SINODALITÀ E PRIMATO NEI PRIMI DUE MILLENNI

Proponiamo in questo articolo due documenti frutto della “Commissione internazionale mista per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa”. Il tema degli approfondimenti fatti a Chieti nel 2016 e di recente ad Alessandria, è il rapporto tra sinodalità e primato nei primi due millenni e fino ad oggi. Pur stigmatizzando lo spirito intrinsecamente non ortodosso dell’ecumenismo che, nato in seno al protestantesimo, mira ad un’unità superficiale che preservi le diversità anche teologico-dogmatiche tra le Chiese, proponiamo questi studi solo per un interesse storico culturale e per comprendere la metodologia attraverso cui si svolgono questi incontri e si analizzano i dati storico-teologici. Al netto degli usi provenienti dalle naturali differenze culturali dei popoli, il portato dogmatico che sta alla base della fede rivelata dal Dio-Uomo “una volta per sempre” (Giuda 1,3) non può essere messo in discussione. La fede apostolica è l’unico tesoro da preservare. Per questo motivo i “teologi” e gli storici non possono partire dalle situazioni contingenti per adattare i canoni, ma al contrario sono le situazioni contingenti a doversi adattare alla verità dei canoni ben interpretati, secondo lo stesso Spirito da cui furono promulgati. Non è la Verità che deve adattarsi alla Chiesa ma è la Chiesa che sorge e si adatta sulla Verità che è Cristo. Se questo principio ci è chiaro allora possiamo leggere ‘criticamente’ i seguenti articoli che fissano alcuni passaggi fondamentali nella storia dei canoni e dell’ecclesiologia. Documenti importanti proprio perché passano da una discussione plurale che prova a fare chiarezza della verità storica. Non possiamo non sottolineare come, però, soprattutto il secondo documento, è quasi completamente incentrato sulle varie evoluzioni che ci sono state nei secoli nella Chiesa Cattolica Romana e come altresì, anche se quasi nascostamente, tra le pieghe del discorso, ammetta una maggiore continuità dell’ecclesiologia Ortodossa rispetto alle origini cristiane.  Afferma il primo documento: “Sin dai primordi, la Chiesa una esisteva come molte Chiese locali. La comunione (koinonía) dello Spirito santo (cfr. 2 Corinzi, 13, 13) era vissuta sia in seno a ogni Chiesa locale sia nelle relazioni tra di loro come unità nella diversità. Sotto la guida dello Spirito (cfr. Giovanni, 16, 13) la Chiesa sviluppò modelli d’ordine e pratiche varie, conformemente alla sua natura di «popolo che fonda la sua unità nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo». La sinodalità è una qualità fondamentale della Chiesa nel suo insieme. Come ha detto san Giovanni Crisostomo: «“Chiesa” significa sia assemblea [sýstema] sia sinodo [sýnodos]». L’espressione deriva dalla parola “concilio” (sýnodos in greco, concilium in latino), che denota in primo luogo un’assemblea di vescovi, sotto la guida dello Spirito santo, per la deliberazione e l’azione comuni nella cura della Chiesa. In senso lato, si riferisce alla partecipazione attiva di tutti i fedeli alla vita e alla missione della Chiesa. Il termine primato si riferisce all’essere primo (primus, prótos). Nella Chiesa il primato appartiene al suo Capo, Gesù Cristo, «principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato [protéuon] su tutte le cose» (Colossesi, 1, 18)”. Si poteva anche chiudere qui la discussione…ma si sa gli studiosi sono prolissi e purtroppo spesso tendono a piegare ai propri scopi la Verità piuttosto che farsi discepoli e uditori della Parola. Il Capo del Corpo che è la Chiesa è Cristo ed il centro la fede da Lui rivelata. Nessuno, come dice l’Apostolo Paolo, né un angelo, né un altro Apostolo e neanche lui stesso possono porre un fondamento diverso dalla fede rivelata dal Dio-Uomo, Colui che è con noi fino alla fine dei tempi. I Vescovi non sono infallibili prolungatori della rivelazione ma, secondo il significato della parola greca, sorveglianti, custodi della rivelazione divina. Non c’è dunque altro fondamento di quella Roccia che è Cristo e su cui siamo chiamati a costruire la nostra casa affinché non crolli ma resista alle intemperie, alle mareggiate e agli eventi avversi che il mondo ed i suoi valori rappresentano. In assenza di questa fede incrollabile nel Signore Vivente, l’uomo tende ad abbarbicarsi ad ogni puntello mondano che possa ispirargli una qualsiasi forma di stabilità, fiducia, sicurezza; puntello instabile perché piantato nelle sabbie mobili di questo mondo. In assenza di questa fede incrollabile sorgono i Vicari, i Super Apostoli, l’esser di Cefa o di Paolo o di Apollo (1 Cor 1,10-12)

Commissione internazionale mista per il dialogo teologico

tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa

SINODALITÀ E PRIMATO NEL PRIMO MILLENNIO:
VERSO UNA COMUNE COMPRENSIONE
NEL SERVIZIO ALL’UNITÀ DELLA CHIESA[1]

Chieti, 21 settembre 2016

«Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi.
E la nostra comunione è con il Padre e con il figlio suo, Gesù Cristo.
Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1 Giovanni, 1, 3-4).

1. La comunione ecclesiale nasce direttamente dall’incarnazione del Verbo eterno di Dio, secondo la benevolenza (eudokía) del Padre, per mezzo dello Spirito santo. Cristo, venuto sulla terra, ha fondato la Chiesa come suo corpo (cfr. 1 Corinzi, 12, 12-27). L’unità esistente tra le persone della Trinità si riflette nella comunione (koinonía) dei membri della Chiesa tra loro. Così, come ha affermato san Massimo il Confessore, la Chiesa è un éikon della santissima Trinità[2]. Durante l’ultima cena Gesù Cristo ha pregato il Padre: «Custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi» (Giovanni, 17, 11). Questa unità trinitaria è manifestata nella santa Eucaristia, dove la Chiesa prega Dio Padre per Gesù Cristo nello Spirito santo.

2. Sin dai primordi, la Chiesa una esisteva come molte Chiese locali. La comunione (koinonía) dello Spirito santo (cfr. 2 Corinzi, 13, 13) era vissuta sia in seno a ogni Chiesa locale sia nelle relazioni tra di loro come unità nella diversità. Sotto la guida dello Spirito (cfr. Giovanni, 16, 13) la Chiesa sviluppò modelli d’ordine e pratiche varie, conformemente alla sua natura di «popolo che fonda la sua unità nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo»[3].

3. La sinodalità è una qualità fondamentale della Chiesa nel suo insieme. Come ha detto san Giovanni Crisostomo: «“Chiesa” significa sia assemblea [sýstema] sia sinodo [sýnodos][4]». L’espressione deriva dalla parola “concilio” (sýnodos in greco, concilium in latino), che denota in primo luogo un’assemblea di vescovi, sotto la guida dello Spirito santo, per la deliberazione e l’azione comuni nella cura della Chiesa. In senso lato, si riferisce alla partecipazione attiva di tutti i fedeli alla vita e alla missione della Chiesa.

4. Il termine primato si riferisce all’essere primo (primusprótos). Nella Chiesa il primato appartiene al suo Capo, Gesù Cristo, «principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato [protéuon] su tutte le cose» (Colossesi, 1, 18). La tradizione cristiana mostra chiaramente che, nell’ambito della vita sinodale della Chiesa a vari livelli, un vescovo è stato riconosciuto come il “primo”. Gesù Cristo associa questo essere “primo” con il servizio (diakonía): «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Marco, 9, 35).

5. Nel secondo millennio, la comunione è stata spezzata tra Oriente e Occidente. Sono stati compiuti molti sforzi per ripristinare la comunione tra cattolici e ortodossi, ma senza successo. La Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, nel suo lavoro costante per superare le divergenze teologiche, ha esaminato il rapporto tra sinodalità e primato nella vita della Chiesa. Le diverse comprensioni di queste realtà hanno svolto un ruolo importante nella divisione tra ortodossi e cattolici. Pertanto, è essenziale cercare di giungere a una comprensione comune di queste realtà interrelate, complementari e inscindibili.

6. Al fine di giungere a questa comprensione comune di primato e sinodalità, è necessario riflettere sulla storia. Dio si rivela nella storia. È particolarmente importante compiere insieme una lettura teologica della storia della liturgia della Chiesa, della spiritualità, delle istituzioni e dei canoni, che hanno sempre una dimensione teologica.

