VITA DI SAN NICODEMO L’UMILE
FONTE: https://www.oodegr.com/tradizione/tradizione_index/vitesanti/nicodemoumile.htm
La Vita di san Nicodemo è nota grazie a un monumentale Menologio, portato a termine nel 1308 per l’uso del Monastero del Salvatore di Messina (Mess. Gr. 30 ff. 245\50). L’agiografo è uno sconosciuto monaco Nilo. Al suo tempo – 13° secolo? – circolavano altre narrazioni su san Nicodemo, ritenute però difettose:
un altro prima di me, avendo voluto fare discorsi sull’argomento, fu riprovato davanti a molti a causa dell’oscurità e della rozzezza del suo parlare, temo di subire anch’io con lui la medesima sorte.
Dobbiamo, tuttavia, rimpiangere la perdita di quei Discorsi: le notizie su san Nicodemo conservate dal monaco Nilo sono alquanto vaghe[1].
Nicodemo nacque nel 10° secolo nella Sicilia continentale,a Sikrò: un villaggio della regione delle Saline (all’incirca, il versante tirrenico della provincia di Reggio Calabria o Piana di Gioia Tauro) non identificato[2]. È stata proposta la località Skrisi presso Palmi o una qualche altra località presso Cinquefrondi: la Vita di sant’Elia il Nuovo, l’ennese, parla di un fiume Sikrò che sembra poter essere lo Xiropotamo o Jeropotamo che scorre in quella zona.
Nicodemo, proteso verso quel pensiero che dice: Convincetevi di vivere sui monti e nelle spelonche, … discese alla Casa del taumaturgo San Fantino il Cavallaio dove, con altri fratelli, praticava vita esicasta un omonimo del santo cavallaio vissuto nel 4° o 5° secolo: quel celebre san Fantino, maestro di grandi asceti, che attorno all’anno Mille si addormentò a Tessalonica. Alla sua scuola Nicodemo mosse i primi passi.
Dopo alcuni giorni, vedendo che quello stava per fare progressi, avendolo spogliato di ogni veste mondana, lo rivestì, come con una corazza, del santo e beato abito e, avendogli coperto il capo con il velo del Salvatore, e avendolo fortificato con lo scudo della speranza, lo rivelò forte soldato di Cristo per affrontare i principi e le potenze di colui che ha il dominio di questo mondo… Era il beato perseverante, e restando con quel santo gheron, combatte la guerra con la carne per moltissimi anni, con digiuni, preghiere e veglie, impegnandosi in sommo grado con l’obbedienza e l’umiltà, abbellendosi con l’amore verso tutti e con infinita dolcezza…
E poiché i discendenti di Agar si levarono e devastavano tutta quella terra, il beato credette che fosse ira di Dio e, allontanatosi da quelli che stavano là, s’inoltrò, fuggendo per monti e spelonche, e si fermò in solitudine, essendo giunto in una regione, in luoghi molto elevati, detta Kellerana, boscosa e molto selvosa, per molti impraticabile, abitata piuttosto dai demoni.
Sulle aspre vette del Kellerana, che separano il versante tirrenico della provincia di Reggio Calabria da quello ionico, il nobile asceta, avendo sopportato combattimenti oltre ogni umana natura, divenne famoso, avendo vinto eserciti di malvagi demoni e, dopo essere stato messo alla prova da costoro in molte cose, li scacciò da sé a guisa di onde come un forte scoglio. Avendo costruito un oratorio sacro all’arcangelo Michele, condottiero degli Incorporei, mente mortale e lingua umana non può dire la vita e l’esistenza, che egli condusse colà per moltissimi anni. Ogni giorno si affaticava non per se stesso, ma per quelli che accorrevano a lui e soddisfaceva il bisogno dei propri discepoli. Dal principio del mattino fino all’ora terza, coperto d’una pelle (secondo le sue abitudini non indossava tunica) impastava tre pani con la farina macinata da lui stesso con le pietre. Egli, però, non solo non gustava assolutamente di questo cibo, ma non mangiò mai neppure altro pane per oltre 50 anni, né bevve vino né assaggiò acqua. Egli aveva il seguente tenore di vita: gettando una certa qualità di castagne in una pentola per i cibi, a sera le gustava, bevendo, al posto dell’acqua, quella brodaglia. In mezzo a questa lunga astinenza, rendeva grazie a Dio, e, se qualche volta riceveva dai pescatori, che venivano da lui, pesci del mare, diceva a se stesso: “Nicodemo, desidera pure di mangiare ciò che io ti ho dato, ma non come vuoi”. Distendendoli, infatti, al sole, li asciugava come un pezzo di legno e li mangiava senza ammollarli.
