P. Vasily Polyanomerulsky (XVIII sec): Sul nostro santo padre Gregorio del Sinai

Breve biografia

Vasily (ndr Basilio) è uno degli anelli principali della catena della tradizione mistica dell’Ortodossia, che quasi si interruppe nei secoli XVII-XVIII. Tra l’altro il p. Vasily fu l’anziano di Paisius (Velichkovsky), che, a sua volta, divenne il fondatore della tradizione degli starec russi del XIX secolo. Fu grande anche l’influenza di S. Basilio sul monachesimo rumeno.

L’opera di S. Basilio è dedicata al lavoro mentale e alla preghiera di Gesù. Le opere dell’anziano, come sottile maestro di ascetismo e misticismo, furono raccomandate da Teofane il Recluso e Ignazio Bryanchaninov.

Non è molto chiaro chi fosse il padre rispetto alla nazionalità: ucraino o russo? Negli anni ’20 del XVIII secolo, come molti altri monaci, si trasferì in Moldavia: in Russia, allora, il monachesimo era oppresso, e in Polonia l’Ortodossia in quanto tale. In Moldo-Vlachia, attorno al monaco si riunì un circolo di monaci, che costituì la base dell’organizzazione nata da S. Basilio: lo Skete di Poiana-Merului. Nel 1749, l’anziano fu convocato a Bucarest: il suo insegnamento sembrava sospetto a molti. Fu processato dai Patriarchi di Alessandria, Gerusalemme e Antiochia, i quali però non solo non trovarono alcuna eresia, ma raccomandarono a tutti le istruzioni del monaco nell’ascesi e nell’orazione mentale. E il patriarca Silvestro benedì il monaco affinché scrivesse un saggio per spiegare la causa per cui ai monaci è proibito mangiare carne, in relazione al quale S. Basilio si recò al Monte Athos. Nel tempo, il Polyanomerulsky skete diventa uno dei centri spirituali della Moldavia-Vlachia: sotto la guida dell’anziano c’erano 11 sketes e un deserto. A poco a poco, il numero dei monaci rumeni dello skit crebbe e sorse la necessità di adorare nella loro lingua madre. A questo proposito, nel 1764 l’anziano divise il suo monastero in due parti: rumena e slava.

Menzione di Sant’Ignazio Brianchaninov

L’anziano moldavo, lo schemamonaco Vasily, vissuto alla fine del secolo scorso (XVIII sec), espose con particolare soddisfazione la dottrina della preghiera di Gesù nelle sue osservazioni sugli scritti dei monaci Gregorio del Sinai, Esichio di Gerusalemme e Filoteo del Sinai. Lo schemamonaco ha chiamato le sue osservazioni prefazioni. Il titolo è molto corretto! La lettura delle osservazioni prepara alla lettura dei Padri citati, i cui scritti si riferiscono soprattutto a monaci che hanno già compiuto notevoli progressi. Le osservazioni furono pubblicate da Optina Hermitage insieme agli scritti di Paisius Nyametsky, di cui Vasily era mentore, collaboratore e amico.

P. Vasily Polyanomerulsky

Premessa o preludio a coloro che desiderano leggere il libro del nostro santo padre Gregorio del Sinai e non peccare contro il suo significato

Molti, leggendo questo libro sacro di S. Gregorio del Sinai e non conoscendo per esperienza il lavoro intellettivo, peccano contro la sana ragione, pensando che il lavoro intellettivo appartenga solo agli uomini impassibili e santi.

Per questo motivo, mantenendo secondo la tradizione la salmodia, i tropari e i canoni, venerano attraverso questa unica preghiera esteriore. Non capiscono che una tale preghiera cantata ci è stata data dai padri per un certo tempo, a causa della debolezza e dell’infanzia della nostra mente, affinché, imparando a poco a poco, salissimo al livello del lavoro mentale, e non rimanendo nella preghiera del canto fino alla nostra morte. Perché, cosa c’è di più infantile di questo (Gregorio del Sinai , cap. 19), quando noi, dopo aver letto con le nostre labbra la nostra preghiera esteriore, siamo distratti da un’opinione gioiosa, pensando a noi stessi come se stessimo facendo qualcosa di grande, trastullandoci con la quantità e nutrendo in tal modo il fariseo interiore.

Allontanandoci da una tale infermità, veramente infantile, come i bambini dai capezzoli della mamma, i Santi Padri ci mostrano la rozzezza di quest’opera confrontando il canto vocale della lingua con il canto dei pagani. Perché è necessario, dice S. Macario d’Egitto (cap. 6) che il nostro modo di vivere sia angelico e il nostro canto non carnale; non dico pagano. E se ci è permesso cantare con le nostre labbra, è per amore della nostra pigrizia e ignoranza, in modo da essere condotti alla vera preghiera. Qual è il frutto di tale preghiera esterna, S. Simeone il Nuovo Teologo, nella seconda immagine dell’attenzione, dice:

“La seconda forma di attenzione e di preghiera è questa: quando uno raccoglie dentro di sé il proprio intelletto facendolo uscire da tutte le cose sensibili, custodisce i suoi sensi e raccoglie tutti i suoi pensieri perché non errino tra le cose vane di questo mondo e ora esamina i suoi pensieri, ora fa attenzione alle parole della preghiera che dice; in altri momenti se ne va dietro ai pensieri che il diavolo ha fatto prigionieri e che sono stati trascinati verso ciò che è cattivo e vano; in altri momenti, con grande fatica e violenza, ritorna in se stesso, dopo che era stato dominato e vinto da qualche passione.

Poiché costui porta in sé la lotta e la guerra, non può mai stare in pace né trova il tempo per operare le virtù e ricevere la corona della giustizia. Quest’uomo assomiglia a chi fa guerra ai nemici di notte, al buio: costui sente le voci dei nemici e riceve le ferite che infliggono, ma non può vedere chiaramente chi sono, da dove sono venuti, come e perché lo colpiscono, in quanto la tenebra che è nel suo intelletto e la tempesta che ha nei pensieri gli procurano questo danno e non è possibile che allora si liberi dai suoi nemici, i demoni, così che non lo rovinino. L’infelice sopporta la fatica invano perché perde la ricompensa per il fatto che è dominato dalla vanagloria, senza che egli se ne accorga, e gli sembra di essere vigilante. Molte volte per la sua superbia disprezza anche gli altri, li accusa e raccomanda sé stesso, immaginandosi con la sua fantasia di essere degno di divenire pastore delle pecore e di guidare gli altri: assomiglia a quel cieco che si impegna a guidare altri ciechi”.

Come è possibile conservare la mente dai sensi esterni o raccoglierla da quelli che per natura si diffondono e si librano sopra le cose sensuali: la vista, considerando il bello o il brutto; l’udito, suoni piacevoli o sgradevoli; l’odorato, odore fragrante o puzzolente; il gusto, mangiare dolce o amaro; il tatto, toccare cose buone o cose cattive, e così, come foglie al vento, si trema e si ondeggia; ma la mente, che è confusa da tutto ciò e riflette sulle proprie azioni, può mai essere libera dai pensieri di destra e di sinistra? Mai e poi mai.

Se i sensi esterni non possono proteggere la mente dai pensieri, allora, naturalmente, è necessario che la mente fugga dai sensi nell’ora della preghiera verso l’interno del cuore e rimanga sorda e muta da tutti i pensieri. Perché se qualcuno si ritira solo esteriormente dalla vista, dall’udito e dal parlare, riceve un po’ di silenzio dalle passioni e dai pensieri del male, ma in misura molto maggiore gode della pace dai cattivi pensieri quando rimuove la sua mente dai cinque sensi esterni, racchiudendola in una cella interna e naturale o un deserto, per gustare la gioia spirituale che viene dalla preghiera mentale e dall’attenzione sincera.

Come una spada a doppio taglio, ovunque ci rivolgiamo, taglia con la sua affilatura ciò che incontra, così agisce la preghiera di Gesù Cristo, rivolta a volte a pensieri e passioni malvagi, a volte ai peccati o al ricordo della morte, del giudizio e del tormento eterno. Se, invece della preghiera mentale, con la preghiera cantata e i sensi esteriori, con confusione, qualcuno vuole respingere l’attacco del nemico e resistere a qualsiasi passione e pensiero astuto, presto sarà sopraffatto molte volte, a causa dei demoni, vincendo il suo oppositore e di nuovo sottomettendosi volontariamente a lui, come vinto dalla sua resistenza, che lo deride e inclina i suoi pensieri alla vanità e all’orgoglio, chiamandolo maestro e pastore delle pecore.

E sapendo questo, S. Esichio dice: “Ma l’intelletto non può vincere da sé stesso la fantasia che viene dai demoni: non abbia fiducia in questo. Infatti, essendo astuti, fingono anche di lasciarsi vincere e ti fanno lo sgambetto per altra via, attraverso la vanagloria; ma all’invocazione del nome di Gesù non hanno la forza, neppure per un momento, di stare in piedi e ingannarti”. E ancora: “Vedi di non pensare al modo dell’antico Israele ed essere consegnato anche tu ai nemici spirituali. Quello infatti, liberato dagli egiziani da parte del Dio di tutte le cose, immaginò come aiuto per sé un idolo di metallo fuso. E intenderai come idolo di metallo fuso il nostro debole intelletto, il quale invero, finché invoca Gesù Cristo contro gli spiriti maligni, li caccia facilmente, e con scienza esperta travolge le forze invisibili e avverse del nemico. Ma se stoltamente ha completa fiducia in sé stesso, viene precipitato come l’avvoltoio”.

Da quanto è stato detto, la potenza e la misura del lavoro razionale, cioè la preghiera e il canto, sono sufficientemente note. Non pensare, pio lettore, che i Santi Padri, allontanandoci da molti canti esteriori e comandandoci di imparare un lavoro intellettivo, danneggiano i salmi e i canoni. No, non lo fanno, perché tutto questo è consegnato allo Spirito Santo dallo Spirito Santo. Le Chiese, in cui tutte le cerimonie sacre sono guidate dall’ordinazione, e l’intero sacramento della dispensazione del Dio Verbo, anche prima della sua seconda venuta, includono allo stesso tempo la nostra risurrezione. E non c’è nulla di umano nell’ordine della Chiesa, ma tutto è opera della grazia di Dio, che non è aumentata dai nostri meriti e non diminuisce per i nostri peccati. Ma non stiamo parlando dei ranghi della santa Chiesa, ma della regola speciale e dello stile di vita di ciascuno dei monaci, cioè sull’orazione intellettiva, che di solito attrae la grazia dello Spirito Santo attraverso la diligenza e la rettitudine di cuore, e non solo con le parole dei Salmi, al di là dell’attenzione dell’intelletto, cantati solo con le labbra e con la lingua. Come disse l’apostolo: “Voglio dire cinque parole con la mia mente che oscurità con la mia lingua”. Perché si dovrebbe prima purificare la mente e il cuore con queste cinque parole, dicendo incessantemente nel profondo del cuore: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”, e così salire al canto razionale. Perché ad ogni nuovo inizio una persona piena di passioni può agire in modo intelligente, nella vigilanza del suo cuore, per eseguire questa preghiera, ma in nessun modo può cantare, prima di essere purificata dalla preghiera mentale. Pertanto, S. Gregorio del Sinai, dopo aver provato e giudicato la sottigliezza di tutti i santi, e soprattutto dagli scritti e dall’arte spirituale, stabilisce tutti gli sforzi da avere sulla preghiera. Anche S. Simeone, l’arcivescovo di Tessalonica, avendo lo stesso Spirito e dono, comanda e consiglia ai vescovi, ai sacerdoti, ai monaci e a tutti i mondani in ogni momento e ora di pronunciare e respirare questa sacra preghiera, perché non c’è, dice con l’apostolo, arma più forte, sia in cielo che in terra, più grande del nome di Gesù Cristo.

Ti sia noto, buon seguace di questo sacro lavoro mentale, che non solo nel deserto o in un eremo appartato, ma ricercando tra le città, vi erano maestri e numerosi operai di questa opera intellettiva. Ed è degno di sorpresa come Sua Santità il Patriarca Fozio, essendo stato portato al patriarcato da un grado di rango senatorio, non un monaco, abbia imparato questo lavoro intelligente in un posto così alto e ci sia riuscito così tanto che il suo volto brillava, come un secondo Mosè, per la grazia dello Spirito Santo che era in lui; così dice S. Simeone di Tessalonica. E testimonia di lui che ha scritto un libro con un’arte filosofica onnisciente su questa pratica intellettiva. Dice anche che Giovanni Crisostomo, Ignazio e Kallistos, i santissimi patriarchi dello stesso Tsaregrad, hanno scritto i loro libri sullo stesso lavoro interiore. E cos’altro ti manca, lettore amante di Cristo, per mettere da parte ogni dubbio e cominciare ad allenare l’attenzione mentale? Se dici: non ho una vita solitaria, – un esempio per te è Il santo patriarca Kallistos, che ha imparato il lavoro intellettivo nella grande Lavra dell’Athos, mentre prestava servizio come cuoco. Se dubiti di non essere in un profondo deserto, il tuo secondo esempio è il santo Patriarca Fozio, che ha imparato l’arte dell’attenzione sincera stando nel rango patriarcale. Se, con il pretesto dell’obbedienza, ti mostri troppo pigro per iniziare la sobrietà intellettuale, sei soggetto al ridicolo per questo, poiché né il deserto né una vita solitaria portano successo in questo lavoro tanto quanto l’obbedienza nella mente, dice San Gregorio del Sinai. Oppure ti allontani dal lato destro, come se non avessi un insegnante per tale lavoro – il Signore stesso ti comanda di imparare dalle Scritture, dicendo: “Metti alla prova le Scritture e in esse troverai la vita eterna”. Oppure sei portato via dal lato sinistro, imbarazzato, non trovando un posto silenzioso – e in questo Pietro di Damasco ti confuta, dicendo: “in tutto il mondo non ci sono cose, o imprese, o luoghi che potrebbero ostacolarlo”.

