Quando la Tuttasanta Vergine compì il quattordicesimo anno dalla nascita e stava entrando nel quindicesimo, dopo aver trascorso undici anni di vita e di servizio nel Tempio di Gerusalemme, i sacerdoti le comunicarono che, secondo la Legge, non poteva rimanere nel Tempio, ma doveva essere promessa sposa e contrarre matrimonio. Che grande sorpresa fu per i sacerdoti la risposta della Vergine Tutta Santa che aveva dedicato la sua vita a Dio e che desiderava rimanere vergine fino alla morte, non volendo contrarre matrimonio con nessuno! Allora, secondo la Divina Provvidenza, Zaccaria, sommo sacerdote e padre del Precursore, sotto l’ispirazione di Dio e d’accordo con gli altri sacerdoti, radunò dodici uomini non sposati della tribù di Davide per promettere la Vergine Maria a uno di loro, affinché preservasse la sua verginità e si prendesse cura di lei. Ella fu promessa in sposa a Giuseppe di Nazareth, suo parente. Nella casa di Giuseppe, la Tuttasanta continuò a vivere come nel Tempio di Salomone, occupando il suo tempo nella lettura della Sacra Scrittura, nella preghiera, nei pensieri divini, nel digiuno e nei lavori manuali. Raramente usciva di casa e non si interessava di cose ed eventi mondani. Parlava pochissimo con tutti, se non mai, e mai senza una particolare necessità. Più spesso comunicava con entrambe le figlie di Giuseppe. Quando venne la pienezza dei tempi, come profetizzato da Daniele il Profeta, e quando Dio si compiacque di adempiere la sua promessa all’Adamo bandito e ai Profeti, il grande Arcangelo Gabriele apparve nella camera della Tuttasanta Vergine e, come scrissero alcuni scrittori sacerdotali, proprio nello stesso momento in cui lei teneva aperto il libro del Profeta Isaia e contemplava la sua grande profezia: “Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio!”. (Isaia 7,13). Gabriele apparve in tutto il suo splendore angelico e la salutò: “Rallegrati, o prediletta! Il Signore è con te” (San Luca 1,28), e il resto in ordine sparso come è scritto nel Vangelo del santo Luca. Con questo annuncio angelico e la discesa dello Spirito Santo sulla Vergine, ebbe inizio la salvezza dell’umanità e la restaurazione di tutto il creato. La storia del Nuovo Testamento è stata aperta dalle parole dell’arcangelo Gabriele: “Rallegrati, prediletto”. Questo significa che il Nuovo Testamento doveva significare gioia per l’umanità e per tutte le cose create. È per questo che l’Annunciazione è considerata non solo una grande festa, ma anche una festa gioiosa.
LE SANTE MARTIRI PELAGIA, TEODOSIA E DULA
Queste tre sante donne hanno sofferto per il Signore. Dopo la prigionia e le sofferenze, Pelagia e Teodosia furono decapitate. Santa Dula, che era una serva, soffrì da sola nella città di Nicomedia. Queste tre rose bianche, innaffiate dal sangue dei martiri, sono state trapiantate da Dio nel suo giardino celeste.
Inno di lode LA SANTA MADRE DI DIO
(La Theotokos)
O CHE MERAVIGLIOSA NOTIZIA: GIOISCI, TUTTA PURA, PER NOI HAI DATO ALLA LUCE CRISTO! O GIOIOSA NOTIZIA: GIOISCI O VERGINE, DIVENUTA RADIANTE! GIOISCI O MARIA, GIOISCI O PIENA DI GRAZIA, TU, PORTA D’ORO! O ROVETO ARDENTE, NON CONSUMATO, L’ALBA DI UN NUOVO SPLENDORE! GABRIELE COMPONE LE PAROLE E SI RALLEGRA LUI STESSO, PROCLAMA L’ANNUNCIO! PROCLAMA L’ANNUNCIO, TUTTO IL CIELO ASCOLTA, LA TUA ANIMA TREMA! NEL TEMPIO HAI SERVITO, A DIO TI SEI CONSACRATA, SEI DIVENTATA IL TEMPIO! GIOISCI, O PURA, SPOSA CELESTE, TU SEI IL TRONO REALE! RALLEGRATI, O UMILE, PER L’UMILE CHE PARTORIRAI, E RIGENERERAI IL MONDO! GIOISCI, O OBBEDIENTE, DIO TI HA ASCOLTATO E TI HA INCORONATO DI GLORIA! RALLEGRATI, O LACRIMOSA, PER LE LACRIME ADDOLCITE, PER LO SPIRITO CHE BRILLA! RALLEGRATI, O POVERA, MA LA PIÙ RICCA E PIÙ LUMINOSA DEL SOLE! PER NOI, IMPLORA LA GIOIA DI CRISTO TUO FIGLIO, O VERGINE, TUTTA PURA!
Riflessione Ad Abba Atanasio fu chiesto da alcuni: “Come è questo che il Figlio è uguale al Padre?”. Rispose: “Come ci sono due occhi ma una sola vista”. La risposta è ammirevole. A questa possiamo aggiungere: come ci sono due orecchie ma un solo udito. Lo stesso vale per tutte e tre le Ipostasi divine: come ci sono tre candele ma una sola e unica luce.
Contemplazione Contemplare la Tuttasanta Vergine Maria:
Come ha servito Dio per undici anni nel Tempio con umiltà, obbedienza e devozione;
Come ha servito Dio nella sua camera a Nazareth, con umiltà, obbedienza e devozione;
Come ricevette con umiltà, obbedienza e devozione l’Annunciazione divina dall’arcangelo Gabriele.
Omelia Sulla Parola onnipotente di Dio
“Perché nulla è impossibile a Dio” (San Luca 1,37). “Allora Dio disse: “Sia la luce”, e la luce fu” (Genesi 1,3). Finché Dio non parlò, non c’era luce. Né c’era qualcuno che potesse sapere cosa fosse la luce, finché Dio non parlò e la luce venne alla luce. Allo stesso modo, quando Dio parlò, vennero all’esistenza l’acqua e la terraferma, il firmamento dei cieli, la vegetazione, gli animali e infine l’uomo. Fino a quando Dio non parlò, nulla di tutto questo esisteva e nessuno, tranne Dio, poteva sapere che tutto questo poteva esistere. Con il potere della Sua parola, Dio ha creato tutto ciò che è stato creato sulla terra e nei cieli. Tutto ciò che Dio ha voluto che esistesse e ha detto che fosse, deve essere e non può non essere, perché la parola di Dio è irresistibile e creativa. La creazione del mondo è un grande miracolo della parola di Dio.
Dopo aver creato tutte le cose, Dio ha stabilito di nuovo, con la sua parola, l’ordine della creazione e il modo di comportarsi e di relazionarsi delle creature tra loro. Quest’ordine e questa modalità stabiliti da Dio sono un grande miracolo della parola di Dio. Esiste un ordine e una modalità tra le cose create, visibile e comprensibile per noi uomini; ed esiste anche un ordine e una modalità invisibili e incomprensibili. Secondo questo ordine e modo invisibile e incomprensibile, che è un mistero nella Santissima Trinità, si sono verificate e si verificano quelle manifestazioni che gli uomini chiamano miracoli. Una di queste manifestazioni è il concepimento del Signore Gesù Cristo nel grembo della Tuttasanta Vergine Maria senza marito [la nascita verginale]. Questo appare come un’interruzione nell’ordine e nella maniera visibile e comprensibile, ma non è mai un’interruzione per l’ordine e la maniera invisibile e incomprensibile. Questa nascita, in verità, è un grande miracolo; forse il più grande miracolo che sia mai stato rivelato a noi mortali. Ma tutto il mondo creato è un miracolo, e tutto l’ordine e il modo visibile e comprensibile è un miracolo, e tutti questi miracoli sono avvenuti per mezzo della parola di Dio; quindi, allo stesso modo il Signore è stato concepito nel grembo della Vergine. Sia l’uno che l’altro sono stati realizzati dalla potenza e dalla parola di Dio. Ecco perché il meraviglioso Gabriele rispose alla domanda della Tuttasanta, che è la domanda di tutte le generazioni: “Come può essere?” (San Luca 1,34), e le rispose: “Perché nulla è impossibile a Dio” (San Luca 1, 37).
O Signore Dio, nostro Creatore, Immortale ed Esistente Operatore di Miracoli, illumina la nostra mente affinché non dubiti più, ma creda e illumina la nostra lingua affinché non ti interroghi, ma ti lodi.
La Vita di san Nicodemo è nota grazie a un monumentale Menologio, portato a termine nel 1308 per l’uso del Monastero del Salvatore di Messina (Mess. Gr. 30 ff. 245\50). L’agiografo è uno sconosciuto monaco Nilo. Al suo tempo – 13° secolo? – circolavano altre narrazioni su san Nicodemo, ritenute però difettose:
un altro prima di me, avendo voluto fare discorsi sull’argomento, fu riprovato davanti a molti a causa dell’oscurità e della rozzezza del suo parlare, temo di subire anch’io con lui la medesima sorte.
Dobbiamo, tuttavia, rimpiangere la perdita di quei Discorsi: le notizie su san Nicodemo conservate dal monaco Nilo sono alquanto vaghe[1].
Nicodemo nacque nel 10° secolo nella Sicilia continentale,a Sikrò: un villaggio della regione delle Saline (all’incirca, il versante tirrenico della provincia di Reggio Calabria o Piana di Gioia Tauro) non identificato[2]. È stata proposta la località Skrisi presso Palmi o una qualche altra località presso Cinquefrondi: la Vita di sant’Elia il Nuovo, l’ennese, parla di un fiume Sikrò che sembra poter essere lo Xiropotamo o Jeropotamo che scorre in quella zona.
Nicodemo, proteso verso quel pensiero che dice: Convincetevi di vivere sui monti e nelle spelonche, … discese alla Casa del taumaturgo San Fantino il Cavallaio dove, con altri fratelli, praticava vita esicasta un omonimo del santo cavallaio vissuto nel 4° o 5° secolo: quel celebre san Fantino, maestro di grandi asceti, che attorno all’anno Mille si addormentò a Tessalonica. Alla sua scuola Nicodemo mosse i primi passi.
Dopo alcuni giorni, vedendo che quello stava per fare progressi, avendolo spogliato di ogni veste mondana, lo rivestì, come con una corazza, del santo e beato abito e, avendogli coperto il capo con il velo del Salvatore, e avendolo fortificato con lo scudo della speranza, lo rivelò forte soldato di Cristo per affrontare i principi e le potenze di colui che ha il dominio di questo mondo… Era il beato perseverante, e restando con quel santo gheron, combatte la guerra con la carne per moltissimi anni, con digiuni, preghiere e veglie, impegnandosi in sommo grado con l’obbedienza e l’umiltà, abbellendosi con l’amore verso tutti e con infinita dolcezza…
E poiché i discendenti di Agar si levarono e devastavano tutta quella terra, il beato credette che fosse ira di Dio e, allontanatosi da quelli che stavano là, s’inoltrò, fuggendo per monti e spelonche, e si fermò in solitudine, essendo giunto in una regione, in luoghi molto elevati, detta Kellerana, boscosa e molto selvosa, per molti impraticabile, abitata piuttosto dai demoni.