7. La storia della Chiesa nel primo millennio è fondamentale. Malgrado alcune fratture temporanee, all’epoca i cristiani d’Oriente e d’Occidente vivevano in comunione e, in quel contesto, furono costituite le strutture essenziali della Chiesa. Il rapporto tra sinodalità e primato assunse diverse forme, che possono offrire agli ortodossi e ai cattolici una guida fondamentale nei loro sforzi per ripristinare oggi la piena comunione.

La Chiesa locale

8. La Chiesa una, santa cattolica e apostolica della quale Cristo è il capo è presente oggi nella sinassi eucaristica di una Chiesa locale sotto il suo vescovo. È lui che presiede (proestós). Nella sinassi liturgica, il vescovo rende visibile la presenza di Gesù Cristo. Nella Chiesa locale (vale a dire nella diocesi), i molti fedeli e il clero sotto l’unico vescovo sono uniti tra di loro in Cristo e sono in comunione con lui in ogni aspetto della vita della Chiesa, specialmente nella celebrazione dell’Eucaristia. Come insegnava sant’Ignazio di Antiochia, «dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c’è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica [katholiké ekklesía][5]». Ogni Chiesa locale celebra in comunione con tutte le altre Chiese locali che confessano la vera fede e celebrano la stessa Eucaristia. Quando un presbitero presiede l’Eucaristia, il vescovo locale viene sempre ricordato in segno di unità della Chiesa locale. Nell’Eucaristia, il proestós e la comunità sono interdipendenti: la comunità non può celebrare l’Eucaristia senza un proestós, e il proestós, a sua volta, deve celebrare con una comunità.

9. Questa interrelazione di proestós o vescovo e comunità è un elemento costitutivo della vita della Chiesa locale. Insieme al clero, che collabora al suo ministero, il vescovo locale agisce in mezzo ai fedeli, che sono il gregge di Cristo, quale garante e servitore dell’unità. Quale successore degli apostoli, egli esercita la sua missione come impegno di servizio e di amore, custodendo la sua comunità e guidandola, come suo capo, verso un’unità sempre più profonda con Cristo nella verità, conservando la fede apostolica attraverso la predicazione del Vangelo e la celebrazione dei sacramenti.

10. Poiché il vescovo è il capo della sua Chiesa locale, egli rappresenta la sua Chiesa dinanzi alle altre Chiese locali e nella comunione di tutte le Chiese. Allo stesso modo rende questa comunione presente nella sua Chiesa. È questo un principio fondamentale di sinodalità.

La comunione regionale delle Chiese

11. Ci sono prove in abbondanza che i vescovi nella Chiesa dei primordi erano consapevoli di avere una responsabilità comune per la Chiesa nel suo insieme. Come ha detto san Cipriano, c’è «un solo episcopato, diffuso in una moltitudine armonica di molti vescovi[6]». Questo vincolo di unità era espresso nel requisito che almeno tre vescovi partecipassero all’ordinazione (cheirotonía) di un nuovo vescovo[7]; era anche evidente negli incontri multipli di vescovi in concili o sinodi per discutere di questioni comuni di dottrina (dógmadidaskalía) e di prassi, nonché nei loro frequenti scambi epistolari e nelle visite reciproche.

12. Già durante i primi quattro secoli si formarono diversi raggruppamenti di diocesi in regioni particolari. Il prótos, il primo tra i vescovi della regione, era il vescovo della prima sede, la metropoli, e il suo ufficio di metropolita era sempre legato alla sua sede. I concili ecumenici attribuirono alcune prerogative (presbéiapronomíadíkaia) al metropolita, sempre nel quadro della sinodalità. Così, il primo concilio ecumenico (Nicea, 325), pur chiedendo a tutti i vescovi di una provincia la loro partecipazione personale o il consenso scritto a una elezione e consacrazione episcopale — atto sinodico per eccellenza — attribuiva al metropolita la convalida (kýros) dell’elezione di un nuovo vescovo[8]. Il quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451) ricordò di nuovo i diritti (díkaia) del metropolita — insistendo sul fatto che questo ufficio fosse ecclesiale e non politico[9] — proprio come il settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787)[10].

13. Il Canone apostolico 34 propone una descrizione canonica della correlazione tra il prótos e gli altri vescovi di ogni regione [éthnos]: «I vescovi di ciascuna nazione debbono riconoscere colui che è il primo [prótos] tra di loro, e considerarlo il loro capo [kephalé], e non fare nulla di importante senza il suo consenso [gnóme]; ciascun vescovo può soltanto fare ciò che riguarda la sua diocesi [paroikía] e i territori che dipendono da essa. Ma il primo [prótos] non può fare nulla senza il consenso di tutti. Poiché in questo modo la concordia [homónoia] prevarrà, e Dio sarà lodato per mezzo del Signore nello Spirito santo»[11].

14. L’istituzione della metropoli è una forma di comunione regionale tra Chiese locali. In seguito si svilupparono altre forme, vale a dire i patriarcati comprendenti diverse metropoli. Sia il metropolita sia il patriarca erano vescovi diocesani con pieni poteri episcopali nelle loro diocesi. Nelle questioni legate alle loro rispettive metropoli o nei patriarcati, però, dovevano agire in accordo con gli altri vescovi. Questo modo di agire è alla radice delle istituzioni sinodiche nel senso stretto del termine, come il sinodo regionale dei vescovi. Questi sinodi venivano convocati e presieduti dal metropolita o dal patriarca. Lui e gli altri vescovi agivano in mutua complementarità ed erano responsabili dinanzi al sinodo.

La Chiesa a livello universale

15. Tra il quarto e il settimo secolo, si iniziò a riconoscere l’ordine (táxis) delle cinque sedi patriarcali, basato sui concili ecumenici e da essi sancito, con la sede di Roma al primo posto, esercitando un primato d’onore (presbéia tes timés), seguita da quella di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, in questo ordine preciso, secondo la tradizione canonica[12].

16. In Occidente, il primato della sede di Roma fu compreso, specialmente a partire dal quarto secolo, con riferimento al ruolo di Pietro tra gli apostoli. Il primato del vescovo di Roma tra i vescovi fu man mano interpretato come una prerogativa che gli apparteneva in quanto era successore di Pietro, primo tra gli apostoli[13]. Questa comprensione non fu adottata in Oriente, che aveva su questo punto un’interpretazione diversa delle Scritture e dei Padri. Il nostro dialogo potrà ritornare su tale questione in futuro.

17. Quando veniva eletto un nuovo patriarca in una delle cinque sedi della táxis, era prassi comune che inviasse una lettera a tutti gli altri patriarchi, annunciando la sua elezione e includendo una professione di fede. Tali “lettere di comunione” erano un’espressione profonda del vincolo canonico di comunione tra i patriarchi. Includendo il nome del nuovo patriarca, secondo il giusto ordine, nei dittici delle loro chiese, letti durante la liturgia, gli altri patriarchi riconoscevano la sua elezione. La táxis delle sedi patriarcali trovava la sua massima espressione nella celebrazione della santa Eucaristia. Ogni volta che due o più patriarchi si riunivano per celebrare l’Eucaristia, si ponevano secondo la táxis. Questa prassi manifestava la natura eucaristica della loro comunione.

18. A partire dal Primo concilio ecumenico (Nicea, 325), le questioni rilevanti riguardanti la fede e l’ordine canonico nella Chiesa furono discusse e risolte dai concili ecumenici. Anche se il vescovo di Roma non partecipò di persona a nessuno di quei concili, ogni volta fu rappresentato dai suoi legati o approvò le conclusioni conciliari post factum. La comprensione della Chiesa dei criteri per la recezione di un concilio come ecumenico si sviluppò nel corso del primo millennio. Per esempio, spinto da circostanze storiche, il settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787) descrisse in modo dettagliato i criteri così come erano intesi allora: la concordia (symphonía) dei capi delle Chiese, la cooperazione (synérgheia) del vescovo di Roma, e l’accordo degli altri patriarchi (symphronúntes). Un concilio ecumenico deve avere il proprio numero appropriato nella sequenza dei concili ecumenici e il suo insegnamento deve essere in sintonia con quello dei concili precedenti[14]. La recezione da parte della Chiesa nel suo insieme è sempre stato l’ultimo criterio dell’ecumenicità di un concilio.