Infine, se inventando ancora qualche altra buona scusa, si inciampa nelle ripetute parole di S. Gregorio del Sinai, che parla molto dell’illusione che si verifica in quest’opera, allora questo stesso santo ti corregge dicendo: “Non dovremmo aver paura o dubitare, invocando Dio. Ma se alcuni si sono pervertiti, essendo danneggiati nella mente, allora sappi che hanno sofferto questo per ostinazione e arroganza. Chi cerca Dio in obbedienza, con cautela e umiltà di mente, non sarà mai danneggiato dalla grazia di Cristo. Per chi vive rettamente e vive irreprensibilmente e si allontana dall’autoindulgenza e dall’arroganza, l’intero esercito demoniaco, anche se solleva contro di lui innumerevoli tentazioni, non può fargli del male, come dicono i padri. Coloro che camminano presuntuosamente e arbitrariamente, questi cadono nell’illusione. Ma se alcuni, inciampando nella pietra delle Sacre Scritture, accettano le istruzioni sulla possibilità del prelest[1] per noi come motivo per vietare il lavoro intellettivo, allora sappiano che stanno trasformando “la valle in montagna e la montagna in valle”.. Non per proibire il lavoro intellettivo, ma per metterci in guardia contro l’illusione, i santi Padri ci avvertono sui motivi per cui arriva il prelest.

Allo stesso modo, questo S. Gregorio del Sinai, comandando all’apprendista di non avere paura e di non dubitare della preghiera, fornisce due ragioni per il prelest: presunzione e arroganza. E i santi Padri, volendo tenerci illesi da queste passioni, ci ordinano di investigare la Sacra Scrittura, imparando da essa, considerandosi da fratello a fratello come buoni consiglieri, come dice Pietro di Damasco[2].

Se è impossibile trovare un vecchio abile nei fatti e nelle parole, seguendo l’esempio dei santi Padri, che conosce bene la Scrittura, allora, essendo solo, in silenzio, con tutte le sue forze si dovrebbe cercare di avere una guida spirituale dagli insegnamenti e dalle istruzioni dei santi Padri, informandosi su ogni cosa e virtù. Dovremmo anche preservare questa misura e ordine durante la lettura delle Scritture, e non deviare dal loro insegnamento e istruzione, proprio come alcuni, non conoscendo l’esperienza del lavoro intellettivo e considerandosi dotati del dono della ragione, per tre motivi o argomenti eludono, sarebbe meglio dire, rifiutano di imparare questo lavoro sacro. In primo luogo, credono che quest’opera sia adatta solo agli uomini santi e impassibili, e non a quelli passionali. In secondo luogo, indicano il completo impoverimento di mentori e insegnanti di tale residenza e percorso. In terzo luogo, il prelest che segue tale opera.

La prima di queste ragioni, o argomentazioni, è vana e ingiusta, perché proprio il primo grado per i monaci novizi è quello di diminuire le passioni con intelligente sobrietà e accorata vigilanza, cioè con la preghiera intellettiva, consona al proprio stato. Il secondo è sconsiderato e infondato, perché, in assenza di un mentore e di un maestro, la Scrittura è la nostra maestra, come detto sopra. Il terzo è l’autoinganno, perché quando leggono le Scritture sull’illusione, inciampano con le stesse scritture, discutendone in modo storto. Invece di accettare la Scrittura come monito alla conoscenza dell’illusione, inventano e trovano una ragione per rifuggire dall’opera intellettiva. Proprio come un comandante, avendo ricevuto la notizia che il nemico gli aveva teso un’imboscata lungo la strada, con l’intenzione di sconfiggerlo con astuzia e attacco segreto, non avendo la forza di combatterlo apertamente, lui, essendo imprudente, invece di superare in astuzia il nemico e ottenere la vittoria con un attacco inaspettato al loro segreto agguato, ha paura della paura, dove non c’è paura, e fugge, coprendosi di eterna vergogna davanti al re e ai suoi nobili.

Se avete paura di questo lavoro e di questa formazione per la riverenza e la semplicità del vostro cuore, io ho ancora più paura di voi, ma non sulla base di vuote favole, secondo le quali temere il lupo significa non andare nel bosco. E Dio deve essere temuto, ma non per questo si deve fuggire e rinnegarlo. In effetti, il timore e il tremore, la contrizione e l’umiltà, sono il suggerimento delle Scritture, e il consiglio unanime dei fratelli che richiedono questo lavoro, ma non la fuga e il rifiuto, e ancor meno l’impudenza e l’azione autoimposta. Infatti, colui che è impertinente, si dice, e presuntuoso, correndo verso ciò che è al di sopra della sua dignità e della sua dispensazione, per orgoglio cerca di ottenere prematuramente la vista della preghiera. E ancora: se qualcuno sogna di arrivare in alto, facendosi prendere dal desiderio di Satana piuttosto che dal vero desiderio, costui è opportunamente impigliato da Satana nelle sue reti come suo servo. E perché dovremmo sforzarci di raggiungere un alto grado di eccellenza nell’orazione intelligente e santa, che, secondo Sant’Isacco, una persona tenebrosa è difficilmente in grado di raggiungere?

A noi, passionali e deboli, basta conoscere almeno la traccia della quiete mentale, cioè dell’orazione mentale pratica, con la quale si scacciano dal cuore i sogni del nemico e i pensieri cattivi e che è il vero lavoro dei monaci novizi e passionali, mentre vengono condotti, se Dio vuole, alla preghiera visiva e spirituale.

E non dobbiamo scoraggiarci per il fatto che a pochi è fatto dono della preghiera visiva, perché non c’è ingiustizia in Dio. Non siamo pigri nel seguire la strada che porta a questa santa preghiera, cioè nel resistere agli attaccamenti, alle passioni e ai pensieri cattivi attraverso la preghiera pratica. E così, essendo passati per la via dei santi, siamo anche noi degni della loro sorte, anche se non abbiamo raggiunto la perfezione, dice Sant’Isacco e molti altri santi.

E ancora, è stupefacente e raccapricciante che alcuni che conoscono le Scritture non le mettano alla prova, mentre altri, non conoscendo e non interrogandosi, osino con la mente prestare questa attenzione intelligente e, per di più, dicano che l’attenzione va prestata e la preghiera va fatta nella parte concupiscibile: “Questo, dicono, è l’ambiente del grembo e del cuore. Questa è la prima e autocontraddittoria assurdità. Non solo la preghiera e l’attenzione non devono essere esercitate in questa parte, ma il calore stesso che proviene dalla parte lussuriosa del cuore nell’ora della preghiera non deve essere accettato in nessun caso. Il centro dell’utero, secondo San Teofilatto, è chiamato il cuore stesso, e non è all’ombelico, né in mezzo al seno, ma sotto il capezzolo sinistro ha il suo posto. Perché così sono distribuite le tre potenze dell’anima: la parolaia nelle dita; la feroce, o zelante, nel cuore; la desiderabile nei lombi all’altezza dell’ombelico, dove anche il diavolo ha un ingresso comodo, secondo Giobbe, eccitandolo e infiammandolo, come le sanguisughe e i rospi nel lago palustre, e avendo come cibo e delizia la dolcezza lussuriosa. Per questo Gregorio Sinaitico dice: ” Non è piccolo sforzo raggiungere chiaramente la verità e purificarsi da ciò che è contrario alla grazia. Perché il diavolo – soprattutto con i principianti – suole mostrare il suo inganno con apparenze di verità, camuffando da spirituali le cose cattive: uno al posto di un altro che rappresenta interno dei lombi, trasforma le cose spirituali come vuole, variandole in modo fantastico, producendo in luogo del calore il suo ardore disordinato, in modo da appesantire l’anima con tale illusione e producendo, anziché letizia, gioia irrazionale e dolcezza molle[3]“.

È utile, credo, che l’apprendista sappia che l’ardore, o il calore, viene dai lombi al cuore a volte di propria iniziativa, naturalmente, a prescindere dai pensieri del prodigo. E non si tratta di incantesimi, ma di natura, dice San Callistos il Patriarca. Se qualcuno la prende come una prova della grazia, ma non della natura, allora è certamente illusione. L’asceta non dovrebbe prestare attenzione a tutto questo, ma rifiutarlo. A volte il diavolo, quando mescola il suo ardore con la nostra brama, trascina la mente in pensieri di fornicazione.

E questa è senza dubbio un’illusione. Ma se tutto il corpo si scioglie e la mente rimane pura e impassibile, e come se fosse attaccata, è coperta nel profondo del cuore, iniziando e terminando la preghiera nel cuore, è certamente della grazia, e non dell’illusione. Per alcuni asceti, anche la debolezza del corpo è un notevole ostacolo a questo lavoro sacro: non potendo sopportare nella giusta misura e peso le fatiche e i digiuni soprannaturali che avevano i santi, credono che sia loro impossibile iniziare l’impresa di lavoro mentale oltre a questo. E portando un tale errore alla giusta misura, Basilio Magno insegna così: “La temperanza”, dice, “è determinata da ciascuno secondo la sua forza corporea. E quindi, penso, sia meraviglioso osservare che, avendo pregiudicato la forza corporea con un’astinenza eccessiva, si rende il corpo debole e incapace di buone azioni. Perché si dovrebbe avere un corpo attivo, non minato da alcun eccesso.

Se fosse stato un bene per l’uomo essere un corpo rilassato e giacere come morto, respirando a fatica, allora sicuramente Dio ci avrebbe creati così fin dall’inizio. Se Egli non ci ha creati come tali, allora chi non conserva il bene creato così com’è è in errore. Per questo motivo, si preoccupi di una cosa, cioè se la pigrizia ha trovato posto nella sua anima o se la sobrietà e la diligente ascesa della mente verso Dio si sono in qualche modo indebolite, o se la santificazione spirituale e l’illuminazione dell’anima che ne derivano sono state in qualche modo oscurate. Se la suddetta buona volontà cresce, le passioni corporee non avranno il tempo di sorgere, quando l’anima si esercita nelle vette e il corpo non ha tempo per essere tormentato dalle passioni. Avendo una tale disposizione dell’anima, chi mangia non differisce da chi non mangia: non solo digiuna, ma non mangia sempre e ha rispetto per la cura speciale del corpo, perché una vita moderata non infiamma la lussuria. E Sant’Isacco, in accordo con ciò, disse: “Se si fa in modo che un corpo debole superi le proprie forze, si provoca confusione nell’anima”. E San Giovanni della Scala dice: “Ho visto questo nemico (grembo) riposare – e dare vigore alla mente”. E ancora: “L’ho vista sfinita dal digiuno e produrre effusioni, affinché non confidassimo in noi stessi, ma nel Dio vivente”. Ciò è coerente con la storia, di cui parla San Nikon, secondo cui nella nostra epoca fu trovato nel deserto un vecchio che non aveva visto nessuno per trent’anni e che non aveva mangiato pane, se non qualche radice, e che confessò che per tutto quel tempo era stato posseduto da un demone lussurioso. E i padri ragionarono che non era l’orgoglio o il cibo la causa di tale lotta, ma la circostanza che al vecchio non era stato insegnato a essere mentalmente sobrio e a resistere alle tentazioni nemiche. A questo proposito san Massimo diceva: “Dai al tuo corpo secondo il suo potere e rivolgi tutto il tuo sforzo al lavoro mentale”. E anche San Diado dice: “Il digiuno è lodato da sé stesso, e non da Dio, perché è uno strumento per migliorare la castità di chi lo desidera”. Perciò non conviene agli amministratori della pietà essere arroganti al riguardo, ma nella fede di Dio attendere la fine del nostro pensiero. Infatti, anche i maestri di qualsiasi arte non si vantano del buon fine dell’opera, ma aspettano che l’opera sia compiuta; e questo rivela già la dignità dell’arte.

Se avete questa legge sul mangiare, non mettete tutto il vostro zelo e la vostra speranza nel solo digiuno, ma digiunate nella misura e secondo le vostre forze, sforzandovi di farlo in modo intelligente. E se avete abbastanza forza per mangiare pane e acqua, è bene che mangiate. Si dice: “Gli altri alimenti non rafforzano il corpo quanto il pane e l’acqua”. Ma non pensate di fare delle buone azioni digiunando in questo modo, ma aspettatevi di ottenere la castità con il digiuno. E tale digiuno sarà ragionevole, dice San Doroteo. Se sei debole, ti ordina San Gregorio Sinaita, se vuoi avere la salvezza, mangia un po’ di pane e acqua o vino, o bevi tre o quattro scodelle al giorno, e di qualsiasi altro cibo tu possa avere, parte per parte, non permettendoti la sazietà, in modo che attraverso la partecipazione a tutto tu possa evitare la presunzione e allo stesso tempo non disprezzare le opere molto buone di Dio, ringraziando Dio per tutto. Questo è il ragionamento dei prudenti.

Ma se, dopo aver mangiato tutto l’agnello e bevuto un poco di vino, dubitate della vostra salvezza, è incredulità e infermità di mente. La misura del mangiare senza peccato e secondo Dio è di tre ordini: temperanza, contentezza e sazietà. La temperanza è quando nel processo di alimentazione c’è ancora fame; la contentezza è quando non c’è né fame né peso; la pienezza è quando c’è poco peso. Ma quando c’è la sazietà, la porta è quella della gola, da cui entra la fornicazione. Ma tu, quando consideri queste cose, secondo le tue forze, scegli ciò che è opportuno senza trasgredire ciò che è stabilito; ed è caratteristica dei perfetti, secondo l’apostolo, essere sia sazi che affamati, ed essere potenti in ogni cosa.

Tutto questo, o zelante dell’attenzione, ti viene mostrato dai più autentici nei grandi e santi padri; sia sulla misura della temperanza e del digiuno giudizioso, sia su come eccellere nella consapevolezza.

Fonte: Sobrietà: in 2 volumi / Compilato da Abraham (Reidman). – Ekaterinburg : Casa editrice del monastero femminile di Novo-Tikhvin. / Т. 1. 2009. – 720 с. / Prefazione o introduzione, desiderando leggere il libro del nostro santo padre Gregorio Sinaitico e non peccare contro il suo significato. 310-323 с.