Vivendo con questa severa educazione del corpo, apparve come un prodigio sopra chi vive nel mondo bassamente… Ogni giorno, fino all’ora terza, recitava la sticologia [del salterio] in luoghi deserti; passata la terza ora, ritornava di nuovo tra i suoi fratelli. Restava alzato tutta la notte, tra infinite prostrazioni, compunzione del cuore, lacrime come fiume dalle cime dei monti, preghiera continua…
Un giorno i suoi discepoli si recarono a dirgli:
“Fastidioso, o padre, é a noi vivere la vita qui, e assolutamente difficile”. Egli rispose: “Avete detto bene, figli; dove volete che io vi trasferisca?” Essi, non avendo compreso che la spirituale obbedienza è del saggio, ritennero che fosse schietto ciò che era stato detto da lui e, fattisi vicini a lui, dissero: “Vi è nelle parti d’Ivukito un tempio sacro alla Theotokos, bellissimo[3]; e la regione è adatta a noi. Se tu lo comandi, ci trasferiremo colà”. Egli non oppose neppure una parola; anzi li incoraggiava, conoscendo ciò che sarebbe successo, poiché era festa del Transito della purissima vergine Madre di Dio. Il celebre uomo sapeva che colà ogni anno si riuniva una moltitudine di popolo e, prima del giorno festivo disse: “Svegliatevi! Andiamo, figli, nel luogo dove proponeste che abitassimo”. Essendosi alzati, seguirono il beato. Quando, però, giunsero e videro la riunione di popolo, come ricordandosi della tranquillità e della beata esistenza di prima, cadendo ai piedi del grande uomo, dissero: “Perdonaci, padre, perché abbiamo soddisfatto un desiderio cattivo per noi stessi e, messici in disaccordo, imprudentemente non abbiamo obbedito alla tua virtù. Ecco, dunque, riportaci là donde noi siamo venuti”.
Vivere arroccati sulle montagne era, all’epoca, anche una garanzia contro le scorrerie dei saraceni.
Mammola, eremo di s. Nicodemo di Kellerana, grotta di s. Fantino
Avendolo catturato, una volta, i caparbi figli di Agar, lo conducevano con sé insieme con altri prigionieri. Giunti in un luogo adatto per il loro riposo, essendo scesi colà, si sdraiarono. Essendosi egli alzato e avendo teso le mani al cielo, elevò al Signore le abituali preghiere. Ma essi, canzonandolo. lo deridevano, dicendo: “Quale vantaggio ti viene da questa preghiera? Non certo prima di cadere nelle nostre mani, hai pregato di non soffrire ciò. Ormai non avrai nessun giovamento”. Ma il Signore salva benevolmente il servo che l’invoca. Mentre insisteva nella preghiera, la potenza divina spinge quelli l’uno contro l’altro a lite e a rissa mortale; e avendo preso il santo dal mezzo di quelli, come una volta prese incolume Daniele dal mezzo dei leoni, lo salvò. Ma come esaltare quel grandissimo miracolo che il meraviglioso uomo compì proprio verso la fine della sua vita mortale? Nove uomini, dalla città di Bisignano [CS] gli Agareni conducevano schiavi in Sicilia. Ed essendo giunti in un certo luogo chiamato Pilio [?], essendo sbarcati, dormivano. Ma i prigionieri fortemente abbattuti dalla fatica delle catene e dal dolore, si rivolgevano a Dio col pensiero, invocandolo di venire in loro aiuto. Ma egli volendo rivelare compiutamente il suo servo, poiché viveva angelicamente, induce questo nella mente di uno di quelli, il quale dice agli altri: “Conosco un tale, fratelli, un monaco esicasta, un santo padre che è taumaturgo ed ardentissimo soccorritore di quelli che si trovano in necessità. Orsù, preghiamolo insieme fiduciosamente. La sua mediazione ci gioverà di fronte a Dio”. Tutti concordemente invocavano dicendo: “Santo di Dio, vieni a sottrarci da questa necessità. cosi l’aiuto dell’invocato li raggiunge rapidamente”.
Nicodemo morì vecchissimo, pare dopo settanta anni di vita monastica, un 12 marzo[4]; forse, all’inizio dell’anno Mille.