19. Nei secoli sono stati rivolti numerosi appelli al vescovo di Roma, anche dall’Oriente, su questioni disciplinari, come la deposizione di un vescovo. Al sinodo di Sardica (343) fu fatto un tentativo di stabilire regole per questa procedura[15]. Sardica fu recepita al concilio in Trullo (692)[16]. I canoni di Sardica stabilivano che un vescovo che era stato condannato poteva fare appello al vescovo di Roma e che quest’ultimo, se lo riteneva opportuno, poteva ordinare un nuovo processo, che doveva essere svolto dai vescovi nella provincia limitrofa a quella del vescovo stesso. Appelli in materia disciplinare furono rivolti anche alla sede di Costantinopoli[17] e ad altre sedi. Tali appelli alle sedi maggiori furono sempre trattati in modo sinodico. Gli appelli al vescovo di Roma dall’Oriente esprimevano la comunione della Chiesa, ma il vescovo di Roma non esercitava un’autorità canonica sulle Chiese d’Oriente.

Conclusione

20. Per tutto il primo millennio, la Chiesa in Oriente e in Occidente fu unita nel preservare la fede apostolica, mantenere la successione apostolica dei vescovi, sviluppare strutture di sinodalità inscindibilmente legate al primato, e nella comprensione dell’autorità come servizio (diakonía) d’amore. Sebbene l’unità tra Oriente e Occidente sia a volte stata complicata, i vescovi di Oriente e Occidente erano consapevoli di appartenere alla Chiesa una.

21. Questa eredità comune di principi teologici, disposizioni canoniche e pratiche liturgiche del primo millennio rappresenta un punto di riferimento necessario e una potente fonte di ispirazione sia per i cattolici sia per gli ortodossi mentre cercano di curare la ferita della loro divisione all’inizio del terzo millennio. Sulla base di questa eredità comune, entrambi devono riflettere su come il primato, la sinodalità e l’interrelazione che esiste tra loro possono essere concepiti ed esercitati oggi ed in futuro.        

Traduzione dall’originale inglese da L’Osservatore Romano, 7 ottobre 2016.

Commissione internazionale mista per il dialogo teologico

tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa

SINODALITÀ E PRIMATO

NEL SECONDO MILLENNIO FINO AD OGGI [18]

Alessandria, 7 giugno 2023

Introduzione

0.1 A seguito di un attento studio della sinodalità e del primato nel primo millennio, il documento di Chieti afferma che: Fin dai tempi più antichi, l’unica Chiesa esisteva come molte chiese locali. La comunione (koinonia) dello Spirito Santo (cfr. 2Cor 13,13) è stata sperimentata sia all’interno di ciascuna chiesa locale sia nelle relazioni tra di esse come unità nella diversità. Sotto la guida dello Spirito (cfr. Gv 16,13), la Chiesa sviluppò modelli di ordinamento e pratiche diverse in conformità alla sua natura di “popolo portato all’unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”” (Chieti, 2; citando San Cipriano, De orat. dom. 23; PL 4, 536).

0.2 Il legame di unità era evidente nelle “molteplici riunioni dei vescovi in concili o sinodi per discutere in comune questioni di dottrina (dogma, didaskalia) e di pratica” (Chieti, 11). A livello universale, la comunione era favorita dalla cooperazione tra le cinque sedi patriarcali, ordinate secondo una taxis (cfr. Chieti, 15). Nonostante le numerose crisi, l’unità della fede e dell’amore è stata mantenuta attraverso la pratica della sinodalità e del primato (cfr. Chieti, 20).

0.3 Il presente documento considera la travagliata storia del secondo millennio in quattro periodi. Cerca di dare, per quanto possibile, una lettura comune di questa storia e offre agli ortodossi e ai cattolici romani una gradita opportunità di spiegarsi reciprocamente in vari punti del percorso, in modo da favorire la comprensione e la fiducia reciproche che sono prerequisiti essenziali per la riconciliazione all’inizio del terzo millennio. Il documento si conclude traendo insegnamenti dalla storia esaminata.

1. Dal 1054 al Concilio di Firenze (1438-1439)

1.1 All’inizio del secondo millennio, le difficoltà e le divergenze tra Oriente e Occidente furono esacerbate da fattori culturali e politici. Gli atti di scomunica del 1054 aggravarono l’allontanamento tra Oriente e Occidente. Le Chiese d’Oriente e d’Occidente si sforzarono di ristabilire la loro unità. Tuttavia, a seguito delle crociate, e in particolare della conquista di Costantinopoli da parte della quarta crociata (1204), la frattura del 1054 si aggravò tristemente.

1.2 La cosiddetta Riforma gregoriana, dal nome di Papa Gregorio VII (1073-1085), riuscì a porre fine alla nomina sistematica di vescovi e abati da parte del potere secolare. Furono ristabilite le elezioni canoniche, in modo che i capitoli delle cattedrali eleggessero i loro vescovi diocesani e i monasteri il loro abate. Allo stesso tempo, la riforma intendeva combattere gli abusi morali nella Chiesa e nella società occidentale. Questo processo di riforma fu guidato dal papato attraverso i tradizionali sinodi locali romani. Nel frattempo, il potere del papa si estese sempre più alla sfera temporale, dato che Gregorio riuscì persino a deporre l’imperatore Enrico IV. Si accentuò la responsabilità della Sede romana di preservare la Chiesa occidentale da interferenze estranee e abusi interni.

1.3 Di conseguenza, si sviluppò un’ecclesiologia più giuridica. Le “False Decretali” (IX secolo) e la falsa Donazione di Costantino (probabilmente dell’VIII secolo), che furono erroneamente ritenute autentiche, sottolinearono la centralità della figura del Papa nella Chiesa latina. I nuovi ordini mendicanti del XIII secolo, come i francescani e i domenicani, esenti dall’autorità episcopale, promossero una concezione del papato come affidatario della cura pastorale di tutta la Chiesa.

1.4  Dopo la controversia sulle investiture della fine dell’XI e dell’inizio del XII secolo, la Chiesa ingaggiò un’altra grande lotta con i poteri temporali per la direzione del mondo cristiano occidentale. Innocenzo III (1198-1216) consolidò la visione del papa come capo che governa l’intero corpo ecclesiale. Come successore di Pietro, il papa aveva la pienezza del potere (plenitudo potestatis) e la preoccupazione per tutte le Chiese (sollicitudo omnium ecclesiarum). I singoli vescovi erano chiamati a partecipare alla sua sollecitudine (in partem sollicitudinis), prendendosi cura delle proprie diocesi.

1.5  A quel tempo, nonostante lo sviluppo dottrinale del primato romano, la sinodalità era ancora evidente. I papi continuavano a governare la Chiesa latina con il sinodo romano, che riuniva i vescovi della provincia romana e quelli presenti a Roma. Il sinodo si riuniva normalmente due volte l’anno. I problemi venivano affrontati e discussi liberamente da tutti i partecipanti. Il papa, in quanto primus, prendeva la decisione finale. Non ci sono prove che il papa fosse vincolato da un voto, ma non ci sono nemmeno prove che il papa abbia preso una decisione finale contraria al parere del suo sinodo.

1.6  Nel corso del XII secolo, il ruolo del sinodo romano fu gradualmente sostituito dal concistoro, la riunione dei cardinali. I cardinali erano membri del clero romano, sette dei quali erano vescovi delle sedi suburbicarie della provincia di Roma. Il papa consultava regolarmente il concistoro. Con i decreti del 1059 e del 1179, il collegio cardinalizio ottenne il diritto esclusivo di eleggere il papa. Il fatto che i cardinali fossero vescovi suburbicari o dotati di un titolo presbiterale o diaconale romano sottolineava il fatto che la Chiesa di Roma e non qualsiasi altro organismo ha il diritto di eleggere il suo vescovo.

1.7  In Occidente esistevano sinodi provinciali, ma i papi convocavano anche concili generali, come i quattro Concili Lateranensi (1123, 1139, 1179, 1215) che continuarono la riforma della Chiesa in Occidente. La Costituzione 5 del IV Concilio Lateranense (1215) affermava che “la Chiesa romana… per disposizione del Signore ha un primato di potere ordinario su tutte le altre Chiese, in quanto è madre e maestra [mater et magistra] di tutti i fedeli di Cristo”. Lo stesso concilio invitava i greci a “conformarsi come figli obbedienti alla santa Chiesa romana, loro madre, affinché vi sia un solo gregge e un solo pastore” (Cost. 4). Questo appello non fu accolto.