Originale: https://azbyka.ru/otechnik/Vasilij_Poljanomerulskij/predislovie-ili-predputie-zhelayushim-chitat-knigu-svjatogo-ottsa-nashego-grigorija-sinaita-i-ne-pogreshat-protiv-ee-smysla/


[1] Prelest, termine tecnico per inganno demoniaco

[2] Pietro Damasceno: “Ma il Signore, che è perfettissimo ed è la sapienza stessa, ha tagliato la radice. Infatti, non soltanto ha ammonito quelli che lo seguono a non avere né ricchezze né possessi, a imitazione della sua altissima virtù, ma anche a non avere neppure un’anima, cioè volontà o pensiero proprio. Sapendo questo i padri fuggivano il mondo come impedimento alla perfezione, e non solo il mondo, ma anche le volontà: nessuno di loro ha fatto la volontà propria. Al contrario, gli uni si ponevano in una sottomissione corporale, così che a ogni loro pensiero presiedesse il padre spirituale, facendo le veci del Cristo; altri stavano nel deserto fuggendo perfettamente gli uomini, e avevano quale maestro Dio, per il quale vollero sostenere anche la morte volontaria; altri presero la via regale, vivendo cioè come si deve nell’esichia con uno o due fratelli, trattandosi reciprocamente come buoni consiglieri nella ricerca di piacere a Dio. Altri, dopo essere stati soggetti alla tutela di un padre, sono stati collocati a capo di altri fratelli e vivevano come fossero soggetti, custodendo le tradizioni dei loro padri: e tutto andava bene. Ora invece, siccome noi non vogliamo – né quelli che sono soggetti, né quelli che governano – lasciare le volontà proprie, per questo nessuno progredisce”. Filocalia, Gribaudi

[3] Nella Filocalia la citazione continua così: “perché da queste cose si vedano nascere presunzione e boria, si sforzi di nascondersi agli inesperti e di far credere che il suo inganno sia grazia operante. Ma il tempo, l’esperienza e la percezione lo scoprono agli occhi di quelli che non ignorano proprio del tutto la sua astuzia. Poiché il palato, dice la Scrittura, distingue i cibi, cioè il gusto spirituale mostra senza inganno quali siano, con evidenza, tutte queste cose.”




ANTONIO IL GRANDE

ἀββᾶς Ἀντώνιος


Il padre Antonio disse: “Alcuni hanno afflitto il loro corpo con l’ascesi ma non avevano discernimento e quindi si sono allontanati da Dio”.

Disse ancora: «È dal prossimo che ci vengono la vita e la morte. Perché, se guadagniamo il fratello, è Dio che guadagniamo; e se scandalizziamo il fratello, è contro Cristo che pecchiamo» (PJ XVII, 2)

L’uomo veramente ragionevole ha un’unica sollecitudine: credere in
Dio e piacergli in tutto. E a questo – soltanto a questo – formare la sua anima, così da rendersi gradito a Dio, rendendogli grazie per il modo mirabile con cui la sua provvidenza governa tutte le cose, anche gli eventi fortuiti della vita. È infatti fuor di luogo ringraziare per la salute del corpo i medici, anche quando ci somministrano farmaci amari e sgradevoli ed essere invece ingrati nei confronti di Dio per le cose che ci sembrano penose, senza riconoscere che tutto avviene nel modo dovuto, a nostro vantaggio, secondo la sua provvidenza. Filocalia, Vol I, Gribaudi


1. Quando il santo Abba Antonio viveva nel deserto, era assalito da accidenti e da molti pensieri peccaminosi. Diceva a Dio: “Signore, voglio essere salvato, ma questi pensieri non mi lasciano in pace; cosa devo fare nella mia afflizione? Come posso essere salvato?”. Poco dopo, quando si alzò per uscire, Antonio vide un uomo come lui seduto al suo lavoro, che si alzava dal lavoro per pregare, poi si sedeva e intrecciava una corda, poi si alzava di nuovo per pregare. Era un angelo del Signore inviato per correggerlo e rassicurarlo. Sentì l’angelo che gli diceva: “Fai questo e sarai salvato”. A queste parole, Antonio si riempì di gioia e di coraggio. Lo fece e fu salvato.

2.  Quando lo stesso Abba Antonio pensava alla profondità dei giudizi di Dio, chiese: “Signore, come mai alcuni muoiono da giovani e altri si trascinano fino all’estrema vecchiaia? Perché c’è chi è povero e chi è ricco? Perché i malvagi prosperano e i giusti sono nel bisogno?”. Sentì una voce che gli rispondeva: “Antonio, preoccupati di te stesso; queste cose sono secondo il giudizio di Dio, e non è a tuo vantaggio sapere qualcosa su di esse”.

3.  Qualcuno chiese ad Abba Antonio: “Cosa si deve fare per piacere a Dio? L’anziano rispose: “Fai attenzione a quello che ti dico: dovunque tu vada, abbi sempre Dio davanti agli occhi; qualsiasi cosa tu faccia, falla secondo la testimonianza delle Sacre Scritture; in qualunque luogo tu viva, non lasciarlo facilmente. Osserva questi tre precetti e sarai salvato”.

4.  Abba Antonio disse ad Abba Poemen: “Questa è la grande opera di un uomo: assumersi sempre la colpa dei propri peccati davanti a Dio e aspettarsi la tentazione fino all’ultimo respiro”.

5. Disse anche: “Chi non ha sperimentato la tentazione non può entrare nel Regno dei Cieli”. Aggiunse anche: “Senza tentazioni nessuno può essere salvato”.

6. Abba Pambo chiese ad Abba Antonio: “Cosa devo fare?” e l’anziano gli rispose: “Non confidare nella tua propria giustizia e non preoccuparti del passato, ma controlla la tua lingua e il tuo stomaco”

7. Abba Antonio disse: “Ho visto le insidie che il nemico dissemina nel mondo e ho detto gemendo: “Cosa mai può superare tali insidie?”. Poi sentii una voce che mi diceva: “l’Umiltà”.

8.  Disse anche: “Alcuni hanno afflitto il loro corpo con l’ascesi ma non avevano discernimento e quindi si sono allontanati da Dio”.

9.  Se guadagniamo il nostro fratello, abbiamo guadagnato Dio, ma se scandalizziamo il nostro fratello, abbiamo peccato contro Cristo”.

10. Disse anche: “Come i pesci muoiono se restano troppo a lungo fuori dall’acqua, così i monaci che bighellonano fuori dalle loro celle o passano il loro tempo con gli uomini del mondo, perdono l’intensità della pace interiore. Quindi, come un pesce verso il mare, dobbiamo affrettarci a raggiungere la nostra cella, per paura che se ci attardiamo fuori perdiamo la nostra vigilanza interiore”.

11. Disse anche: “Chi vuole vivere in solitudine nel deserto è liberato da tre lotte: quella con l’udito, la parola e la vista; rimane una solo lotta per lui ed è quella con il cuore”.

12. Alcuni fratelli vennero a cercare Abba Antonio per parlargli delle visioni che stavano avendo e per sapere da lui se erano vere o se provenivano dai demoni. Avevano un asino che morì durante il cammino. Quando raggiunsero il luogo dove si trovava il vecchio, egli disse loro, prima che potessero chiedergli qualcosa: “Come mai l’asinello è morto durante il cammino?”. Gli risposero: “Come fai a saperlo, padre?”. Ed egli rispose: “I demoni mi hanno mostrato ciò che è successo”. Allora essi dissero: “Era su questo che eravamo venuti a interrogarti, per paura di essere ingannati, perché abbiamo visioni che spesso si rivelano vere”. Così il vecchio li convinse, con l’esempio dell’asino, che le loro visioni provenivano dai demoni.

13. Un cacciatore nel deserto vide Abba Antonio divertirsi con i fratelli e ne rimase sconvolto. Volendo dimostrargli che a volte era necessario venire incontro ai bisogni dei fratelli, il vecchio gli disse: “Metti una freccia al tuo arco e tendilo”. Così fece. L’anziano disse poi: “Tendilo ancora”, ed egli lo fece. Poi il vecchio disse: “Tendilo ancora”. Ma il cacciatore rispose: “Se piego tanto l’arco, lo spezzo”. Allora il vecchio gli disse: “È così anche per l’opera di Dio. Se tendiamo i fratelli oltre misura, presto si spezzano. A volte è necessario accondiscendere e soddisfare i loro bisogni”. All’udire queste parole, il cacciatore fu colpito dalla compassione e, molto edificato dall’anziano, se ne andò. Quanto ai fratelli, tornarono a casa rafforzati.

14. Abba Antonio sentì parlare di un monaco molto giovane che aveva compiuto un miracolo sulla strada. Vedendo dei vecchi che camminavano con difficoltà lungo la strada, ordinò agli asini selvatici di venire e di portarli fino a quando non avessero raggiunto Abba Antonio. Quelli che erano stati trasportati raccontarono l’accaduto ad Abba Antonio. Egli disse loro: “Questo monaco mi sembra una nave carica di merci, ma non so se raggiungerà il porto. Dopo un po’, Antonio cominciò improvvisamente a piangere, a strapparsi i capelli e a lamentarsi. I suoi discepoli gli dissero: “Perché piangi, padre?” e l’anziano rispose: “È appena caduta una grande colonna della Chiesa (si riferiva al giovane monaco), ma andate da lui e vedete cosa è successo”. Così i discepoli andarono e trovarono il monaco seduto su una stuoia che piangeva per il peccato che aveva commesso. Vedendo i discepoli del vecchio, egli disse: “Dite al vecchio di pregare affinché Dio mi dia solo dieci giorni di tempo e spero di poter fare ammenda”. Ma nel giro di cinque giorni morì.

15. I fratelli lodarono un monaco davanti ad Abba Antonio. Quando il monaco venne a trovarlo, Antonio volle sapere come avrebbe sopportato gli insulti; e vedendo che non li sopportava affatto, gli disse: “Sei come un villaggio magnificamente decorato all’esterno, ma distrutto all’interno dai ladri”.

16. Un fratello disse ad Abba Antonio: “Prega per me”. L’anziano gli disse: “Non avrò pietà di te, né Dio ne avrà, se tu stesso non farai uno sforzo per pregare Dio””.

17. Un giorno vennero a trovare Abba Antonio alcuni anziani. In mezzo a loro c’era Abba Giuseppe. Volendo metterli alla prova, il vecchio propose un testo delle Scritture e, cominciando dal più giovane, chiese loro cosa significasse. Ognuno di loro disse la sua opinione come era in grado di fare. Ma a ciascuno il vecchio disse: “Non hai capito”. Infine disse ad Abba Giuseppe: “Come spiegheresti questo detto?” ed egli rispose: “Non lo so”. Allora Abba Antonio disse: “In effetti, Abba Giuseppe ha trovato la strada, perché ha detto: “Non lo so””.

18. Alcuni fratelli stavano arrivando da Scete per vedere Abba Antonio. Mentre stavano salendo su una barca per andare lì, trovarono un vecchio che voleva andare anche lui. I fratelli non lo conoscevano. Si sedettero sulla barca, occupandosi a turno delle parole dei Padri, della Scrittura e dei loro lavori manuali. Il vecchio, invece, rimase in silenzio. Quando arrivarono a terra scoprirono che anche il vecchio stava andando presso la cella di Abba Antonio. Quando arrivarono Antonio disse loro: “Avete trovato in questo vecchio un buon compagno di viaggio?”. Poi disse al vecchio, “Hai portato con te molti buoni fratelli, padre”. Il vecchio rispose: “Senza dubbio sono buoni, ma non hanno una porta di casa e chiunque voglia può entrare nella stalla e sciogliere l’asino”. Intendeva dire che i fratelli dicevano tutto quello che gli veniva in bocca.

19. I fratelli vennero da Abba Antonio e gli dissero, “Dimmi una parola: come ci salveremo?”. L’anziano disse loro: “Avete ascoltato le Scritture. Questo dovrebbe insegnarvi come fare”. Ma essi dissero: “Vogliamo sentire anche da te, padre”. Allora il vecchio disse loro: “Il Vangelo dice: “Se qualcuno vi percuote su una guancia, porgetegli anche l’altra”. (Mt 5,39) Essi risposero: “Non possiamo farlo”. L’anziano disse: “Se non potete porgere l’altra guancia, permettete almeno che una guancia sia colpita”. Non possiamo fare neanche questo”, dissero. Allora egli disse: “Se non siete in grado di farlo, non restituite male per male”, ed essi risposero: “Non possiamo fare nemmeno questo”. Allora Il vecchio disse al discepolo: “Preparate un po’ di brodo per questi invalidi. Se non potete fare questo o quello, cosa posso fare per voi? Quello di cui avete bisogno sono le preghiere”.

20. Un fratello rinunciò al mondo e donò i suoi beni ai poveri, ma ne trattenne un po’ per le spese personali. Si recò da Abba Antonio. Quando glielo raccontò, il vecchio gli disse: “Se vuoi farti monaco, vai in paese, compra della carne, copriti il corpo nudo e vieni qui così”. Il fratello lo fece e i cani e gli uccelli gli strapparono la carne. Quando tornò, il vecchio gli chiese se avesse seguito il suo consiglio. Gli mostrò il suo corpo ferito e sant’Antonio disse: “Coloro che rinunciano al mondo, ma vogliono tenere qualcosa per sé, vengono lacerati in questo modo dai demoni che fanno loro guerra”.

21. Un giorno accadde che uno dei fratelli del monastero di Abba Elia fu tentato. Scacciato dal monastero, si recò alla montagna dell’Abba Antonio. Il fratello visse vicino a lui per un po’ di tempo e poi Antonio lo rimandò al monastero da cui era stato espulso. Quando i fratelli lo videro, lo scacciarono di nuovo, ed egli tornò da Abba Antonio dicendo: “Padre mio, non mi ricevono”. Allora il vecchio mandò loro un messaggio: “Una barca è naufragata in mare e ha perso il suo carico; con grande difficoltà raggiunse la riva; ma voi volete rigettare in mare ciò che ha trovato un porto sicuro sulla riva”. Quando i fratelli capirono che era stato Abba Antonio a mandare loro il monaco, lo riaccolsero subito.

