tutte le azioni, e capo delle virtù, come l’amore di Dio. Chi vuol entrare spudoratamente e arditamente in Dio, e spesso dialogare con Lui, avendo bisogno di acquistarlo in sé, è convenientemente messo a morte dai demoni» [26].

Vi prego, vi prego di prestare tutta la dovuta attenzione al formidabile precetto dei Padri. So che alcune persone ben intenzionate, ma che cadono effettivamente nella fornicazione, incapaci, per una sfortunata abitudine, di trattenersi dal cadere, tentano di praticare la preghiera accorata. Può esserci qualcosa di più sconsiderato, più ignorante, più audace di questa impresa? La preghiera di pentimento è rivolta a tutti senza eccezioni, sia a chi è posseduto dalle passioni sia a chi è soggetto a cadute violente. Hanno tutto il diritto di gridare al Signore per la salvezza; ma l’ingresso al cuore per il sacro servizio orante è loro proibito, è riservato esclusivamente al vescovo mistico, legalmente ordinato per grazia divina. Comprendi, comprendi che questo ingresso è aperto solo dal dito di Dio; si apre quando una persona non solo cessa dal peccato attivo, ma riceverà anche dalla destra di Dio la forza di resistere ai pensieri appassionati, di non lasciarsi trasportare e di non goderne. A poco a poco si costruisce la purezza del cuore, e Dio appare alla purezza “gradualmente” e “spiritualmente”. Gradualmente! Perché le passioni non diminuiscono e le virtù non aumentano di colpo: entrambe richiedono una notevole quantità di tempo.

Ecco il mio patto con te: non cercare un luogo del cuore. Non cercare invano di spiegarti cosa significa il luogo del cuore: questo può essere spiegato in modo soddisfacente solo con l’esperienza. Se piace a Dio di darti la conoscenza, Egli la darà a tempo debito, e in un modo che l’uomo naturale non può nemmeno immaginare. Impegnarsi esclusivamente e con ogni diligenza nella preghiera di pentimento, cercare di portare il pentimento attraverso la preghiera; sarai convinto del successo dell’impresa quando sentirai in te stesso povertà di spirito, tenerezza, pianto. Auguro a te e a te stesso lo stesso successo nella preghiera. Raggiungere stati benedetti soprannaturali è sempre stata una rarità. Pimen il Grande, monaco dello Skete egiziano, famoso per l’alta prosperità dei suoi monaci, vissuto nel V secolo, in cui fiorì soprattutto il monachesimo, diceva: “Molti parlano di perfezione tra noi, [27] . San Giovanni della Scala, scrittore asceta del VI secolo, testimonia che ai suoi tempi i vasi della grazia divina erano molto ridotti rispetto al tempo precedente, il santo ne vede la ragione in un cambiamento nello spirito umano e nella società, che ha perso la sua semplicità e si è infettata di astuzia [28]. San Gregorio del Sinai, scrittore del 14° secolo, osò dire che ai suoi tempi non c’erano affatto uomini beati, quindi divennero rari; il Sinaitico ne indica la ragione nell’insolito sviluppo dei vizi, scaturito dalle molteplici tentazioni [29]. Specialmente nel nostro tempo, chi fa la preghiera ha bisogno di osservare la massima cautela. Non abbiamo mentori ispirati da Dio! La castità, la semplicità, l’amore evangelico sono scomparsi dalla faccia della terra. Tentazioni e vizi si sono moltiplicati all’infinito! Il mondo è inghiottito dalla dissolutezza! Regna sulla società umana, come un tiranno sovrano, l’amore criminale in varie forme! È sufficiente, estremamente sufficiente, se siamo in grado di portare a Dio l’unico atto che è essenziale per la nostra salvezza: il pentimento.

Apprendista. La vita in un monastero è conveniente per insegnare la Preghiera di Gesù, in mezzo a una fratellanza più o meno numerosa e a un pettegolezzo, inevitabile nella folla di gente? Non è più conveniente per questo vivere nel silenzio?

Anziano. La vita in un monastero, specialmente in uno cenobitico, contribuisce all’apprendimento stabile e riuscito della preghiera per il principiante, se solo vive correttamente. A chi vive rettamente nella vita comunitaria vengono continuamente presentate occasioni di obbedienza e di umiltà, e queste virtù, più di tutte le altre, preparano e sintonizzano l’anima alla vera preghiera. «Dall’obbedienza viene l’umiltà», dicevano i Padri [30]. L’umiltà nasce dall’obbedienza e si mantiene nell’obbedienza, proprio come una lampada si mantiene accesa aggiungendo olio. L’umiltà porta nell’anima «la pace di Dio» (Fil 4,7). La pace di Dio è il luogo spirituale di Dio (Sal 75,3), cielo spirituale; le persone che sono entrate in questo cielo diventano uguali agli angeli e, come gli angeli, cantano incessantemente nel loro cuore un canto spirituale a Dio (Ef 5,19), cioè portano la preghiera pura e santa, che in coloro che sono riusciti è come una canzone e una canzone di canzoni. Per questo l’obbedienza, mediante la quale viene consegnato il tesoro inestimabile dell’umiltà, è riconosciuta unanimemente dai Padri [31] come la virtù monastica fondamentale, come la porta che conduce legittimamente e correttamente alla preghiera intelligente e accorata, o, ciò che è lo stesso, al vero sacro silenzio. San Simeone, il Nuovo Teologo, parla di preghiera attenta: «Secondo me, questo bene ci viene dall’obbedienza. La disobbedienza al padre spirituale rende tutti negligenti. Con quale cosa temporanea si può essere conquistati o ridotti in schiavitù? Quale dolore e quale cura può avere una persona simile?” [32]. Le preoccupazioni e le dipendenze, che deviano costantemente il pensiero su sé stessi, servono come motivo di intrattenimento durante la preghiera; l’orgoglio è causa di indurimento del cuore; la rabbia e il ricordo, basati sull’orgoglio, sono la causa della confusione del cuore. L’obbedienza è la causa iniziale che distrugge la distrazione, dalla quale la preghiera diventa infruttuosa; è causa dell’umiltà, l’umiltà distrugge l’amarezza, in cui è morta la preghiera; scaccia l’imbarazzo, in cui la preghiera è indecente, unge di tenerezza il cuore, da cui la preghiera prende vita, prende le ali, vola verso Dio. Di conseguenza, l’obbedienza non solo agisce contro la distrazione, ma protegge anche il cuore dalla durezza e dall’imbarazzo, lo mantiene costantemente mite, buono, costantemente capace di tenerezza, costantemente pronto a riversarsi davanti a Dio nella preghiera e nel lamento, tanti sinceri, “confessione” [33] dell’anima davanti a Dio e “apparizione” spirituale di Dio all’anima [34]. Se un monaco si comporta in un monastero come uno straniero, non facendo conoscenze fuori e dentro il monastero, non andando in celle fraterne e non ricevendo fratelli nella sua cella, non facendo eccessi nella cella, non esaurendo i suoi desideri, lavorando nelle obbedienze monastiche con umiltà e coscienziosità, ricorrendo spesso alla confessione dei peccati, obbedendo docilmente al rettore e alle altre autorità del monastero, con semplicità di cuore, poi, senza dubbio, riuscirà nella preghiera di Gesù, cioè riceverà il dono di sperimentarla attentamente e versare lacrime di pentimento durante essa. «Ho visto», dice san Giovanni della Scala, «coloro che sono riusciti nell’obbedienza e non hanno trascurato, per quanto possibile, la memoria di Dio [35], agito dalla mente, come essi, alzandosi improvvisamente alla preghiera, presto sopraffarono la loro mente e versarono lacrime a ruscelli; ciò fu fatto loro perché preordinati da venerabile obbedienza» [36]. San Simeone, il Nuovo Teologo, San Nikita Stephat e molti altri Padri impararono la preghiera di Gesù e la praticarono nei monasteri situati nella capitale dell’Impero d’Oriente, nella vasta e popolosa Costantinopoli. Sua Santità il Patriarca Fozio lo apprese già nel grado di patriarca durante numerosi altri studi legati a questo grado. Sua Santità il Patriarca Kallistos studiò mentre prestava servizio come cuoco nella Lavra di Sant’Atanasio dell’Athos sul Monte Athos [37]. I Santi Dorotheos [38] e Dositheos [39] lo studiarono nel cenobio di Santa Serida, il primo recando l’obbedienza del capo dell’ospedale, il secondo – un accolito in esso. Nel cenobio di Alessandria, descritto da San Giovanni della Scala, tutti i confratelli praticavano la preghiera mentale [40]. Questo santo, così come Barsanophius il Grande, comanda a coloro che sono afflitti da fornicazione specialmente di intensificare la preghiera nel nome del Signore Gesù [41]. Il beato anziano Serafino di Sarov testimoniò, istruito dalla propria esperienza, che la preghiera di Gesù è un flagello contro la carne e le concupiscenze carnali [42]. La fiamma di queste concupiscenze svanisce dalla sua azione. Quando agisce in una persona, allora, dalla sua azione, le concupiscenze carnali perdono la loro libertà nella loro azione. Quindi un animale da preda legato ad una catena, pur conservando la capacità di uccidere e divorare persone e animali, perde la capacità di agire secondo la sua abilità.