Sulle aspre vette del Kellerana, che separano il versante tirrenico della provincia di Reggio Calabria da quello ionico, il nobile asceta, avendo sopportato combattimenti oltre ogni umana natura, divenne famoso, avendo vinto eserciti di malvagi demoni e, dopo essere stato messo alla prova da costoro in molte cose, li scacciò da sé a guisa di onde come un forte scoglio. Avendo costruito un oratorio sacro all’arcangelo Michele, condottiero degli Incorporei, mente mortale e lingua umana non può dire la vita e l’esistenza, che egli condusse colà per moltissimi anni. Ogni giorno si affaticava non per se stesso, ma per quelli che accorrevano a lui e soddisfaceva il bisogno dei propri discepoli. Dal principio del mattino fino all’ora terza, coperto d’una pelle (secondo le sue abitudini non indossava tunica) impastava tre pani con la farina macinata da lui stesso con le pietre. Egli, però, non solo non gustava assolutamente di questo cibo, ma non mangiò mai neppure altro pane per oltre 50 anni, né bevve vino né assaggiò acqua. Egli aveva il seguente tenore di vita: gettando una certa qualità di castagne in una pentola per i cibi, a sera le gustava, bevendo, al posto dell’acqua, quella brodaglia. In mezzo a questa lunga astinenza, rendeva grazie a Dio, e, se qualche volta riceveva dai pescatori, che venivano da lui, pesci del mare, diceva a se stesso: “Nicodemo, desidera pure di mangiare ciò che io ti ho dato, ma non come vuoi”. Distendendoli, infatti, al sole, li asciugava come un pezzo di legno e li mangiava senza ammollarli.
Vivendo con questa severa educazione del corpo, apparve come un prodigio sopra chi vive nel mondo bassamente… Ogni giorno, fino all’ora terza, recitava la sticologia [del salterio] in luoghi deserti; passata la terza ora, ritornava di nuovo tra i suoi fratelli. Restava alzato tutta la notte, tra infinite prostrazioni, compunzione del cuore, lacrime come fiume dalle cime dei monti, preghiera continua…
Un giorno i suoi discepoli si recarono a dirgli:
“Fastidioso, o padre, é a noi vivere la vita qui, e assolutamente difficile”. Egli rispose: “Avete detto bene, figli; dove volete che io vi trasferisca?” Essi, non avendo compreso che la spirituale obbedienza è del saggio, ritennero che fosse schietto ciò che era stato detto da lui e, fattisi vicini a lui, dissero: “Vi è nelle parti d’Ivukito un tempio sacro alla Theotokos, bellissimo[3]; e la regione è adatta a noi. Se tu lo comandi, ci trasferiremo colà”. Egli non oppose neppure una parola; anzi li incoraggiava, conoscendo ciò che sarebbe successo, poiché era festa del Transito della purissima vergine Madre di Dio. Il celebre uomo sapeva che colà ogni anno si riuniva una moltitudine di popolo e, prima del giorno festivo disse: “Svegliatevi! Andiamo, figli, nel luogo dove proponeste che abitassimo”. Essendosi alzati, seguirono il beato. Quando, però, giunsero e videro la riunione di popolo, come ricordandosi della tranquillità e della beata esistenza di prima, cadendo ai piedi del grande uomo, dissero: “Perdonaci, padre, perché abbiamo soddisfatto un desiderio cattivo per noi stessi e, messici in disaccordo, imprudentemente non abbiamo obbedito alla tua virtù. Ecco, dunque, riportaci là donde noi siamo venuti”.
Vivere arroccati sulle montagne era, all’epoca, anche una garanzia contro le scorrerie dei saraceni.
Mammola, eremo di s. Nicodemo di Kellerana, grotta di s. Fantino
Avendolo catturato, una volta, i caparbi figli di Agar, lo conducevano con sé insieme con altri prigionieri. Giunti in un luogo adatto per il loro riposo, essendo scesi colà, si sdraiarono. Essendosi egli alzato e avendo teso le mani al cielo, elevò al Signore le abituali preghiere. Ma essi, canzonandolo. lo deridevano, dicendo: “Quale vantaggio ti viene da questa preghiera? Non certo prima di cadere nelle nostre mani, hai pregato di non soffrire ciò. Ormai non avrai nessun giovamento”. Ma il Signore salva benevolmente il servo che l’invoca. Mentre insisteva nella preghiera, la potenza divina spinge quelli l’uno contro l’altro a lite e a rissa mortale; e avendo preso il santo dal mezzo di quelli, come una volta prese incolume Daniele dal mezzo dei leoni, lo salvò. Ma come esaltare quel grandissimo miracolo che il meraviglioso uomo compì proprio verso la fine della sua vita mortale? Nove uomini, dalla città di Bisignano [CS] gli Agareni conducevano schiavi in Sicilia. Ed essendo giunti in un certo luogo chiamato Pilio [?], essendo sbarcati, dormivano. Ma i prigionieri fortemente abbattuti dalla fatica delle catene e dal dolore, si rivolgevano a Dio col pensiero, invocandolo di venire in loro aiuto. Ma egli volendo rivelare compiutamente il suo servo, poiché viveva angelicamente, induce questo nella mente di uno di quelli, il quale dice agli altri: “Conosco un tale, fratelli, un monaco esicasta, un santo padre che è taumaturgo ed ardentissimo soccorritore di quelli che si trovano in necessità. Orsù, preghiamolo insieme fiduciosamente. La sua mediazione ci gioverà di fronte a Dio”. Tutti concordemente invocavano dicendo: “Santo di Dio, vieni a sottrarci da questa necessità. cosi l’aiuto dell’invocato li raggiunge rapidamente”.
Nicodemo morì vecchissimo, pare dopo settanta anni di vita monastica, un 12 marzo[4]; forse, all’inizio dell’anno Mille.
Il “monastero” di san Nicodemo sarà stato, inizialmente, nient’altro che una skiti di capanne, attorno alla chiesa dedicata all’arcangelo Michele: che sia stato fondato in Età normanna, se non è uno dei tanti luoghi comuni di cui è zeppa la storia ufficiale dell’Italia Meridionale, lo si dice forse in riferimento a una sua ristrutturazione cenobitica.
Sul Kellerana, sulle montagne che sovrastano Mammola, si scorgono ancora i ruderi del monastero e, da poco, è stato scoperto l’altare dell’antica chiesa. Gli ultimi monaci “greci” l’avevano seppellito con cura, nascosto sottoterra, per impedire che fosse usato come altare latino nella ricostruzione della chiesa (1588) voluta dal cardinale Antonio Carafa.
[1] Seguiamo, per quanto difettosa, l’edizione di V. Saletta, Vita inedita di san Nicodemo di Calabria, Roma 1964. È introvabile, infatti, l’edizione di M. Arco Magrì, Vita di san Nicodemo di Kellerana, Roma 1969, che potrebbe essere più accurata.
[2] Nel fervore religioso della Controriforma cattolica, san Nicodemo fu spacciato per nativo di Cirò e nominato protettore di quell’importante centro vinicolo in provincia di Crotone. Più solido e antico è, invece, il culto riconosciutogli in territorio di Mammola, un comune alle falde dell’Aspromonte ionico, in territorio di Locri.
[3] Durante la Francocrazia in Sicilia e Grande Grecia, il tempio bellissimo della Madre di Dio è stato raso al suolo; la distruzione è stata così feroce che si ignora persino a quale località corrisponda oggi il toponimo Ivukito (Vucita, in territorio di Gallicianò (un villaggio ellenofono del reggino), ci porterebbe a troppi km di distanza dal Kellerana). Non si dimentichi che Daniele, l’autore materiale del Mess. Gr. 30, è copista di rara eleganza grafica ma, in pratica, incapace di scrivere dieci parole senza almeno dieci errori: particolare abilità dimostra nello storpiare proprio i nomi di località che non conosceva o che, forse, erano già state distrutte sin dai primi giorni dell’invasione normanna.
[4] Gli eruditi locali – ed è un particolare comune a molti altri santi di Sicilia e Grande Grecia – registrano altre date (per esempio, in questo caso, un improbabile 25 marzo), forse da riferire a traslazioni di reliquie.
San Nicodemo del Kellerana esempio di fede,impegno sociale e morale
“Ecologista ante litteram”
di Stefano Scarfò
Visse circa mille anni fa e tra le migliaia di monaci magno – greci, la sua luminosa figura di asceta e di combattente per la fede e la difesa delle classi subalterne, svetta prepotente nella sua epoca storica cosi travagliata, difficile e carica di tragici avvenimenti che determinarono il corso degli eventi e il destino stesso di intere popolazioni. Dice il suo ”BIOS” o “ LOGOS” tradotto dalla lingua bizantina dal generale dei basiliani Apollinare Agresta che, giovanetto, fu accolto nella famosa Eparchia del Mercurion, dove sotto la illuminata guida del monaco S. Fantino il Giovane, assieme all’altro grande Santo di Calabria, Nilo da Rossano, fu educato alle virtù cristiane, prime fra tutte, lo spirito di obbedienza, macerazione della carne e dello spirito e la carità. Si distingueva in modo particolare per i patimenti fisici sull’esempio del Cristo sulla Croce, la continua preghiera protratta oltre i limiti umani, le continue esaltazioni mistiche che suscitavano l’ammirazione dei suoi confratelli. Ma, un giorno, sulla pacifica comunità eremitica, si abbatté l’uragano delle orde saracene che mettevano a ferro e fuoco interi villaggi con particolare accanimento verso le istituzioni monastiche. Nicodemo, cosi come gli altri frati, fu costretto a lasciare quel luogo di preghiere e, mentre il suo confratello Nilo da Rossano e Bartolomeo scelsero di andare verso Roma, nelle cui vicinanze, presso Grottaferrata, avrebbero fondato l’Abbazia, tuttora faro di luce del Basilianesimo, il nostro fraticello Nicodemo volle restare nella sua terra, in mezzo ai suoi corregionali, oltremodo bisognosi di guide spirituali e di personaggi prestigiosi che sapessero assumersi le responsabilità di pastori di anime e di capi coraggiosi per fronteggiare le divisioni e le lacerazioni che minavano la stessa entità etnica delle nostre popolazioni alla ricerca di posti sicuri per sfuggire ai continui assalti barbareschi. Nicodemo, dopo aver a lungo peregrinato tra masse di fuggiaschi, trovò rifugio, non tanto per sottrarsi alle incursioni moresche, quanto per continuare in solitudine la sua ascesi in una montagna veramente aspra, fitta di boschi inaccessibili, luogo di lupi, cinghiali, rettili, proprio nel bel mezzo della natura incontaminata dove sentiva con tutte le creature la presenza di Dio, dove il silenzio assoluto parlava apertamente della presenza dello stesso Creatore. In apparenza, il sito sembrava al di fuori del mondo, però, sul limitare della selva selvaggia, invece, vi scorreva quella famosa strada percorsa dagli antichi locresi che dalla riviera dei Gelsomini, attraversato il fiume “Sagra” si inerpicavano sul passo appenninico della Limina, ieri del Kellerana, per raggiungere la costa Viola, oggi piana di Rosarno, e fondare le loro colonie, Medma l’odierna Rosamo, Hipponium, l’attuale Vibo Valentia. Ben presto, malgrado la naturale riserbatezza dell’eremita, si diffuse la notizia della sua presenza, anche perché molti furono i giovani attratti dal carisma dell’anacoreta che si unirono a lui nella preghiera, senza, peraltro prevedere che moltitudini di fuggiaschi lo cercavano perché si ergesse in difesa degli oppressi e segnasse loro un posto dove vivere in tranquillità senza il continuo assillo di dovere peregrinare come nomadi in cerca di una valle che potesse accoglierli definitivamente.