22. Abba Antonio disse: “Credo che il corpo possieda un movimento naturale, al quale è adattato, ma che non può seguire senza il consenso dell’anima; significa solo che nel corpo c’è un movimento senza passione. C’è un altro movimento, che deriva dal nutrimento e dal riscaldamento del corpo attraverso il mangiare e il bere, che fa sì che il calore del sangue stimoli il corpo a lavorare. Ecco perché l’apostolo ha detto: “Non ubriacatevi di vino, perché questa è dissolutezza”. (Ef 5,18) E nel Vangelo il Signore raccomanda questo ai suoi discepoli: “Fate attenzione a voi stessi perché i vostri cuori non siano oppressi dalla dissipazione e dall’ubriachezza”. (Lc 21,34) Ma c’è ancora un altro movimento che affligge coloro che combattono e che deriva dalle astuzie e dalla gelosia dei demoni. Dovete capire quali sono questi tre movimenti corporei: uno è naturale, l’altro deriva dal troppo mangiare, il terzo è causato dai demoni”.

23. Disse anche: “Dio non permette che questa generazione abbia le stesse lotte e le stesse tentazioni delle generazioni passate, perché ora gli uomini sono più deboli e non possono sopportare tanto”.

24. Ad Abba Antonio fu rivelato, nel suo deserto, che c’era uno che era suo pari nella città. Era un medico di professione e tutto ciò che aveva in più rispetto alle sue necessità lo dava ai poveri e ogni giorno cantava il Trisaghion con gli angeli.

25. Abba Antonio disse: “Sta per arrivare un tempo in cui gli uomini impazziranno e quando vedranno qualcuno che non è pazzo, lo aggrediranno dicendo: pazzo, non sei come noi!”.

26. I fratelli si recarono da Abba Antonio e gli sottoposero un brano del Levitico. L’anziano uscì nel deserto, segretamente seguito da Abba Ammonas che sapeva che questa era la sua consuetudine. Abba Antonio si allontanò molto e si mise a pregare gridando a gran voce: “Dio, manda Mosè a farmi capire questo detto”. Poi si udì una voce che parlava con lui. Abba Ammonas disse che, pur avendo sentito la voce che parlava con lui, non riusciva a capire cosa dicesse.

27. Tre Padri erano soliti andare a trovare il beato Antonio ogni anno e due di loro discutevano con lui dei loro pensieri e della salvezza delle loro anime ma il terzo rimaneva sempre in silenzio e non gli chiedeva nulla. Dopo molto tempo, Abba Antonio gli disse: “Vieni spesso qui a trovarmi, ma non mi chiedi mai nulla”. E l’altro rispose: “Mi basta vederti, Padre”.

28. Raccontano che un certo anziano chiese a Dio di fargli vedere i Padri e li vide tutti, tranne Abba Antonio. Allora chiese alla sua guida: “Dov’è Abba Antonio?”. Egli gli rispose che nel luogo dove si trova Dio, lì si trovava Antonio.

29. Un fratello di un monastero fu accusato ingiustamente di fornicazione, si alzò e andò da Abba Antonio. Anche i fratelli vennero dal monastero per correggerlo e riportarlo indietro. Si misero a dimostrare che aveva fatto questa cosa, ma egli si difese e negò di aver fatto una cosa del genere. Si trovava lì Abba Pafnuzio, detto Kefala, e raccontò loro questa parabola: “Ho visto un uomo sulla riva del fiume sepolto nel fango fino alle ginocchia e alcuni uomini sono venuti a dargli una mano per aiutarlo a uscire, ma lo hanno spinto ancora più dentro fino al collo”. Allora Abba Antonio disse di Abba Pafnuzio: “Ecco un vero uomo, che può prendersi cura delle anime e salvarle”. Tutti i presenti furono colpiti al cuore dalle parole dell’anziano e chiesero perdono al fratello. Quindi, ammoniti dai Padri, riportarono il fratello al monastero.

30. Alcuni dicono di sant’Antonio che era “pneumatoforo”, ma lui non ne parlava mai a motivo degli uomini. Poteva infatti rivelare ciò che accade nel mondo e le cose che stavano per accadere.

31. Un giorno Abba Antonio ricevette una lettera dall’imperatore Costanzo che gli chiedeva di recarsi a Costantinopoli e si domandava se fosse il caso di andare. Così disse ad Abba Paolo, suo discepolo, “Devo andare?” Egli rispose: “Se andrai, sarai chiamato Antonio; ma se rimani qui, sarai chiamato Abba Antonio”.

32. Abba Antonio disse: “Non temo più Dio, ma lo amo. Perché l’amore scaccia il timore”. (Gv 4,18)

33. Disse anche: “Abbiate sempre il timore di Dio davanti agli occhi. Ricordatevi di Colui che dà la morte e la vita. Odiate il mondo e tutto ciò che è in esso. Odiate tutta la pace che viene dalla carne. Rinunciate a questa vita, per essere vivi a Dio. Ricordate ciò che avete promesso a Dio, perché vi sarà richiesto nel giorno del giudizio. Soffrite la fame, la sete, la nudità, siate vigilanti e addolorati; piangete e gemete nel vostro cuore; mettetevi alla prova per vedere se siete degni di Dio; disprezzate la carne, per conservare le vostre anime”.

34. Una volta Abba Antonio andò a trovare Abba Amoun sul Monte Nitria e quando si incontrarono, Abba Amoun disse: “Grazie alle tue preghiere, il numero dei fratelli aumenta e alcuni di loro vogliono costruire altre celle dove vivere in pace. Quanto lontano da qui pensi che dovremmo costruire le celle?”. Abba Antonio disse: “Mangiamo all’ora nona e poi usciamo a camminare nel deserto per esplorare il paese”. Così uscirono nel deserto e camminarono fino al tramonto e poi Abba Antonio disse: “Preghiamo e piantiamo la croce qui, in modo che chi vuole farlo possa costruirci. Così quando quelli che restano vorranno visitare quelli che sono venuti qui, potranno prendere un po’ di cibo all’ora nona e raggiungerli. Se faranno così, potranno tenersi in contatto gli uni con gli altri senza distrazioni mentali”. La distanza è di dodici miglia.

35. Abba Antonio disse: “Chi martella un pezzo di ferro, prima decide cosa ne farà, una falce, una spada o un’ascia. Anche noi dobbiamo decidere che tipo di virtù vogliamo forgiare, altrimenti lavoriamo invano”.

36. Disse anche: “L’obbedienza con l’astinenza dà agli uomini di ammansire le bestie selvatiche”.

37. Disse anche: “Alcuni monaci dopo molte fatiche si sono allontanati e sono stati ossessionati dall’orgoglio spirituale, perché hanno riposto la loro fiducia nelle proprie opere e, ingannati, non hanno prestato la dovuta attenzione al comandamento che dice: “Chiedi al tuo padre ed egli ti dirà”. (Dt 32,7)

38. E disse questo: “Se è possibile, un monaco deve confidare nei suoi anziani per quanti passi deve fare e quante gocce d’acqua bere nella sua cella; nel caso contrario cade facilmente in errore”.




POEMEN

Il padre Poemen ha detto: «Il segno da cui si riconosce il monaco appare nelle tentazioni» (PJ VII, 13)


Disse anche: «Come la guardia del corpo dell’imperatore gli è sempre accanto pronta, così l’anima deve essere pronta di fronte al demone della fornicazione».

Un fratello interrogò il padre Poemen: «Ho commesso un grave peccato e voglio fare penitenza per tre anni». «È molto», gli dice l’anziano. «Per un anno?», chiese il fratello. «È molto», disse l’anziano. Quelli che erano presenti dissero: «Per quaranta giorni?». «È molto», ripeté. E poi: «Io dico che se l’uomo si pente con tutto il cuore e non ritorna a commettere il peccato, anche in tre giorni il Signore lo accoglie» (325ab; PJ X, 40).

Il padre Isaia interrogò il padre Poemen sui pensieri turpi. Il padre Poemen gli rispose: «È come un cassettone pieno di vestiti; se si lasciano lì, col tempo marciscono. Così i pensieri: se non li traduciamo in atti del corpo, col tempo svaniscono ovvero marciscono»
(328a; PJ X, 42).


Quando era giovane, il padre Poemen andò un giorno da un anziano, per sottoporgli tre pensieri. Giunto che fu dall’anziano, ne aveva dimenticato uno. Ritornò nella sua cella e, nel porre la mano sulla chiave per aprire, si ricordò della domanda che aveva dimenticato.
Lasciò la chiave nella toppa e ritornò dall’anziano; e questi gli disse: «Hai fatto presto a venire, fratello!». Ed egli gli raccontò: «Nel muovere la mano per prendere la chiave, mi sono ricordato del pensiero che cercavo; per questo non ho aperto e sono ritornato. Ma la strada era molto lunga». L’anziano gli disse: «Pastore di greggi; e il tuo nome sarà rinomato in tutto l’Egitto»

Prima che arrivasse il gruppo del padre Poemen, vi era in Egitto un anziano molto rinomato e stimato. Quando il padre Poemen e i suoi salirono da Scete, la gente lo abbandonò e andò dal padre Poemen. Il vecchio ne era invidioso e parlava male di loro. Il padre Poemen lo seppe, si rattristò e disse ai suoi fratelli: «Che facciamo con questo grande anziano? La gente ci ha messo in una situazione penosa, lasciando lui e venendo da noi che non siamo nulla. Come possiamo guarire quell’anziano?». Disse poi: «Preparate qualcosa da mangiare, prendete un otre di vino, e andiamo da lui per mangiare insieme. Forse in questo modo potremo farlo guarire». Presero il cibo e partirono. Quando bussarono alla porta, il suo discepolo chiese: «Chi siete?». Dissero: «Di’ al padre: – C’è Poemen che vuole essere benedetto da te!». Ma quando il discepolo glielo riferì, l’anziano gli fece dire: «Vattene, non ho tempo!». Ma essi rimasero nella grande arsura, dicendo: «Non ce ne andremo finché l’anziano non ci avrà degnati di vederlo». L’anziano allora, alla vista della sua umiltà e della sua pazienza, preso da compunzione, aprì loro. Entrati, mangiarono con lui. Mentre mangiavano, disse: «In verità, non vi è solo ciò che ho udito di voi, ma quel che io vedo nelle vostre azioni è cento volte di più». E da quel giorno divenne loro amico.

Un presbitero di Pelusio sentì dire di alcuni fratelli: «Spesso sono in città, frequentano i bagni e si corrompono». Quando venne al raduno dei fratelli tolse loro l’abito monastico. E dopo questo il suo cuore lo colpì ed egli fu preso da pentimento; stravolto dai suoi pensieri, come ubriaco, venne dal padre Poemen portando anche gli abiti dei fratelli, e raccontò all’anziano la cosa. E l’anziano gli dice: «Non hai tu nulla dell’uomo vecchio? Svestilo!». Il presbitero disse: «Ho parte con l’uomo vecchio!». E l’anziano a lui: «Dunque tu pure sei come i fratelli; anche se hai solo un po’ dell’uomo vecchio, tuttavia soggiaci al peccato». Il presbitero allora, andatosene, chiamò i fratelli; e, dopo aver chiesto perdono agli undici, li rivestì dell’abito monastico e li congedò (324d-325a).

Il padre Anub interrogò il padre Poemen sui pensieri impuri che il cuore dell’uomo genera, e sui desideri vani. Il padre Poemen rispose: «Forse che la scure si vanta senza colui che con essa taglia? Anche tu non dar loro posto, e non perdere in essi le tue forze; e saranno inefficaci» (325c; PJ X, 41).

Il padre Poemen disse ancora: «Se non fosse venuto Nabuzardan, l’arcicuoco, il
tempio del Signore non sarebbe stato incendiato. Ciò significa: se l’anima non cercasse la soddisfazione del cibo, lo spirito non cadrebbe nella lotta contro il nemico».

Raccontavano che il padre Poemen, invitato a mangiare contro la sua volontà, vi andò piangendo, per non disubbidire al fratello e non rattristarlo (325cd; PJ IV, 30).

Il padre Poemen disse: «Non abitare in un luogo in cui vedi alcuni gelosi di te; altrimenti non progredirai» (PJ X, 45).

Raccontarono al padre Poemen di un monaco che non beveva vino. «Il vino, disse, non è per nulla cosa da monaci» (PJ IV, 31).




p. ROMANIDES: Simeone il Nuovo teologo non ha mai ricevuto una laurea teologica

La seguente storia è ricordata da un ex studente del p. Giovanni Romanides

NON SEI UN TEOLOGO CON LICENZA? *

Circa cinquant’anni fa, quando ero studente presso l’accademia teologica, il nostro professore di dogmatica, padre Giovanni Romanides, ci raccontava una storia dei suoi giorni da studente alla scuola teologica dell’Università di Atene. Per ottenere il dottorato all’Università, padre Giovanni, un sacerdote appena ordinato a quel tempo [gli anni ’50], dovette difendere la sua tesi davanti ad una giuria di professori – teologi. L’argomento della sua tesi di laurea era “Il peccato originale“.

Mentre varie domande sulla sua tesi di dottorato venivano lanciate contro di lui dai professori [i quali avevano ricevuto le loro credenziali presso le università cattoliche o protestanti in Europa], padre Giovanni rispose al meglio delle sue notevoli capacità. Alla fine, il capo del dipartimento teologico, il dottor Panayiotes Trembelas, prese di mira padre Giovanni, che, come è consuetudine in questi interrogatori, era in piedi davanti al gruppo di professori seduti.

“Hai molte citazioni nella tua tesi dagli scritti di Simeone il Nuovo teologo”, disse il Dr.Trembelas.

“È corretto, signore professore”, rispose padre Giovanni, con la giusta deferenza.

