“L’argomento non è quello dei calendari: sono dogmi e teologia contrastanti che portano a celebrazioni separate della Pasqua”
dall’Arciprete Georgios Metallinos
La risurrezione di Cristo non solo è il fondamento incrollabile della nostra fede (“Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede” [1 Corinzi 15,17] ), ma richiama anche alla mente la tragica divisione del mondo cristiano della nostra epoca.
Lo scopo del dialogo ecumenico o intercristiano è proprio quello di rimuovere questa divisione e ripristinare l’unità. Negli ambienti ecumenici, infatti, la celebrazione comune della Pasqua è considerata un passo essenziale in questa direzione.
La decisione di cambiare calendario (1923-1924) – decisione affrettata e non pan-ortodossa – portò alla comune celebrazione cristiana del Natale (e delle Feste inamovibili), ma non a quella della Pasqua (e delle Feste mobili), che continua ad essere determinato nel mondo ortodosso sulla base del vecchio calendario giuliano.
Una recente Enciclica patriarcale (n. 150/26 maggio 1995) solleva la questione della necessità di “determinare” “una data comune per la celebrazione della Grande Festa della Pasqua da parte di tutti i cristiani”, promuovendo così un percorso unionista. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, alcune costanti storiche e teologiche fondamentali che determinano in modo decisivo il significato delle feste cristiane (della Chiesa) e la nostra esperienza liturgica di esse, come nel caso della Pasqua:
(a) Molti ortodossi sostengono giustamente che l’impedimento a celebrare le feste contemporaneamente ai non ortodossi non è la differenza nei calendari, ma la differenza nel dogma e nella teologia; vale a dire, la nostra non convergenza su questioni di fede, dato, in particolare, che la “fede” nell’ininterrotta Tradizione cristiana, che continua nell’Ortodossia, non è una semplice – superficiale o scolastica – accettazione di certe “verità” disincarnate carattere assoluto, ma, piuttosto, partecipazione ad uno stile di vita tramandato dagli Apostoli e dai Padri, che porta a fare esperienza dello Spirito Santo.
Questa esperienza, quando formulata in parole, costituisce la fede della Chiesa come Corpo del Signore. Così dobbiamo intendere l’ingiunzione canonica della Chiesa – a partire dal Primo Sinodo ecumenico, che, nel 325 d.C., risolse la questione della celebrazione della Pasqua una volta per tutte fino ai giorni nostri: «non festeggiare con gli ebrei», il che equivale, oggi, a «non festeggiare con gli eterodossi».
Questo non è frutto di bigottismo religioso, ma espressione di una sana e attiva autocoscienza ecclesiastica. Per questo motivo, già nel 1582, l’Oriente ortodosso rifiutò il “Nuovo” Calendario, non per ragioni scientifiche, ma ecclesiologiche, poiché l’introduzione di questo calendario fu collegata sia dagli occidentali che dai nostri stessi unionisti all’imposizione di un’osservanza simultanea delle feste come facilitazione (di fatto) dell’unione “dal basso” (su base ampia).
Questo spirito trovò espressione nella controversa Enciclica del 1920, che proponeva «l’adozione di un unico calendario per la celebrazione simultanea delle principali feste cristiane da parte di tutte le Chiese».
Non ci soffermeremo, qui, sul fatto che questa Enciclica pone sullo stesso piano l’Ortodossia e la non-Ortodossia. Ricorderemo però che, se da un lato ha certamente aperto la strada all’ecumenismo, dall’altro è servito a provocare la genesi della questione “vecchio calendarista”, che resta un’esperienza tragica e traumatica nel corpo della Chiesa ortodossa e dovrebbe, per questo stessa ragione, da risolvere prima di qualsiasi soluzione parziale o più ampia nell’ambito del dialogo “ecumenico”.
(b) La precondizione della comune «celebrazione delle feste cristiane» non è l’accordo sul calendario o gli accordi diplomatici e giuridici, ma «l’unità della fede e la comunione dello Spirito Santo»; cioè l’adesione ad una concezione del cristianesimo come un “ospedale spirituale” (San Giovanni Crisostomo), cioè come ospedale esistenziale e sociale e come metodo di terapia.
L’ideologizzazione del cristianesimo o la sua formulazione accademica – malattie derivanti dal dialogo ecumenico – non solo non ci conducono all’unità che desideriamo, ma anzi ce ne allontanano. L’unità e l’unione che culminano nella Sacra Mensa e nel Santo Calice richiedono l'”unanimità” nella fede e nell’insieme della vita cristiana; cioè l’accettazione della Tradizione Apostolica nella sua totalità e l’incorporazione in essa.
È proprio per questa ragione che il culto e la tradizione liturgica da soli non costituiscono una base di unità, come credono ampiamente, ma erroneamente, coloro che sono impegnati nel dialogo ecumenico. Il culto e la partecipazione al culto non sono efficaci in termini soteriologici, al di fuori del contesto sopra menzionato di una tradizione ecclesiologica comune. La preghiera perenne del credente ortodosso è per “la restaurazione e la riunione degli erranti” al Corpo di Cristo, l’Unica Chiesa (Liturgia di San Basilio Magno) .
In questo modo si giustifica la forza anfidromica dell’affermazione di san Paolo, che abbiamo citato all’inizio: «Se la risurrezione di Cristo è il fondamento della nostra fede, allora la fede autentica è l’unica precondizione per la partecipazione alla risurrezione. come il più grande evento della nostra salvezza in Cristo.”
L’arciprete Giorgio Metallinos è stato un sacerdote della Chiesa di Grecia e professore di teologia dell’Università di Atene. Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Kathimerini.