Il “monastero” di san Nicodemo sarà stato, inizialmente, nient’altro che una skiti di capanne, attorno alla chiesa dedicata all’arcangelo Michele: che sia stato fondato in Età normanna, se non è uno dei tanti luoghi comuni di cui è zeppa la storia ufficiale dell’Italia Meridionale, lo si dice forse in riferimento a una sua ristrutturazione cenobitica.
Sul Kellerana, sulle montagne che sovrastano Mammola, si scorgono ancora i ruderi del monastero e, da poco, è stato scoperto l’altare dell’antica chiesa. Gli ultimi monaci “greci” l’avevano seppellito con cura, nascosto sottoterra, per impedire che fosse usato come altare latino nella ricostruzione della chiesa (1588) voluta dal cardinale Antonio Carafa.
Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Nicodemo.htm
FONTE: https://www.oodegr.com/tradizione/tradizione_index/vitesanti/nicodemoumile.htm
Immagine: http://it.wikipedia.org/wiki/San_Nicodemo_di_Mammola
[1] Seguiamo, per quanto difettosa, l’edizione di V. Saletta, Vita inedita di san Nicodemo di Calabria, Roma 1964. È introvabile, infatti, l’edizione di M. Arco Magrì, Vita di san Nicodemo di Kellerana, Roma 1969, che potrebbe essere più accurata.
[2] Nel fervore religioso della Controriforma cattolica, san Nicodemo fu spacciato per nativo di Cirò e nominato protettore di quell’importante centro vinicolo in provincia di Crotone. Più solido e antico è, invece, il culto riconosciutogli in territorio di Mammola, un comune alle falde dell’Aspromonte ionico, in territorio di Locri.
[3] Durante la Francocrazia in Sicilia e Grande Grecia, il tempio bellissimo della Madre di Dio è stato raso al suolo; la distruzione è stata così feroce che si ignora persino a quale località corrisponda oggi il toponimo Ivukito (Vucita, in territorio di Gallicianò (un villaggio ellenofono del reggino), ci porterebbe a troppi km di distanza dal Kellerana). Non si dimentichi che Daniele, l’autore materiale del Mess. Gr. 30, è copista di rara eleganza grafica ma, in pratica, incapace di scrivere dieci parole senza almeno dieci errori: particolare abilità dimostra nello storpiare proprio i nomi di località che non conosceva o che, forse, erano già state distrutte sin dai primi giorni dell’invasione normanna.
[4] Gli eruditi locali – ed è un particolare comune a molti altri santi di Sicilia e Grande Grecia – registrano altre date (per esempio, in questo caso, un improbabile 25 marzo), forse da riferire a traslazioni di reliquie.
San Nicodemo del Kellerana esempio di fede, impegno sociale e morale
“Ecologista ante litteram”
di Stefano Scarfò
Visse circa mille anni fa e tra le migliaia di monaci magno – greci, la sua luminosa figura di asceta e di combattente per la fede e la difesa delle classi subalterne, svetta prepotente nella sua epoca storica cosi travagliata, difficile e carica di tragici avvenimenti che determinarono il corso degli eventi e il destino stesso di intere popolazioni. Dice il suo ”BIOS” o “ LOGOS” tradotto dalla lingua bizantina dal generale dei basiliani Apollinare Agresta che, giovanetto, fu accolto nella famosa Eparchia del Mercurion, dove sotto la illuminata guida del monaco S. Fantino il Giovane, assieme all’altro grande Santo di Calabria, Nilo da Rossano, fu educato alle virtù cristiane, prime fra tutte, lo spirito di obbedienza, macerazione della carne e dello spirito e la carità. Si distingueva in modo particolare per i patimenti fisici sull’esempio del Cristo sulla Croce, la continua preghiera protratta oltre i limiti umani, le continue esaltazioni mistiche che suscitavano l’ammirazione dei suoi confratelli. Ma, un giorno, sulla pacifica comunità eremitica, si abbatté l’uragano delle orde saracene che mettevano a ferro e fuoco interi villaggi con particolare accanimento verso le istituzioni monastiche. Nicodemo, cosi come gli altri frati, fu costretto a lasciare quel luogo di preghiere e, mentre il suo confratello Nilo da Rossano e Bartolomeo scelsero di andare verso Roma, nelle cui vicinanze, presso Grottaferrata, avrebbero fondato l’Abbazia, tuttora faro di luce del Basilianesimo, il nostro fraticello Nicodemo volle restare nella sua terra, in mezzo ai suoi corregionali, oltremodo bisognosi di guide spirituali e di personaggi prestigiosi che sapessero