“È necessario eliminarli”, ha continuato il dottor Trembelas. “Simeone il Nuovo teologo non può essere citato come fonte del tuo lavoro, perché non ha mai ricevuto una laurea teologica.”

Senza batter ciglio all’incredibile osservazione di Trembelas, padre Giovanni rispose con calma: “Molto bene, come dite voi, signor professore. Vorreste che cancellassi anche tutti i miei riferimenti a Matteo, Marco, Luca e Giovanni Evangelista, dal momento che anche loro non hanno mai ricevuto una laurea teologica? Anche loro non erano teologi autorizzati.”

Si sentì una risata soffocata proveniente dal gruppo di illustri professori.

* (nella foto) Padre Giovanni Romanides (sacerdote ortodosso-greco – †) di beata memoria.




L’ALIMENTAZIONE QUOTIDIANA E RITUALE AL MONTE ATHOS

L’ALIMENTAZIONE QUOTIDIANA E RITUALE NELLA TRADIZIONE DEL MONASTERO DI VATOPEDI – MONTE ATHOS

6 Luglio 2013

* Roberto Miccinilli
** Sergio Galeotti

GEOGRAFIA

La penisola del Monte Athos (Monte Santo) è la più orientale delle tre lingue di terra che si protendono, come tre dita, dalla Calcidica verso il mare Egeo, che le avvolge e le bagna.
E’ lunga poco più di 40 km, larga dagli 8 ai 12 km ed è percorsa per tutta la sua lunghezza da una dorsale montuosa che culmina a sud con il cono del monte Athos propriamente detto, che si innalza dal mare verso il cielo per 2033 metri. I boschi lussureggianti, le cime delle montagne, le piccole valli, i corsi d’acqua incontaminati, le rocce, lo splendore delle coste e del mare, i monasteri con i loro edifici cromatici e le loro torri fanno della penisola uno dei posti più affascinanti ed interessanti del mondo.
L’accesso al Monte Athos è possibile soltanto via mare non esistendo strade che lo colleghino al resto della Calcidica.
Chi è in possesso del “Diamonitirion”, un permesso di soggiorno rilasciato a Salonicco dietro specifica richiesta, può imbarcarsi sulla nave a Ouranopolis, l’ultimo porto greco per Dafni, il porto ufficiale di ingresso al Monte Santo.
Da Dafni partono strade in terra battuta che raggiungono Karyes, capitale amministrativa, e tutti i Monasteri sparsi per la penisola.
Dal punto di vista botanico l’intera penisola, circa 400 kmq di superficie, risente del completo isolamento dal resto del mondo che dura ormai da due millenni, e si è mantenuta inalterata fino ai nostri giorni.
Il territorio del Monte Athos oggi è certamente una delle aree più incontaminate dell’intero bacino del Mediterraneo.
Tutte le piante della tipica flora mediterranea trovano qui un ambiente ideale per propagarsi, svilupparsi e crescere, grazie anche alla mitezza del clima greco e alla piovosità, qui più abbondante che in altre zone limitrofe.

MITOLOGIA

Nella mitologia greca Athos era un gigante originario della Tracia che era in continua lotta con Poseidone, dio del mare. Durante uno di questi scontri violenti, Athos rimase ucciso dal dio che lo seppellì sotto un’enorme montagna che prese il nome del gigante.

STORIA DELLO STATO MONASTICO

S. Atanasio l’Athonita, con l’appoggio dell’Imperatore Niceforo Focas di cui era padre spirituale, fondò il primo monastero sull’Athos, la Grande Lavra, all’estremo sud della penisola nel 963 d.c.
Nel 972 d.c. fu redatto il primo statuto costituzionale, il “Tragos” o Carta del Monte Santo, con il quale si definivano le norme per l’organizzazione e l’amministrazione della vita all’interno dei monasteri, riconoscendo l’Athos come uno stato indipendente e monastico.
Dal X secolo affluirono sulla penisola religiosi di diverse nazionalità, tra cui anche Benedettini amalfitani che fondarono l’omonimo monastero, rimasto a lungo attivo anche dopo lo “Scisma d’Oriente” del 1059.
Nei periodi di massimo splendore, il numero dei monaci sul monte Athos raggiunse i 30.000, ma già nel 1904 erano ridotti a circa 5.000, divisi nei vari monasteri.
Oggi sono circa 2.500, presenti in varie comunità.
Sulla penisola sono presenti 20 monasteri principali, ma anche 12 Skiti e 250 Celle, cioè comunità monastiche più piccole, autonome per la loro organizzazione interna, ma sotto la giurisdizione di uno dei monasteri principali.
Gli organi amministrativi supremi sono la “Sacra Comunità”, che risiede a Karies, e che si riunisce due volte la settimana per affrontare e risolvere i problemi quotidiani del Monte Athos e la “Doppia Synaxis” che si riunisce in caso di necessità per affrontare i problemi straordinari.
L’organo legislativo e giuridico superiore è la “Ierà Synaxis” o adunanza delle comunità, formata dai 20 Igumeni (gli Abati dei 20 monasteri) che si riunisce due volte all’anno.
I monaci chiamano il Monte Santo “Orto della Madonna”, che onorano come protettrice e Badessa di tutta la comunità monastica.
L’ingresso al Monte Athos è assolutamente vietato alle donne.

IL SACRO MONASTERO DI VATOPEDI

Vatopedi è situato in una baia sulla costa orientale della penisola.
La sua costruzione ebbe inizio nel 972 d.c., e dal 1046, occupa il secondo posto nella gerarchia dei monasteri, dopo la Grande Lavra, anche se, nella realtà, risulta oggi essere il più importante dell’intera comunità, sia per il numero di monaci presenti (oltre 100), sia per la vivacità della sua vita artistica e culturale, sia per il ruolo assunto negli ultimi decenni nell’ambito dell’intero mondo religioso greco-ortodosso.

LA VITA QUOTIDIANA DEI MONACI

La giornata di un monaco si divide in tre parti uguali: 8 ore di preghiera, 8 ore di lavoro, 8 ore di riposo, secondo la regola di San Basilio, padre del monachesimo cristiano orientale.
Al Monte Athos vige ancora l’ora bizantina, secondo la quale, la mezzanotte, e quindi l’inizio del nuovo giorno, coincide con il tramonto del sole (vedi box).
Ogni mattina, prima del sorgere del sole, il suono delle campane o del “Semantro”, una lunga tavola
di legno che viene percossa ritmicamente con un martello, richiama tutti i monaci nel Katholikòn, chiesa comune, per la celebrazione del Mattutino e della Liturgia. Il pranzo si consuma nel refettorio intorno alle 8,30-9,00.
Mentre tutti mangiano in silenzio, un monaco legge, dall’alto di un pulpito, brani tratti dai testi dei Padri della Chiesa ortodossa cristiana. Dopo il pasto ci si dedica ai vari lavori fino alle 14,00 circa. Ogni monaco ha il suo compito da svolgere per il perfetto andamento della comunità: agricoltura, artigianato, amministrazione, cucina, pulizie, servizi, accoglienza.
Intorno alle 15,00 ha luogo la celebrazione dei Vespri, che dura circa un’ora.
Subito dopo si consuma la cena, con modalità simili a quelle del pranzo.
Alle 17,00 nuovo appuntamento in Chiesa per assistere alla Compieta che ha una durata molto variabile, a seconda dei periodi dell’anno.
Dopo il tramonto le grandi porte di legno di tutti i monasteri di chiudono e i monaci si ritirano nelle loro celle.
Circa 50 volte l’anno, in occasioni di grandi feste o ricorrenze, hanno luogo delle veglie in chiesa che iniziano verso le 18,00-20,00 e che possono durare fino alle 2,00 del mattino ed oltre, in un’atmosfera molto coinvolgente, fatta di luce diffusa dalle fioche lampade ad olio e di canti tipici della liturgia ortodossa.

L’ALIMENAZIONE QUOTIDIANA

In tutti i monasteri del Monte Athos si segue una regola alimentare molto rigida e assai complessa che viene attuata durante tutto l’anno, con le opportune varianti durante i periodi di quaresima e in occasioni delle festività previste dal calendario ortodosso.
Intanto va detto che l’uso della carne è completamente abolito e che gli altri prodotti di origine animale sono utilizzati con molta moderazione.
I pasti si consumano sempre tutti insieme, tranne casi particolari di monaci impossibilitati, per motivi di salute, a lasciare la propria cella.
Sono previsti solo due pasti al giorno, il pranzo e la cena, che durano circa 30 minuti ognuno. Nel corso di tutto l’anno il lunedì, il mercoledì e il venerdì sono considerati “giorni di digiuno”.
Il martedì, il giovedì, il sabato e la domenica, più le Feste che cadono in date fisse, sono considerati “giorni di Comunione”.
Durante i giorni di digiuno si mangiano soltanto prodotti di origine vegetale, escludendo quindi dalla mensa il pesce, le uova, il formaggio, il latte. Sono esclusi anche il vino e l’olio. Sono sempre presenti, come condimenti, l’aceto, il limone, il sale, peperoncini piccanti freschi e secchi triturati.
Il pranzo è molto sobrio e consiste in ortaggi freschi, olive, pane, frutta, frutta secca e miele.
La cena ha come centro un piatto a base di riso, o pasta, o zuppa di legumi, sempre accompagnato da verdure scondite, ortaggi crudi, pane e frutta.
Nei giorni di Comunione sono serviti in più, in uno dei due pasti, i prodotti animali disponibili come il pesce, il formaggio, le uova.
In questi giorni sulla tavola sono sempre presenti l’olio e il vino (quest’ultimo non viene mai servito la sera precedente un giorno di Comunione, quindi mai il sabato sera o la sera precedente una Festa che cade in un giorno di digiuno).
La Domenica a pranzo viene servito anche un dolce tipico preparato con chicchi di grano bollito, zucchero, cannella, uvetta, noci e mandorle tritate (Bimatarisa).
Qualche volta, a pranzo, viene servito il latte. In questo caso però non sono presenti sulla tavola il vino e l’olio.
Le Feste scandite dal calendario liturgico costituiscono delle eccezioni a queste regole, già assai complicate.
La Festa inizia sempre con la celebrazione dei Vespri del giorno precedente. Quindi la cena che segue è un pasto normale, anche se capita in un giorno di digiuno.
Se la Festa coincide con un giorno di digiuno, questo salta e l’alimentazione è come in un giorno di Comunione, ma con l’aggiunta del dolce.
Nelle Feste dedicate alla Vergine Maria o a Gesù Cristo è tradizione mangiare pesce fresco, mentre nelle Feste dedicate ai Santi più importanti si servono del polpo o dei calamari.
Comunque nei giorni di Festa non sono mai serviti formaggio, uova e latte, come nei giorni di digiuno.

I DIGIUNI RITUALI

Nel corso dell’anno liturgico della Chiesa greco-ortodossa sono previsti quattro periodi di Quaresima, che comportano cambiamenti anche radicali nella dieta dei monaci.
Quaresima di Pasqua: dura 50 giorni.
Durante l’ultima settimana che precede l’inizio della Quaresima di Pasqua sono aboliti i giorni canonici di digiuno. Per tutta la settimana si possono mangiare, in uno dei due pasti prodotti di origine animale (tranne ovviamente la carne), con aggiunta di olio e vino.
Durante i 50 giorni, invece, si mangia una sola volta al giorno, alle ore 15,00, dal lunedì al venerdì, con un pasto da giorno di digiuno. Il sabato e la domenica ci sono invece due pasti completi, come nei giorni di Comunione normali, ma soltanto con polpo e calamari come prodotti animali.
Durante tutto questo periodo si mangia pesce soltanto la Domenica delle Palme e il 25 marzo, Festa dell’Annunciazione della Vergine.
Quaresima di Natale: dura 40 giorni.
E’ meno drastica di quella di Pasqua. Si fanno due pasti al giorno come nei giorni di digiuno. Il sabato è la domenica si mangia anche del pesce, ma soltanto fino al 12 dicembre. Dopo questa data si consumano solo pasti da digiuno fino al giorno compreso.
Quaresima dei Santi Apostoli (mese di Giugno): dura 20-30 giorni.
E’ del tutto simile a quella che precede il Natale, prima del 12 dicembre, con due pasti da digiuno al giorno, e il pesce il sabato e la domenica.
Quaresima della Madre di Dio (mese di agosto): dura 14 giorni.
E’ simile alla quaresima di Pasqua, con un solo pasto al giorno alle 15,00, con l’aggiunta, al mattino, di una colazione con sole olive e frutta fresca.