1.8  Questo periodo di predominio papale coincise con le crociate, che inizialmente furono motivate da un appello dell’imperatore bizantino nel suo conflitto con i turchi selgiuchidi, ma che si svilupparono in un violento antagonismo tra latini e greci. A seguito della prima crociata (1095-1099), vennero istituiti un patriarca latino e una gerarchia latina ad Antiochia (1098) e a Gerusalemme (1099), al posto dei patriarcati greci o parallelamente ad essi. La terza crociata (1189-1192) stabilì una gerarchia latina a Cipro (1191) e, contrariamente ai canoni, abolì l’autocefalia della Chiesa di Cipro. I vescovi greci, ridotti da 15 a soli quattro, furono costretti a essere obbedienti alla Chiesa romana e a prestare giuramento ai rispettivi vescovi latini.

1.9 La quarta crociata (1204) portò al saccheggio di Costantinopoli e all’insediamento di gerarchie latine parallele nelle rimanenti antiche sedi della Chiesa greca. Pur avendo scoraggiato i veneziani dal conquistare Costantinopoli, papa Innocenzo III nominò successivamente un patriarca latino sia a Costantinopoli che ad Alessandria. Le decisioni del IV Concilio Lateranense (1215) furono imposte in particolare alle Chiese di Gerusalemme e Cipro. Il principio secondo cui i “greci” potevano mantenere i loro riti liturgici, ma dovevano accettare il vescovo di Roma come loro capo e commemorarlo, fu praticato soprattutto a Cipro (cfr. i sinodi latini di Limassol, 1220, e di Famagosta, 1222, e la Bolla Cypria di Papa Alessandro IV, 1260). In molti casi, il clero greco, considerato ormai come appartenente alla Chiesa latina, fu costretto a partecipare alle azioni liturgiche latine. L’atmosfera peggiorò con l’atteggiamento polemico dei teologi che denunciavano gli usi orientali come “errori dei greci”, o addirittura “errori dei greci scismatici”.

1.10  Nonostante queste prove, in Oriente c’era ancora chi coltivava buone relazioni ecclesiali e lavorava per il ripristino dell’unità. Grandi patriarchi con una profonda comprensione teologica, come Philotheos Kokkinos (1300 ca. – 1379), discepolo di Gregorio Palamas, esaminarono la possibilità di convocare un concilio ecumenico che fornisse una soluzione alle divisioni.

1.11 Durante il secondo millennio in Oriente, l’istituzione conciliare funzionava secondo i principi canonici del Canone Apostolico 34, dove il Patriarca di Costantinopoli come protos e i vescovi presenti a Costantinopoli partecipavano alle sessioni del Sinodo Endemousa. Attraverso il Sinodo di Endemousa, la Chiesa esprimeva una forma di sinodalità permanente in cui i patriarchi d’Oriente, presenti a Costantinopoli, o i loro rappresentanti, e altri vescovi venivano convocati dal Patriarca di Costantinopoli per prendere decisioni sinodali.

1.12 Dopo la restaurazione dell’impero bizantino a Costantinopoli nel 1261, fu possibile ricostruire le relazioni reciproche. Infatti, il Secondo Concilio di Lione (1274) proclamò un atto di unione che conteneva la professione di fede richiesta in precedenza da Papa Clemente IV (1267) e firmata dall’imperatore Michele VIII Palaiologos (nel febbraio 1274), accettando le rivendicazioni latine sulla processione dello Spirito Santo, sul primato papale e su altri punti controversi (ad esempio, il purgatorio, gli azimi). Si affermava che la Chiesa romana aveva “summum plenumque principatum” [il più alto e pieno primato] su tutta la Chiesa e che il successore di Pietro aveva ricevuto “plenam potestatem” [pienezza di potere] per governarla, essendo gli altri vescovi chiamati a condividere la sua sollecitudine. Questa professione fu rifiutata dalla Chiesa di Costantinopoli nel 1285.

1.13 Nel corso del XIV secolo sorse in Oriente la controversia sugli esicasti, provocata da Barlaam, un monaco calabrese. I monaci del Monte Athos delegarono San Gregorio Palamas a rispondere alle sfide di Barlaam. Nel corso del XIV secolo, quattro sinodi a Costantinopoli (1341, 1347, 1351 e 1368) difesero la distinzione tra l’essenza e l’energia increata di Dio, sviluppata da San Gregorio Palamas sulla base di Padri della Chiesa come San Basilio di Cesarea e San Massimo il Confessore. Questi eventi indicano il perdurare della pratica della sinodalità in Oriente.

1.14 Il XIV e il XV secolo furono testimoni di un cambiamento radicale nella sfera politica, che mise fine al predominio temporale papale. Il tentativo di papa Bonifacio VIII (1294-1303) di riaffermare la supremazia papale nell’ordine temporale con la bolla Unam Sanctam (1302) fu violentemente contrastato dal re di Francia, ponendo così fine alla pretesa papale di governare politicamente il mondo. A questo episodio seguì, pochi anni dopo, l’esilio del papato nella città francese di Avignone, dove i papi vissero per settant’anni sotto il controllo della monarchia francese.

1.15 Il caos derivante dall’elezione di due e poi tre papi provocò un profondo trauma nella Chiesa occidentale. Per risolvere la crisi, fu convocato un concilio generale a Costanza (1414-1418). Questo concilio, a cui parteciparono non solo vescovi e abati ma anche rappresentanti di organismi politici, sviluppò nel suo decreto, Haec sancta (1415), la tesi secondo cui la massima autorità nella Chiesa appartiene a un concilio generale, inteso come assemblea di vescovi e poteri secolari, in contraddizione con l’autorità del papa. Questa tesi è nota come “conciliarismo”. Il conciliarismo sovvertiva il ruolo canonico del primate nel sinodo e metteva in pericolo la libertà della Chiesa. Sottolineava la nuova idea che un concilio dovesse “rappresentare” tutte le categorie della società cristiana e che tale concilio, riunendosi ogni dieci anni, con il papa che eseguiva le sue decisioni, avrebbe governato la Chiesa. La prassi ecclesiale della sinodalità veniva così messa in discussione dalla nozione secolare di rappresentanza corporativa, un concetto tratto dal diritto romano secolare che conferiva personalità giuridica agli enti collettivi.

1.16 L’indebolimento dell’autorità papale offrì agli Stati l’opportunità di aumentare il loro controllo sulla Chiesa in Occidente. La sede romana fu costretta a firmare dei concordati che riconoscevano il diritto dei poteri politici di partecipare alla nomina dei vescovi. Tale accordo è esemplificato nella Prammatica Sanzione di Bourges (1438), che avallava il conciliarismo e preparava il terreno per il gallicanesimo (vedi sotto, 2.3). Il conciliarismo fu condannato nel V Concilio Lateranense (1512-1517) e definitivamente escluso dall’insegnamento del Concilio Vaticano I (1869-1870).

1.17 Il concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439) si riunì mentre era ancora in corso l’assemblea conciliarista di Basilea (1431-1449), respinta da papa Eugenio IV (1431-1447). Entrambi i partiti occidentali invitarono l’imperatore e il patriarca di Costantinopoli, ma in accordo con la pentarchia l’imperatore e il patriarca decisero di non andare a Basilea ma a Ferrara e poi a Firenze, dove era presente il papa. È anche vero che, sotto la pressione degli Ottomani e bisognosi di assistenza militare occidentale, l’imperatore e il patriarca riconobbero che il papa era in grado di generare un aiuto occidentale a favore di Costantinopoli. Il concilio affrontò i punti di disaccordo che erano sorti tra le due Chiese, principalmente: il Filioque, l’uso degli azimi per l’Eucaristia, il purgatorio, la visione beatifica dopo la morte e il primato papale. La bolla di unione, Laetentur coeli (1439), con una forte introduzione biblica, elogiava Cristo come capo e pietra angolare della Chiesa riunita.

1.18 L’obiettivo primario delle forti affermazioni di Firenze sul primato papale era il rifiuto della tesi conciliarista di Basilea. Il Concilio procedette con tre affermazioni: “la santa Sede Apostolica [Roma] e il romano pontefice hanno il primato su tutto il mondo”; “lo stesso romano pontefice è il successore del beato Pietro, … il capo di tutta la Chiesa, il padre e il maestro di tutti i cristiani”; “a lui, nella persona del beato Pietro, è stato dato da nostro Signore Gesù Cristo il pieno potere [plenam potestatem] di pascere, reggere  e governare [pascendi, regendi ac gubernandi] tutta la Chiesa”. Queste affermazioni furono accettate dai greci a tre condizioni, che furono inserite nel decreto: a) l’aggiunta della clausola “come è contenuto anche negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni”; b) la menzione delle altre sedi patriarcali della Pentarchia; e c) il mantenimento dei privilegi e dei diritti dei patriarchi (Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, DS, 1307-1308).