assumersi le responsabilità di pastori di anime e di capi coraggiosi per fronteggiare le divisioni e le lacerazioni che minavano la stessa entità etnica delle nostre popolazioni alla ricerca di posti sicuri per sfuggire ai continui assalti barbareschi. Nicodemo, dopo aver a lungo peregrinato tra masse di fuggiaschi, trovò rifugio, non tanto per sottrarsi alle incursioni moresche, quanto per continuare in solitudine la sua ascesi in una montagna veramente aspra, fitta di boschi inaccessibili, luogo di lupi, cinghiali, rettili, proprio nel bel mezzo della natura incontaminata dove sentiva con tutte le creature la presenza di Dio, dove il silenzio assoluto parlava apertamente della presenza dello stesso Creatore. In apparenza, il sito sembrava al di fuori del mondo, però, sul limitare della selva selvaggia, invece, vi scorreva quella famosa strada percorsa dagli antichi locresi che dalla riviera dei Gelsomini, attraversato il fiume “Sagra” si inerpicavano sul passo appenninico della Limina, ieri del Kellerana, per raggiungere la costa Viola, oggi piana di Rosarno, e fondare le loro colonie, Medma l’odierna Rosamo, Hipponium, l’attuale Vibo Valentia. Ben presto, malgrado la naturale riserbatezza dell’eremita, si diffuse la notizia della sua presenza, anche perché molti furono i giovani attratti dal carisma dell’anacoreta che si unirono a lui nella preghiera, senza, peraltro prevedere che moltitudini di fuggiaschi lo cercavano perché si ergesse in difesa degli oppressi e segnasse loro un posto dove vivere in tranquillità senza il continuo assillo di dovere peregrinare come nomadi in cerca di una valle che potesse accoglierli definitivamente.
Nicodemo, di fronte a tanta miseria morale e materiale, capì che oltre alle preghiere, al digiuno prolungato, era più necessario dare aiuto e conforto a chi saliva il monte per implorare protezione. Tra i più devoti frequentatori del monte Kellerana per essere confortati dal santo monaco, erano i fuggiaschi che, una volta scappati dalla marina ionica, si erano stanziati in una valle incassata sotto una lussureggiante e ridente corona di colline, con ai piedi un argenteo ruscello, il Locanus, dalle acque purissime, tutt’intorno prati verdeggianti, pingui pascoli, il posto ideale per gettare le basi per il sorgere di un grosso borgo al riparo dagli attacchi dei musulmani. Questo sito, in origine abitato prevalentemente da pochi, rozzi pastori, grazie alla presenza dei monaci orientali, acquista un’improvvisa importanza e, nello spazio di pochi anni, assurge al rango di importante centro nel quale si sviluppano in modo considerevole le attività artigianali che gli daranno fama fino alla meta di questo morente secolo. Non per niente i monaci, proprio sulla sponda destra del fiume, dirimpetto all’abitato, costruiscono un convento nell’anno 1035, secondo la pergamena scoperta dal prof. Andrea Guillou della Sorbona di Parigi, forse furono loro stessi a dare il nome al nuovo borgo che, essendo rintanato nel fondo valle, quasi nascosto, pudico, lo chiamarono Mammola, perché come questo odoroso fiorellino, sta celato tra la fitta vegetazione. Era naturale, quindi, che i paesani rivolgessero le loro attenzioni al santo monaco e ai suoi discepoli, si creò quei binomio indissolubile che ancora oggi continua e che sin dai primi momenti portò i fedeli, in modo spontaneo, a vedere in Nicodemo il Protettore, il Patrono, prima che la chiesa lo proclamasse beato dopo diversi secoli dalla sua morte. Intanto, quell’umile oratorio eretto dall’umile asceta, si ingrandisce, attorno sorgono le celle per i suoi confratelli, egli, esempio vivente di laboriosità, inizia a dissodare le terre, insegna a chi gli corre incontro che la fame e la carestia si vincono sudando sui campi e producendo quei frutti che il Signore ha messo a disposizione dell’umanità. Inoltre, promuove il rispetto assoluto per la natura, i boschi vanno protetti e difesi, cosi come tutti gli animali che vivono in libertà e ce ne da la prova di questo suo amore per le creature di Dio quando una vipera, sgusciata da una siepe si avventa su uno dei frati intenti a coltivare il campo. Nicodemo si para davanti e blocca il monaco che con la sua zappa stava per accoppare il rettile. “Posati ss’armi