GLI ALIMENTI DI PRODUZIONE PROPRIA

II pane: il pane per il refettorio viene preparato due volte la settimana, il lunedì e il venerdì.
Il giovedì si prepara, invece, il pane per la liturgia, per l’Eucarestia dei monaci e dei fedeli, che lo bagnano nel calice con il vino.
Ogni volta vengono preparati circa 200 kg di pane, che bastano per tre-quattro giorni.
Il grano proviene dalle coltivazioni biologiche dei campi attorno al monastero, sufficienti per tutto l’anno. Si macina in un molino sul posto, ottenendo una farina completa e una piccola parte di farina bianca per la preparazione del pane per la liturgia.
Il lievito è naturale e viene rinnovato una volta l’anno con una cerimonia del tutto speciale.
Padre Panaretos, il monaco fornaio, alla fine di ogni infornata, si occupa personalmente di controllare ogni pagnotta, per verificarne la cottura, il colore, la consistenza.
Il vino: Padre Gennadios, monaco greco-cipriota, è il responsabile delle vigne, della produzione delle uve, della vinificazione e della cantina del monastero. Si produce vino rosso per la tavola per tutto l’anno, vino bianco per la liturgia e si imbottiglia per la vendita merlot, cabernet e syrah.
Il miele: si fanno 4 raccolti l’anno. Uno di millefiori e tre monoflora: erica, pino, castagno. La produzione copre abbondantemente le necessità dei monaci e l’eccedenza può essere acquistata dai pellegrini.
150 arnie per un totale di oltre 2 milioni di api. Si occupa di loro Padre Pandeleimon, rumeno, medico veterinario.
L’olio: il monastero è circondato da vasti oliveti, in passato abbandonati, che vengono pian piano recuperati alla produzione.
Dalla raccolta delle olive si ricavano di media circa 1.500 litri di olio, necessari sia per la cottura e il condimento degli alimenti, sia per le innumerevoli lampade ad olio che illuminano la chiesa principale e tutte le altre cappelle di Vatopedi.
In una di queste cappelle, situata all’interno dei locali dove viene conservato l’olio in grandi contenitori di marmo, è venerata l’icona detta “Vergine che fa colare l’olio”, responsabile, secondo la tradizione, di un miracolo datato XVI° secolo, quando, durante una grave carestia, nel corso della notte l’olio, terminato la sera prima, riempì il contenitore fino a farlo traboccare.
Grandi quantità di olive da tavola si conservano per il consumo a mensa.
Gli ortaggi: nei grandi orti del monastero si producono, tutto l’anno, tutte le verdure classiche delle nostre latitudini, con ritmo stagionale e con tecniche di coltivazione rigorosamente biologiche, come tutti gli altri prodotti agricoli. I raccolti sono sufficienti per le necessità alimentari dei monaci.
La frutta: nei frutteti del monastero si coltivano mele, uva, nespole, kiwi, meloni, pesche, cocomeri, pere, ciliege, arance, cachi, mandarini, fichi.
Il raccolto non copre l’intero fabbisogno dei monaci e, da gennaio a giugno, è necessario acquistare mele e arance.
Nel periodo estivo, quando c’è sovrapproduzione, si preparano anche ottime marmellate.
Il pesce: due volte la settimana, mare permettendo, un monaco pescatore esce in barca. Le acque della zona sono molto pescose, anche perché interdette ad altri pescatori. Il pescato viene consumato fresco ed il sovrappiù viene surgelato.
L’aceto: si produce solo aceto di mele.
L’arak: liquore ad alta gradazione a base di anice. Viene offerto a tutti i pellegrini che visitano Vatopedi, accompagnato da dolcetti di gelatina di frutta e da un bicchiere di acqua fresca.
L’acqua: arriva al monastero direttamente dalle numerose sorgenti che sgorgano dalle montagne adiacenti.
Alcuni di questi prodotti sono in vendita presso il negozio del Monastero, a disposizione dei pochi pellegrini di passaggio o che risiedono per qualche giorno a Vatopedi: miele di diverso tipo a seconda delle stagioni, arak in bottiglia, vino rosso e bianco imbottigliato, vino dolce da meditazione, erbe essiccate: basilico, origano e menta.

* UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA – VITERBO
Specialista in Anestesiologia e Rianimazione
Specialista in Scienza dell’Alimentazione
Direttore dei Corsi di perfezionamento in Fitoterapia e piante officinali

**Fotografo

Fonte: Natural 1 – Fitoterapia, Cosmetica, Nutraceutica

Mensile di informazione scientifica – Anno VII, Maggio 2008 – N.72: pp 68-79.

FONTE: http://www.progettomonteathos.it/




“Il mio anziano Iosif l’Esicasta” (1)

1.

Nel mondo

I suoi primi anni

La sua famiglia

L’anziano Iosif è nato nel villaggio di Lefkes sull’isola di Paros, la terza isola più grande delle Cicladi[1]. L’isola è nota per la meravigliosa Chiesa dei Cento Archi, costruita nel IV secolo da Sant’Elena. È noto anche per i suoi famosi monasteri di Longovardas e Thapsanon del santo anziano Philotheos Zervakos.

Il nome della madre dell’anziano Joseph era Maria Rangousis. Nacque a Lefkes nel 1871. Quando aveva circa diciassette anni, sposò il suo primo marito, Leonardo Zoumis, i cui genitori erano rifugiati da Odessa, in Russia, che ora fa parte dell’Ucraina meridionale. Leonardo e Maria ebbero due figli: Michele e un neonato che morì prima che fosse battezzato. Leonardo morì quando aveva solo vent’anni e così Maria si risposò nel 1890. Il suo secondo marito fu George Kottis (1867-1907), un contadino analfabeta. Era povero ma molto pio ed estremamente modesto, e trasmise queste virtù ai suoi figli.

George e Maria hanno avuto nove figli. Le prime tre morirono giovanissime: Marouso (la prima) visse fino al 1901 circa, Ergina (la prima) morì prima del 1896 e un’altra ragazza morì prima del battesimo. Gli altri sei erano vissuti e si chiamavano, in ordine di età: Ergina (la seconda), Emmanuel, Francis (l’anziano Giuseppe), Leonardo, Marouso (la seconda) e Nicholas (il futuro p. Atanasio). Francesco nacque il 2 novembre 1897[2].  Nel 1907, appena nato Nicola, il padre morì all’età di quarant’anni.

La loro piccola casa nel villaggio era di fronte al luogo in cui oggi si trova la biblioteca pubblica. Otto piccoli gradini di pietra conducevano all’ingresso di questa casa, che consisteva solo di due piccole stanze, ciascuna di circa cento piedi quadrati (o nove metri quadrati). In queste due stanze vivevano i genitori e i loro sette figli. Qui visse Francesco per circa diciassette anni. È straordinario che così tante persone siano riuscite a vivere in uno spazio così piccolo, anche se è vero che le piccole case spesso portano più calore, unione, amore e gioia in una famiglia. Oggi quella minuscola casa è stata trasformata in un piccolo negozio di souvenir di proprietà della pronipote dell’anziano Iosif.

La madre dell’anziano Iosif, Maria, seduta nell’angolo in basso a destra (con una sciarpa in testa) con i suoi fratelli e parenti

Sua madre

La madre dell’anziano Iosif, Maria, era veramente una persona devota: modesta, con un naturale senso di autocritica e un senso della propria peccaminosità, doti che coltivava nei suoi figli. Aveva semplicità e purezza d’animo e talvolta aveva anche delle visioni quando andava in chiesa, sia durante una funzione religiosa che quando era lì solo per pulire.

Il giorno in cui Francesco è nato, ha avuto una visione mentre giaceva a letto con il suo neonato. Le sembrò che il tetto della casa si aprisse e apparisse un giovane pieno di grazia. Era così brillante che riusciva a malapena a guardarlo. L’angelo si avvicinò al bambino e iniziò a scrivere il suo nome su una tavoletta. Maria si chiese cosa stesse facendo e chiese preoccupata:

“Che stai facendo lì? Perché stai scrivendo il suo nome?

“Il re ha bisogno di lui”, rispose l’angelo.

“No! Non puoi prendere questo bambino. Lui è mio!”

“Te lo dico, è scritto”, rispose l’angelo mentre le mostrava una lista.

Poiché i suoi primi figli erano morti giovani, lei ipotizzò che l’angelo volesse prendere prematuramente anche Francesco. Ogni volta che ricordava l’aspetto dell’angelo, piangeva inconsolabilmente con dolore materno. Tuttavia, mentre il tempo passava e Francesco cresceva senza morire, si rese conto che l’iscrizione significava che il Re del Cielo stava chiamando Francesco nell’esercito dei suoi angeli terreni, al monachesimo.

In un’altra occasione ebbe una spaventosa visione dell’inferno. Appena riprese i sensi, disse al piccolo Francesco:

“Oh! Figlio mio, cosa ho visto!

“Cosa hai visto, mamma?”

“Ho visto che sono andata all’inferno e le persone tormentate bollivano come fagioli che saltano su e giù in una pentola; continuavano a entrare e uscire dal fuoco infernale.

Era una persona semplice. Un giorno, quando Francesco era più grande, la portò in un cinema per mostrarle un film per la prima volta nella sua vita. Quando il film ha raffigurato una stanza in fiamme, ha pensato che fosse reale e ha iniziato a gridare: “Fuoco! Fuoco!”

Il villaggio di Lefkes nel 1896 dove nacque l’anziano Iosif.

La vita da bambino

Sant’Arsenio del Sacro Monte (1800–1877) aveva lasciato una grande influenza sull’isola di Paros quando il piccolo Francesco vi stava crescendo. Sant’Arsenio aveva lavorato con eccezionale zelo come confessore per la formazione spirituale del popolo di Paros. Il popolo pio dell’isola lo amava così tanto da onorarlo come santo anche quando era ancora in vita.

Un altro fulgido esempio di santità che influenzò direttamente Francesco e la sua famiglia fu il sacerdote del loro villaggio, p. Giorgio Aspropulos (1863-1929). Quando p. George ha servito la liturgia, il suo volto è cambiato ed è diventato così radioso che la gente non poteva guardarlo. Ricordando quelle liturgie, il suo cantore disse poi: “Che momenti sublimi! Avevamo la sensazione che stesse vedendo dei santi e che gli angeli lo stessero ministrando. Quando serviva, nessuno osava parlargli perché non volevano interromperlo quando era completamente assorto nella preghiera a Dio”. Quando p. Giorgio si addormentò nel Signore, il suo corpo era profumato “come l’odore di un incenso pregiato non di questo mondo”.[3]

Fu in questo clima strettamente ecclesiastico che crebbe il piccolo Francesco. Ricordò che era giovane e la gente gli diceva: “Figlio, è la Grande Quaresima; non giocare così tanto; non parlare o ridere. Questo è un periodo sacro dell’anno.

La famiglia di Francesco aveva regole ferree e suo padre a volte si arrabbiava con lui per la sua vivacità. Infatti, una volta suo padre decise che gli avrebbe dato una bella sferzata e disse: “Sculaccerò Francesco per quello che ha appena fatto!”

Il piccolo Francesco era sì vivace, ma era anche molto ubbidiente e intelligente. Quando ha sentito quello che aveva detto suo padre, ha pensato tra sé: “Dal momento che vuole sculacciarmi, mi sculaccerà”. Così si avvicinò con calma a suo padre e chinò umilmente il capo in modo che suo padre potesse disciplinarlo, mostrando la sua completa obbedienza. Suo padre, un uomo fedele e di buon cuore, fu così commosso dal gesto del figlioletto che disse: “Dai, vattene di qui! Non posso nemmeno sculacciarti a causa dell’umiltà che hai! Naturalmente Francesco non aspettò che suo padre cambiasse idea e se ne andò immediatamente. Più tardi disse allegramente ai suoi fratelli: “Per umiltà sono riuscito a non essere sculacciato da mio padre!”

Così, fin dalla giovane età comprese la grandezza, la potenza e il valore dell’umiltà cristiana. Questa virtù, come vedremo, pose le basi per i doni spirituali che avrebbe poi acquisito come monaco. Il 16 agosto 1904, quando aveva sette anni, Francesco si iscrisse alla prima della scuola elementare del suo paese. La sua insegnante era Sophia Pempsiadis-Kantiotis, la madre del vescovo Augustinos (1907–2010), il famoso metropolita di Florina. Francesco era eccezionalmente intelligente e imparò le lezioni rapidamente, con poco sforzo. I registri scolastici, tuttora conservati, dimostrano che riceveva sempre ottimi voti. Se avesse proseguito negli studi, è certo che avrebbe fatto molta strada nel mondo accademico. Sfortunatamente, però, quando finì la quarta elementare suo padre morì e lui dovette lasciare la scuola per aiutare sua madre ed i suoi fratelli.

Difficoltà familiari

Sulla piccola e arida isola di Paros, la vita era sempre difficile. Gli industriosi isolani riuscirono a sopravvivere coltivando i loro magri orti principalmente con cereali e verdure, allevando bestiame e pescando. È così che è sopravvissuta anche la numerosa famiglia di Francesco, ma dopo la morte del padre le cose sono diventate molto più difficili. Fu un duro colpo per la famiglia e soprattutto per sua madre Maria. La sua croce era pesante; all’età di trentasei anni aveva già perso due mariti e quattro figli!

Naturalmente, l’improvvisa perdita di suo padre ha causato a Francesco un grande dolore. Tuttavia, con il passare del tempo ebbe un effetto benefico sulla sua giovane anima. Il piccolo Francesco iniziò ad aiutare la mamma quanto più poteva per alleggerire il dolore e le difficoltà della vedovanza. Un ragazzino ordinato e disciplinato, fu coinvolto in vari piccoli compiti per aiutare la sua famiglia. Così, la sua giovane anima era segnata dalla compassione, una caratteristica che lo accompagnò per tutta la vita. In effetti, il futuro anziano Iosif divenne un uomo di grande amore.

Tanta era la povertà della famiglia che nel 1914 Maria decise a malincuore di mandare Francesco, allora diciassettenne, e il fratellino Leonardo, solo dodicenne, ad Atene per lavoro. A Paros non c’era modo per loro di guadagnarsi da vivere, mentre nella capitale c’era speranza che trovassero un lavoro.

Per quanto riguarda il resto dei fratelli di Francesco, si sposarono tutti tranne Nicholas, che in seguito sarebbe diventato monaco accanto a suo fratello. Altre due parenti di Francesco si fecero monache. Una di loro era la figlia di Ergina, il cui nome era Barbara e in seguito divenne badessa a Vryeni. Le voleva molto bene e nelle tante lettere che le inviava la chiamava: “anima della mia anima”. L’altra sua parente che si fece suora fu la moglie di Leonardo, Maria. Alla sua tonsura ricevette il nome di Melanie e visse molti anni fino al suo riposo nel 1997.


[1] L’isola è lunga circa tredici miglia e a quel tempo aveva una popolazione di 9.000 abitanti.

[2] La data precisa di nascita dell’anziano Joseph e dei suoi fratelli è stata trovata scritta sul retro di un’icona cimelio di famiglia di San Giorgio. Questo è un modo antico e tradizionale con cui le famiglie (soprattutto nelle zone rurali) tengono traccia delle date di nascita dei propri figli. Inoltre, in un certo senso, poneva i loro figli sotto la protezione del santo raffigurato nell’icona

[3] Triantafyllou, Protopresbyterou Georgiou, Papa-Georgis Aspropoulos, Santuario delle Sante Donne “Panagia la Mirtidiotissa” di Thapsana Paros, 2009, pp. 56-57.