1.19 Per quanto riguarda tutte le questioni controverse, il concilio affermò che le differenze nella formulazione dottrinale o nella prassi canonica non intaccavano l’unità della fede. L’unione fu firmata dai greci sotto la pressione delle circostanze e successivamente non fu accolta dalla Chiesa greca. Fu ufficialmente respinta dal Concilio di Costantinopoli nel 1484, con la partecipazione dei quattro patriarcati orientali: Con il presente tomos sinodale annulliamo il concilio convocato a Firenze, la sua definizione [la bolla di unione] e le proposizioni in esso contenute, e dichiariamo con questo tomos che il concilio di Firenze è nullo” (Melloni-Paschalidis, Conciliorum Oecumenicorum Generaliumque Decreta, IV/1, 227).

2. Dalla Riforma al XVIII secolo

2.1 Due importanti novità hanno influenzato il rapporto tra sinodalità e primato nei secoli XVI-XVIII: la Riforma protestante e le unioni stabilite tra Roma e varie Chiese orientali. L’ascesa del protestantesimo portò a contatti con l’Oriente e persino a speranze di unione, almeno nella fase preliminare del loro incontro, anche se divise ulteriormente l’Occidente. La sinodalità era ancora praticata in Oriente in questo periodo difficile e le decisioni di diversi sinodi tenutisi in quel periodo mostrano quali fossero le questioni teologiche che separavano cattolici, ortodossi e protestanti. Il fenomeno delle unioni fu vissuto dagli ortodossi come una ferita e una minaccia, come causa di ulteriori divisioni in Oriente e come una forma di proselitismo.

2.2 Le obiezioni dei Riformatori furono riprese dal Concilio di Trento (1545-1563), che però non diede alcuna definizione di primato. Un consenso sul significato del primato e sui diritti del primate era irraggiungibile; le controtendenze episcopali si dimostrarono troppo forti, soprattutto in Francia. Mentre in alcune parti della Chiesa latina si continuava a praticare l’elezione dei vescovi da parte dei capitoli delle cattedrali, fu prescritto che i sinodi provinciali fossero istituiti e inviassero a Roma una lista di tre nomi, affinché il papa potesse scegliere e nominare i vescovi (sessione XXIV; Decretum de Reformatione, can. 1). Dopo Trento, il papato assunse la guida delle riforme tridentine e la Chiesa cattolica romana divenne sempre più centralizzata per quanto riguarda la dottrina, la liturgia e l’attività missionaria. Il papato fu un punto di riferimento importante nella controversia con il protestantesimo sulla vera fede e, a lungo andare, l’autorità papale fu rafforzata nel periodo post-tridentino. Il papato e l’impegno nei suoi confronti divennero un marcatore dell’identità confessionale cattolica romana contro il protestantesimo. Gli sforzi dei vecchi e dei nuovi ordini religiosi (ad esempio i gesuiti) per la riforma tridentina e per la controriforma nell’educazione umanistica e nella missione accrebbero l’autorità del papato.

2.3 Sinodi provinciali, finalizzati all’attuazione della riforma tridentina, si svolsero in Italia (ad esempio, Milano, 1566), nell’Impero tedesco (ad esempio, Salisburgo, 1569), in Francia (dal 1581) e nel Commonwealth polacco-lituano (Piotrków, 1589). Sotto pressione politica, i vescovi cattolici di molti regni cercarono una maggiore autonomia rispetto al primato papale. Queste tendenze episcopali (ad esempio il gallicanesimo in Francia, il febronianesimo in Germania) continuarono a sostenere il conciliarismo. La Rivoluzione francese portò infine alla caduta dell’Ancien Régime e alla distruzione della Chiesa di Stato, che in ultima analisi rafforzò i legami tra la Chiesa di Francia e Roma, poiché dopo il crollo del vecchio ordine solo il papato aveva l’autorità di riorganizzare la Chiesa (cfr. il Concordato con la Francia del 1801 e il Congresso di Vienna del 1814-1815).

2.4 Il sistema giuridico del Millet assegnava tutti gli ortodossi che vivevano nell’Impero Ottomano, a prescindere dalle considerazioni etniche, al Rum-Millet, dipendente dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli nelle questioni ecclesiastiche e civili. Ciò enfatizzava la posizione centrale di quest’ultimo all’interno della Chiesa ortodossa, nota già dall’ordinamento canonico, e ne accresceva l’importanza nei confronti degli altri antichi patriarcati. Nonostante questa nuova situazione, lo spirito della sinodalità fu comunque conservato. Vennero convocati concili dal patriarca ecumenico per risolvere questioni in modo sinodale, come il Concilio di Costantinopoli (1593), per confermare il titolo di patriarca concesso in precedenza al metropolita di Mosca; il Concilio di Iasi (1642), per giudicare la confessione di fede del metropolita di Kiev, Pietro Mohyla; e i due grandi concili di Costantinopoli (1638 e 1642). Altri sinodi furono convocati a Costantinopoli (1672, 1691) e dal patriarca Dositeo a Gerusalemme (1672), che condannò la Confessione di fede attribuita al patriarca ecumenico Cirillo Lukaris.

2.5 A partire dalla fine del XVI secolo, apparvero opere polemiche di autori sia orientali che occidentali, in particolare sul tema del primato papale. Successivamente, la questione del primato papale è stata affrontata in modo polemico o apologetico nelle decisioni sinodali orientali, nelle confessioni di fede e nei commentari canonici.

2.6 Tra il XVI e il XVIII secolo sono state stabilite diverse unioni tra le Chiese orientali e Roma. Le motivazioni di queste unioni sono sempre state contestate. Non si può escludere un genuino desiderio di unità della Chiesa. Spesso si intrecciano fattori religiosi e politici. Le unioni appaiono spesso come tentativi di fuga da situazioni locali sfavorevoli. Alcuni ruteni all’epoca del Commonwealth polacco-lituano si unirono a Roma al Sinodo di Brest (1596). Altre unioni avvennero in Croazia (1611), Uzhorod (1646), Transilvania (1700-1701) e Serbia (1777). Gli ortodossi di lingua albanese, fuggiti alla fine del XV secolo nell’Italia meridionale dopo la conquista turca, entrarono successivamente in comunione con Roma. Nel 1724, in occasione della vacanza della sede patriarcale di Antiochia, la comunità di Damasco elesse un patriarca filocattolico, che assunse il nome di Cirillo VI e fu riconosciuto dal Papa nel 1729, formando così la Chiesa cattolica melchita. Furono realizzate anche unioni con altre Chiese.

2.7 All’inizio del XVIII secolo, lo zar Pietro I (1689-1725) introdusse riforme in Russia in generale e nella Chiesa. Il patriarcato fu abolito (fino al 1917) e la Chiesa fu governata da un Santo Sinodo sotto la guida di un funzionario statale, l’Oberprokuror. Nel ristrutturare l’amministrazione della Chiesa, Pietro seguì i modelli protestanti. Le strutture sinodali prevalsero, ma sotto una forte influenza dello Stato.

3. Sviluppi del XIX secolo

3.1 Dopo la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche, la situazione della Chiesa cattolica romana in Europa era precaria. I nuovi regimi politici, anche le monarchie restaurate, erano Stati laici che pretendevano di mantenere il controllo della Chiesa, proprio come avevano fatto i regimi precedenti. Un esempio è il concordato francese del 1801. In seguito, per evitare l’ingerenza dello Stato negli affari ecclesiastici, il papato adottò la dottrina della Chiesa come “società perfetta”, vale a dire che la Chiesa era una società indipendente, autonoma e sovrana nella propria sfera di competenza, proprio come lo Stato era sovrano negli affari temporali. La Chiesa sosteneva di essere investita di un sistema giuridico originale, cioè non derivato o conferito dallo Stato.

3.2 La lettera enciclica di Pio IX, In Suprema Petri Apostoli Sede (1848), sottolineava che “la suprema autorità dei Romani Pontefici” era sempre stata riconosciuta in Oriente e invitava gli ortodossi a tornare alla comunione con la Sede di Pietro. I patriarchi ortodossi di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme reagirono ed emisero la loro lettera enciclica patriarcale e sinodale del 1848, in cui, tra le altre questioni, si schieravano contro la supremazia papale.

3.3 Nel 1868, Papa Pio IX pubblicò una lettera per invitare tutti i vescovi ortodossi al Concilio Vaticano I, invito che fu declinato. Il patriarca ecumenico Gregorio VI disse alla delegazione papale che consegnò la lettera che la partecipazione dei vescovi ortodossi al Concilio “significherebbe una ripresa di vecchie dispute teologiche che accentuerebbero il disaccordo e riaprirebbero vecchie ferite”. Per il Patriarca Gregorio, la principale fonte di disaccordo era la natura dell’autorità del Papa.