I santi Simeone e Andrea, santi stolti per amore di Cristo, ebbero uno speciale successo nella preghiera, essendo stati elevati a essa dalla loro completa abnegazione e dalla più profonda umiltà. Niente offre un accesso così libero a Dio come l’abnegazione risoluta, calpestando il proprio orgoglio, il proprio “io”. L’effetto abbondante della sentita preghiera di sant’Andrea è descritto dal suo maggiordomo, Niceforo, sacerdote della grande chiesa della regia Costantinopoli. Questa azione, per sua stessa natura, è degna di essere notata. “Egli”, dice Niceforo, “ricevette un tale dono di preghiera nel tempio segreto del suo cuore che il sussurro delle sue labbra risuonò lontano. Come un calderone d’acqua, messo in moto da incommensurabile ebollizione, emette vapore da sé stesso, così dalla sua bocca usciva vapore dall’azione dello Spirito Santo. Alcuni di quelli che lo videro dissero che in lui abitava un demonio, e per questo da lui usciva vapore; altri hanno detto di no! Il suo cuore, tormentato da uno spirito ostile, produce un tale soffio. Nessuna delle due opinioni era giusta: questo fenomeno rifletteva la preghiera incessante e gradita a Dio, e coloro che non avevano familiarità con l’impresa spirituale inventarono un concetto sul grande Andrea, simile a quello che una volta si faceva con il dono improvvisamente aperto della conoscenza delle lingue straniere [43]. Ovviamente, il santo di Dio ha fatto una preghiera con tutto il suo essere, combinando una preghiera intelligente e sentita con una vocale. Quando sant’Andrea fu rapito in paradiso, allora, come disse al sacerdote, l’abbondante grazia di Dio, riempiendo il paradiso, produsse in lui quell’effetto spirituale che di solito è prodotto dalla preghiera mentale in coloro che vi sono riusciti: ha portato la sua mente e cuore in unione e la persona giunge a uno stato di ebbrezza spirituale e di una certa dimenticanza di sé [44]. Questa estasi e l’oblio di sé sono insieme il sentimento di una nuova vita. San Simeone disse al diacono Giovanni che in mezzo alle tentazioni più forti la sua mente rimane tutta rivolta a Dio e le tentazioni restano senza la loro azione abituale [45]. In coloro a cui è stata concessa un’ombra piena di grazia, l’anima in mezzo a pensieri e sensazioni peccaminose e vane è costantemente assorta nella preghiera intelligente, come da una misteriosa mano invisibile, e il dolore è sollevato: l’azione del peccato e il mondo resta impotente e senza frutto [46] .

Nei giorni del mio nuovo inizio, un anziano, in una conversazione sincera, mi ha detto: “Nella vita mondana, per la semplicità dei tempi passati e per la direzione pia allora prevalente, ho appreso della Preghiera di Gesù, l’ho praticata, e a volte provavo in me uno straordinario cambiamento e consolazione. Entrato nel monastero, ho continuato a studiarlo, guidato dalla lettura dei libri dei Padri e dalle indicazioni di alcuni monaci, che sembravano averne un’idea. Tra questi ho visto anche una sedia bassa, citata dal monaco Gregorio del Sinai, fatta come quelle sedie che si usavano in Moldavia. Alla fine del secolo scorso e all’inizio di questo secolo, il lavoro mentale fiorì in vari monasteri della Moldavia, in particolare nel monastero di Neamtsky. Dapprima ero nell’obbedienza del refettorio; impegnato nell’obbedienza, impegnato nella preghiera [47]. Una volta misi un piatto di cibo sull’ultima tavola, alla quale sedevano i novizi, e con il pensiero dissi: accettate da me, servi di Dio, questo miserabile servizio. Improvvisamente una tale consolazione mi scese nel petto che barcollai perfino; la consolazione continuò per molti giorni, circa un mese. Un’altra volta mi è capitato di entrare nel negozio di prosfora; Non so perché, per una specie di inclinazione, mi sono inchinato molto profondamente ai fratelli che stavano lavorando alla prosfora, e, all’improvviso, la preghiera ha avuto un tale effetto su di me che mi sono affrettato a recarmi nella mia cella e a stendermi sul letto per la debolezza prodotta in tutto il corpo dall’azione orante» [48].

Nella descrizione della morte di san Demetrio di Rostov, si dice che fu trovato addormentato in preghiera. Poche ore prima della sua morte, aveva visto il suo cantore preferito; salutando il cantare, il Santo gli si inchinò quasi fino a terra. Umiltà e preghiera scaturivano da un unico stato d’animo del cuore. La comunità monastica, come ho già detto, serve come il più grande aiuto per insegnare la preghiera di Gesù nelle sue prime fasi, fornendo al nuovo venuto occasioni incessanti di umiltà. Può convenientemente mettersi alla prova, presto ogni monaco può vedere l’effetto dell’obbedienza e dell’umiltà sulla preghiera. Confessione quotidiana dei propri pensieri ad un padre spirituale o ad un anziano, rinuncia all’attività secondo la propria mente e la propria volontà, in breve tempo comincerà ad agire contro la distrazione, la distruggerà, e manterrà la mente nelle parole di preghiera. L’umiltà davanti all’anziano e davanti a tutti i fratelli comincerà subito a portare tenerezza al cuore e tenerlo nella tenerezza. Al contrario, dall’attività della propria volontà e secondo la propria mente, apparirà immediatamente la tutela di sé stessi, alla mente appariranno varie considerazioni, presupposti, paure, sogni e la preghiera attenta sarà distrutta. Abbandonare l’umiltà per preservare la propria dignità in relazione al prossimo toglierà la tenerezza dal cuore, indurisce il cuore, ucciderà la preghiera, privandola delle sue proprietà essenziali, dell’attenzione e della tenerezza. Ogni atto contro l’umiltà è calunniatore e distruttore della preghiera. La preghiera riposa sull’obbedienza e sull’umiltà! Queste virtù sono l’unico solido fondamento per le azioni di preghiera. 