Anziano Iosif l’Esicasta: Lettera 10

Lettera 10.

LA GRAZIA PRECEDE SEMPRE LE TENTAZIONI COME PREAVVISO PER TENERSI PRONTI

Si può dire prassi non quando uno prova e poi si ritira. “Prassi” invece si chiama quando uno entra e si batte sul terreno di lotta; quando vince, quando è vinto, guadagna e perde; cade e si rialza; quando solleva tutto e accetta la lotta e la battaglia fino all’ultimo respiro. E che mai dia licenza al suo io finché non abbia esalato l’anima. Ma, quando sale in cielo, deve aspettarsi, il giorno seguente, di scendere nell’Ade. Senza dire che anche nello stesso momento può avvenire la discesa. Per questo non deve meravigliarsi dei cambiamenti, ma avere davanti agli occhi ambedue le situazioni come proprie (al suo stato). Sappi che la grazia precede sempre le tentazioni come preavviso per tenersi pronti. Subito, quando vedi la grazia, cingiti (i fianchi) e di’: “E’ giunto l’annuncio di guerra! Fa’ attenzione, o argilla, da dove il maligno attaccherà battaglia”. Spesso giunge alla svelta e spesso dopo due o tre giorni. Ad ogni modo, verrà, e che le barricate siano solide: confessione ogni sera; obbedienza allo ieronda; umiltà e amore verso tutti. Così facendo alleggerisci la tribolazione.

Ora, in quanto alla questione se la grazia giunge prima della purificazione e altre cose simili, chiedo attenzione e mente pura. La grazia si distingue in tre ordini: purificante, illuminante, perfezionante. Così anche la vita: secondo natura, al di sopra della natura, contro natura. In questi tre ordini sale e scende. Tre sono anche i grandi carismi che riceve: contemplazione, amore, impassibilità. Dunque: nella “prassi” coopera la grazia purificante, la quale aiuta alla purificazione. Per chiunque si è convertito, la grazia è ciò che lo ha spinto a conversione. Qualunque cosa faccia è opera della grazia, anche se colui che la possiede non lo sa; tuttavia, è essa che lo nutre e lo guida. Analogamente al profitto che riceve, sale o scende o rimane nello stesso stato. Se ha zelo e rinnegamento di sé stesso, sale alla contemplazione, che fa posto alla illuminazione nella divina conoscenza e ad una parziale impassibilità. Se lo zelo e lo slancio si raffreddano, si ritira pure l’energia della grazia.

Riguardo a colui che prega con intelligenza, come mi dici, è colui che sa che cosa prega e che cosa chiede a Dio. Colui che prega con intelligenza non parla a vanvera, non chiede cose superflue, ma conosce il luogo, il tempo e il modo, e chiede ciò che è adatto e utile alla sua anima. Comunica spiritualmente col Cristo, lo precede e lo tiene stretto. “Non ti lascerò – dice – in eterno”. Così, colui che prega chiede la remissione dei Peccati, chiede la misericordia del Signore. Se chiede cose grandi prima del tempo, il Signore non gliele dà. Perché Dio le dà con ordine. Se tu lo importuni col chiedere, dà via libera allo spirito dell’inganno, dissimula la grazia e ti inganna mostrandoti cose invece di altre. Perciò non è conveniente chiedere cose al di là della misura. Ma se anche si è ascoltati prima della purificazione, quando (il dono concesso) non è nel giusto ordine, (allora) insorgono serpenti e causano danno. Tu sii puro nel convertirti, pratica l’obbedienza e la grazia verrà da sola senza che la chieda.

L’uomo come un infante balbuziente chiede a Dio che si compia la sua volontà santa. Dio, Padre buono, gli concede la grazia, ma gli concede pure tentazioni. Se sopporta le tentazioni senza mormorare, ottiene un aumento di grazia. Quanta più grazia riceve, tanto aumento anche di tentazione. I demoni, quando si avvicinano per attaccare battaglia, non si dirigono là dove tu li vincerai senza mormorare, ma provano dove hai una debolezza.

Dove tu assolutamente non te l’aspetti, là installano la roccaforte. E, quando trovano un’anima fragile e una zona debole, lo vincono sempre e lo rendono colpevole.

Chiedi grazia a Dio? Invece della grazia ti dà la tentazione. Non resisti alla guerra e cadi? Non ti concede aumento di grazia. Di nuovo chiedi? Di nuovo la tentazione. Ancora sconfitta? Ancora privazione. Fino alla fine della vita. Devi dunque uscirne vincitore. Resisti alla tentazione fino alla morte! Cadi (pure) nella battaglia, ridotto a cadavere, gridando paralizzato a terra: “Non ti lascio, o dolcissimo Gesù! Non ti abbandono! Rimarrò inseparabile da te per sempre, e per amore tuo renderò l’ultimo respiro nello stadio”. E all’ improvviso si presenta nello stadio e fa sentire la sua voce in mezzo alla tempesta: “Sono qui! Cingi come un prode il tuo fianco e seguimi!”. E tu, tutto luce e gi0ia: “Oh, me misero! Ahimé malvagio e inutile! Prima avevo sentito dire di te ma ora i miei occhi ti vedono; mi disprezzo e mi ritengo terra e cenere” (Gb 42,5-6). Allora vieni riempito di amore divino. La tua anima brucia di amore come quella di Cleopa (Lc 24,18). Nel momento della tentazione non abbandoni più il lenzuolo e scappi nudo (Mc 14,52), ma sopporti le tribolazioni dicendo: “Come è passata l’una e l’altra tentazione, così passerà anche questa”.

Quando tuttavia ti scoraggi e mormori e non sopporti le tentazioni, allora, invece di vincere, devi di continuo pentirti: per gli errori del giorno, per l’impazienza della notte. Invece di ricevere un aumento di grazia, rendi più grandi le tue tribolazioni.

Per questo non essere timoroso. Non aver paura delle tentazioni. Anche se cadi a più riprese, alzati. Non perdere il tuo sangue freddo. Non scoraggiarti. Sono nubi e passeranno. Quando poi con la cooperazione della grazia, la quale ti purifica da tutte le passioni, oltrepassi tutte queste cose che sono la “prassi”, allora la mente gusta l’illuminazione ed è spinta alla contemplazione.

La prima contemplazione è quella degli esseri: perché Dio ha fatto tutte le cose per l’uomo, e per di più anche gli stessi angeli al suo servizio. Quale dignità, quale magnificenza, che grande predestinazione ha l’uomo; tale è il soffio di Dio!

Non per vivere qui i pochi giorni del suo esilio, ma per vivere in eterno col suo Creatore. Per vedere i divini angeli. Per ascoltare la loro ineffabile melodia. Che gioia! Che splendore! Appena ha termine questa nostra vita, e si chiudono questi occhi, si aprono gli altri e inizia la nuova vita, la vera gioia che non ha più fine. Pensando a queste cose la mente viene immersa in una pace e tranquillità suprema che si estendono a tutto il corpo, dimenticando del tutto che conduce un’esistenza in questa vita.

Queste contemplazioni si succedono l’una all’altra. Non che fai fantasie nella tua mente, ma lo stato (reale) è questo: operazione della grazia che fa venire pensieri e la mente si delizia nella contemplazione. Non li crea l’uomo; vengono da soli e rapiscono la mente alla contemplazione. Allora la mente si dilata e diventa un’altra, da diversa (che era). È illuminata. Tutto si dischiude ad essa. E’ riempita di sapienza e come un figlio possiede le cose di suo Padre (Mt 11,27; Lc 15,31; Gv 16,15; 17,10). Sa che è un nulla, argilla, ma anche figlio del Re. Non ha nulla, ma possiede tutto. È riempita di teologia. Grida insaziabilmente, con piena coscienza, confessando che il suo essere è nulla. La sua origine è l’argilla; ma la sua forza vitale? Il soffio di Dio, la sua anima.

Subito l’anima vola in cielo! “Sono il soffio, l’alito di Dio! Tutto si è dissolto, è rimasto sulla terra, da cui ero stato preso! Sono figlio di un Re eterno! Sono dio per grazia! Sono immortale ed eterno! Sono, dopo un attimo, vicino al mio Padre celeste!”

Questa è in verità la predestinazione dell’uomo. Per questo è stato plasmato e deve giungere dove è uscito. Queste sono le contemplazioni di cui si delizia l’uomo spirituale. E attende il momento, quando lascerà la polvere e volerà verso le (regioni) celesti. Coraggio dunque, figlio mio, e con questa speranza sopporta ogni sofferenza e tribolazione.

Dal momento che fra poco saremo fatti degni di questi doni. Per tutti noi sono le stesse cose. Tutti siamo figli di Dio. Lui invochiamo giorno e notte, (invochiamo) pure la nostra dolce Mammina, la Signora del mondo, che non abbandona mai chiunque la supplica.




MACARIO L’EGIZIANO

“SULLA PERFEZIONE NELLO SPIRITO

1. Ciascuno di noi acquista la salvezza per grazia e divino dono dello Spirito e può giungere alla misura perfetta della virtù con la fede, con la carità e con la lotta del libero arbitrio, per ereditare, sia per grazia che per giustizia, la vita eterna. Non è fatto degno del progresso perfetto per la sola potenza e grazia divina, senza offrire insieme i frutti del proprio sudore; né raggiunge la misura perfetta della libertà e della purezza solamente per la propria sollecitudine e la propria potenza, se non concorre dall’alto la mano divina. Giacché dice: Se il Signore non costruisce la casa e non custodisce la città, invano veglia il custode, e ugualmente chi si affatica e chi costruisce”.




Anziano Iosif l’Esicasta: Lettera 5

Lettera 5

NON RIVESTIRTI SOLO DI FOGLIE

Figlio mio amato nel Signore… creatura dello Spirito divino. Gioisco, quando tu gioisci. Gioiscono i Principati e le Potenze, i Cherubini e i Serafini, le schiere angeliche, i cori dei martiri, dei profeti, dei giusti e dei santi, la Tuttapura Madre nostra, Regina e Signora di tutti. Oggi hai rallegrato la mia anima con ciò che mi hai detto tramite inchiostro e carta. Molto gioisco e mi rallegro grandemente, se fino alla fine rimarrai fedele alle cose che ora scrivi. Perché la guerra del nemico comincia dopo tre-quattro anni. Allora la grazia si ritira per mettere alla prova. La lucerna si spegne. E le cose così belle che ora si manifestano – e sono veramente belle – allora appariranno brutte, nere e tenebrose. Perciò quanto ora ti capita non prenderlo come tentazione. Un altro infatti fa da sentinella per te. E dal momento che, figlio mio amato, chiedi a me misero un consiglio, ascolta: non rivestirti solo di foglie, ma affonda le radici profondamente per poter trovare la sorgente, come fanno i platani. Così da essere irrigato di continuo dall’acqua e di continuo possa germogliare. Quando viene la secca non patirai alcun cambiamento. In quanto hai trovato la sorgente stessa. E allorché si spegnerà la lucerna che ora tieni in mano, ne avrai accesa un’altra per mezzo delle tue opere. Non soffrirai per nulla la tenebra. Il modo per acquisire tali (opere) è questo: anzitutto un’obbedienza perfetta e a tutti, senza distinzione. Da essa viene generata l’umiltà. Il vero segno di riconoscimento dell’umiltà sono le lacrime[1] senza misura, che per tre-quattro anni scorrono a somiglianza di una fonte. Da essa viene generata la preghiera incessante[2], la cosiddetta preghiera del cuore. Per cui, appena dici: “Gesù mio dolcissimo!” scorrono le lacrime. Appena dici: “Vergine mia!” non puoi trattenerle. Allora da esse viene generata in tutto il corpo grande calma e perfetta pace.

Un fratello[3] una volta volle trattenersi poiché si erano messe in movimento le lacrime e qualcuno aveva bussato alla porta – ma non poté, fino a quando passarono. Tanta è la potenza che hanno. Se dunque le ottieni, non hai paura di soffrire nessun cambiamento. Perché diventi un uomo di altra natura. Non che la natura cambi, ma la grazia ne trasforma i caratteri per mezzo delle sante energie di Dio.

I cosiddetti “canoni” devono circondare la sostanza, come le foglie coprono i frutti. Il canto degli inni sia fatto con umiltà. La mente vada dietro al senso del tropario. Il pensiero riceva piacere da ciò che è compreso dalla mente e si elevi a ciò che essa contempla. Allo stesso modo la lettura venga fatta con molta attenzione. Allora, con tutte queste cose, l’anima cresce e si dilata. Si spegne, muore l’uomo vecchio e si rinnova il nuovo; e abbonda nell’amore di Cristo. Allora l’uomo non trova più appagamento in alcun modo nelle cose terrene, ma di continuo brama quelle celesti. Lo stesso riguardo al corpo: deve lottare con tutte le forze, deve essere sempre sotto il dominio dello spirito[4], cosi· che non lo contristi in alcun modo. Poi, sia che tu mangi sia che lavori, la preghiera del cuore non cessi mai.

Ma in tutte le altre preghiere, la mente deve seguire e comprendere che cosa preghi e che cosa dici. Perché, se tu non capisci quello che dici, come ci sarà un’intesa con Dio, si che ti possa donare ciò che chiedi?

Se custodirai queste cose, te ne verrà del bene. Ti salverai per sempre e mi renderai pieno di gioia; ma se per negligenza disobbedirai, diventerai causa di tribolazione per molti.