Nicodemo, di fronte a tanta miseria morale e materiale, capì che oltre alle preghiere, al digiuno prolungato, era più necessario dare aiuto e conforto a chi saliva il monte per implorare protezione. Tra i più devoti frequentatori del monte Kellerana per essere confortati dal santo monaco, erano i fuggiaschi che, una volta scappati dalla marina ionica, si erano stanziati in una valle incassata sotto una lussureggiante e ridente corona di colline, con ai piedi un argenteo ruscello, il Locanus, dalle acque purissime, tutt’intorno prati verdeggianti, pingui pascoli, il posto ideale per gettare le basi per il sorgere di un grosso borgo al riparo dagli attacchi dei musulmani. Questo sito, in origine abitato prevalentemente da pochi, rozzi pastori, grazie alla presenza dei monaci orientali, acquista un’improvvisa importanza e, nello spazio di pochi anni, assurge al rango di importante centro nel quale si sviluppano in modo considerevole le attività artigianali che gli daranno fama fino alla meta di questo morente secolo. Non per niente i monaci, proprio sulla sponda destra del fiume, dirimpetto all’abitato, costruiscono un convento nell’anno 1035, secondo la pergamena scoperta dal prof. Andrea Guillou della Sorbona di Parigi, forse furono loro stessi a dare il nome al nuovo borgo che, essendo rintanato nel fondo valle, quasi nascosto, pudico, lo chiamarono Mammola, perché come questo odoroso fiorellino, sta celato tra la fitta vegetazione. Era naturale, quindi, che i paesani rivolgessero le loro attenzioni al santo monaco e ai suoi discepoli, si creò quei binomio indissolubile che ancora oggi continua e che sin dai primi momenti portò i fedeli, in modo spontaneo, a vedere in Nicodemo il Protettore, il Patrono, prima che la chiesa lo proclamasse beato dopo diversi secoli dalla sua morte. Intanto, quell’umile oratorio eretto dall’umile asceta, si ingrandisce, attorno sorgono le celle per i suoi confratelli, egli, esempio vivente di laboriosità, inizia a dissodare le terre, insegna a chi gli corre incontro che la fame e la carestia si vincono sudando sui campi e producendo quei frutti che il Signore ha messo a disposizione dell’umanità. Inoltre, promuove il rispetto assoluto per la natura, i boschi vanno protetti e difesi, cosi come tutti gli animali che vivono in libertà e ce ne da la prova di questo suo amore per le creature di Dio quando una vipera, sgusciata da una siepe si avventa su uno dei frati intenti a coltivare il campo. Nicodemo si para davanti e blocca il monaco che con la sua zappa stava per accoppare il rettile. “Posati ss’armi e cessati ssa guerra” – recita un’orazione popolare che si perde nella notte dei tempi, che cosi continua: “Ca l’ha crijiata Dio pe stari in terra”. Senza parlare dei cervi salvati e dello stesso lupo affamato che i contadini e i pastori vorrebbero ammazzare, perché considerato belva feroce, mentre lui dimostra, come gli etologi del nostro tempo, che è un animale socievole al quale non bisogna dare una caccia spietata. Dieci secoli prima che l’uomo della civiltà tecnocratica si rendesse conto dell’importanza e della necessita di proteggere gli animali e l’ambiente, un umile anacoreta ci dà una grande lezione di ecologia, di comportamento e di difesa dell’ecosistema. Questo monaco, dopo una vita di stenti, privazioni, ma soprattutto di strenua lotta in difesa dei basilari principi di libertà, muore verso il 990, quasi contemporaneamente a S. Nilo. Secondo quanto narra un altro Nilo, monaco del Kellerana che scrisse la biografia del santo fondatore del monastero intorno al 1040, una moltitudine immensa sali sulla montagna per rendere omaggio all’uomo che aveva saputo ergersi contro i potenti e gli usurpatori in difesa dei deboli e degli affamati. La sua morte segna per il convento da lui fondato un’era di grandezza e il popolo lo proclama Santo e dà inizio a quei pellegrinaggi di fede e devozione per pregare sulla sua tomba che, ancora oggi, continuano incessantemente in particolari momenti dell’anno. Già lo stesso S. Fantino, di passaggio dal Kellerana, dove era andato a fare visita al suo discepolo prima di recarsi in Grecia, aveva pronosticato la santità dell’asceta, tanto lo vide forte nella preghiera, nella sofferenza, maestro delle plebi che con l’avvio al lavoro le aveva sottratte dalla triste condizione di servi della gleba. Il monastero del Kellerana, in seguito, crebbe ancor più in fama e grandezza, le donazioni di beni da parte dei fedeli si susseguivano continuamente per le considerevoli rendite che producevano le terre amministrate. Intanto era cominciata l’opera di latinizzazione da parte della chiesa di Roma e per questo scopo, nel 1082, il Gran Conte Ruggero, con un suo decreto, assoggettò il monastero del Kellerana alla Badia Benedettina della S.S. Trinità di Mileto, da lui stesso fondata. Ma i monaci, forti della loro tradizione magno – greca e dello spirito liberatorio, non si piegarono alla latinizzazione e non riconobbero nemmeno la giurisdizione della S.S. Trinità di Mileto, malgrado le riconferme dei successivi sovrani normanni e le scomuniche papali, cosi come è dimostrato dai documenti greci giacenti nella biblioteca apostolica del Vaticano scoperti e pubblicati da padre Francesco Russo. Il monastero del Kellerana, in sostanza, apparteneva al monachesimo bizantino – orientale e non propriamente basiliano e ognuna di queste entità religiose era autonoma e si reggeva sulle norme dettate dal proprio fondatore, pur avendo dei riferimenti indiretti con le regole di S. Basilio. Forse, a spingere i benedettini, questa é una malignità di qualche storico, a sottomettere il Monastero del Kellerana, non fu tanto l’idea della latinizzazione, quanto la potenza economica acquistata da questo complesso monastico diventata piuttosto considerevole, basti ricordare che nel 1433, la rendita dei beni di S. Nicodemo ammontava a più di 100 ducati d’oro. Fino alla fine del secolo decimo quinto il convento di S. Nicodemo godeva di un grande prestigio morale e spirituale, era continua meta dei visitatori apostolici e di migliaia e migliaia di pellegrini, il Vescovo di Gerace, mons. Atanasio Calkeopulo, lo visita nel 1483 e nella sua relazione scrive che è molto efficiente, le sue fabbriche sono in buono stato di conservazione, i suoi numerosi monaci molto attivi, vi trova un’importante documentazione composta di libri sacri, 70 strumenti, privilegi notarili, pergamene, anche se i più antichi e preziosi diplomi di S. Nicodemo erano stati trasferiti, coercitivamente, dai monaci di Mileto e depositati nei propri archivi e poi, per ordine del Papa che voleva riunificare tutta la grande mole di reperti storici relativi al periodo del monachesimo magno – greco, depositati nel Collegio greco di Roma, ma non tutto il carteggio giunse nella città Eterna, purtroppo, perché buona parte fu preda delle numerose biblioteche italiane e straniere, vedi Venezia, Buxelles, Parigi, qualche platea arrivò persino nella biblioteca di Leningrado. Il Kalkeopulo rileva pure un’intensa attività “scriptoria”, ma lui stesso, forse per assecondare le direttive del cardinale Bessarione, suo grande amico, nel 1485, decide di convertire la sua Diocesi, ultima in ordine di tempo, al rito latino. Fu un duro colpo per le numerose eparchie bizantine ancora esistenti nella Locride, specialmente per i monaci di S. Nicodemo che si videro privati della loro entità storica e spirituale, accettarono il nuovo corso per quello spirito d’obbedienza proprio dell’ordine monastico, ma si trovarono demotivati, tanto é vero che di li a qualche decennio, il glorioso Monastero, fondato nel secolo decimo da S. Nicodemo, fu abbandonato per trasferirsi nella dependance, cioè nella sede più agevole, la Grancia di S. Biagio, nei pressi dell’abitato di Mammola, là dove continuarono la loro opera fino al 1807, anno in cui i francesi, decretarono la chiusura del Convento, la cui struttura muraria, perfettamente conservata, mostra ancora la sua possanza ed anche il grado di sviluppo raggiunto nei suoi secoli di attività. Dopo il declino del monastero del Kellerana, anche l’opera e la figura stessa del monaco Nicodemo andarono scemando, essendosi il suo culto localizzato nella pur ampia Vallata del Torbido e nella cittadina di Ciro’, che gli avrebbe dato i natali. Purtroppo, non ha assunto la notorietà del suo coevo e compagno Nilo da Rossano che si è trovato in una posizione strategicamente più favorevole, lì a Grottaferrata, e che nei confronti dei benedettini di Monte Cassino assunse una posizione molto consona all’opera di latinizzazione. Di poi, l’acquisizione della documentazione storica relativa al monastero del Kellerana e al suo stesso fondatore da parte della Badia di Mileto, non ha certo favorito il diffondersi della fama di santità, carità, azione sociale di Nicodemo. Sembrerebbe una sottile vendetta dei benedettini nei confronti dei monaci del Kellerana che, coraggiosamente, avevano difeso la loro indipendenza e cultura verso chi mirava a togliere l’autonomia e la stessa ragione di essere monaci magno – greci. Malgrado il silenzio di storici ed ecclesiastici, dall’ottocento in poi, il culto di S. Nicodemo si diffonde un po’ dovunque ad opera delle migliaia e migliaia di Mammolesi che raggiungono tutte le parti del mondo coinvolgendo anche molti altri calabresi che vivono la stessa vita di emigrati. Disse, una volta un prete che aveva girato parecchie contrade, dall’Europa all’America del Nord, dall’Argentina all’Australia, se incontrerai un mammolese, sicuramente, nel suo taschino troverai l’immagine del suo Protettore S. Nicodemo.
La sua statua la si può trovare in una chiesa di Montreal, o a Buenos Aires, a New York come a Sidney, le comunità si ritrovano unite per celebrare, cosi come a Mammola, la festa solenne con processione, bande, fuochi d’artificio, riti veramente imponenti che in confronto quelli svolti nella madre patria sono povera cosa. Finalmente anche gli storici si sono svegliati. Infatti, questo umile anacoreta, degno di essere considerato fra i più grandi Santi della Calabria , è stato riscoperto e la sua opera rivalutata in tutta la pienezza del suo valore spirituale e sociale. Illustri personaggi e insigni ricercatori lo stanno esaltando, padre Francesco Russo, uno dei massimi storici della nostra terra, Andree Guillou, emerito professore alla Sorbona di Parigi, Melina Arco Macrì dell’Universita di Messina, il prof. Ferreri e tanti altri ancora, dedicano i loro studi a colui il quale, in un secolo di totale oscurantismo seppe indicare ai suoi monaci e alle genti bruzie la via da seguire per il riscatto dalla miseria e dalla depravazione morale e materiale. Nicodemo del Kellerana di Mammola deve occupare nella storia e nella vita della Calabria la stessa importanza che Egli ebbe mille anni or sono, perché il nostro popolo segue il suo messaggio di amore e di fraternità per la conquista di un futuro di serenità per tutti i suoi figli.