Il silenzio è utile per coloro che hanno avuto successo, che hanno compreso la guerra interna, che si sono rafforzati nella morale evangelica con una completa abitudine, che hanno rifiutato le dipendenze [49] ; tutto questo deve essere acquisito in anticipo nel cenobio. Per coloro che sono entrati nel silenzio senza un precedente e soddisfacente studio in un monastero, il silenzio arreca il danno più grande: li priva del successo, intensifica le passioni [50] , ed è causa di arroganza [51] , autoinganno e inganno demoniaco [52]. “Inesperti” – coloro che non sono stati esperti nei segreti della residenza monastica – “il silenzio distrugge” [53] – disse San Giovanni della Scala. «Al vero silenzio», rimarca lo stesso santo, «sono rari coloro che hanno acquisito la consolazione divina come incoraggiamento al lavoro e l’assistenza divina come aiuto nelle battaglie» [54] .

Apprendista. Prima hai detto che chi non è purificato dalle passioni è incapace di assaporare la grazia divina e ora hai menzionato la consolazione orante piena di grazia in un laico e in un novizio principiante. Questa mi sembra una contraddizione.

Anziano. Resi sapienti dalle Sacre Scritture e dagli scritti dei Santi Padri, crediamo e confessiamo che la grazia divina agisce sia prima che ora nella Chiesa ortodossa, nonostante acquisisca pochi vasi degni di essa. Adombra quegli asceti di Dio che le piace adombrare. Coloro che affermano che è ormai impossibile per un cristiano diventare partecipe dello Spirito Santo, contraddire le Sacre Scritture e arreca il più grande danno alle loro anime, come magnificamente argomenta San Macario il Grande [55]. Essi, non assumendo alcuno scopo particolarmente elevato nel cristianesimo, non conoscendolo, non tentano, non pensano nemmeno a raggiungerlo; accontentandosi del compimento esteriore di certe virtù, si privano della perfezione cristiana. Peggio di tutto, essi, soddisfatti della loro condizione e riconoscendosi, a causa del loro comportamento esteriore, sono saliti al vertice della vita spirituale, non solo non possono avere umiltà e povertà spirituale, ma cadono anche nella presunzione, nell’arroganza, nell’autoillusione, nell’inganno non si preoccupa più della vera prosperità. Al contrario, coloro che sono giunti a credere nell’esistenza della perfezione cristiana si sforzano di ottenerla con tutto il cuore, entrano in un’impresa implacabile per raggiungerla. Il concetto di perfezione cristiana li protegge dall’orgoglio: smarriti e piangenti stanno in preghiera davanti all’ingresso inaccessibile di questa camera spirituale. Introdotti dal Vangelo ad una corretta visione di sé, pensano umilmente, umilmente a se stessi: si riconoscono come schiavi indecenti, che non hanno compiuto la via descritta e ordinata dal Redentore per il popolo da Lui redento [56] . Il rifiuto di vivere secondo i comandamenti del Vangelo e secondo gli insegnamenti dei Santi Padri – vivere ostinato, basato sul proprio pensiero, anche se molto nobile o molto plausibile – ha l’effetto più dannoso sulla corretta comprensione del cristianesimo, anche sulla fede dogmatica (Tm 1,19). Ciò è dimostrato con tutta chiarezza dalla natura di quelle assurde delusioni e depravazioni in cui sono caduti tutti gli apostati, tutti gli eretici e gli scismatici.

Allo stesso tempo, basandoci sempre sulla Divina Scrittura e sugli scritti dei Padri, affermiamo che la mente e il cuore, non purificati dalle passioni dal pentimento, sono incapaci di diventare partecipi della grazia divina; e coloro che si ingannano cadono nell’autoillusione e nell’illusione demoniaca. Credendo indubbiamente nell’esistenza di un’azione colma di grazia, dobbiamo altrettanto inequivocabilmente credere nell’indegnità e nell’incapacità di una persona, nel suo stato passionale, di ricevere la grazia di Dio. Per questa profonda convinzione, immergiamoci completamente, disinteressatamente, nell’opera del pentimento, tradendoci e abbandonandoci completamente alla volontà e alla bontà di Dio. “Non c’è ingiustizia presso Dio”, insegna san Macario il Grande, “Dio non lascerà incompiuto ciò che ha lasciato per realizzarsi [57]. Un monaco non deve dubitare di ricevere il dono della grazia divina – dice sant’Isacco di Siria – così come un figlio non dubita di ricevere un’eredità dal padre. L’eredità spetta al figlio secondo la legge di natura. Allo stesso tempo, sant’Isacco chiama la petizione orante per l’invio di una chiara azione di grazia un’impresa degna di rimprovero, una petizione ispirata dall’orgoglio e dall’esaltazione; riconosce il desiderio e la ricerca della grazia come uno stato d’animo scorretto dell’anima, rifiutato dalla Chiesa di Dio, una malattia mentale. Coloro che hanno assimilato un tale desiderio per sé stessi, riconosce di aver assimilato l’orgoglio e la caduta, cioè l’autoillusione e l’inganno demoniaco. Sebbene lo scopo stesso del monachesimo sia il rinnovamento ad opera dello Spirito Santo di chi ha accettato il monachesimo, sant’Isacco si propone di andare verso questo obiettivo attraverso il pentimento e l’umiltà, per acquisire il lamento di sé e la preghiera del pubblicano, per rivelare la peccaminosità nascosta in sé stessi, affinché la nostra coscienza ci testimoni che siamo schiavi indecenti e abbiamo bisogno di misericordia. “Dio”, dice il santo, “viene da sé, mentre noi non ci pensiamo nemmeno. È così! Ma se il luogo è pulito e non contaminato” [58] .

Quanto al suddetto novizio: dai casi da lui più citati risulta chiaro che non si aspettava affatto un’azione così orante, che improvvisamente si aprì in lui, non sapeva nemmeno che esistesse. Questa è la struttura della provvidenza di Dio, la cui comprensione ci è inaccessibile. Lo stesso sant’Isacco dice: «Il grado (ordine) di vigilanza speciale (provincia, giudizio di Dio) differisce dal grado umano generale. Segui il grado generale e il percorso che tutte le persone hanno percorso, seguendo la successione, sali all’altezza del banchetto spirituale (torre)” [59] .

Apprendista. Mi è capitato di apprendere che alcuni degli anziani, che avevano molto successo nella Preghiera di Gesù, insegnavano ai nuovi arrivati ​​la preghiera mentale direttamente, anche dal cuore.