e cessati ssa guerra” – recita un’orazione popolare che si perde nella notte dei tempi, che cosi continua: “Ca l’ha crijiata Dio pe stari in terra”. Senza parlare dei cervi salvati e dello stesso lupo affamato che i contadini e i pastori vorrebbero ammazzare, perché considerato belva feroce, mentre lui dimostra, come gli etologi del nostro tempo, che è un animale socievole al quale non bisogna dare una caccia spietata. Dieci secoli prima che l’uomo della civiltà tecnocratica si rendesse conto dell’importanza e della necessita di proteggere gli animali e l’ambiente, un umile anacoreta ci dà una grande lezione di ecologia, di comportamento e di difesa dell’ecosistema. Questo monaco, dopo una vita di stenti, privazioni, ma soprattutto di strenua lotta in difesa dei basilari principi di libertà, muore verso il 990, quasi contemporaneamente a S. Nilo. Secondo quanto narra un altro Nilo, monaco del Kellerana che scrisse la biografia del santo fondatore del monastero intorno al 1040, una moltitudine immensa sali sulla montagna per rendere omaggio all’uomo che aveva saputo ergersi contro i potenti e gli usurpatori in difesa dei deboli e degli affamati. La sua morte segna per il convento da lui fondato un’era di grandezza e il popolo lo proclama Santo e dà inizio a quei pellegrinaggi di fede e devozione per pregare sulla sua tomba che, ancora oggi, continuano incessantemente in particolari momenti dell’anno. Già lo stesso S. Fantino, di passaggio dal Kellerana, dove era andato a fare visita al suo discepolo prima di recarsi in Grecia, aveva pronosticato la santità dell’asceta, tanto lo vide forte nella preghiera, nella sofferenza, maestro delle plebi che con l’avvio al lavoro le aveva sottratte dalla triste condizione di servi della gleba. Il monastero del Kellerana, in seguito, crebbe ancor più in fama e grandezza, le donazioni di beni da parte dei fedeli si susseguivano continuamente per le considerevoli rendite che producevano le terre amministrate. Intanto era cominciata l’opera di latinizzazione da parte della chiesa di Roma e per questo scopo, nel 1082, il Gran Conte Ruggero, con un suo decreto, assoggettò il monastero del Kellerana alla Badia Benedettina della S.S. Trinità di Mileto, da lui stesso fondata. Ma i monaci, forti della loro tradizione magno – greca e dello spirito liberatorio, non si piegarono alla latinizzazione e non riconobbero nemmeno la giurisdizione della S.S. Trinità di Mileto, malgrado le riconferme dei successivi sovrani normanni e le scomuniche papali, cosi come è dimostrato dai documenti greci giacenti nella biblioteca apostolica del Vaticano scoperti e pubblicati da padre Francesco Russo. Il monastero del Kellerana, in sostanza, apparteneva al monachesimo bizantino – orientale e non propriamente basiliano e ognuna di queste entità religiose era autonoma e si reggeva sulle norme dettate dal proprio fondatore, pur avendo dei riferimenti indiretti con le regole di S. Basilio. Forse, a spingere i benedettini, questa é una malignità di qualche storico, a sottomettere il Monastero del Kellerana, non fu tanto l’idea della latinizzazione, quanto la potenza economica acquistata da questo complesso monastico diventata piuttosto considerevole, basti ricordare che nel 1433, la rendita dei beni di S. Nicodemo ammontava a più di 100 ducati d’oro. Fino alla fine del secolo decimo quinto il convento di S. Nicodemo godeva di un grande prestigio morale e spirituale, era continua meta dei visitatori apostolici e di migliaia e migliaia di pellegrini, il Vescovo di Gerace, mons. Atanasio Calkeopulo, lo visita nel 1483 e nella sua relazione scrive che è molto efficiente, le sue fabbriche sono in buono stato di conservazione, i suoi numerosi monaci molto attivi, vi trova un’importante documentazione composta di libri sacri, 70 strumenti, privilegi notarili, pergamene, anche se i più antichi e preziosi diplomi di S. Nicodemo erano stati trasferiti, coercitivamente, dai monaci di Mileto e depositati nei propri archivi e poi, per ordine del Papa che voleva riunificare tutta la grande mole di reperti storici relativi al periodo del monachesimo magno – greco, depositati nel Collegio greco di Roma, ma non tutto il carteggio giunse nella città Eterna, purtroppo, perché