FONTE: https://orsomarsoblues.it/2022/05/mercurion-le-fondazioni-monastiche-di-b-cappelli/
Si è detto e ripetuto che i monaci italo-bizantini quasi per abitudine si rifugiavano in ricoveri assai precari: e perché spesso itineranti per costume di vita e per il continuo timore dei Mussulmani e perché anche in età avanzata preferivano vivere in solitudine. Per queste ragioni fino al consolidamento della dominazione normanna, che pose su nuove basi i cenobi basiliani, i monaci non avrebbero dimostrato alcun interessamento non tanto per decorare, quanto per costruire le loro dimore. Tutto ciò è vero, ma solo in parte; poiché varie notevolissime chiese calabresi e lucane colte ed umili, strettamente connesse con il movimento monastico italo-bizantino, documentano una attività costruttiva e decorativa durante la fase basiliana-bizantina; come, per citare qualche esempio, il gruppo omogeneo delle chiese di S. Luca d’Aspromonte, della Cattolica di Stilo e di S. Marco di Rossano, e poi la basilichetta detta di Sotterra a Paola, le chiese di Sant’Angelo a Monte Raparo in Basilicata e di Pozzolio a S. Severina, nonché varie altre minori.
Ora i grandi monaci che giungevano al Mercurion nella prima metà del secolo decimo trovavano la regione popolata di anacoreti, ma insieme folta di nuove e più progredite forme di vita monastica, cioè le laure e i cenobi che non soltanto sono espressamente menzionati dalla Vita di S. Saba di Collesano quanto devono implicitamente ammettersi e per i paragoni che talvolta vengono istituiti tra la vita eremitica e quella in comune e per il bisogno che spesso alcuni dei monaci più perfetti sentono di isolarsi dai loro fratelli per condurre soli o con qualche compagno un più o meno lungo periodo di intensa meditazione. Abbiamo così, a parte l’elogio di S. Nilo per la vita anacoretica, il ricordo dell’eremo dominante il castello di Mercurio, dove lo stesso si chiudeva, della “fovea” o caverna nei pressi di Avena in cui si ritirava S. Leone-Luca, dall’asceterio montano sul Sinni che serviva agli interiori colloqui di S. Saba nel territorio di Latiniano.
Si che questa stessa coesistenza di vari modi di vita ascetica viene a farci chiaramente conoscere come già nel decimo secolo al più tardi, al Mercurion e nelle vicine zone, oltre le grotte naturali od escavate ed i santuari trogloditici, non dovevano mancare piccole chiese ed abitazioni in muratura per i monaci.
Tutto ciò del resto è anche esplicitamente confermato da varie agiografie, che, per quanto talvolta vaghe, spesso rispecchiano lo stato effettivo delle cose, le quali ci narrano di varie fondazioni monastiche la cui costruzione ha imposto vari anni di lavoro od altri particolari che si riferiscono ad opere murarie: quale, per il primo caso, l’erezione di un monastero ad opera di S. Leone-Luca di Corleone, in un luogo indeterminato della regione mercuriense che costò sette anni di assiduo lavoro e per il secondo altri e più numerosi esempi. Così l’altro cenobio dello stesso S. Leone-Luca nei pressi di Avena che risultò a lavoro compiuto di notevole bellezza o le chiese intitolate a S. Michele ed a S. Stefano, innalzata di pianta la prima e restaurata l’altra dai SS. Saba, Cristoforo e Macario di Collesano sulle rive del Lao, dopo aver prima disboscato e ripulito a fondo i siti prescelti ed intorno ai quali sorsero in un secondo momento le abitazioni dei monaci, oppure il cenobio di S. Lorenzo costruito dallo stesso S. Saba presso un preesistente oratorio nella regione di Latiniano, sulla destra del Sinni nelle vicinanze dell’attuale Episcopia, che fu tutto circondato di mura di protezione così salde che resistettero alla violenza di una di quelle tremende piene che il fiume Sinni suole portare. Ciò senza contare che, non ammettendo costruzioni monastiche nel secolo decimo nel Mercurion e nei tenitori limitrofi, non riusciremo mai a spiegarci esattamente perché S. Fantino, maestro di S. Nilo, nel momento di lasciare la regione mercuriense per il Cilento, nella previsione e nell’orrore delle incursioni mussulmane, piangesse non la sola profanazione, ma anche la distruzione totale e l’incendio delle chiese e dei monasteri e dei libri in questi conservati.