Anziano. Lo so. Tali casi particolari non devono essere presi come regola generale, né, sulla base di essi, bisogna trascurare la tradizione della Chiesa, cioè l’insegnamento dei Santi Padri, che la Chiesa ha accolto come guida generale. Gli anziani di successo che hai menzionato sono stati indotti a deviare dalla regola generale a causa della speciale capacità dei nuovi arrivati ​​di esercitare la preghiera mentale, o per la loro stessa incapacità di essere leader soddisfacenti per gli altri, nonostante il loro successo nella preghiera. Può succedere! Nello Skete egiziano, un certo monaco novizio chiese una guida su uno dei casi di ascesi monastica ad Abba Ivistion, un anziano di vita molto elevata. Dopo aver ricevuto l’istruzione, il novizio ritenne necessario credere all’istruzione solo dopo aver chiesto consiglio al monaco Pimen il Grande. Il Grande abolì l’istruzione di Abba Ivistion [60]. San Gregorio del Sinai osserva molto veramente che coloro che hanno successo nella preghiera insegnano agli altri a pregare secondo il modo in cui essi stessi hanno ottenuto il successo in essa [61]. Per esperienza, ho potuto constatare che coloro che hanno ricevuto la preghiera piena di grazia, secondo la speciale provvidenza di Dio, presto e non in modo comune, si affrettano, secondo quanto è loro accaduto, a comunicare al novizio tali informazioni sulla preghiera in modo tale che il novizio non possa in alcun modo comprendere correttamente,  sia frainteso, e crei un danno. Al contrario, coloro che hanno ricevuto il dono della preghiera dopo una lunga lotta con le passioni, pur purificandosi mediante il pentimento ed educandosi alla moralità con i comandamenti evangelici, insegnano la preghiera con grande prudenza, gradualità e correttezza. I monaci del monastero moldavo di Nyametsky mi hanno detto che il loro famoso anziano, l’archimandrita Paisios (Velichkovsky), che ricevette una preghiera di grazia dal cuore per la cura speciale di Dio, e non per l’ordine generale, proprio per questo non si fidava egli stesso per insegnarlo ai fratelli: affidò questo insegnamento ad altri anziani che avevano acquisito il dono della preghiera in modo generale. San Macario il Grande dice che per l’inesprimibile bontà di Dio, la condiscendente debolezza dell’uomo, ci sono anime che sono diventate partecipi della grazia divina, piene di celeste consolazione e godendo in esse dell’azione dello Spirito Santo, nello stesso tempo , per mancanza di esperienza attiva, rimanere, per così dire, durante l’infanzia, in uno stato molto insoddisfacente rispetto allo stato richiesto e consegnato dal vero ascetismo [62]. Mi è capitato di vedere un bambino così vecchio, abbondantemente oscurato dalla grazia divina. Lo incontrò una signora di anni e di salute fiorenti, un nome importante, una vita completamente laica, e, avendo ricevuto rispetto per l’anziano, gli rese alcuni servizi. L’anziana, mossa da un sentimento di gratitudine, volendo premiare il servizio materiale con una grande edificazione spirituale, e non rendendosi conto che questa signora, prima di tutto, doveva lasciare la lettura di romanzi e non vivere secondo i romanzi, le insegnò l’esercizio della preghiera di Gesù, intelligente e accorato, con l’aiuto di quei meccanismi che sono offerti dai Santi Padri per le persone silenziose e sono descritti nelle parti 1a e 2a della Filocalia. La signora obbedì al santo anziano, si trovò in una situazione difficilissima e avrebbe potuto farsi del male completamente se altri non avessero intuito che il figlio maggiore le aveva dato qualche istruzione incongrua.

All’anziano qui menzionato, un certo monaco che gli era vicino diceva: “Padre! La tua disposizione spirituale è come una casa a due piani, il cui piano superiore è perfettamente rifinito e quello inferiore è grezzo, il che rende molto difficile l’accesso al piano superiore. Nei monasteri si usa il detto “santo, ma non abile” per tali anziani di successo, e si osserva cautela nelle consultazioni con loro, nelle consultazioni che a volte possono essere molto utili. La prudenza sta nel non fidarsi frettolosamente e con leggerezza delle istruzioni di tali anziani, per verificarne le istruzioni con le Sacre Scritture e gli scritti dei Padri [63], così come una conversazione con altri monaci di successo e ben intenzionati, se è possibile trovarli. Beato il novizio che nel nostro tempo ha trovato un consigliere fidato! “Sappi”, esclama san Simeone, il Nuovo Teologo, “che nel nostro tempo sono apparsi molti falsi maestri e ingannatori!” [64]. Tale era la posizione del cristianesimo e del monachesimo otto secoli prima di noi. Cosa si può dire della situazione attuale? Quasi quanto sant’Efraim di Siria ha detto sulla situazione di coloro che negli ultimi tempi saranno impegnati nella ricerca della parola viva di Dio. “Essi”, profetizza il padre, “passeranno la terra da est a ovest e da nord a sud, cercando una tale parola, e non la troveranno” [65]. Come case alte e strade lunghe appaiono agli occhi stanchi di coloro che hanno smarrito la strada nelle steppe, che coloro che hanno smarrito la strada sono trascinati in un delirio ancora più grande, inesorabile; così coloro che cercano la parola viva di Dio nell’attuale deserto morale sono presentati in moltitudini con magnifici fantasmi della parola e dell’insegnamento di Dio, eretti dalla mente dell’anima, da una conoscenza insufficiente e falsa della lettera, dall’umore della spiriti emarginati, i governanti del mondo. Questi fantasmi, essendo in modo lusinghiero un Eden spirituale, abbondante di cibo, luce, vita, con il loro aspetto ingannevole distraggono l’anima dal vero cibo, dalla vera luce, dalla vera vita, conducono l’anima sfortunata nell’oscurità impenetrabile, la sfiniscono con la fame, il veleno con la menzogna, uccisa con la morte eterna.

Il monaco Cassiano il Romano narra che nei monasteri egizi del suo tempo, in cui specialmente fioriva il monachesimo e si osservavano con particolare cura e accuratezza le tradizioni dei Padri portatori di spirito; a quel monaco che non aveva imparato il monachesimo correttamente, in obbedienza, non gli era permesso di assumere l’incarico di mentore e rettore, sebbene questo monaco fosse di vita molto elevata, anche adornato con i doni della grazia. I Padri egiziani hanno riconosciuto il dono di condurre i fratelli alla salvezza come il più grande dono dello Spirito Santo. Colui a cui non veniva insegnata correttamente la scienza del monachesimo, sostenevano, non poteva insegnarla correttamente [66]. Alcuni furono rapiti dalla grazia divina dalla terra delle passioni e trasferiti nella terra del distacco, così furono liberati dal duro lavoro e dalle calamità sperimentate da tutti coloro che navigano attraverso il mare tempestoso, vasto e profondo che separa il paese dal paese. Possono raccontare in dettaglio e correttamente la terra del distacco, ma non possono dare un resoconto adeguato della navigazione per mare, di quella navigazione che non hanno sperimentato. Il grande mentore dei monaci, sant’Isacco di Siria, dopo aver spiegato che altri, per speciale cura di Dio, ricevono presto la grazia e la santificazione divina, decise di aggiungere che, a suo avviso, colui che non si è formato mediante il compimento dei comandamenti e non percorse la via percorsa dagli Apostoli, «non è degno di essere chiamato santo» [67]. «Chi ha vinto le passioni mediante l’adempimento dei comandamenti e la fatica con una buona azione, sappia che ha acquistato legittimamente la salute dell’anima» [68]. “L’ordine della tradizione è questo: la pazienza con la rinuncia a sé stesso combatte le passioni per acquisire la purezza. Se le passioni vengono vinte, l’anima acquisirà purezza. La vera purezza dona alla mente audacia durante la preghiera» [69]. Nella sua epistola a san Simeone Taumaturgo, sant’Isacco dice: «Tu scrivi che la purezza del cuore è stata concepita in te e che la memoria di Dio» — la preghiera mentale di Gesù — «si è molto infiammata nel tuo cuore, riscalda e lo accende. Se è vero, allora è grandioso; ma non vorrei che tu mi scrivessi questo: perché non c’è ordine» [70]. “Se vuoi che il tuo cuore sia un ricettacolo per i misteri della nuova era, allora prima sii arricchito con le conquiste corporee, il digiuno, la veglia, il servizio ai fratelli, l’obbedienza, la pazienza, l’abbattimento dei pensieri e altre cose del genere. Lega la tua mente alla lettura e allo studio delle Scritture; dipingi i comandamenti davanti ai tuoi occhi e ripaga il debito con le passioni. Conquistare e vincere. Abituati alla preghiera e alla supplica incessanti, e con il continuo esercizio in esse scacci dal tuo cuore ogni immagine e ogni somiglianza con cui il peccato ti ha suggellato nella tua vita precedente» [71]. «Tu sai che il male è entrato in noi attraverso la trasgressione dei comandamenti; da ciò è chiaro che la salute è restituita dall’adempimento dei comandamenti. Senza fare i comandamenti, non dobbiamo nemmeno desiderare la purificazione dell’anima o sperare di riceverla, quando non percorriamo la via che conduce alla purificazione dell’anima. Non dite che Dio può concedere per grazia la purificazione dell’anima, anche senza adempiere i comandamenti: questi sono i voleri di Dio e la Chiesa proibisce di chiedere che un tale miracolo avvenga a noi. Gli Ebrei, tornati da Babilonia a Gerusalemme, andarono nel modo consueto e nel tempo stabilito per tale via; dopo aver fatto un viaggio, giunsero alla loro città santa e videro i miracoli del Signore. Ma il profeta Ezechiele fu soprannaturalmente rapito dall’azione spirituale, posto a Gerusalemme, e per rivelazione divina divenne spettatore del futuro rinnovamento. Secondo l’immagine di questo, si fa anche riguardo alla purezza dell’anima. Alcuni entrano nella purezza dell’anima per la via tracciata per tutti, per la via lecita: osservando i comandamenti in una vita di grande difficoltà, versando il loro sangue. Altri sono degni di purezza per il dono della grazia. È meraviglioso che non sia permesso chiedere con la preghiera la grazia che ci è stata concessa, lasciando vivere operosamente secondo i comandamenti». [72] “Per il debole, che ha bisogno di essere nutrito dal latte dei comandamenti, convivere con molti è benefico, affinché impari e sia frenato, affinché sia ​​tentato da molte tentazioni, cade e si rialza, e acquista la salute dell’anima. Non esiste bambino simile che non sarebbe nutrito con il latte – e non si può essere un vero monaco che non sia educato dal latte dei comandamenti, adempiendoli con fatica, vincendo le passioni, e quindi reso degno di purezza” [73].