Stefano Scarfò
(L’articolo è apparso su Calabria Letteraria, edita da Rubettino, nr. 4-5-6 (Aprile,Maggio,Giugno)/1999 )
Il Mercurion (MepKoùpiov) raccontato da Wilma Fittipaldi
Nel Tema di Lucania la regione monastica posta a metà strada tra la Calabria e la Longobardia (Kalabrias metaxy kaì Lagobardias) fu quella del Mercurion, le cui coordinate storiche e geografiche identificabili all’interno del Pollino subirono modifiche per la temperie storica in cui si trovò coinvolta l’area calabro-lucana nei secoli anteriori all’XI. Uno spostamento ulteriore dei limiti del Mercurion si ebbe in direzione nord nel corso dell’XI secolo, conseguente all’inizio degli sbarchi dei monaci lungo il medio corso del Lao, in fuga dalla Sicilia e dalla Calabria meridionale a causa delle incursioni arabe. Gli spostamenti di questi monaci e la loro discontinua permanenza in loco si ripercossero non solo sull’organizzazione religiosa ma anche sull’amministrazione sociale. Nel 952 i monaci del Mercurion, venendo a conoscenza che l’emiro El-Hassan stava per raggiungere il territorio, lasciarono quei luoghi alla ricerca di zone più sicure: San Saba si spostò verso il Latinianon, San Fantino ed altri confratelli nella regione del monte di Bulgheria, in territorio longobardo.
L’origine del toponimo Mercurion ha fatto molto discutere e potrebbe essere riferita a Mercurio (da mercari, commerciare, e da merx, mercé), dio dei commerci e protettore dei mercanti. Non a caso a Cirella, l’antica Cerillae, nella zona costiera non lontana dalle grotte paleolitiche, sorgeva un tempio dedicato a Mercurio, i cui resti sono stati distrutti negli anni Sessanta del XX secolo. Il termine potrebbe riferirsi anche a San Mercurio (vedi Appendice 2) di Cappadocia, precisamente di Cesarea (patria anche di San Basilio). I primi a diffondere il culto del santo furono i monaci bizantini.
II dibattutto termine Mercurion potrebbe derivare dal nome con cui è designato il fiume Lao nel suo corso superiore: nasce dal monte Pollino, alle falde della Serra Vocolio (Viggianello, in provincia di Potenza) come Mercure; dopo pochi chilometri entra in territorio calabrese presso Laino (Cosenza), riceve le acque dei fiumi Battendiero e Jannello, accoglie anche quelle del Fiumara e del S. Giovanni, con cui si immette come Lao in Calabria. Nei pressi del comune calabrese di Orsomarso accoglie le acque dell’Argentino, suo principale tributario, e dopo le spettacolari gole allargando decisamente il proprio alveo e diramandosi in svariati bràcci secondari sfocia nel mar Tirreno presso Scalea (Cosenza). La connessione topografica tra questi luoghi citati ci giunge nell’XI secolo dal trattato di cartografia araba di Abù Abdallah Moammad-ash-Sharif al-ldrisi as Siqill (1059-1164), II Nuzhat al mushtaq fiikhiraq alafaq (La delizia per chi brama percorrere le regioni), meglio conosciuto come Kitab Rugiar (Libro di Ruggero) che riferisce quanto segue: «II wadi Laniah (il fiume Laino, il Lao) ha le sorgenti avanti a m.rkurì (Mercurio), di là scende alla regione che è di fronte a.d. sqaliah (Scalea) al mare».
Chiesa della Madonna di Mircuro
A parere di alcuni studiosi il fiume avrebbe tratto l’idronomo Mercure da Castello, il Kàstron Merkourìon, identificabile in un antico borgo fortificato medievale; di cui restano solo avanzi di muri che sostenevano terrazzamenti, oggi appena visibili sulla strada dove sorge la chiesa di Santa Maria di Mércurì. La citazione del Kàstron si ritrova anche in due aneddoti relativi alla vita intensa di San Saba: 1) il santo era nel monastero di San Michele fondato da lui e dalla famiglia sull’altura della Serra Bonangelo, insieme a quello di Santo Stefano, ad Oriente del ‘castello di Mercurio’, quando scacciò le locuste che infestavano il territorio del Mercurion; 2} «nel ritorno da Laino a quel di Lagonegro» avrebbe guarito «un figliuolo ch’avea il capo attratto, ed un figlioulo del Castello di Mercurio…”.
Secondo lo storico Gaetani, il ‘castello’, menzionato anche nelle Bolle di Urbano II del 1089, di Pasquale III, di Eugenio III e di Alessandro III, è da identificare con la cìvitas Mercuria che l’autore del bios di San Leon-Luca di Corleone cita come collocata presso Orsomarso: sarebbe ad ovest di Castrovillari e presso la località di ‘San Giovanni di Mercurio’.
Gli eventi della provincia monastica del Mercurion sono in rapporto inscindibile con l’antico fiume Lao (Laos, Λαός), presso la cui foce sorgeva l’omonima città distrutta. Fu la prima provincia ad ospitare i monaci in fuga dall’Oriente dove era scoppiata la controversia sulle immagini, presto estesa all’Occidente: dall’Vlll secolo fu inferto un duro colpo alle relazioni tra Roma e Bisanzio, il cui imperatore Leone III Isaurico (717-741) ordinò la confisca dell’intero patrimonio della Chiesa romana in tutti i territori bizantini ed in particolare in quelli del Meridione, decretando poi il passaggio di tutte le diocesi dell’Illirico e di Sicilia dalla giurisdizione romana al patriarcato ecumenico di Costantinopoli.
Ai flussi migratori causati dalla lotta alle immagini, fece seguito l’ondata monastica del X ed XI secolo proveniente dalla Sicilia caduta sotto il dominio arabo, ondata che fece del Mercurion un centro intensissimo di vita ascetica, al pari di quello greco del monte Athos e di Meteora. Molte fonti agiografiche lo paragonano persino all’Olympios, la Sacra Montagna della Bitinia, nonché alla Tebaide. A giusta causa la Calabria fu definita ‘Nuova Tebaide’ dal Barrio e dall’Ughelli, per l’analogia con l’antica regione egizia (con capitale Tebe), dove ebbe origine e fiorì il monachesimo. Fu allora che in questa regione giunsero i nomi più noti dell’agiografia italo-greca come Cristoforo (proveniente da Collesano, insieme ai figli Saba e Macario, e alla moglie Cali, tutti dediti alla vita religiosa), San Vitale di Castronovo, San Leoluca di Corleone, San Luca di Demenna, ai quali si aggiunsero i grandi asceti locali come San Fantino, San Zaccaria, San Luca d’Armento ed altri ancora.
Eremo di San Nilo
Su tutti spicca la personalità di San Nilo di Rossano, considerato la figura più rappresentativa della regione calabra, cui fanno corona numerosi discepoli come Bartolomeo, Giorgio e Stefano da Rossano. Le vite di questi santi basiliani relativamente al X secolo ci presentano una regione tutta bizantina. Qui si svilupparono i vari tipi di vita monastica nelle grotte per l’eremitaggio, nelle laure e nei cenobi (la cui realizzazione richiese anni di lavoro). L’asceta Saba di Collesano ne fondò diversi, nei pressi di Santa Domenica Talao, di Papasidero e di Scalea, mantenendo rapporti con altri monasteri indipendenti, come ad esempio quelle dei Marcani presso Papasidero. I meriti degli asceti calabro-lucani furono molteplici nella trasmissione della cultura greco-bizantina. In tutti i monasteri del Mercurion e del Latinianon si raccolse un notevole patrimonio di manoscritti greci, che purtroppo vennero dispersi, a volte bruciati. Dal bios di San Nilo si apprende che il santo spesso mandava frati a Rossano per rifornirsi di ‘membrane’ (cartapecora per farne pergamene).
Nei monasteri del Mercurion gli studi furono fiorenti. Qui era professata la Regola di San Teodoro lo Studita, pubblicata dal cardinale Angelo Mai (1854): stabiliva che, nei giorni in cui non si lavorava, un segnale del bibliotecario intimava a tutti i monaci di raccogliersi nella biblioteca e prendere un libro da leggere fino al vespro.
San Fantino, particolare della Chiesa di Santo Linardo – Orsomarso
Simbolo della regione monastica del Mercurion può considerarsi la chiesa di Santa Maria di Mercuri, che sorge non molto distante da Orsomarso tra la fitta vegetazione. La sua scenografica presenza è resa ancora più affascinante per la posizione a strapiombo sulla sinistra del Lao, con muri perimetrali impostati direttamente sulla rupe. La sua sobria linearità sintetizza le tipologie consolidate dalla tradizione bizantina: la navata termina con un’abside semicircolare ad est, dove sorge il sole, metafora della luce divina. Sul lato sinistro di Santa Maria di Mercuri (XI secolo) è presente una dicitura che attesta l’appartenenza di questa chiesa alla diocesi di Temesa (l’antica città citata da Omero, Odissea Libro I, vv. 180 ss.), poi Tempsa. Tra la fitta vegetazione che circonda la chiesa affiorano modesti resti del castello di Mercurio, appena visibili tra la fitta vegetazione sulla sinistra del Lao. Dall’alto della rupe si domina una vasta vallata, il letto del fiume Lao e la confluenza del suo affluente, l’Argentino.
Quanto asserito relativamente al Castello ed alla civitas trova conferma nelle pergamene e nei documenti pontifici che attestano anche la concessione e la conferma di monasteri mercuriensi alla Badia di Cava.
Studiando la storia del territorio descritto ci si imbatte in ipotesi, non accolte, secondo le quali la regione monastica mercuriense sarebbe sorta nella Calabria meridionale, tra Palmi e Seminara (V. Saletta, A. Agresta, fra’ Giovanni da Fiore, N. Leone ed i Bollantisti) o tra Metauria e Tauriana, facendo riferimento ad una costruzione in loco sacra al dio Mercurio o a San Mercurio di Cesarea (tra le contrade di Sidaro e Prato).
L’antico Mercurion corrisponde invece ai comuni attuali del bacino del fiume Mercure e della media e bassa valle del fiume Lao. Ancora oggi le comunità di questo territorio trasmettono una propria spiritualità per la tradizioni di cui sono depositarie, per la vita permeata di fede trasmessa dagli asceti che le hanno abitate.
Copertina del libro della Fittipaldi
Fonte: “LA PRESENZA BIZANTINA NELLA LUCANIA E NEL MERIDIONE D’ITALIA”, di W. Fittipaldi, Zaccara Editore
BIAGIO CAPPELLI: Quale territorio comprendeva il Mercurion?
La designazione geografica-amministrativa di “valle di Laino” corrisponde a quella di “valle di Mercurio” che appare in alcuni documenti della prima età normanna, tra cui uno del 1065 di Roberto Guiscardo. In quanto ambedue si riferiscono al territorio bagnato dal Mercure-Lao che così veniva a denominarsi una volta dal castello di Laino ed un’altra da quello di Mercurio che rispettivamente lo vigilavano nella parte media ed inferiore. La denominazione, poi di “valle di Mercurio” continuava le altre di “Mercurion” o di “regione di Mercurio” o di “eparchia di Mercurio” date alla illustre cittadella del monachesimo calabro-bizantino che nel secolo X fioriva nella zona. La quale era limitrofa ed in contatto, più o meno intenso e continuo, con gli altri centri ascetici di monte Mula a sudovest, di Aieta, a nord-ovest, di Lagonegro a nord e di Latiniano a nord-est. Da non molto è stata espressa l’idea che il termine “eparchia” applicato al Mercurion non sia stato usato in modo generico, ma significhi che questa regione costituisse una entità militare indipendente, come il governo bizantino usava instituirne nei punti strategicamente importanti, alla quale, inoltre, si assegna una estensione assai ampia. Qualunque, però, possa essere stata questa, l’effettiva area monastica mercuriense appare nel secolo X limitata alla media e bassa valle del Mercure-Lao, ed anzi direi che essa fosse compresa in un triangolo. Isolato, perché a ponente e non toccato da quella arteria di grande comunicazione che fu anche nel medioevo la romana via Popilia, e povero di abitanti anche per la scarsità di terreni coltivabili, ma ricco di memorie bizantine. Triangolo che ha il suo vertice superiore a Laino e gli altri non lontano dalla foce Mercure-Lao, ad Orsomarso ed a Scalea rispettivamente sulla sponda sinistra e destra del fiume.