In conseguenza è da presumere che l’aspra regione che vide tante ardue penitenze, macerazioni e preghiere, conservi tra i boschi ed i dirupi delle sue montagne grotte eremitiche e resti degli oratori e dei cenobi sorti nel secolo decimo e nel periodo posteriore, perché la vita religiosa non si spense colà con la partenza di S. Nilo e di S. Saba, ma vi continuò, sebbene rallentata nel suo ritmo.
Questi due grandi santi sembrano inoltre rappresentare i due poli verso cui il Mercurion ad opera del monachesimo italobizantino, che continuò nel medioevo la funzione di mediatore delle correnti orientali ed occidentali già nello stesso luogo venute a contatto nell’antichità classica, si è orientato: sia per il suo rito oscillante tra quello bizantino ed il latino, sia per il diritto romano, longobardo e bizantino che vi fu seguito, sia per il suo dialetto che risente della lingua latina e di quella greca. Si può dire che S. Nilo appartenesse al mondo bizantino, perché tutto il periodo della sua permanenza al Mercurion ha gravitato verso Rossano, dove finalmente è ritornato vivendovi ancora parecchi anni prima di allontanarsene definitivamente e perché anche in terra campana ed in tarda età si proclamava greco. E’ da ritenere che invece S. Saba fosse più imbevuto di idee occidentali e per i vari viaggi compiuti nei territori longobardi dove furono assai richieste ed apprezzate la sua saggezza e la sua esperienza, e per il suo stesso peregrinare per i diversi monasteri bizantini, che a lui facevano capo, siti, o quasi, in terra latina: nella regione di Latiniano, ai margini del Cilento e a Lagonegro.
I pochi documenti di arte che si notavano o rimangono al Mercurion e nelle zone limitrofe naturalmente risentono di questi diversi influssi. Così le forme architettoniche più antiche, che restano però in scarso numero, si volgono al mondo bizantino cui appartengono anche le denominazioni di alcune chiese, come quella distrutta di S. Lucaio presso Avena, che presenta un titolo tra greco e volgare, o la rifatta parrocchiale di Papasidero dedicata a S. Costantino, che è ignoto alla liturgia latina, o le chiese a Laino dedicate a S. Maria La Greca, che nel nome conserva la sua bizantinità, e a S. Teodoro, probabilmente lo Studita, il cui culto, che è documentato anche a Mormanno, fu importato in Calabria dai monaci bizantini; mentre in tutta la vallata del Lao, da Rotonda a Laino e Papasidero, era diffusa la venerazione per la S. Sofia o meglio la Divina Sapienza.
Già gli stessi titoli di queste fondazioni, ora tutte trasformate o scomparse, palesano un originario impianto di tipo orientale: cosa che viene maggiormente avvalorata dal fatto che qualcuna di esse conservava, come S. Maria La Greca di Laino e S. Sofia di Papasidero, pitture bizantine, e qualche altra cela iconografie e forse anche alzati di gusto bizantino sotto le strutture posteriori. Nella parte più alta di Laino infatti, se oramai rimane solo il ricordo di quella chiesa di S. Sofia in cui i rappresentanti dell’Università del Borgo si riunivano a deliberare quasi per essere ispirati dalla Saggezza Divina, in S. Teodoro, posta sul culmine del monte e battuta senza posa dai venti che urlando salgono dalle circostanti e fresche valli, restano, nella disposizione di alcuni muri esterni interrati, tracce di una primitiva costruzione a croce equilatera.