È possibile insegnare la preghiera intelligente e sentita sia al principiante che al giovane, se è capace e preparato. Tali personalità erano molto rare anche in tempi antichi, precedenti il ​​tempo della generale corruzione della morale. Sono stato testimone che l’anziano, dopo aver acquisito la preghiera piena di grazia e il ragionamento spirituale, ha dato consigli sulla preghiera intelligente e sentita a un novizio, che aveva conservato la sua verginità, preparato fin dall’infanzia ad accettare l’insegnamento mistico sulla preghiera studiando il cristianesimo e il monachesimo, che già sentiva in sé l’effetto della preghiera. L’anziano ha spiegato l’eccitazione della preghiera nel giovane con la sua verginità. Di tutt’altra norma sono soggetti i giovani e le persone di età matura, che, prima di entrare in monastero, trascorrevano una vita dispersa, con concetti meschini e superficiali del cristianesimo, che acquistavano varie dipendenze, corrompendo soprattutto la castità attraverso la fornicazione (1 Cor 6:16 ): per questo, sebbene sia perdonato subito dopo il pentimento di lui e la sua confessione, a condizione indispensabile che il pentito lo lasci; ma la purificazione e la disintossicazione del corpo e dell’anima dal peccato prodigo richiede molto tempo, affinché la connessione e l’unità stabilita tra i corpi, piantati nel cuore, infettando l’anima, si logorino e si distruggano. Per distruggere l’infelice assimilazione, la Chiesa considera molto significativi i periodi di pentimento per coloro che sono caduti nella fornicazione e nell’adulterio, dopodiché permette loro di prendere parte al Santissimo Corpo e Sangue di Cristo. Allo stesso modo, per tutti coloro che hanno condotto una vita dispersa, per coloro che hanno subito varie dipendenze, specialmente per coloro che sono caduti nell’abisso delle cascate prodighe, per coloro che ne hanno preso l’abitudine, tempo e tempo sono necessari per essere purificati dal pentimento, per cancellare da se stessi le impressioni del mondo e le tentazioni, per guarire dal peccato, per formare la morale ai comandamenti del Vangelo, e rendersi così capaci di una preghiera piena di grazia, intelligente e accorata. “Tutti discutano della propria anima”, dice san Macario il Grande, “considerando ed esaminando attentamente a cosa si sente attaccato, e se vede che il cuore è in contrasto con le leggi di Dio, allora provi con tutte le sue forze proteggere il corpo e l’anima dalla corruzione, rifiutando la comunione con i pensieri impuri, se vuole introdurre l’anima nella convivenza e nei volti delle vergini pure, secondo questo voto – al battesimo e all’ingresso nel monachesimo – «perché la dimora e il cammino di Dio è promesso da Dio solo nelle anime che posseggono un amore completamente puro e stabilito nel giusto amore”. [74] “Il contadino che è diligente verso la terra arabile prima la rinnova e ne strappa la zizzania, poi la semina; così anche chi si aspetta che Dio semini la sua anima con i semi della grazia, deve prima purificare il campo di grano dell’anima, affinché il seme, che poi lo Spirito Santo getterà in questo campo di grano, porti un frutto perfetto e numeroso. Se ciò non avviene prima di tutto, e se uno non si purifica da ogni sozzura della carne e dello spirito, allora rimarrà carne e sangue, lontano dalla vita in Dio [75]. «Chi si sforza esclusivamente e con tutte le sue forze alla preghiera, ma non si adopera per acquisire l’umiltà, l’amore, la mitezza e tutta la moltitudine delle altre virtù, non le introduce in sé con la forza, può solo arrivare al punto che “talvolta”, su sua richiesta, tocca la grazia divina, perché Dio, nella sua naturale bontà, concede amorevolmente a chi chiede ciò che vuole. Ma se il destinatario non si abitua alle altre virtù che abbiamo menzionato e non acquisisce abilità in esse, allora o perde la grazia ricevuta, o, essendo asceso, cade nell’orgoglio, o rimanendo nel grado inferiore a cui è asceso, non ci riesce più e non sta crescendo. Il trono e il riposo, per così dire, per lo Spirito Santo sono umiltà, amore, mitezza e, di conseguenza, tutti i santi comandamenti di Cristo. Allora chi vorrebbe relazionarsi e raccogliere in sé tutte le virtù egualmente e senza eccezione, moltiplicandole accuratamente per raggiungere la perfezione, prima di tutto si sforza, come abbiamo già detto, e superando costantemente un cuore ostinato, provi a presentarlo obbediente e gradito a Dio. In primo luogo, ha usato tale violenza contro sé stesso e ha restituito tutto ciò che è nell’anima e si oppone a Dio, come una bestia selvaggia addomesticata, in obbedienza ai comandi di Dio, in obbedienza alla direzione del vero, santo insegnamento, disponendo così la sua anima, se prega Dio e chiede a Dio che Dio conceda prosperità alle sue imprese, allora riceverà tutto ciò che chiede; il Dio più filantropico gli darà tutto in abbondanza, perché il dono della preghiera in lui cresca e fiorisca, addolcito dallo Spirito Santo» [76]. “Tuttavia, sappi che con molta fatica e con il sudore della tua faccia riceverai il tuo tesoro perduto, perché la facile ricezione del bene non è coerente con il tuo beneficio. Hai perso ciò che hai ricevuto senza fatica e hai consegnato la tua eredità al nemico” [77].