La mia idea di localizzare in tale senso il Mercurion ascetico nasce in primo luogo da alcuni passi della vita di S. Leon-Luca di Corleone, che escludono dalla predetta zona e i monti ad ovest di Mormanno e il monastero di Vena, l’odierna Avena, ad essi prossimo; inoltre dai riferimenti contenuti nella vita di S. Nilo di Rossano, confermati da documenti posteriori, che inoltre ne aggiungono altri, portano a dover situare l’eremo di S. Nilo e i monasteri di S. Fantino, S. Zaccaria, S. Giovanni, di Castello, del Castellano, di S. Nicola e qualche altro nei luoghi già dominati dal castello di Mercurio ed ora facenti capo al centro di Orsomarso; ed infine, e principalmente, da numerosi e precisi dati offerti dalle vite di SS. Cristoforo, Saba e Macario di Collesano. L’apporto di queste vite, che si integrano a vicenda, è particolarmente prezioso, perché l’autore, Oreste patriarca di Gerusalemme, conobbe a Roma Saba e Macario e fu per qualche tempo in Calabria assistendo ad alcuni degli avvenimenti narrati.
Per Oreste la regione del Mercurion, folta di boschi densi ed estesi in tutte le direzioni, era sita tra la Calabria e la Longobardia: quasi una terra di nessuno nei riguardi dello spazio politico, ma vivendo solo in virtù degli asceti che vi abitavano. Pare anzi dalla breve, ma incisiva descrizione, che voglia essenzialmente indicarsi come Mercurion la media valle del Mercure-Lao, profonda, precipite ed angusta, e intenderla come un “vallo” non fra i temi bizantini di Longobardia e Calabria, bensì tra questo e i territori del principato longobardo di Salerno, indicati in altri testi agiografici come le “parti superiori” — rispetto al “Mercurion” — oppure la “regione dei principi”.
Il postulato della vita ascetica fiorente nella media valle del fiume riceve consistenza dal ritrovarsi sulla sponda sinistra, poco a ponente di Laino e all’altezza del villaggio di Montagna, i ruderi di una cappella medioevale desinente in una abside semicilindrica. Cappella che può essere stata il centro di riunione degli asceti di un monastero eremitico o di una “laura”, viventi nelle grotte naturali aperte sul fianco dei terrazzamenti incombenti; le quali, però, non hanno conservato tracce che possano riportarsi all’età medioevale, neanche quella detta dell’ “eremita” che pure ha dato con alcuni esemplari dell’industria litica ed ossea una grande lastra di pietra che porta incisa una figura di bovide — bos primigenius — risalente al paleolitico superiore. Il ricordo di questo centro si inserisce nel racconto di Oreste circa la vita eremitica nel Mercurion, ma non si identifica con il monastero di S. Stefano fondato da Cristoforo e Macario accanto ad una chiesetta derelitta in una contrada, presso il fiume, che venne bonificata e in parte messa a coltura in quanto questa zona che ancora ne conserva il nome è sita sulla destra del Mercure-Lao un poco a nord-ovest di Papasidero.
Sulla stessa sponda del fiume, ma ancora più a valle e ad ovest del monastero di S. Nicola de Tremulo, nella località omonima non lontana da Papasidero, era stato fondato in una contrada, anch’essa folta di varia vegetazione, da S. Saba e dai familiari e compagni non appena arrivati al Mercurion, il monastero di S. Michele Arcangelo: una volta ricordato dal patriarca Oreste in un contesto che permette situarlo in una località abbastanza vicina a quella occupata dal monastero dei Siracusani, già esistente alla venuta di S. Saba e che può con sicurezza identificarsi con quello di S. Nicola de Siracusa sito a Scalea e appartenuto alla Badia di Grottaferrata. A convalidare ciò sta anche il paesaggio che il racconto di Oreste ha come sfondo e che rispecchia la natura dei luoghi da me indicati; e cioè che il primo dei due monasteri era prossimo ad una campagna fertile, coltivata e popolata di agricoltori e che dall’altro si scorgeva la regione di Aieta e il mare.
La regione monastica mercuriense arrivava così fino al mare, tra la foce dell’Abatemarco e S. Nicola Arcella, dal quale, come altrove, erano arrivati alla fine del secolo IX, i fondatori dei monasteri dei Siracusani, dei Taorminesi e forse anche quelli dei Marcani, costituiti certo i primi due da massicce migrazioni di monaci fuggiti da Siracusa e da Taormina in seguito all’occupazione mussulmana di queste due città avvenuta, rispettivamente, nell‘878 e nel 902. Cose che fecero altri monaci tra cui quelli guidati da S. Cristoforo e dai familiari, i quali giunti per mare nella Calabria centrale si spinsero in un secondo momento fino alle spiagge del Mercurion sbarcando, forse più che a Scalea, nel piccolo porto naturale sottostante all’attuale abitato di S. Nicola Arcella, dove nel secolo XI incontreremo una chiesetta bizantina, meglio protetta dai venti e dalle burrasche per poi insediarsi in prossimità dei monasteri preesistenti, cioè in luoghi non lontani dalla costa, come del resto anche gli asceti viventi intorno al castello di Mercurio e nella zona adiacente; mentre la boscosa e selvaggia media valle del fiume ospitava, tranne qualche eccezione, maggiormente eremiti. Cosa che risulta dalla testimonianza del patriarca Oreste e dal fatto che alla metà del secolo X, intensificatisi gli sbarchi e le scorrerie dei Musulmani, che naturalmente battevano a preferenza le spiagge e le località adiacenti, la regione ascetica del Mercurion incominciò a spopolarsi cercando i monaci luoghi più interni ed impervi e perciò più sicuri: e tra la folla dei fuggenti sappiamo erano S. Fantino, rifugiatosi in Oriente a Tessalonica, S. Nilo, ritornato tra le montagne della sua Rossano, S. Saba e suoi compagni, trasferitisi nell’eparchia di Latinianon.
Nel secolo XI i confini del Mercurion verso settentrione appariscono ampliati, in quanto alcune fondazioni monastiche ricordate in documenti coevi, per gli stessi titoli che portano o per i particolari topografici che le accompagnano, inducono fondatamente a pensare per esse a delle localizzazioni a nord del territorio di Scalea, e precisamente in quello di Aieta e in altri luoghi ancora più settentrionali. A tale riguardo poco, però, si può ricavare dalle carte della prima metà del secolo XI, provenienti dal monastero di S. Nicola di Donnoso, sito presso il castello di Mercurio, che menzionano, senza specificare se rientrassero nella zona del Mercurion, le fondazioni del Patir, di S. Angelo, dell’Apostolo Andrea, di Kur Macario e di Mavrone. Invece uno spostamento dei limiti mercuriensi nella direttrice prima accennata balza dalla già citata carta del 1065, rilasciata da Roberto Guiscardo, nella quale vengono ricordati nelle “valle di Mercurio” i monasteri di S. Nicola dell’abate Clemente e di S. Pietro de Marcanito e la chiesa di S. Zaccaria e di S. Elia, o, forse meglio, le chiese di S. Zaccaria e di S. Elia, di S. Nicola de Digna e di S. Venere.
Il ricordo dei due predetti monasteri non aggiunge nulla alle cognizioni che fin qui abbiamo sui confini mercuriensi, dato che il primo si identifica con quello di S. Nicola di Donnoso, così denominato dal suo fondatore, e l’altro con il monastero dei Marcani, che doveva far gruppo con quelli dei Taorminesi e dei Siracusani: prossimo questo, come si è detto, a Scalea.
Molto interesse presenta invece per quanto si riferisce alle chiese di S. Nicola de Digna con il “porto” dei SS. Elia e Zaccaria e di S. Venere con il “casale” nel quale essa si trovava.
La chiesa di S. Nicola de Digna, infatti, si può legittimamente ubicare di fronte all’isola di Dino sul piccolo porto naturale sottostante all’odierno abitato di S. Nicola Arcella poco a nord del Capo Scalea. Le altre, se si accetta la mia interpretazione del documento del 1065, e che non compariscono nelle successive conferme di questo, intitolate a S. Elia e a S. Zaccaria, ritengo debbano identificarsi con le due chiese dedicate agli stessi santi, che documenti posteriori indicano situate nei pressi dell’attuale abitato di Praia a Mare. In tale modo la regione denominata Mercurion oltrepassava non solo la media e bassa valle del Mercure-Lao, ma ancora i confini settentrionali del suo bacino. Si dedurrebbe che la regione mercuriense tanto indefinita nel secolo X, come si è detto, nello spazio politico, continuasse anche nel secolo seguente ad essere vista e intesa in una astrazione dalla realtà che le poneva confini vaghi e indeterminati. Sì che, sulla base di questo concetto, non sarebbe inverosimile situare la chiesa di S. Venere nella magica cornice del Capo S. Venere dove erano vestigia di abitazioni, sul mare di Maratea che continua quella di Aieta.
Restando, dunque, a quanto, senza preconcetti, si è esposto, i limiti dell’area monastica mercuriense nel secolo X coincidono esattamente con le parti media e inferiore della valle del Mercure-Lao, per poi slargarsi nel secolo XI verso nord e così includere la zona marittima da Scalea, per S. Nicola Arcella e Aieta, a Maratea.
BIAGIO CAPPELLI
Da “MEDIOEVO BIZANTINO NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA” – Il Coscile
MERCURION – Le fondazioni monastiche, di Biagio Cappelli
Si è detto e ripetuto che i monaci italo-bizantini quasi per abitudine si rifugiavano in ricoveri assai precari: e perché spesso itineranti per costume di vita e per il continuo timore dei Mussulmani e perché anche in età avanzata preferivano vivere in solitudine. Per queste ragioni fino al consolidamento della dominazione normanna, che pose su nuove basi i cenobi basiliani, i monaci non avrebbero dimostrato alcun interessamento non tanto per decorare, quanto per costruire le loro dimore. Tutto ciò è vero, ma solo in parte; poiché varie notevolissime chiese calabresi e lucane colte ed umili, strettamente connesse con il movimento monastico italo-bizantino, documentano una attività costruttiva e decorativa durante la fase basiliana-bizantina; come, per citare qualche esempio, il gruppo omogeneo delle chiese di S. Luca d’Aspromonte, della Cattolica di Stilo e di S. Marco di Rossano, e poi la basilichetta detta di Sotterra a Paola, le chiese di Sant’Angelo a Monte Raparo in Basilicata e di Pozzolio a S. Severina, nonché varie altre minori.
Ora i grandi monaci che giungevano al Mercurion nella prima metà del secolo decimo trovavano la regione popolata di anacoreti, ma insieme folta di nuove e più progredite forme di vita monastica, cioè le laure e i cenobi che non soltanto sono espressamente menzionati dalla Vita di S. Saba di Collesano quanto devono implicitamente ammettersi e per i paragoni che talvolta vengono istituiti tra la vita eremitica e quella in comune e per il bisogno che spesso alcuni dei monaci più perfetti sentono di isolarsi dai loro fratelli per condurre soli o con qualche compagno un più o meno lungo periodo di intensa meditazione. Abbiamo così, a parte l’elogio di S. Nilo per la vita anacoretica, il ricordo dell’eremo dominante il castello di Mercurio, dove lo stesso si chiudeva, della “fovea” o caverna nei pressi di Avena in cui si ritirava S. Leone-Luca, dall’asceterio montano sul Sinni che serviva agli interiori colloqui di S. Saba nel territorio di Latiniano.