3.4 Nel XIX secolo, la Chiesa ortodossa si trovò ad affrontare un’esacerbazione del nazionalismo e persino l’intenzione di integrarlo nella struttura dell’organizzazione ecclesiastica. Il Grande Concilio di Costantinopoli del 1872 condannò l’etnofiletismo, in occasione dello scisma bulgaro. Alla dissoluzione dell’Impero ottomano, i movimenti di emancipazione nazionale portarono alla formazione di Stati nazionali nei Balcani. Per esprimere e promuovere l’unità eucaristica della Chiesa in questa nuova situazione, il Patriarcato ecumenico concesse un tomos di autocefalia alle Chiese di Grecia (1850), Serbia (1879) e Romania (1885), secondo la tradizione canonica, e queste Chiese furono incluse nei dittici.

3.5 Il Concilio Vaticano I, tenutosi nel 1869-1870, ha prodotto due documenti: Pastor Aeternus (1870) sulla Chiesa, che definiva il primato e l’infallibilità papale, e Dei Filius (1870) sulla fede cattolica. Sono sorte molte tensioni tra cattolici e ortodossi riguardo all’insegnamento del Concilio sul papato. Occorre sottolineare due punti: in primo luogo, il Vaticano I chiamò la Pastor Aeternus la sua “prima” costituzione dogmatica sulla Chiesa di Cristo, perché era destinata a essere seguita da un’altra, la Tametsi Deus, che trattava in modo più completo dei vescovi e della Chiesa nel suo insieme. Tuttavia, il concilio fu aggiornato a causa dello scoppio della guerra franco-prussiana e la bozza di questo secondo documento non fu mai discussa. Il Concilio lasciò quindi la sua ecclesiologia sbilanciata; il suo insegnamento dogmatico sul papato non fu completato da quello sull’episcopato né contestualizzato da un insegnamento più ampio sulla Chiesa. In secondo luogo, l’insegnamento della Pastor Aeternus era fortemente influenzato dalle circostanze della Chiesa nell’Europa occidentale del XVIII e XIX secolo, dove si era assistito a una rinascita del conciliarismo sotto forma di gallicanesimo e febronianesimo (cfr. sopra, 2.3), che promuoveva l’autonomia delle Chiese nazionali, e a una conseguente tendenza da parte degli Stati a subordinare la Chiesa a loro. L’insegnamento del Concilio sul primato e sulla giurisdizione universale del Papa fu una risposta alla minaccia percepita all’unità e all’indipendenza della Chiesa.

3.6 Sebbene la Pastor Aeternus abbia insegnato che il Papa ha una giurisdizione episcopale ordinaria e immediata su tutta la Chiesa, ha tuttavia sottolineato che la potestà di ciascun vescovo è “affermata, confermata e rivendicata” dal Papa, e ha affermato che il “vincolo di unità” della Chiesa è quello della “comunione e della professione della stessa fede” (DS 3060-3061). Inoltre, la successiva dichiarazione dei vescovi tedeschi del 1875, approvata solennemente da Pio IX, insisteva, contro alcune interpretazioni dell’insegnamento conciliare, che il papato e l’episcopato sono entrambi “di istituzione divina” (DS 3115).

3.7 Per quanto riguarda l’infallibilità, il Concilio non ha definito l’infallibilità personale del Papa, ma la sua capacità, a certe condizioni, di proclamare infallibilmente la fede della Chiesa (DS 3074), e quando ha detto che tali definizioni ex cathedra sono “irreformabili di per sé, non per il consenso della Chiesa [ex sese, non autem ex consensu ecclesiae]” non ha separato il Papa dalla comunione e dalla fede della Chiesa, ma ha dichiarato che tali definizioni non hanno bisogno di ulteriori ratifiche. Si trattava di una risposta specifica al quarto articolo gallicano del 1682, che affermava che il giudizio del papa “non è irreformabile, almeno fino al consenso della Chiesa”.

3.8 Il Vaticano I rafforzò la tendenza prevalente nell’ecclesiologia occidentale dopo il Laterano IV, secondo la quale la Chiesa universale aveva la priorità sulle Chiese locali e possedeva una propria struttura al di sopra di queste ultime. Il papa non era semplicemente il vescovo della Chiesa locale di Roma, ma il pastore di tutta la Chiesa. Il Papa aveva giurisdizione su tutta la Chiesa, mentre i vescovi avevano giurisdizione sul loro gregge particolare.

3.9 L’insegnamento del Vaticano I sul primato papale di giurisdizione e infallibilità fu respinto da alcuni cattolici romani, che in seguito formarono la Chiesa vetero-cattolica. L’insegnamento provocò anche qualche reazione da parte delle Chiese cattoliche orientali, che però alla fine lo accettarono.

3.10 L’insegnamento del Vaticano I sul primato papale di giurisdizione su tutta la Chiesa e sull’infallibilità papale è stato considerato inaccettabile dalla Chiesa ortodossa. Tale ecclesiologia è per gli ortodossi un grave allontanamento dalla tradizione canonica dei Padri e dei Concili ecumenici, perché oscura la cattolicità di ogni Chiesa locale. Sulla scia del Concilio Vaticano I, gli argomenti addotti dagli ortodossi includevano, tra gli altri: che il capo di tutta la Chiesa non è un uomo mortale e peccatore, ma il Dio-uomo senza peccato e immortale Cristo; che San Pietro stesso non era un monarca né un potente, ma il primo tra gli apostoli; che la giurisdizione di ogni patriarca è geograficamente determinata dai sacri canoni, e che nessuno ha giurisdizione sulla Chiesa nel suo complesso. Sulla questione specifica dell’infallibilità, la Chiesa ortodossa riteneva inoltre che l’infallibilità appartenesse alla Chiesa nel suo insieme, come espresso dai concili ricevuti dall’intero popolo di Dio. Bisogna ammettere che questi argomenti sono stati spesso invocati in modo polemico e non in modo storico-critico.

3.11 La lettera apostolica di Papa Leone XIII, Orientalium Dignitas (1894), riconosceva i diritti distinti di tutte le Chiese orientali cattoliche e mostrava un approccio rispettoso nei confronti delle tradizioni orientali. La sua lettera enciclica Praeclara Gratulationis (1895) invitava tutti gli ortodossi all’unione con la Chiesa di Roma a condizione che riconoscessero il primato papale di giurisdizione. Il patriarca ecumenico Anthimus VII e il sinodo riunito intorno a lui scrissero una lettera patriarcale e sinodale nel 1895 per esprimere il loro parere fortemente negativo sull’uniatismo come metodo di proselitismo dei cristiani ortodossi. Rifiutarono anche l’invito di Papa Leone.

4. Il XX e il XXI secolo: Risorsa e avvicinamento

4.1 Nel XX secolo, i movimenti biblici, patristici e liturgici hanno portato a prestare maggiore attenzione all’insegnamento della Bibbia e dei Padri, nonché alla liturgia. Le relazioni cattolico-ortodosse hanno beneficiato di questo comune ritorno alle fonti (ressourcement).

4.2 Il concetto di “sobornost” è stato sviluppato nella Russia del XIX secolo da un gruppo di pensatori ortodossi chiamati slavofili come reazione al Santo Sinodo controllato dallo Stato, istituito dallo zar Pietro I nel 1721 (cfr. 2.7, sopra). Il termine deriva da sobor, che in slavo ecclesiastico significa “riunione” o “assemblea” o “sinodo” ecclesiale. Nel simbolo della fede, la parola greca katholikèn è tradotta in slavo ecclesiastico come sobornuyu. Gli slavofili intendevano con sobornost’ una qualità intrinseca di tutta la Chiesa: la sua cattolicità e la partecipazione di tutti i battezzati alla vita della Chiesa. L’idea della sobornost’ è evidente nella preparazione, nella composizione e nei processi decisionali del Concilio di Mosca (1917-1918), che ha coinvolto tutte le componenti della Chiesa. Sebbene sia stata criticata, in particolare per essere troppo influenzata da un ideale collettivista e per non aver dato il giusto riconoscimento alla gerarchia della Chiesa, la sobornost’ ha avuto un’importante influenza sull’ecclesiologia, sia ortodossa che cattolica, per la sua comprensione più conciliare della Chiesa come comunione (cfr. anche Ravenna, 5).