Apprendista. Quando prego, mi vengono in mente molti sogni e pensieri che non mi permettono di pregare in modo puro: da ciò può nascere delusione o qualche altro danno per me.

Anziano. È naturale che molti pensieri e sogni nascano dalla natura caduta. È anche caratteristico della preghiera rivelare nella natura decaduta i segni nascosti della sua caduta e le impressioni fatte dai peccati arbitrari [78]. Inoltre, il diavolo, sapendo che cos’è una grande preghiera di benedizione, durante essa cerca di turbare l’asceta con pensieri e sogni peccaminosi e vani per allontanarlo dalla preghiera o rendere la preghiera infruttuosa [79]. In mezzo a pensieri, sogni e sensazioni peccaminose, in mezzo a questa schiavitù e alla nostra costruzione di basi, tanto più grideremo e grideremo in preghiera al Signore, come “gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio” (Es 2:23–24).

La regola generale della lotta contro le impressioni peccaminose è rifiutare il peccato nella sua stessa apparizione, uccidere i misteriosi babilonesi mentre sono bambini (Sal 136,9). “Colui che combatte saggiamente”, disse il monaco Nil di Sorsk, “riflette la madre dell’ospite mentale malvagio, cioè il primo tocco di pensieri malvagi nella sua mente. Colui che respinse questo primo tocco, respinse subito tutta la successiva schiera di pensieri astuti” [80]. Ma se il peccato, a causa del precedente asservimento ad esso e dell’abitudine ad esso, ci costringe, allora anche allora non dovremmo perderci d’animo ed entrare nel rilassamento e nella disperazione; dovremmo sanare le vittorie invisibili con il pentimento e dimorare nell’impresa con fermezza, coraggio, costanza. Pensieri, sogni e sensazioni peccaminosi e vani possono quindi indubbiamente danneggiarci quando non lottiamo con loro, quando li godiamo e li piantiamo in noi stessi. Dalla comunione arbitraria con il peccato e dalla comunione arbitraria con gli spiriti emarginati, le passioni nascono e si rafforzano e l’illusione può insinuarsi nell’anima in modo poco appariscente. Quando resistiamo a pensieri, sogni e sensazioni peccaminose, la stessa lotta con loro ci porterà successo e ci arricchirà con una mente attiva. Un certo anziano, che era riuscito nella preghiera noetica, chiese a un altro monaco che la praticava anche lui: “Chi ti ha insegnato a pregare?” Il monaco rispose: “Demoni”. L’anziano sorrise e disse: “Che tentazione hai pronunciato per coloro che non conoscono la cosa! Tuttavia, dimmi, in che modo i demoni ti hanno insegnato a pregare?” Il monaco rispose: “Mi è stato concesso una battaglia pesante e prolungata di pensieri, sogni e sensazioni feroci che non mi davano pace né giorno né notte. Ero esausto ed emaciato incredibilmente per la gravità di questa condizione innaturale. Oppresso dall’assalto degli spiriti, ricorsi alla Preghiera di Gesù. La battaglia raggiunse un livello tale che i fantasmi iniziarono a tremolare nell’aria sensualmente davanti ai miei occhi. Sentivo costantemente che la mia gola era stretta come da una corda. Poi, sotto l’azione della battaglia stessa, ho cominciato a sentire che la preghiera si intensificava e la speranza si rinnovava nel mio cuore. Così la battaglia, diventando sempre più leggera, finalmente si placò del tutto”.

Preghiamo costantemente, con pazienza, con tenacia. Dio, a tempo debito, darà una preghiera pura e piena di grazia a coloro che pregano senza pigrizia e costantemente con la loro preghiera impura, che non abbandonano da vili l’impresa della preghiera quando non recedono dalla preghiera per molto tempo. Un esempio del successo della persistente Preghiera di Gesù si trova nel Vangelo. Mentre il Signore lasciava Gerico, accompagnato dai discepoli e da una folla di persone, il cieco Bartimeo, che sedeva per via e chiedeva l’elemosina, saputo che il Signore passava, cominciò a gridare: «Figlio di Davide Gesù, abbi pietà di me». Gli era proibito urlare, ma urlava ancora di più. Il risultato del grido incessante fu la guarigione del cieco da parte del Signore (Mc 10,46-52). Quindi grideremo, nonostante i pensieri, i sogni e i sentimenti peccaminosi che sorgono dalla nostra natura caduta e sono portati dal diavolo, per ostacolare il nostro grido di preghiera – e senza dubbio riceveremo misericordia.

Apprendista. Quali sono i veri frutti della preghiera di Gesù, per mezzo dei quali un principiante può sapere che sta pregando correttamente?

Anziano. I primi frutti della preghiera sono l’attenzione e la tenerezza. Questi frutti compaiono prima di tutti gli altri da qualsiasi preghiera eseguita correttamente, ma principalmente dalla preghiera di Gesù, il cui esercizio è superiore alla salmodia e alle altre preghiere [81]. Dall’attenzione nasce la tenerezza e dalla tenerezza si aggrava l’attenzione. Si intensificano, dando alla luce l’un l’altro; danno profondità alla preghiera, ravvivando gradualmente il cuore; le danno purezza, eliminando la distrazione e il sogno ad occhi aperti. Come la vera preghiera, l’attenzione e la tenerezza sono doni di Dio. Così come dimostriamo il desiderio di acquisire la preghiera costringendoci ad essa, così dimostriamo il desiderio di acquisire attenzione e tenerezza costringendoci ad esse. Inoltre, il frutto della preghiera è una visione in graduale espansione dei propri peccati e della propria peccaminosità, motivo per cui la tenerezza si intensifica e si trasforma in lamento. Il pianto è il nome della tenerezza traboccante, unita alla malattia del cuore contrito e umile, che agisce dal profondo del cuore e abbraccia l’anima. Poi ci sono le sensazioni della presenza di Dio, il ricordo vivo della morte, il timore del giudizio e della condanna. Tutti questi frutti della preghiera sono accompagnati dal pianto e, a tempo debito, sono oscurati da un sottile, santo sentimento spirituale del timore di Dio. Il timore di Dio non può essere paragonato a nessun sentimento di una persona carnale, anche spirituale. Il timore di Dio è una sensazione completamente nuova. Il timore di Dio è opera dello Spirito Santo. Dalla suggestione di questa azione miracolosa, le passioni cominciano a svanire: la mente e il cuore cominciano ad essere attratti dall’esercizio continuo mediante la preghiera. Con un certo progresso arriva un sentimento di silenzio, umiltà, amore per Dio e per il prossimo senza distinzione tra il bene e il male, la pazienza dei dolori, come indennità e guarigione di Dio, di cui la nostra peccaminosità ha necessariamente bisogno. L’amore per Dio e per il prossimo, che gradualmente emerge dal timore di Dio, è tutto spirituale, inspiegabilmente santo, sottile, umile, differisce per un’infinita differenza dall’amore umano nel suo stato ordinario, non può essere paragonato a nessun amore che si muova in una natura decaduta, per quanto corretto e sacro possa essere questo amore naturale. Approvato dalla legge naturale, agendo in tempo; ma la legge eterna, la legge spirituale, è tanto più alta di essa quanto lo Spirito Santo di Dio è superiore allo spirito umano. Smetto di parlare degli ulteriori frutti e conseguenze della preghiera nel nome santissimo del Signore Gesù: lasciamo che l’esperienza benedetta li insegni a me e agli altri. Le conseguenze e i frutti di questi sono descritti in dettaglio nella Filocalia, questa eccellente guida ispirata da Dio per insegnare la preghiera mentale ai monaci di successo che sono in grado di entrare nel paradiso del sacro silenzio e del distacco. Riconoscendo sia me che te come principianti nella realizzazione spirituale, intendo principalmente, quando presento i concetti corretti sull’esercizio della Preghiera di Gesù, il bisogno dei principianti, il bisogno della maggioranza. “Prendetevi lamento”, dissero i Padri, “ed egli vi insegnerà tutto” [82]. Piangiamo e piangiamo continuamente davanti a Dio. Le cose di Dio non possono venire se non dal beneplacito di Dio – e viene in un carattere spirituale, in un carattere nuovo, in un carattere di cui non possiamo farci alcuna idea nel nostro stato di carne, anima, vecchio, pieno di passioni [83].