Si che questa stessa coesistenza di vari modi di vita ascetica viene a farci chiaramente conoscere come già nel decimo secolo al più tardi, al Mercurion e nelle vicine zone, oltre le grotte naturali od escavate ed i santuari trogloditici, non dovevano mancare piccole chiese ed abitazioni in muratura per i monaci.
Tutto ciò del resto è anche esplicitamente confermato da varie agiografie, che, per quanto talvolta vaghe, spesso rispecchiano lo stato effettivo delle cose, le quali ci narrano di varie fondazioni monastiche la cui costruzione ha imposto vari anni di lavoro od altri particolari che si riferiscono ad opere murarie: quale, per il primo caso, l’erezione di un monastero ad opera di S. Leone-Luca di Corleone, in un luogo indeterminato della regione mercuriense che costò sette anni di assiduo lavoro e per il secondo altri e più numerosi esempi. Così l’altro cenobio dello stesso S. Leone-Luca nei pressi di Avena che risultò a lavoro compiuto di notevole bellezza o le chiese intitolate a S. Michele ed a S. Stefano, innalzata di pianta la prima e restaurata l’altra dai SS. Saba, Cristoforo e Macario di Collesano sulle rive del Lao, dopo aver prima disboscato e ripulito a fondo i siti prescelti ed intorno ai quali sorsero in un secondo momento le abitazioni dei monaci, oppure il cenobio di S. Lorenzo costruito dallo stesso S. Saba presso un preesistente oratorio nella regione di Latiniano, sulla destra del Sinni nelle vicinanze dell’attuale Episcopia, che fu tutto circondato di mura di protezione così salde che resistettero alla violenza di una di quelle tremende piene che il fiume Sinni suole portare. Ciò senza contare che, non ammettendo costruzioni monastiche nel secolo decimo nel Mercurion e nei tenitori limitrofi, non riusciremo mai a spiegarci esattamente perché S. Fantino, maestro di S. Nilo, nel momento di lasciare la regione mercuriense per il Cilento, nella previsione e nell’orrore delle incursioni mussulmane, piangesse non la sola profanazione, ma anche la distruzione totale e l’incendio delle chiese e dei monasteri e dei libri in questi conservati.
In conseguenza è da presumere che l’aspra regione che vide tante ardue penitenze, macerazioni e preghiere, conservi tra i boschi ed i dirupi delle sue montagne grotte eremitiche e resti degli oratori e dei cenobi sorti nel secolo decimo e nel periodo posteriore, perché la vita religiosa non si spense colà con la partenza di S. Nilo e di S. Saba, ma vi continuò, sebbene rallentata nel suo ritmo.
Questi due grandi santi sembrano inoltre rappresentare i due poli verso cui il Mercurion ad opera del monachesimo italobizantino, che continuò nel medioevo la funzione di mediatore delle correnti orientali ed occidentali già nello stesso luogo venute a contatto nell’antichità classica, si è orientato: sia per il suo rito oscillante tra quello bizantino ed il latino, sia per il diritto romano, longobardo e bizantino che vi fu seguito, sia per il suo dialetto che risente della lingua latina e di quella greca. Si può dire che S. Nilo appartenesse al mondo bizantino, perché tutto il periodo della sua permanenza al Mercurion ha gravitato verso Rossano, dove finalmente è ritornato vivendovi ancora parecchi anni prima di allontanarsene definitivamente e perché anche in terra campana ed in tarda età si proclamava greco. E’ da ritenere che invece S. Saba fosse più imbevuto di idee occidentali e per i vari viaggi compiuti nei territori longobardi dove furono assai richieste ed apprezzate la sua saggezza e la sua esperienza, e per il suo stesso peregrinare per i diversi monasteri bizantini, che a lui facevano capo, siti, o quasi, in terra latina: nella regione di Latiniano, ai margini del Cilento e a Lagonegro.
I pochi documenti di arte che si notavano o rimangono al Mercurion e nelle zone limitrofe naturalmente risentono di questi diversi influssi. Così le forme architettoniche più antiche, che restano però in scarso numero, si volgono al mondo bizantino cui appartengono anche le denominazioni di alcune chiese, come quella distrutta di S. Lucaio presso Avena, che presenta un titolo tra greco e volgare, o la rifatta parrocchiale di Papasidero dedicata a S. Costantino, che è ignoto alla liturgia latina, o le chiese a Laino dedicate a S. Maria La Greca, che nel nome conserva la sua bizantinità, e a S. Teodoro, probabilmente lo Studita, il cui culto, che è documentato anche a Mormanno, fu importato in Calabria dai monaci bizantini; mentre in tutta la vallata del Lao, da Rotonda a Laino e Papasidero, era diffusa la venerazione per la S. Sofia o meglio la Divina Sapienza.
Già gli stessi titoli di queste fondazioni, ora tutte trasformate o scomparse, palesano un originario impianto di tipo orientale: cosa che viene maggiormente avvalorata dal fatto che qualcuna di esse conservava, come S. Maria La Greca di Laino e S. Sofia di Papasidero, pitture bizantine, e qualche altra cela iconografie e forse anche alzati di gusto bizantino sotto le strutture posteriori. Nella parte più alta di Laino infatti, se oramai rimane solo il ricordo di quella chiesa di S. Sofia in cui i rappresentanti dell’Università del Borgo si riunivano a deliberare quasi per essere ispirati dalla Saggezza Divina, in S. Teodoro, posta sul culmine del monte e battuta senza posa dai venti che urlando salgono dalle circostanti e fresche valli, restano, nella disposizione di alcuni muri esterni interrati, tracce di una primitiva costruzione a croce equilatera.
Ma più di queste forme complesse sono numerose le piccole e semplici chiesette generalmente orientate verso levante, che direttamente si collegano alla tradizione bizantina di Calabria e dell’Italia meridionale in genere secondo un tipo che proviene dall’Asia minore e specialmente dalla Cappadocia. Sono umili e disadorne costruzioni usate come luoghi di riunione e di preghiera dei monaci e dagli eremiti viventi nei cenobi e nelle laure vicine, ma che poi si diffusero numerose e nelle campagne e nei centri abitati a più diretto contatto con la fioritura ascetica.
Qualcuna di esse appare condotta secondo una pianta ed un alzato un po’ fuori dal consueto, come quella di S. Caterina all’estremo limite dell’odierno abitato di Mormanno, composta di una piccola aula quasi quadrata, con ingresso laterale e copertura a travate ad uno spiovente, e di un minuscolo santuario leggermente sopraelevato con volta a botte sotto un tetto a due spioventi, secondo una disposizione cioè che, pur ridotta all’essenziale, ricorda la partizione e l’impianto della tanto più nobile chiesa di S. Marco di Rossano e delle altre affini.
Ma il grappo più numeroso è dato da quelle chiesette ad una navatina rettangolare, porta di ingresso su uno dei lati maggiori e santuario terminante con una o tre absidi. Questo tipo di assai mediocri dimensioni era diffuso per tutto l’istmo di comunicazione dalle marine joniche a quelle tirrene, con i vari esemplari ora tutti scomparsi intorno a Castrovillari, con quelli semidiruti di Cassano e di Morano e gli altri esistenti ed in parte rimaneggiati di Rossano. Se ne ritrovano poi nella regione mercuriense e nelle limitrofe con qualche esempio noto, due ancora inediti nei pressi di Policastrello e di Cipollina e sicuramente altri non ancora segnalati. Quelli studiati si distinguono tra loro per talune particolarità di pianta e copertura e l’impiego di materiale diverso. Così, se una semidiruta chiesetta della vecchia Cirella, le cui rovine sembrano lo scenario immane di una fiaba eroica, era forse in origine coperta con volta a botte e presenta una sola abside e strette finestrelle ad arco a tutto sesto in mattoni a vista, rifacendosi ad un tipo di decorazione prettamente bizantina analoga o simile a quanto si nota nella cattedrale vecchia di S. Severina, nella chiesa di S. Giovanni Vecchio di Stilo, nella ex cattedrale di Umbriatico ed altrove, differenti appariscono quelle di Scalea e di Mercurio.
Quest’ultima, ora dedicata a S. Maria innalzandosi proprio là dove erano il castello di Mercurio ed uno dei tanti monasteri che lo circondavano, è fino ad ora l’unica testimonianza visibile di tutto un passato di eroismo spirituale nel cuore del Mercurion. Essa, che era sforata da una serie di finestrine a feritoia in pietra, ha il tetto a travatura a doppio spiovente ed un’ala con copertura più bassa ad uno spiovente, affiancata alla navatina con santuario absidato e circondato da una banchina continua, sì da apparire, a parte le finestrine e la banchina, propria questa di chiese e cripte siciliane, pugliesi e materane, simile alla chiesa dello Spedale di Scalea. Questa però, come quella di S. Caterina di Mormanno, presenta la piccola navata coperta da uno spiovente più alto e disposto in senso contrario a quello dell’ala parallela ed è provvista di tre absidi, di cui le laterali ricavate nello spessore del muro perimetrale.
Si potrebbe credere che queste costruzioni a due navate, se non è meglio parlare di un vano aggiunto per le necessità della chiesa con cui comunica per una apertura, costantemente sita presso il santuario, siano proprie del Mercurion e delle zone marginali. Ma anche per questa iconografia ci troviamo innanzi ad un partito architettonico noto al versante calabrese jonico, dato che essa appare in tutto simile a Rossano: e nella bella e colta chiesa della Panaghia, dove anche il vano minore è absidato, e nell’altra di S. Nicola all’Olivo che, per quanto rimaneggiata, serba particolarità iconografiche ed una finestra in pietra con arco a tutto sesto che sembrano riportarla al periodo bizantino.
(Continua)
Da “MEDIOEVO BIZANTINO NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA ”, di Biagio Cappelli – Il Coscile
Foto: Rete
24 Marzo
Dal Prologo di Ohrid opera di Nikolaj Velimirovic
24 marzo secondo il vecchio calendario della Chiesa
SANTO ARTEMONE VESCOVO DI SELEUCIA
Artemone nacque e fu educato a Seleucia. Quando l’apostolo Paolo giunse in quella città, incontrò Artemone, lo rafforzò ancora di più nella fede di Cristo e lo nominò vescovo di quella città. Artemone governò il gregge affidatogli con amore e zelo. Era un medico delle anime e dei corpi degli uomini. Entrò nell’eternità in età matura.
IL VENERABILE GIACOMO, IL CONFESSORE
Giacomo soffrì mentre difendeva le icone sotto Leone l’Armeno. Era un monaco e un membro della confraternita del monastero degli Studiti. Quando lo Studita Teodoro il Grande era in esilio, Giacomo fu sottoposto a gravi torture per convincerlo a rinunciare alla venerazione delle icone. Fino alla fine rimase fermo e fedele all’Ortodossia. Picchiato e torturato, fu infine rimandato al monastero dopo che il malvagio imperatore Leone fece una fine miserabile. A causa dei gravi colpi subiti, morì nel monastero e prese dimora tra i cittadini celesti.
IL SACERDOTE-MARTIRE PARTENIO, PATRIARCA DI COSTANTINOPOLI
Partenio nacque nell’isola di Mitilene. Fu a lungo vescovo di Chio. In seguito fu eletto patriarca di Costantinopoli. A causa di false voci secondo cui avrebbe lavorato contro lo Stato, i turchi gli proposero inizialmente di diventare musulmano. Quando rifiutò categoricamente, lo impiccarono nell’anno 1657 d.C.