buona parte fu preda delle numerose biblioteche italiane e straniere, vedi Venezia, Buxelles, Parigi, qualche platea arrivò persino nella biblioteca di Leningrado. Il Kalkeopulo rileva pure un’intensa attività “scriptoria”, ma lui stesso, forse per assecondare le direttive del cardinale Bessarione, suo grande amico, nel 1485, decide di convertire la sua Diocesi, ultima in ordine di tempo, al rito latino. Fu un duro colpo per le numerose eparchie bizantine ancora esistenti nella Locride, specialmente per i monaci di S. Nicodemo che si videro privati della loro entità storica e spirituale, accettarono il nuovo corso per quello spirito d’obbedienza proprio dell’ordine monastico, ma si trovarono demotivati, tanto é vero che di li a qualche decennio, il glorioso Monastero, fondato nel secolo decimo da S. Nicodemo, fu abbandonato per trasferirsi nella dependance, cioè nella sede più agevole, la Grancia di S. Biagio, nei pressi dell’abitato di Mammola, là dove continuarono la loro opera fino al 1807, anno in cui i francesi, decretarono la chiusura del Convento, la cui struttura muraria, perfettamente conservata, mostra ancora la sua possanza ed anche il grado di sviluppo raggiunto nei suoi secoli di attività. Dopo il declino del monastero del Kellerana, anche l’opera e la figura stessa del monaco Nicodemo andarono scemando, essendosi il suo culto localizzato nella pur ampia Vallata del Torbido e nella cittadina di Ciro’, che gli avrebbe dato i natali. Purtroppo, non ha assunto la notorietà del suo coevo e compagno Nilo da Rossano che si è trovato in una posizione strategicamente più favorevole, lì a Grottaferrata, e che nei confronti dei benedettini di Monte Cassino assunse una posizione molto consona all’opera di latinizzazione. Di poi, l’acquisizione della documentazione storica relativa al monastero del Kellerana e al suo stesso fondatore da parte della Badia di Mileto, non ha certo favorito il diffondersi della fama di santità, carità, azione sociale di Nicodemo. Sembrerebbe una sottile vendetta dei benedettini nei confronti dei monaci del Kellerana che, coraggiosamente, avevano difeso la loro indipendenza e cultura verso chi mirava a togliere l’autonomia e la stessa ragione di essere monaci magno – greci. Malgrado il silenzio di storici ed ecclesiastici, dall’ottocento in poi, il culto di S. Nicodemo si diffonde un po’ dovunque ad opera delle migliaia e migliaia di Mammolesi che raggiungono tutte le parti del mondo coinvolgendo anche molti altri calabresi che vivono la stessa vita di emigrati. Disse, una volta un prete che aveva girato parecchie contrade, dall’Europa all’America del Nord, dall’Argentina all’Australia, se incontrerai un mammolese, sicuramente, nel suo taschino troverai l’immagine del suo Protettore S. Nicodemo.
La sua statua la si può trovare in una chiesa di Montreal, o a Buenos Aires, a New York come a Sidney, le comunità si ritrovano unite per celebrare, cosi come a Mammola, la festa solenne con processione, bande, fuochi d’artificio, riti veramente imponenti che in confronto quelli svolti nella madre patria sono povera cosa. Finalmente anche gli storici si sono svegliati. Infatti, questo umile anacoreta, degno di essere considerato fra i più grandi Santi della Calabria , è stato riscoperto e la sua opera rivalutata in tutta la pienezza del suo valore spirituale e sociale. Illustri personaggi e insigni ricercatori lo stanno esaltando, padre Francesco Russo, uno dei massimi storici della nostra terra, Andree Guillou, emerito professore alla Sorbona di Parigi, Melina Arco Macrì dell’Universita di Messina, il prof. Ferreri e tanti altri ancora, dedicano i loro studi a colui il quale, in un secolo di totale oscurantismo seppe indicare ai suoi monaci e alle genti bruzie la via da seguire per il riscatto dalla miseria e dalla depravazione morale e materiale. Nicodemo del Kellerana di Mammola deve occupare nella storia e nella vita della Calabria la stessa importanza che Egli ebbe mille anni or sono, perché il nostro popolo segue il suo messaggio di amore e di fraternità per la conquista di un futuro di serenità per tutti i suoi figli.
Stefano Scarfò
(L’articolo è apparso su Calabria Letteraria, edita da Rubettino, nr. 4-5-6 (Aprile,Maggio,Giugno)/1999 )