4.3 Nel XIX secolo, in Occidente, la Scuola di Tubinga ha promosso il concetto di Chiesa come comunione (communio) attraverso il recupero della tradizione patristica. Questa idea esprime la convinzione che la vita della Chiesa viene dall’alto e che la Chiesa è un’icona della Santa Trinità (ecclesia de Trinitate), per grazia dello Spirito Santo. È stata una base per il rinnovamento della riflessione ecclesiologica soprattutto nel XX secolo. In questa comprensione della Chiesa, c’è sia unità che diversità, come nella Santa Trinità, e questo si applica alla Chiesa in vari modi. La Chiesa nel suo insieme è il corpo di Cristo in cui ogni membro è dotato dallo Spirito per il bene del corpo e tutti sono legati dal vincolo dell’amore (cfr. 1Cor 12-13). La comunione dei santi (sancti) avviene attraverso la comunione dei santi doni (sancta) (cfr. 1Cor 10,16-17). Inoltre, l’unica Chiesa assume la forma di una comunione di Chiese locali, in ognuna delle quali è presente l’unica Chiesa universale, in modo tale che vi sia una mutua inabitazione tra il locale e l’universale e tra le stesse Chiese locali.

4.4 Uno dei risultati più importanti del Risorgimento del XX secolo è l'”ecclesiologia eucaristica”, che vede la Chiesa locale riunita attorno al suo vescovo per la celebrazione dell’Eucaristia come una manifestazione di tutta la Chiesa (cfr. Ignazio, Smyrn. 8) e come punto di partenza e fulcro della riflessione ecclesiologica. Il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha insegnato che tale riunione è “la principale manifestazione della Chiesa” (Sacrosanctum Concilium, 41) e che il sacrificio eucaristico è “la fonte e il culmine di tutta la vita cristiana” (Lumen Gentium, 11; cfr. Sacrosanctum Concilium, 10). Il Concilio ha inoltre sottolineato l’importanza della Chiesa locale quando ha affermato che “il vescovo, segnato dalla pienezza del sacramento dell’Ordine, è “l’amministratore della grazia del supremo sacerdozio”, specialmente nell’Eucaristia, che egli offre o fa offrire, e per mezzo della quale la Chiesa vive e cresce continuamente” (Lumen Gentium, 26). Il Santo e Grande Concilio della Chiesa Ortodossa di Creta (2016) ha affermato che “la tradizione degli Apostoli e dei Padri” ha sempre sottolineato “l’indissolubile relazione sia tra l’intero mistero dell’Economia divina in Cristo e il mistero della Chiesa, sia tra il mistero della Chiesa e il mistero della santa Eucaristia, che viene continuamente confermato nella vita sacramentale della Chiesa attraverso l’operazione dello Spirito Santo” (Enciclica, I, 2). Inoltre, affermava che “ogni Chiesa locale, nel momento in cui offre la santa Eucaristia, è presenza e manifestazione locale dell’unica Chiesa santa, cattolica e apostolica” (Messaggio, 1). Questi due importanti concili devono essere attentamente considerati.

4.5 All’inizio del XX secolo, la Chiesa ortodossa si trovava ad affrontare molte sfide – ad esempio, per quanto riguarda le relazioni con gli altri cristiani, il proselitismo, la secolarizzazione e l’etnofiletismo – che portarono il Patriarcato ecumenico a cercare una più stretta collaborazione tra le Chiese ortodosse autocefale. Nel 1902, il Patriarca ecumenico Gioacchino III inviò un’enciclica patriarcale e sinodale alle Chiese ortodosse autocefale chiedendo il loro parere su una serie di argomenti, cercando di promuovere l’unità panortodossa. Le Chiese risposero positivamente. Nel 1920, il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico emanò una lettera enciclica intitolata “Alle Chiese di Cristo ovunque”, in cui si chiedeva una più stretta comunicazione e collaborazione intercristiana. Il Patriarcato ecumenico convocò anche una conferenza panortodossa a Costantinopoli nel 1923 e successivamente organizzò un incontro panortodosso nel monastero di Vatopedi sul Monte Athos (1930), che già elencava i temi da inserire nell’agenda del Santo e Grande Concilio. Questi sforzi furono interrotti soprattutto dalla Seconda guerra mondiale.

4.6 Il Patriarca ecumenico Atenagora convocò conferenze panortodosse (Rodi 1961, 1963 e 1964; Chambésy, Ginevra 1968) che stabilirono l’agenda del Santo e Grande Concilio. A Chambésy si tenne una serie di conferenze preconciliari per preparare i relativi documenti. In questo contesto, quattro Sinassi dei primati delle Chiese ortodosse autocefale (Costantinopoli 2008 e 2014, Chambésy 2016 e Creta 2016) hanno portato alla convocazione del Santo e Grande Concilio da parte del Patriarca ecumenico Bartolomeo con il consenso unanime dei primati delle Chiese ortodosse a Creta dal 19 al 27 giugno 2016. La riunione del Santo e Grande Concilio dimostra che “la Chiesa ortodossa esprime la sua unità e cattolicità “nel Concilio”. La conciliarità [cioè la sinodalità] pervade la sua organizzazione, il modo in cui vengono prese le decisioni e determina il suo cammino” (Messaggio, 1).

4.7 Tra le altre questioni ecclesiologiche, il Concilio Vaticano II trattò la questione di come si intende l’episcopato e di come si relaziona con il ministero papale, che era rimasta aperta al Vaticano I. Il Vaticano II integrò e completò l’insegnamento del Vaticano I, secondo cui il Papa aveva la suprema e piena autorità sulla Chiesa e che in determinate circostanze poteva proclamare infallibilmente la fede della Chiesa, affermando che anche il corpo dei vescovi (“collegio episcopale”), in unione con il suo capo, il Papa, esercita entrambe le prerogative (Lumen Gentium, 22, 25, rispettivamente). In questo modo è stato stabilito un maggiore equilibrio tra i vescovi e il papa. Il Concilio ha riaffermato la responsabilità dei vescovi non solo per le loro Chiese locali, ma per la Chiesa nel suo insieme (Lumen Gentium, 23), e ha sottolineato in particolare il significato di un concilio ecumenico, quando i vescovi agiscono insieme al Papa come “maestri e giudici della fede e dei costumi per la Chiesa universale” (Lumen Gentium, 25). Nel 1965, Papa Paolo VI istituì il Sinodo dei Vescovi come “Consiglio permanente dei vescovi per la Chiesa universale”, rappresentativo di “tutto l’episcopato cattolico”, che avrebbe assistito il Papa con funzione consultiva e propositiva (Lettera Apostolica Sollicitudo).

4.8 Nel gennaio 1964, Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora si incontrarono sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme. Il 7 dicembre 1965, penultimo giorno del Concilio Vaticano II, revocarono i reciproci anatemi del 1054 con una cerimonia simultanea in Vaticano e al Phanar. Nei loro scambi durante gli anni Sessanta, il Patriarca Atenagora e Papa Paolo VI iniziarono a usare la terminologia di “Chiese sorelle” nei confronti della Chiesa di Roma e della Chiesa di Costantinopoli. Il Vaticano II ha riconosciuto che le Chiese orientali “possiedono i veri sacramenti, soprattutto per successione apostolica, il sacerdozio e l’Eucaristia” (Unitatis redintegratio, 15), e ha sollecitato il dialogo con queste Chiese, prestando attenzione alle relazioni che esistevano tra esse e la Sede romana “prima della separazione” (Unitatis redintegratio, 14).

4.9 Nel 1995, Papa Giovanni Paolo II ha detto: “Se coloro che vogliono essere i primi sono chiamati a diventare i servi di tutti, allora il primato dell’amore si vedrà crescere dal coraggio di questa carità. Prego il Signore di ispirare, innanzitutto a me stesso e ai vescovi della Chiesa cattolica, azioni concrete come testimonianza di questa certezza interiore” (Orientale Lumen, 19). Ha anche espresso la disponibilità “a trovare un modo di esercitare il primato che, pur non rinunciando in alcun modo a ciò che è essenziale per la sua missione, sia tuttavia aperto a una nuova situazione”, e ha proposto una discussione, in particolare tra vescovi e teologi romano-cattolici e ortodossi, sull’esercizio del primato “per cercare insieme, naturalmente, le forme in cui questo ministero possa realizzare un servizio d’amore riconosciuto da tutti gli interessati” (Ut Unum Sint, 95). Papa Benedetto XVI e Papa Francesco hanno ripetuto regolarmente questo invito, ed entrambi hanno spesso invocato la descrizione di Sant’Ignazio di Antiochia della Chiesa di Roma come quella “che presiede nell’amore [agape]” (Ad Romanos, Proemium).