LA COMMEMORAZIONE DEL MIRACOLO NEL MONASTERO DELLE GROTTE DI KIEV
Due compagni, Giovanni e Sergio, fecero voto di adottarsi come fratelli di sangue davanti a un’icona della Santa Madre di Dio in questo monastero. Giovanni era un uomo ricco e aveva un figlio di cinque anni, Zaccaria. Giovanni si ammalò gravemente. Prima di morire, Giovanni affidò il figlio alle cure di Sergio e gli lasciò in eredità una grande quantità d’oro e d’argento da custodire affinché Sergio la consegnasse al figlio Zaccaria quando avesse raggiunto la maturità. Quando Zaccaria raggiunse la maturità, Sergio negò di aver ricevuto qualcosa dal defunto Giovanni. Allora Zaccaria disse: “Che giuri davanti a quella stessa icona della Tuttasanta Madre di Dio, davanti alla quale è entrato in rapporto di fratellanza con il mio defunto padre; e se giurerà di non aver ricevuto nulla da mio padre Giovanni, allora non chiederò nulla a lui”. Sergio accettò. Quando Sergio giurò questo, voleva avvicinarsi e venerare l’icona, ma una forza lo trattenne e non glielo permise. Sergio cominciò allora a gridare in modo folle ai Santi Padri, Antonio e Teodosio: “Non permettete a questo angelo infame di distruggermi!”. Era il demone che lo aveva attaccato con il permesso di Dio. Poi Sergio mostrò loro tutto il denaro che Giovanni gli aveva affidato. Quando aprirono il forziere, scoprirono che la somma era raddoppiata. Questa somma era stata raddoppiata dalla Provvidenza di Dio. Dopo aver ricevuto il denaro, Zaccaria lo consegnò al monastero e fu tonsurato monaco. Zaccaria visse a lungo, fu reso degno dei grandi doni di Dio e fu tradotto serenamente nell’eternità.
IL VENERABILE ZACCARIA
Zaccaria era figlio di Carion l’Egiziano. Zaccaria lasciò moglie e figli e si fece monaco. Portò con sé il padre perché la madre non era in grado di prendersi cura di lui. Anche se Zaccaria era più giovane della maggior parte degli anziani di Scete, fu favorito con maggiori doni di Grazia rispetto a molti altri. Sentiva che tutto il suo essere era infuocato dalla Grazia di Dio. Alla domanda di San Macario: “Chi è il monaco ideale?”, Zaccaria rispose: “Colui che si costringe continuamente a compiere i comandamenti di Dio”. Alla domanda di Abba Mosè: “Che cosa significa essere un monaco?”, Zaccaria si tolse il suo copricapo monastico [Kamilavka], lo calpestò e disse: “Se un uomo non è ridotto così, non può essere un monaco”. Fu una grande luce tra i monaci del deserto e ancora giovane morì al Signore.
Inno di lode VANITA’
Qual è il valore dell’uomo, o Signore, Tu hai detto, che acquisisce l’intero vasto mondo come sua proprietà, quando, oggi o domani, deve morire, e le ricchezze accumulate gli sopravvivranno. Che valore ha il fatto che sul suo capo si ponga una corona, quando deve lasciarsela alle spalle? Per lui, a che cosa servono l’oro e il mucchio d’argento, quando tra le sue costole avvizzite crescerà l’erba? A cosa servono seta, perle e cibo, quando, su di lui vivo, non si posa il sole? A cosa serve il mondo, se perde l’anima? Senza l’anima, il corpo viene calato nella tomba. Il corpo e l’anima sono morti entrambi, e ognuno di loro si dirige verso la propria tomba. Gli uomini seppelliscono due persone senza vita, Per nessuno dei due gli uomini piangono amaramente. Chiunque abbia una mente, sulla sua anima, la custodisca, Tu hai dato a tutti un chiaro monito: L’anima è l’unica cosa che può essere salvata, Tutto il resto del mondo e persino il mondo stesso periranno. Quando conosciamo il tuo consiglio, o caro Signore, abbiamo ancora bisogno del Tuo potere e del Tuo aiuto. Aiuta la nostra anima peccatrice, o Buono, affinché il fumo della vanità non la soffochi.
Riflessione Abba Daniele e Abba Ammoe erano in viaggio. Abba Ammoe disse: “Padre, quando arriveremo alla cella?”. (cioè per poter pregare Dio). Abba Daniele rispose: “E chi ci porta via Dio adesso?”. Lo stesso Dio è nella cella e fuori dalla cella”. In questo modo ci viene insegnata l’ininterrotta preghiera, i pensieri su Dio e la contemplazione delle opere di Dio in noi e intorno a noi. La Chiesa facilita la preghiera e la intensifica. Lo stesso vale per la solitudine e la reclusione: ognuna a suo modo la facilita e la intensifica. Chi non vuole pregare non sarà vincolato né da una Chiesa né da una cella. Né chi ha provato il piacere della preghiera potrà separare la sua natura o il suo viaggio dalla preghiera.
Contemplazione Contemplare il Signore Gesù sulla croce crocifissa:
Contare le gocce del suo sangue tutto santo e contare i miei peccati;
Contare i suoi sospiri dolorosi e contare i giorni stupidi del mio riso.
Omelia La fedeltà nella sofferenza e la corona della vita
“Non temete nulla di ciò che dovrete soffrire, rimanete fedeli fino alla morte e io vi darò la corona della vita” (Apocalisse 2,10).
Con la sua sofferenza, nostro Signore ha alleviato le nostre sofferenze. Ha sopportato il dolore più grande e ne è uscito vincitore. Per questo può incoraggiarci nelle nostre sofferenze minori. Egli ha sofferto e sopportato nella giustizia, mentre noi soffriamo e sopportiamo per espiare i nostri peccati. Per questo può ricordarci doppiamente di resistere fino alla fine come ha fatto Lui, il Senza Peccato. Nessuno di noi ha aiutato o alleviato i suoi dolori e la sua sopportazione, eppure Egli è al fianco di ciascuno di noi quando soffriamo e allevia le nostre pene e disgrazie. Per questo ha il diritto di dire a tutti coloro che soffrono per amore del suo Nome: “Non temere! Non temere nulla di ciò che stai per soffrire”, dice Cristo, perché io solo ho sopportato tutte le sofferenze e le conosco bene. Non mi sono spaventato di fronte a nessuna sofferenza. Le ho accolte su di me e, alla fine, le ho superate tutte. Non le ho superate respingendole o fuggendo da esse, ma ricevendole tutte su di me volontariamente e sopportandole tutte fino alla fine. Così anche voi dovreste accettare la sofferenza volontaria, perché io vedo e so quanto e per quanto tempo potete sopportare.
Se le vostre sofferenze dovessero protrarsi fino alla morte e se fossero la causa della vostra morte, non temete: “Vi darò la corona della vita”. Vi incoronerò con la vita immortale in cui regnerò eternamente con il Padre e lo Spirito Vivificatore. Dio non vi ha mandato sulla terra per vivere comodamente, ma per prepararvi alla vita eterna. Sarebbe una grande tragedia se il vostro Creatore non fosse in grado di darvi una vita migliore, più lunga e più luminosa di quella che c’è sulla terra, che puzza di decadenza e di morte ed è più breve della vita di un corvo.
O fratelli, ascoltiamo le parole del Signore e tutte le nostre sofferenze saranno alleviate. Se i colpi del mondo sembrano duri come pietre, diventeranno come la schiuma del mare quando obbediremo al Signore.
O Signore vittorioso, insegnaci di più sulla tua longanimità; e quando saremo esausti, stendi la tua mano e sostienici.
AIO – AMMONATA
AIO
ἀββᾶ Ἀϊώ
1. Dicono che nella Tebaide c’era un anziano, Abba Antiano, che da giovane aveva fatto molte opere buone, ma quando invecchiò si ammalò e divenne cieco. Poiché era malato, i fratelli lo sollevavano prendendosi molta cura di lui, mettendogli persino il cibo in bocca. Chiesero ad Abba Aio cosa ne sarebbe stato di questi sollievi. Egli rispose: “Vi dico che se quando mangia anche un solo dattero lo fa volentieri e con desiderio, Dio glielo toglie. e di buon grado, Dio lo toglie dalle sue opere; ma se lo riceve a malincuore e di malavoglia, Dio manterrà intatte le sue opere, poiché egli ha accettato di farlo contro la sua volontà. I fratelli riceveranno la loro ricompensa”.
AMMONATA
ἀββᾶ Ἀμμωναθᾶ
1. Un giorno giunse in Pelusia un magistrato per imporre ai monaci la tassa elettorale, come per la popolazione secolare. Tutti i frati si riunirono per questa imposizione e si recarono da Abba Ammonata. Alcuni dei padri pensarono di andare a parlare con l’imperatore, ma Abba Ammonata disse loro: “Non è necessario disturbare tanto. Rimanete piuttosto tranquilli nelle vostre celle, digiunate per due settimane e io solo, con la grazia di Dio, mi occuperò della questione”. Così i fratelli tornarono nelle loro celle. Il vecchio rimase nella pace della sua cella. Dopo quindici giorni i confratelli erano insoddisfatti del vecchio perché non lo avevano più visto agitarsi, e dissero: “Il vecchio non ha fatto nulla per la nostra questione”. Il quindicesimo giorno, secondo il loro accordo, i fratelli si riunirono di nuovo e il vecchio si presentò con una lettera con il sigillo dell’imperatore. Vedendola, i confratelli gli dissero, con grande stupore: “Quando l’hai avuta, Abba?”. Allora il vecchio rispose: “Credetemi fratelli, questa notte sono andato dall’imperatore, che ha scritto questa lettera; poi, recandomi ad Alessandria, l’ho fatta controfirmare dal magistrato e così sono tornato da voi”. Sentendo questo, i fratelli furono pieni di paura e fecero penitenza davanti a lui. Così i loro affari furono risolti, e il magistrato non li disturbò più.
APOLLO, ANDREA
APOLLO
ἀββᾶ Ἀπολλὼ
Apollo divenne monaco a Scete dopo essersi reso colpevole di un orrendo delitto raccontato nel secondo apoftegma. È un esempio, anche se un po’ estremo, dei rudi monaci copti che costituivano la maggior parte dei monaci d’Egitto; il contrasto tra un uomo del genere e l’erudito Evagrio o l’aristocratico romano Arsenio è molto marcato e spiega alcuni dei problemi che sorsero tra loro.
1. Nelle Celle c’era un anziano chiamato Apollo. Se qualcuno veniva a cercarlo per fargli fare un lavoro, lui si metteva in cammino con gioia, dicendo: “Oggi lavorerò con Cristo, per la salvezza della mia anima, perché questa è la ricompensa che egli dà”.
2. Di un certo Abba Apollo di Scete si diceva che era stato pastore ed era molto rozzo. Un giorno aveva visto una donna incinta nel campo e, spinto dal demonio, aveva detto: “Vorrei vedere come giace il bambino in lei”. Così la squarciò e vide il feto. Immediatamente il suo cuore fu turbato e, pieno di rimorsi, si recò a Scete e raccontò ai padri quello che aveva fatto. In quel momento li sentì cantare: «Settanta sono gli anni della nostra vita, e, se in forze, ottanta, ma la maggior parte di essi è fatica e affanno» (Sal 90,10) Disse loro: “Ho quarant’anni e non ho fatto una sola preghiera; e ora, se vivrò un altro anno, non smetterò di pregare Dio perché perdoni i miei peccati” (Sal 90,10). Infatti, non lavorava con le mani ma passava tutto il tempo in preghiera, dicendo: “Io, che come uomo ho peccato, tu, come Dio, perdona”. Così la sua preghiera divenne la sua attività di notte e di giorno. Un fratello che viveva con lui lo udì dire: “Ho peccato contro di te, Signore; perdonami, affinché possa godere di un po’ di pace”. Ora era sicuro che Dio gli avesse perdonato tutti i suoi peccati, compreso l’omicidio della donna, ma per l’omicidio del bambino era in dubbio. Allora un vecchio gli disse: “Dio ti ha perdonato anche la morte del bambino, ma ti lascia nel dolore perché questo è un bene per la tua anima”.