Degna di particolare nota è l’opinione su sé stessi, che è piantata dalla corretta preghiera di Gesù in chi lo fa. Lo ieromonaco Serafino di Sarov ha ottenuto il maggior successo in questo. Un giorno il rettore gli mandò un monaco, che benedisse per iniziare all’eremo, affinché padre Serafino istruisse questo monaco nell’eremo finché lui stesso conoscesse questo difficile modo di vita monastica. Padre Serafino, ricevendo molto cordialmente il monaco, rispose: “Io stesso non so nulla”. Allo stesso tempo, ripeteva al monaco le parole del Salvatore sull’umiltà (Mt 11,29 ) e la loro spiegazione da parte di San Giovanni della Scala attraverso l’azione della preghiera di Gesù del cuore [84]. Mi hanno detto quanto segue su un certo praticante della preghiera. Fu invitato dai benefattori del monastero nella città della provincia. Visitandoli, il monaco trovava costantemente difficoltà, non trovando cosa dire loro. Una volta era con un devoto amante di Cristo. Questo chiese al monaco: “Perché ora non ci sono pazzi?” – “Come no? rispose il monaco, “ce ne sono molti”. “Sì, dove sono?” Cristoforo si oppose. Il monaco rispose: “In primo luogo, eccomi”. “Completa! Di cosa stai parlando!” esclamò l’ospite, guardando il monaco con un sorriso selvaggio, che esprimeva insieme sconcerto e orrore. “Stai sicuro…” – voleva continuare il monaco. – “Completa, completa!” – interruppe il proprietario, e cominciò a parlare con gli altri di qualcos’altro, e il monaco tacque. “La parola della croce e l’abnegazione è stoltezza” (1 Corinzi 1:18) per coloro che non comprendono le azioni e la loro forza. Chi tra coloro i quali non conoscono il pianto orante e i misteri che esso rivela, comprenderà le parole che vengono dal profondo del pianto? Colui che ha raggiunto la visione di sé attraverso la realizzazione spirituale si vede legato dalle passioni, vede gli spiriti emarginati agire in sé stesso e in sé stesso. Il fratello chiese a Pimen il Grande: “Come dovrebbe vivere un uomo silenzioso?” Il Grande rispose: “Mi vedo come un uomo, impantanato in una palude fino al collo, con un peso sul collo, e grido a Dio: abbi pietà di me” [85]. Questo santo, ammaestrato dal pianto all’umiltà più profonda e incomprensibile, diceva ai fratelli che convivevano con lui: «Credimi: dove è gettato il diavolo, là mi getteranno» [86] . Con il ricordo del perfetto monaco, Pimen il Grande, concludiamo il nostro colloquio sulla preghiera di Gesù.

Apprendista. Il mio cuore desidera ardentemente sentire: dite qualcosa di più.

Anziano. È molto utile per chi pratica la preghiera avere nelle proprie celle icone del Salvatore e della Madre di Dio, di dimensioni piuttosto significative. A volte, quando preghi, puoi rivolgerti alle icone, come al Signore e alla Madre di Dio che sono qui presenti. Il sentimento della presenza di Dio nella cella può diventare ordinario. Con un sentimento così costante, rimarremo nella cella con il timore di Dio, come se fossi costantemente sotto lo sguardo di Dio. Precisamente: siamo sempre alla presenza di Dio, perché Lui è onnipresente; siamo sempre sotto gli occhi di Dio, perché Lui vede tutto e dovunque. Gloria al Signore misericordioso, che vede la nostra peccaminosità e le nostre trasgressioni, aspettando con pazienza il nostro pentimento, concedendoci non solo il permesso, ma anche il comandamento di implorare misericordia.

Approfittiamo dell’inesprimibile misericordia di Dio per noi! Riceviamola con la più grande riverenza, con la più grande gratitudine! Coltiviamola per la nostra salvezza con il massimo zelo, con la massima cura! La misericordia è elargita da Dio in tutta abbondanza, ma accettarla o rifiutarla, accettarla con tutto il cuore o con tutta la mente, è lasciata alla volontà di ciascuno. ” Figlio, sin dalla giovinezza medita la disciplina, conseguirai la sapienza fino alla canizie. Accostati ad essa come chi ara e chi semina e attendi i suoi ottimi frutti; poiché faticherai un po’ per coltivarla, ma presto mangerai dei suoi prodotti» (Sir 6,18-20). “La mattina semina il tuo seme e la sera non dar riposo alle tue mani” (Eccl 11:6) [87]. “Confessatevi al Signore e invocate il suo nome… Cercate il Signore e siate forti: cercate il suo volto” (Sal 104:1,4). Con queste parole la Sacra Scrittura ci insegna che l’impresa di servire Dio, l’impresa di pregare, deve essere compiuta con tutto il cuore, costantemente e continuamente. I dolori esterni ed interni, che certamente devono incontrarsi nel campo di questa impresa, devono essere superati dalla fede, dal coraggio, dall’umiltà, dalla pazienza e dalla longanimità, sanando le deviazioni e le passioni con il pentimento. Sia l’abbandono del raggiungimento della preghiera che le lacune in esso sono estremamente pericolosi. È meglio non iniziare questa impresa che, dopo aver iniziato, andarsene. L’anima di un asceta che ha abbandonato l’esercizio intrapreso nella preghiera di Gesù può essere paragonata alla terra coltivata e fecondata, ma poi abbandonata; su tale terra, la zizzania cresce con una forza straordinaria, mettono radici profonde e ricevono una rotondità speciale. Nell’anima che ha rinunciato all’unione beata con la preghiera e ha abbandonato la preghiera, le passioni invadono come un torrente tempestoso, la inondano. Le passioni acquisiscono un potere speciale su una tale anima, una fermezza e una forza speciali, sono impresse con la durezza e la morte del cuore, l’incredulità. I demoni scacciati dalla preghiera ritornano nell’anima; infuriati dal precedente esilio, ritornano con più furore e in maggior numero. “Gli ultimi per quell’uomo sono peggiori dei primi” ( Mt 12,45 ), secondo la definizione del Vangelo, lo stato di colui che è stato sottoposto al dominio delle passioni e dei demoni dopo averli liberati attraverso la vera preghiera è incomparabilmente più disastrosa dello stato di chi non ha tentato di liberarsi dal giogo del peccato, che non ha estratto la spada della preghiera dal suo fodero. Il danno degli intervalli o dell’abbandono periodico della lotta di preghiera è simile al danno che deriva dal completo abbandono; questo danno è tanto maggiore quanto più lungo è l’intervallo. Durante il “sonno” degli asceti, cioè durante l’abbandono della preghiera, “viene il nemico”, invisibile agli occhi sensuali, inosservato dagli asceti, che si lasciavano trasportare e distrarre, “semina zizzania in mezzo al grano (Mt 13,25). Il seminatore di zizzania è molto esperto, astuto, pieno di malizia: gli è facile seminare la zizzania più maligna, all’inizio insignificante in apparenza, per poi abbracciare e confondere tutta l’anima con numerosi discendenti. «Chi non è con me», disse il Salvatore, «è contro di me, e chi non raccoglie con me, sperpera» (Lc 11,23). La preghiera non si affida a lavoratori ambigui e volubili. “L’ostinato è empiamente impunito, e lo stolto non dimora in lei: come pietra di tentazione si impossesserà di lui e non tarderà a respingerla. Ascolta, figlio, e accetta la mia volontà, e non rifiutare il mio consiglio; e metti il ​​tuo naso nei suoi ceppi, e nella suo giogo il tuo collo. Deponi il tuo corpo e indossalo, e non disdegnare i suoi legami. Vieni da lei con tutta la tua anima e con tutta la tua forza mantieni le sue vie. Indaga e cerca, e sarai conosciuto e noi ti seguiremo, non lasciandola. Finalmente troverai la sua pace, e si trasformerà in gioia per te; e le sue vie saranno nel resto della fortezza, e i suoi gioghi saranno una veste di gloria” (Sir. 6 : 21-22, 24-30). Amen.