Ma più di queste forme complesse sono numerose le piccole e semplici chiesette generalmente orientate verso levante, che direttamente si collegano alla tradizione bizantina di Calabria e dell’Italia meridionale in genere secondo un tipo che proviene dall’Asia minore e specialmente dalla Cappadocia. Sono umili e disadorne costruzioni usate come luoghi di riunione e di preghiera dei monaci e dagli eremiti viventi nei cenobi e nelle laure vicine, ma che poi si diffusero numerose e nelle campagne e nei centri abitati a più diretto contatto con la fioritura ascetica.
Qualcuna di esse appare condotta secondo una pianta ed un alzato un po’ fuori dal consueto, come quella di S. Caterina all’estremo limite dell’odierno abitato di Mormanno, composta di una piccola aula quasi quadrata, con ingresso laterale e copertura a travate ad uno spiovente, e di un minuscolo santuario leggermente sopraelevato con volta a botte sotto un tetto a due spioventi, secondo una disposizione cioè che, pur ridotta all’essenziale, ricorda la partizione e l’impianto della tanto più nobile chiesa di S. Marco di Rossano e delle altre affini.
Ma il grappo più numeroso è dato da quelle chiesette ad una navatina rettangolare, porta di ingresso su uno dei lati maggiori e santuario terminante con una o tre absidi. Questo tipo di assai mediocri dimensioni era diffuso per tutto l’istmo di comunicazione dalle marine joniche a quelle tirrene, con i vari esemplari ora tutti scomparsi intorno a Castrovillari, con quelli semidiruti di Cassano e di Morano e gli altri esistenti ed in parte rimaneggiati di Rossano. Se ne ritrovano poi nella regione mercuriense e nelle limitrofe con qualche esempio noto, due ancora inediti nei pressi di Policastrello e di Cipollina e sicuramente altri non ancora segnalati. Quelli studiati si distinguono tra loro per talune particolarità di pianta e copertura e l’impiego di materiale diverso. Così, se una semidiruta chiesetta della vecchia Cirella, le cui rovine sembrano lo scenario immane di una fiaba eroica, era forse in origine coperta con volta a botte e presenta una sola abside e strette finestrelle ad arco a tutto sesto in mattoni a vista, rifacendosi ad un tipo di decorazione prettamente bizantina analoga o simile a quanto si nota nella cattedrale vecchia di S. Severina, nella chiesa di S. Giovanni Vecchio di Stilo, nella ex cattedrale di Umbriatico ed altrove, differenti appariscono quelle di Scalea e di Mercurio.
Quest’ultima, ora dedicata a S. Maria innalzandosi proprio là dove erano il castello di Mercurio ed uno dei tanti monasteri che lo circondavano, è fino ad ora l’unica testimonianza visibile di tutto un passato di eroismo spirituale nel cuore del Mercurion. Essa, che era sforata da una serie di finestrine a feritoia in pietra, ha il tetto a travatura a doppio spiovente ed un’ala con copertura più bassa ad uno spiovente, affiancata alla navatina con santuario absidato e circondato da una banchina continua, sì da apparire, a parte le finestrine e la banchina, propria questa di chiese e cripte siciliane, pugliesi e materane, simile alla chiesa dello Spedale di Scalea. Questa però, come quella di S. Caterina di Mormanno, presenta la piccola navata coperta da uno spiovente più alto e disposto in senso contrario a quello dell’ala parallela ed è provvista di tre absidi, di cui le laterali ricavate nello spessore del muro perimetrale.
Si potrebbe credere che queste costruzioni a due navate, se non è meglio parlare di un vano aggiunto per le necessità della chiesa con cui comunica per una apertura, costantemente sita presso il santuario, siano proprie del Mercurion e delle zone marginali. Ma anche per questa iconografia ci troviamo innanzi ad un partito architettonico noto al versante calabrese jonico, dato che essa appare in tutto simile a Rossano: e nella bella e colta chiesa della Panaghia, dove anche il vano minore è absidato, e nell’altra di S. Nicola all’Olivo che, per quanto rimaneggiata, serba particolarità iconografiche ed una finestra in pietra con arco a tutto sesto che sembrano riportarla al periodo bizantino.
(Continua)
Da “MEDIOEVO BIZANTINO NEL MEZZOGIORNO D’ITALIA ”, di Biagio Cappelli – Il Coscile
Foto: Rete