3. Per quanto riguarda l’accoglienza dei fratelli, lo stesso Abba disse che ci si deve inchinare davanti ai fratelli che vengono, perché non è davanti a loro, ma davanti a Dio che ci prostriamo. “Quando vedi il tuo fratello”, diceva, “vedi il Signore tuo Dio”. E aggiunse: “Abbiamo imparato questo da Abramo (Gn 18), quando ricevete i fratelli invitateli a riposare per un po’, perché questo è ciò che apprendiamo da Lot, che invitò gli angeli a farlo”. (Gn. 19,3)
ANDREA
ἀββᾶς Ἀνδρέας
1. Abba Andrea disse: “Queste tre cose si addicono a un monaco: l’esilio, la povertà e la sopportazione del silenzio”.
22 MARZO
Dal Prologo di Ohrid opera di Nikolaj Velimirovic
22 marzo secondo il vecchio calendario della Chiesa
IL SACERDOTE-MARTIRE BASILIO, PRESBITERO DI ANCYRA
Sotto l’imperatore Costanzo, Basilio sopportò e soffrì molto per mano degli ariani. A quel tempo era noto come un grande zelatore dell’ortodossia e un vero pastore del gregge affidatogli ad Ancyra. Quando Giuliano l’Apostata salì al trono, iniziò a perseguitare i cristiani. Poiché Basilio smascherò apertamente quest’ultima impurità e rafforzò il suo popolo nella fede, fu messo in prigione. Quando l’imperatore Giuliano giunse ad Ancyra, Basilio fu portato al suo cospetto e l’imperatore cercò di convincerlo ad abbandonare la fede in Cristo, promettendogli onori e ricchezze. Basilio rispose all’imperatore: “Io credo nel mio Cristo, che tu hai rinnegato e che ti ha dato questo regno terreno; ma questo ti sarà tolto tra poco. Non ti vergogni per il sacro altare sotto il quale sei stato salvato quando volevano ucciderti quand’eri un bambino di otto anni? Ecco perché questo regno temporaneo ti sarà tolto a breve e il tuo corpo non sarà sepolto quando la tua anima ti sarà strappata con violenza e con dolori amari”. Giuliano si infuriò e ordinò che ogni giorno gli venissero strappate sette strisce di pelle dal corpo. Gli aguzzini lo fecero per diversi giorni. Quando Basilio si ripresentò davanti all’imperatore, prese una cintura della sua pelle, la gettò in faccia a Giuliano e gridando gli disse: “Prendila, Giuliano, e mangia se questo tipo di cibo ti è dolce, ma per me Cristo è Vita”. Questo episodio fu proclamato in tutte le città e l’imperatore, per la vergogna, partì segretamente da Ancyra verso Antiochia. Continuarono a torturare Basilio con ferri roventi finché non consegnò l’anima a Dio, per il quale soffrì nell’anno 363 d.C.
SANTA DROSIDA
Drosida era la figlia dell’imperatore Traiano. Fu catturata con altre cinque donne di notte, mentre raccoglievano i corpi dei martiri torturati per Cristo. Per questo fu gravemente sfigurata dall’imperatore. Queste cinque donne furono orribilmente torturate e, alla fine, furono gettate in una vasca di rame fuso, dove consegnarono le loro anime al loro Signore. Drosida rimase sotto la stretta sorveglianza dell’imperatore. Fuggì dal palazzo e si battezzò in un fiume. Dopo otto giorni rese la sua anima a Dio.
IL VENERABILE MARTIRE EUTIMIO
Eutimio nacque nel villaggio di Dimitsana, nel Peloponneso. Da bambino, Eutimio visse da cristiano ma, in seguito, si recò in Romania dove si diede a una vita di grande dissolutezza. In questa dissolutezza uno spirito maligno lo portò a diventare musulmano. Non appena lo fece, Eutimio cominciò a pentirsi amaramente. Tornò nuovamente alla fede di Cristo e fu tonsurato monaco nell’Athos, la Montagna Santa. Dopo diversi anni trascorsi in rigoroso digiuno e preghiera, decise di morire per Cristo. Con la benedizione del suo padre spirituale, si recò a Costantinopoli dove riuscì in qualche modo a presentarsi al cospetto del Gran Vezir. Eutimio cominciò a farsi il segno della croce, a lodare Cristo e a insultare Maometto alla presenza del Vezir. Dopo lunghe torture fu condannato a morte e decapitato la Domenica delle Palme, il 22 marzo 1814 d.C. Sulle sue reliquie si verificarono molte guarigioni miracolose di malati. La sua testa onorata è conservata nel monastero russo di San Panteteleimon [Pantaleone] sulla Montagna Santa. Così, questo giovane di vent’anni, dapprima morì a Cristo e poi morì per Cristo.
Inno di lode CRISTO SIGNORE COME PESCATORE
Sei un meraviglioso pescatore, o Cristo Signore, In tutto il mondo stendi le reti, per le perle pure che tu peschi nelle acque profonde, Rete invisibile, tessuta dallo Spirito, tessuta con amore, inumidita di lacrime, da mani angeliche, ovunque sostenuta. Tutti quelli che una madre ha partorito e che lo Spirito ha allevato, Le anime più belle che il mondo possa dare. Tutti quelli che sono entrati nel numero del Tuo ricco pescato, Tutti quelli che la Tua rete di seta ha catturato. Quando solleverai le reti dal mare della vita Nulla rimarrà se non la feccia fangosa. O, Pescatore, Meraviglioso, di perle pure, E noi peccatori, un tempo, eravamo le tue perle, Ora, dal Tuo trono, siamo lontani, Sotto il sedimento delle passioni oscure, siamo coperti, Ma che la Tua rete ci catturi, Dal Tuo volto, risplenderemo come le stelle.
Riflessione Anche nel suo dolore sulla croce, il Signore Gesù non ha condannato i peccatori, ma ha offerto al Padre suo il perdono per i loro peccati dicendo: “Non sanno quello che fanno!” (San Luca 23,34). Non giudichiamo nessuno per non essere giudicati. Perché nessuno è sicuro che prima della sua morte non commetterà lo stesso peccato con cui condanna il suo fratello. Sant’Anastasio del Sinai insegna: “Anche se vedi qualcuno che pecca, non giudicarlo perché non sai come sarà la fine della sua vita. Il ladro, crocifisso con Cristo, è entrato in Paradiso, mentre l’apostolo Giuda è andato all’Inferno. Anche se vedete qualcuno che pecca, tenete presente che non conoscete le sue opere buone. Infatti, molti hanno peccato apertamente e si sono pentiti in segreto; vediamo i loro peccati, ma non conosciamo il loro pentimento. Per questo, fratelli, non giudichiamo nessuno per non essere giudicati”.
Contemplazione Contemplare il Signore Gesù crocifisso sulla croce:
Quanto è infinito il suo dolore per gli uomini accecati dal peccato;
Come i suoi pensieri sulla croce siano rivolti più al Padre celeste che a se stesso;
Come la sua preoccupazione sulla croce sia rivolta più agli uomini che a se stesso;
Come sulla croce sia certo della sua vittoria e della sua risurrezione.
Omelia Sulla maestà di Cristo vincitore
“I capelli del suo capo erano come lana bianca o come neve e i suoi occhi erano come una fiamma ardente” (Apocalisse 1,14).
È così che Giovanni il Teologo (colui alzò lo sguardo su Dio) vide Gesù dopo la sua risurrezione e la sua vittoria. Lo vide come il Figlio dell’uomo, vestito di una lunga veste, cinto da una fascia d’oro, con sette stelle nella mano destra e il suo volto “splendeva come il sole al suo massimo splendore” (Apocalisse 1,16). È con questo tipo di potenza e di gloria che è apparso Colui che sulla croce non era raggiante e che a tutti i passanti sembrava il più debole dei figli degli uomini. Perché i suoi capelli erano come lana bianca e candidi come la neve? Nostro Signore non aveva forse appena trentaquattro anni quando lo uccisero? Da dove, allora, i suoi capelli bianchi? I capelli bianchi non indicano forse la vecchiaia? È vero che i capelli bianchi indicano la vecchiaia dell’uomo mortale, ma nel Cristo nella gloria indicavano più che la vecchiaia, l’eternità. L’eterna giovinezza! La vecchiaia è il passato e la giovinezza è il futuro. Allo stesso tempo, non è forse l’uno e l’altro? Più di tutti i tempi passati e di tutti i tempi futuri e persino oltre il tempo, Cristo è l’eternità oltre il tempo. Perché i suoi occhi erano come una fiamma di fuoco? Perché Egli è l’Onniveggente. Ogni sorta di cose può essere nascosta al sole, ma di tutto ciò che è nei cieli, sulla terra o sotto la terra, nulla può essere nascosto alla Sua vista. Egli percepisce tutti i fili del tessuto della natura; percepisce tutti gli atomi nelle pietre, ogni goccia d’acqua nel mare, ogni particella d’aria e tutti i pensieri e i desideri di ogni anima creata. Questo è l’Unico e lo stesso e nessun altro; Colui che per compassione della razza umana venne sulla terra, si vestì di un corpo mortale e sofferente, fu ridicolizzato, fu deriso e fu sputato dagli uomini peccatori. Questo è lo stesso, e non un altro, che, senza splendore, è stato appeso alla croce tra i ladri e, come un uomo morto, è stato sepolto da Giuseppe e Nicodemo.
O fratelli, quanto è impressionante pensare a quale grande e maestoso Visitatore abbia avuto la terra! È ancora più impressionante pensare contro chi gli uomini squilibrati hanno alzato le mani!
O Signore maestoso, perdona i nostri peccati e ricordati di tutti noi nella tua potenza e nella tua gloria.
Il Prologo di Ohrid
Il Prologo di Ohrid è una raccolta di voci divise secondo il calendario liturgico sulle vite dei santi della Chiesa ortodossa. Il Prologo è opera di Nikolaj Velimirovic, vescovo e santo della Chiesa ortodossa vissuto dal 1880 al 1956.
Le voci per i singoli santi sono organizzate in base alla data della loro festa. Oltre a una breve biografia o “bios”, il Prologo comprende anche inni, riflessioni e omelie, solitamente legate al medesimo santo. È stato originariamente scritto in serbo ed è ora disponibile in traduzione. San Nicola è spesso indicato come il “Crisostomo” serbo.
San Nicola scrisse l’Ochridski Prolog (Il prologo di Ohrid) durante un periodo nel 1928 quando era in Serbia. Ha modellato il suo lavoro sull’antica letteratura agiografica scrivendo brevi Vite ed episodi edificanti della vita di uomini e donne, peccatori divenuti santi e asceti.
In questa pagina riporteremo la traduzione italiana del Prologo inserendo alcuni santi all’epoca non ancora canonizzati ed altri specifici della nostra terra di Calabria, i Santi Calabro-Ortodossi.