4.10 Papa Francesco ha sottolineato che la sinodalità è “un elemento costitutivo della Chiesa”. Il suo desiderio di “una Chiesa interamente sinodale” (Discorso per il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015) incoraggia fortemente la ricerca di una sinodalità più efficace nella Chiesa cattolica romana. Egli ha affermato che “nel dialogo con i nostri fratelli e sorelle ortodossi, noi cattolici abbiamo l’opportunità di conoscere meglio il significato della collegialità episcopale e la loro esperienza di sinodalità” (Lettera enciclica Evangelii Gaudium, 2013, 246).

Conclusione

5.1 Alcune questioni importanti complicano una comprensione autentica della sinodalità e del primato nella Chiesa. La Chiesa non è propriamente intesa come una piramide, con un primate che governa dall’alto, ma nemmeno come una federazione di Chiese autosufficienti. Il nostro studio storico della sinodalità e del primato nel secondo millennio ha mostrato l’inadeguatezza di entrambe queste visioni. Allo stesso modo, è chiaro che per i cattolici romani la sinodalità non è solo consultiva e per gli ortodossi il primato non è solo onorifico. Nel 1979, Papa Giovanni Paolo II e il Patriarca ecumenico Dimitrios dissero: “Il dialogo della carità… ha aperto la strada a una migliore comprensione delle nostre rispettive posizioni teologiche e quindi a nuovi approcci al lavoro teologico e a un nuovo atteggiamento nei confronti del passato comune delle nostre Chiese. Questa purificazione della memoria collettiva delle nostre Chiese è un risultato importante del dialogo della carità e una condizione indispensabile per il progresso futuro” (Dichiarazione congiunta, 30 novembre 1979). Cattolici e ortodossi devono continuare su questa strada per abbracciare un’autentica comprensione della sinodalità e del primato alla luce dei “principi teologici, delle disposizioni canoniche e delle pratiche liturgiche” (Chieti, 21) della Chiesa indivisa del primo millennio.

5.2 Il Concilio Vaticano II ha aperto nuove prospettive interpretando fondamentalmente il mistero della Chiesa come mistero di comunione. Oggi c’è uno sforzo crescente per promuovere la sinodalità a tutti i livelli della Chiesa cattolica romana. C’è anche la volontà di distinguere quello che potrebbe essere definito il ministero patriarcale del Papa all’interno della Chiesa occidentale o latina dal suo servizio primaziale nei confronti della comunione di tutte le Chiese, offrendo nuove opportunità per il futuro. Nella Chiesa ortodossa, la sinodalità e il primato sono praticati a livello panortodosso, secondo la tradizione canonica, attraverso la celebrazione di santi e grandi concili.

5.3 Sinodalità e primato devono essere visti come “realtà interconnesse, complementari e inseparabili” (Chieti, 5) da un punto di vista teologico (Chieti, 4, 17). Le discussioni puramente storiche non sono sufficienti. La Chiesa è profondamente radicata nel mistero della Santa Trinità e un’ecclesiologia eucaristica di comunione è la chiave per articolare una solida teologia della sinodalità e del primato.

5.4 L’interdipendenza tra sinodalità e primato è un principio fondamentale nella vita della Chiesa. È intrinsecamente legata al servizio dell’unità della Chiesa a livello locale, regionale e universale. Tuttavia, i principi devono essere applicati in contesti storici specifici e il primo millennio offre una guida preziosa per l’applicazione del principio appena citato (Chieti, 21). Ciò che si richiede nelle nuove circostanze è una nuova e corretta applicazione dello stesso principio regolatore.

5.5 Nostro Signore ha pregato perché i suoi discepoli “siano tutti una cosa sola” (Gv 17,21). Il principio della sinodalità-primato al servizio dell’unità deve essere invocato per rispondere ai bisogni e alle esigenze della Chiesa nel nostro tempo. Ortodossi e cattolici romani sono impegnati a trovare modi per superare l’alienazione e la separazione che si sono verificate durante il secondo millennio.

5.6 Dopo aver riflettuto insieme sulla storia del secondo millennio, riconosciamo che una lettura comune delle fonti può ispirare la pratica della sinodalità e del primato nel futuro. Osservando il mandato di nostro Signore di amarci gli uni gli altri come lui ci ha amati (Gv 13,34), è nostro dovere cristiano impegnarci per l’unità nella fede e nella vita.

Traduzione: Teandrico.it


[1] http://www.christianunity.va/content/unitacristiani/it/dialoghi/sezione-orientale/chiese-ortodosse-di-tradizione-bizantina/commissione-mista-internazionale-per-il-dialogo-teologico-tra-la/documenti-di-dialogo/2016-sinodalita-e-primato-nel-primo-millennio–verso-una-comune-.html

[2] Cfr. Massimo il Confessore, Mystagogia (pg 91, 663d).

[3] Cipriano, De oratione dominica, 23 (pl 4, 536).

[4] Cfr. Giovanni Crisostomo, Explicatio in psalmum 149 (pg 55, 493).

[5] Sant’Ignazio, Lettera agli smirnesi, VIII.

[6] Cipriano, Epistulae, 55, 24, 2; si veda anche De unitate, 5: episcopatus unus est cuius a singulis in solidum pars tenetur.

[7] Primo concilio ecumenico (Nicea, 325), canone iv: «Si abbia la massima cura che un vescovo sia istituito da tutti i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per sopravvenute difficoltà, o per la distanza, almeno tre, radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima per iscritto il consenso degli assenti, celebrino la consacrazione. La conferma [kýros] di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna provincia al vescovo metropolita». Cfr. anche Canone apostolico, 1: «Un vescovo deve essere consacrato da due o tre vescovi».

[8] Primo concilio ecumenico (Nicea, 325), canone IV; anche canone VI: «Se qualcuno è fatto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba esser vescovo».

[9] Quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451), canone XII: «Quelle città, però, che già avessero ricevuto con lettere imperiali l’onorifico titolo di metropoli godranno del solo onore, così pure il vescovo che governa quella Chiesa, salvi, naturalmente, i privilegi della vera [katà alétheian] metropoli».

[10] Settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787): il canone XI concede ai metropoliti il diritto di nominare gli economi delle loro diocesi suffraganee se i vescovi non provvedono a farlo.

[11] Cfr. concilio di Antiochia (327), canone IX: «È appropriato che i vescovi in ogni provincia [eparchía] sottostiano al vescovo che presiede la metropoli».

[12] Cfr. Primo concilio ecumenico (Nicea, 325), canone VI: «In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi [presbéia]»; Secondo concilio ecumenico (Costantinopoli, 381), canone III: «Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore [presbéia tes timés] dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma»; Quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451), canone XXVIII: «Giustamente i padri concessero privilegi [presbéia] alla sede dell’antica Roma, perché la città era città imperiale. Per lo stesso motivo i centocinquanta vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l’imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell’antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella» (questo canone non fu mai recepito in Occidente); cfr. Concilio in Trullo (692), canone XXXVI: «Rinnovando le disposizioni dei centocinquanta Padri riuniti nella città imperiale protetta da Dio, e quelle dei seicentotrenta che si sono riuniti a Calcedonia, decretiamo che la sede di Costantinopoli abbia uguali privilegi [presbéia] della sede dell’antica Roma, e sia tenuta in alto conto nelle questioni ecclesiali poiché questa sede è e deve essere seconda a essa. Dopo Costantinopoli viene la sede di Alessandria, poi quella di Antiochia e quindi la sede di Gerusalemme».

[13] Cfr. Girolamo, In Isaiam, 14, 53; Leone, Sermo 96, 2-3.

[14] Cfr. Settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787): J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XIII, 208d-209c.

[15] Cfr. sinodo di Sardica (343), canoni III e v.

[16] Cfr. concilio in Trullo, canone II. Similmente, il concilio di Fozio dell’861 accettò i canoni di Sardica come riconoscenti il diritto di cassazione del vescovo di Roma su casi già giudicati a Costantinopoli.

[17] Cfr. Quarto concilio ecumenico (Calcedonia, 451), canoni IX e XVII.

[18] http://www.christianunity.va/content/unitacristiani/en/dialoghi/sezione-orientale/chiese-ortodosse-di-tradizione-bizantina/commissione-mista-internazionale-per-il-dialogo-teologico-tra-la/documenti-di-dialogo/document-d-alexandrie—synodalite-et-primaute-au-deuxieme-mille.html