1)  Parola 49.

2)  Risposta 421.

3)  Parola 28, cap. 17.

4)  Parola 4, cap. 93.

5)  Scala. Parola 28, cap. 21.

6)  Le informazioni sul compositore del Giardino dei Fiori, il monaco Dorotheus, sono riportate nel 1° volume di “Esperienze ascetiche” nell’articolo “Visita al Monastero di Valaam”.

7)  Il giardino fiorito del santo monaco Doroteo. Insegnamenti 30 e 32.

8)  Giardino fiorito. Istruzione 32.

9)  Giardino fiorito. Lezione 32.

10)  Paterik di Skitsky. Racconti memorabili, cap. CXX1X.

11)  Filocalia, parte 1.

12)  Classi selezionate. Edizione di Optina Pustyn, 1848

13)  Scala. Parola 1, cap. 26.

14)  Architetti, costruttori.

15)  Capitolo CXVIII. Filocalia, parte 1.

16)  S. Marco l’Asceta, Sulla Legge Spirituale, cap. 84.

17)  1 Cor 8 :1. Come spiegato da S.Marco l’Asceta, nello stesso capitolo 84.

18)  Parola 16. Qui viene aggiunta la parola “favore” per esprimere con precisione il pensiero dello Scrittore.

19)  Sant’Isacco di Siria. Parola LV

20)  Sant’Isacco di Siria. Parola 61, meravigliosa.

21)  Parola II.

22)  Ibid.

23)  A proposito di ciondoli. Filocalia, parte 1.

24)  Scala. Parola XXVIII, cap. 19.

25)  Scala. Parola XXVIII, cap. 17, 21, 27, 28.

26)  Parola XI.

27)  Paterik di Skitsky.

28)  Parola 26, cap. 52.

29)  Capitolo 118

30)  S. Cassiano. Intervista 2; Scala. Parola 4, cap. 106.

31)  Santi Callisto e Ignazio Xanofopoulos sul silenzio e la preghiera capitoli 14 e 15. Filocalia, parte 2.

32)  Sulla terza immagine dell’attenzione e della preghiera. Filocalia, parte 1.

33)  Salmi III, 1, CIV, CV, CVI, CX.

34)  Ibid.

35)  I Padri chiamano l’incessante Preghiera di Gesù “Memoria e Insegnamento di Dio”. C’è un articolo speciale sull’insegnamento o sul ricordo di Dio nella seconda parte delle Esperienze ascetiche.

36)  Parola 28, cap. 31.

37)  Prefazione di Schemamonaco Basil.

38)  Barsanufio il Grande risposta 268.

39)  Vita di S. Dositeo all’inizio dell’insegnamento di S. Abba Doroteo.

40)  Scala. Parola 4, cap.17.

41)  Scala. Parola 15, cap. 55.- Risposte 252 e 255.

42)  Da un’istruzione manoscritta all’archimandrita Nikon.

43)  Atti 2:13. Menaion Grandi Onori del Metropolita Macario.

44)  Grande Cheti-Minei.

45)  Vita di San Simeone. Cheti-Minei, 21 luglio.

46)  Sant’Isacco di Siria. Parola 43.

47)  Pensieri umili che promuovono la preghiera sono descritti nella 1ª Parola di san Simeone, il Nuovo Teologo. I santi Isacco di Siria, Isaia l’Eremita e altri Padri parlano molto di loro.

48)  Sant’Isacco di Siria menziona l’esaurimento prodotto dalla consolazione piena di grazia nella Parola 44.

49)  Una citazione dalla vita di S. Savva, consacrato nella Parola del monaco Niceforo. Filocalia, parte 2.

50)  San Cassiano il Romano sullo spirito d’ira. Libro VIII delle Ordinanze Cenobitiche.

51)  Risposte 311 e 313 di S. Barsanufio il Grande e Giovanni.

52)  Paterik delle Grotte delle Vite dei Santi Isacco e Nikita.

53)  Scala. Parola 27, cap. 55.

54)  Scala. Parola 4, cap. 120.

55)  Parola 3, cap. 12, 13 e 14.

56)  Presi in prestito dai suddetti capitoli 12, 13 e 14 della 3a Parola di S. Macario il Grande; vedere anche la 2a Parola del monaco Nil di Sorsk, pagina 100 secondo la pubblicazione del Santo Sinodo, 1852.

57)  Parola 4, cap. otto.

58)  Parola 55 e Parola 2.

59)  Parola 1.

60)  Paterico di scenette e racconti memorabili. A proposito di Pimen il Grande, cap. 62.

61)  Dei 15 capitoli, capitolo 5. Filocalia, parte 1.

62)  Parola 7, cap. quattordici.

63)  S. Simeone, il Nuovo Teologo, cap. 33. Filocalia, parte 1.

64)  Ibid.

65)  Parola 106 secondo il testo slavo.

66)  Libro 11 sulla regola delle preghiere notturne e dei salmi, cap. III.

67)  Scelto da vari luoghi nella 55a Parola.

68)  Ibid.

69)  Ibid.

70)  Ibid.

71)  Scelto da vari luoghi nella 55a Parola.

72)  Ibid.

73)  Ibid.

74)  Patrologiae Graecae Tomus XXXIV, Macarii Aegiptii liber de libertate mentis car. 5 e 6.

75)  Ibid.

76)  Patrogiae Graecae Tomus XXXIV, Macarii Aegiptii liber de libertate mentis, cap. 19.

77)  Liber de Patientia et discrezione, cap. 19.

78)  Santi Callisto e Ignazio Xanthopoulos, cap. 49. Filocalia, parte 2.

79)  S. Nil di Sorsk. Parola 3

80)  Parola 2 all’inizio.

81)  San Nil di Sorsk, Parola 11.

82)  Paterik di Skitsky. Detti di Theodore Enatsky. Anche san Simeone, il Nuovo Teologo.

83)  Sant’Isacco di Siria. Parola 55.

84)  Istruzioni di padre Seraphim, edizione 1844

85)  Paterik di Skitsky.

86)  Paterik di Skitsky.

87)  Secondo la spiegazione di S. Gregorio del Sinai.