[1] Lo ieronda Iosìf aveva in grado eminente il dono delle lacrime: ce lo attesta questo epistolario con accenti pervasi di grazia divina e ce lo hanno testimoniato al Monte Athos i suoi discepoli, in particolare il padre Efrèm delle Katunakia. “Piangere è la via che ci hanno trasmesso la Scrittura e i Padri” (Detti, vol. II, p. 132). Isacco di Ninive così commenta: “Beati i puri di cuore (Mt 5,8), perché non v’è istante in cui non si dilettino della soavità delle lacrime: grazie ad esse vedono continuamente nostro Signore perché, quando hanno le lacrime agli occhi, sono degni della visione della sua rivelazione nell’altezza della preghiera, ne v’è per loro preghiera senza lacrime. Questo, infatti, significa il detto del Signore: Beati coloro che piangono, perché saranno consolati (Mt 5,4). Dal pianto, dunque, uno viene alla purezza dell’anima (Discorsi Ascetici, vol. I, p. 286). Piangere è proprio del battezzato che, memore incessantemente del suo essere “cenere e polvere” (cfr. Gen 3,19; 18,27; Gb 30,19) e che ha il tesoro della gloria divina che rifulse sul volto di Cristo in un vaso di creta, brama ritornare ogni giorno, quale figlio prodigo (Cfr. Lc 15,11-32), alla casa del Padre, confessando, con lacrime, il suo peccato e sperando dalla misericordia di Dio il suo abbraccio paterno. I Padri hanno visto nel lavacro purificatore delle lacrime il segno di una particolare attualizzazione del lavacro battesimale e spesso l’hanno chiamato un secondo battesimo. Isacco di Ninive attesta che la fatica delle veglie notturne rende gli occhi “una specie di fonte battesimale per le lacrime” (Discorsi Ascetici, p. 180). E Giovanni Climaco: “La sorgente delle lacrime che (scaturisce) dopo il battesimo, è superiore al battesimo stesso, anche se è un po’ audace quanto affermo. Il battesimo, infatti, ci purifica dai mali che l’hanno preceduto, mentre le lacrime cancellano quelli che l’hanno seguito. Il primo, avendolo ricevuto tutti da bambini, lo abbiamo contaminato; ma per mezzo delle lacrime lo riportiamo alla sua purezza primitiva” (Scala del Paradiso VII, 89; cfr. IV, 10). “I nostri peccati passati ci furono cancellati col battesimo. Ma noi ne abbiamo commessi, poi, degli altri e non possiamo più lavarli con l’acqua del battesimo. Per queste macchie che deturpano la nostra vita dopo il battesimo, battezziamo la coscienza con le lacrime” (S. Gregorio Magno, Quaranta omelie sui Vangèli, a cura di G. Barra, om. X, Torino 1947, p. 102).

[2] “La preghiera è la madre delle lacrime e anche la loro figlia” (Scala del Paradiso  XXVIII).

[3] In diverse lettere lo ieronda Iosìf nasconde le sue esperienze personali sotto questa forma (Lettere 8, 25, 43, 62, 64)

[4] “L’intelletto non è glorificato se il corpo non soffre con Gesù. (…) Gloria del corpo è la devota sottomissione a Dio; gloria dell‘intelletto la contemplazione della verità circa Dio. La retta sottomissione è doppia: nel lavoro e nel disprezzo, perché quando il corpo soffre, soffra con esso anche il cuore (Discorsi Ascetici, vol. I, XXXIV, P. 260).




Anziano Iosif l’Esicasta: Lettere

1.
AD UN GIOVANE CHE CHIEDE DELLA “PREGHIERA”

Mio caro fratello in Cristo, mi auguro che tu stia bene. Oggi ho ricevuto la tua lettera e ti do risposta su quanto mi scrivi. Le informazioni che chiedi non richiedono tempa e fatica per pensare a risponderti.

La preghiera del cuore per me è come il mestiere per ciascuno, dal momento che la pratico da trentasei anni a questa parte.

Quando giunsi all’Aghion Oros cercai subito gli eremiti che praticavano la preghiera. Allora – quarant’anni fa – ce n’erano molti che avevano vita dentro di loro. Uomini di virtù. Vecchi monaci. Di questi, alcuni ne facemmo ieronda e li avevamo come guide.

Dunque, la prassi della preghiera del cuore consiste nel fare violenza al tuo io, nel dire continuamente la preghiera con la bocca, senza cessare. All’inizio velocemente, perché nella mente non faccia tempo a formarsi un pensiero di distrazione. Fa’ attenzione solo alle parole: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”. Così facendo per molto tempo, viene il momento in cui la mente si abitua nel dire questa preghiera. Sei riempito di dolcezza come se avessi miele nella tua bocca e vuoi sempre dirla. Se la interrompi ti angusti molto.

Quando la mente si abitua ad essa, si sazia e la impara bene, allora la invia nel cuore. Poiché la mente è la dispensatrice di alimento all’anima e il suo lavoro consiste nell’inviare ciò che di buono o di cattivo vede o ascolta al cuore, che è il centro della forza spirituale e corporale dell’uomo, il trono della mente. Dunque, quando l’orante tiene in suo potere la mente, si che non abbia alcuna fantasia, ma volga la sua attenzione solo alle parole della preghiera, allora, respirando leggermente con una certa violenza e volontà, la Fa scendere nel cuore e la tiene dentro come se fosse condannata alla reclusione e dice la preghiera con ritmo:

“Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”.

All’inizio dice quattro-cinque volte la preghiera e prende un respiro. Poi, quando la mente si abitua a rimanere ferma nel cuore, dice ad ogni respiro una preghiera. “Signore Gesù Cristo”: entra il respiro; “abbi pietà di me”: esce. Questo succede fino a quando la grazia comincia ad adombrare e ad operare nell’anima; dopo, ormai è contemplazione.

La preghiera si dice dovunque: sia seduto che a letto, sia camminando che in piedi. “Incessantemente pregate, in ogni cosa rendete grazie” (1Ts 5,17s.), dice l’Apostolo. Ma non devi pregare solo quando vai a riposare. Ci vuole lotta: in piedi-seduto. Quando ti stanchi, siediti. Poi di nuovo in piedi, perché non ti prenda il sonno. Queste cose vengono chiamate “prassi”. In esse mostri la tua disposizione verso Dio; ma il tutto dipende da Lui, se te lo dona. Dio è il principio e la fine. È la sua grazia che opera tutto. Essa è la forza movente.

Come poi giunge l’amore e come opera, questo sta nell’osservare i comandamenti. Quando ti alzi di notte e preghi, quando vedi il malato e patisci con lui, la vedova, gli orfani e i vecchi e hai misericordia di loro, allora Dio ti ama. E allora anche tu lo ami. Lui per primo ama ed effonde la sua grazia. E noi gli restituiamo le stesse cose da Lui ricevute, “i tuoi (doni provenienti) dai tuoi (doni)”[1].

Se dunque cerchi di trovarla solamente tramite la “preghiera”, non emettere respiro[2] senza la preghiera. Fa’ solo attenzione a non accogliere Fantasie. Perché il divino è senza forma, senza immagine, senza colore. Supera ogni perfezione. Non accetta ragionamenti. Opera come brezza leggera nei nostri pensieri.

La compunzione viene allorché pensi quanto hai rattristato Dio. Lui che è tanto buono, tanto dolce, tanto misericordioso; tanto benevolo, tutto pieno di amore. Lui che è stato crocifisso e che tutto ha patito per noi. Queste e altre cose che il Signore ha patito, quando le mediti, ti generano compun­zione.

Dunque, se riesci a dire la preghiera con le labbra e incessantemente, in due-tre mesi la rendi abituale. Allora la grazia ti adombra e ti irrora. Solo devi pronunciarla con le labbra, senza interru­zione.

Quando la mente la fa propria, allora ti riposerai dal dirla con la lingua. Poi di nuovo, quando la mente non la custodisce più, ricomincia la lingua. All’inizio bisogna compiere ogni sforzo con la lingua, fino a quando non ti abitui; in seguito, per tutti gli anni della tua vita, la mente la dirà senza fatica. Quando verrai, come dici, all’Aghion Oros, vieni a trovarci. Ma allora parleremo di altre cose. Non ti rimarrà tempo per la preghiera. La preghiera la troverai[3]li dove il tuo cervello sarà quieto. Qui, girando per i monasteri, la tua mente camminerà altrove, in quelle cose che ascolterai e vedrai. Sono certo che troverai la “preghiera”. Non dubitare. ‘Solamente bussa direttamente alla porta della divina misericordia e, in ogni modo, il Cristo ti aprirà; è impossibile (che non ti apra). Amalo molto, per poter ricevere molto. Dal tuo amore, molto o poco, dipende il dono, molto a poco.

2.

ALLO STESSO, RIGUARDO ALLA PREGHIERA,
E RISPOSTA A DOMANDE

Ho molto gioito per lo zelo giovanile che hai per la tua anima. Anch’io ho sete di rendermi utile ad ogni fratello che chiede di essere salvato. Dunque, fratello mio, caro e amato, apri le tue orecchie. Il destino dell’uomo, dal momento in cui è stato generato in questa vita, è di trovare Dio. “In Lui viviamo e ci muoviamo…” (At 17,28), ma le passioni ci hanno chiuso gli occhi naturali e non vediamo. Quando però il nostro Dio buonissimo volge il suo occhio verso di noi, allora ci svegliamo come dal sonno e cominciamo a chiedere la nostra salvezza.

Per cui, riguardo alla tua prima domanda: ora Dio ti ha visto, ti ha illuminato e ti guida. Mettiti al lavoro lì dove sei. Di’ incessantemente la preghiera: con la lingua e con la mente. Quando la lingua si stanca, cominci pure la mente. E di nuovo, quando la mente si appesantisce, la lingua. Solamente non smettere. Fa’ molte prostrazioni. Veglia la notte, per quanto puoi. E se si accende nel tuo cuore una fiamma per Dio, (se) cerchi esichia e non ce la fai a rimanere nel mondo – poiché dentro di te si accende la preghiera – allora scrivimi e io ti dirò che cosa fare. Se ancora la grazia non opera nel modo che abbiamo detto, ma lo zelo permane e tu metti in pratica i comandamenti del Signore verso il prossimo, allora sta tranquillo come sei, va bene così; non cercare niente altro. La diversità del trenta, del sessanta, del cento, la potrai conoscere quando leggerai l’Everghetinòs[4]. Vi troverai scritte anche molte altre simili cose e ne trarrai grande giovamento.

Ecco poi la risposta alle altre tue domande: la preghiera bisogna dirla così, con la parola interiore. Ma siccome all’inizio la mente non ci ha preso l’abitudine, la dimentica. Per questo la dici ora con la bocca ora con la mente. Ciò accade fino a quando la mente se ne riempie e diviene energia.

Energia viene chiamato quello stato in cui, quando dici la preghiera, percepisci dentro di te gioia ed esultanza e desideri dirla incessantemente.

Quando dunque la mente ha fatto sua la preghiera e si manifesta quella gioia di cui ti scrivo, allora viene detta di continuo, senza che tu ti faccia violenza. Questo (stato) si chiama percezione – energia, quando la grazia opera senza la volontà dell’uomo. Mangia, cammina, dorme, si sveglia, e nell’intimo la preghiera grida. Ed ha pace, gioia.

Ora per quanto riguarda le ore della preghiera, poiché sei nel mondo e hai diverse occupazioni, prega quando trovi tempo. Ma fatti violenza per non essere pigro. Per la “contemplazione” di cui chiedi, è difficile, perché necessita assoluta esichia. Lo stato spirituale si divide in tre ordini, e la

grazia opera nell’uomo analogamente. Uno stato viene chiamato purificante, purifica infatti l’uomo. La grazia che tu ora hai si dice purificante, essa guida l’uomo alla conversione. Ogni buona disposizione che hai verso le realtà spirituali proviene dalla grazia. Nulla è propriamente tuo. Essa compie la sua opera in tutto, segretamente. Questa grazia dunque, quando ti fai violenza, rimane con te qualche anno. Se poi quella persona progredisce tramite la preghiera del cuore, riceve un’altra grazia molto diversa.

Il primo (stato), come abbiamo detto, si chiama percezione-energia ed è quello purificante, in quanto l’orante percepisce dentro di sé movimento-energia divina.

L’altro si chiama illuminante. In esso riceve luce di conoscenza, viene fatto salire alla contemplazione di Dio. Non luci, non fantasie, non immaginazioni, ma limpidezza di mente, purezza di pensieri, profondità di concetti. Per giungere a questo, l’orante deve avere molta esichia e una guida infallibile.

E il terzo stato – adombramento della grazia – consiste nella grazia perfezionante, che è un grande dono. Di questo ora non ti scrivo, anche perché non c’è necessità. Se però vuoi leggere qualcosa al riguardo, ho scritto col mio analfabetismo un libretto manoscritto “Tromba mossa dallo Spirito”[5] su quando avvengono queste operazioni. Cercalo e lo troverai. Compra pure san Macarie[6] dal (signor) Schinà, e l’abbà Isacco; ne avrai grande profitto. Qualsiasi cambiamento, poi, potrai sperimentare scrivimi e ti risponderò prontissimamente. In tutto questo tempo ho scritto a quanti mi pongono questioni. Quest’anno sono venuti dalla Germania solamente per imparare la preghiera del cuore. Dall’America mi scrivono con tanto ardore. Da Parigi sono così numerosi quelli che chiedono fervidamente. Ma noi qui perché siamo negligenti? È forse un mestiere spregevole gridare continuamente il nome di Cristo perché ci faccia misericordia?

Alla fin fine, domina anche una oscura idea del diavolo, per la quale se uno dice la preghiera teme di ingannarsi, mentre invece è inganno proprio questo timore.

Chi vuole provi e, col perdurare dell’energia della preghiera, si creerà il Paradiso dentro di lui; sarà liberato dalle passioni, diventerà un altro uomo! E se poi è anche nel deserto, oh! oh! non si possono esprimere le bellezze della preghiera!

3.

AD UN MONACO CHE ENTRAVA NELLO STADIO DEL COMBATTIMENTO

Gioisci nel Signore, figlio amato che la grazia del mio Gesù ha illuminato e liberato dal mondo. Sei volato nel deserto e hai preso dimora nel cenobio con una santa sinodia. E ora dai lode e ringrazi con tutta l’anima Dio. La grazia divina, figlio mio, è come un’esca che senza fare violenza attira l’uomo alle realtà alte e superiori. Essa conosce il modo di irretire i pesci razionali e di trarli fuori dal mare del mondo. Ma dopo cosa succede? Quando fa uscire dal mondo colui che si accinge a condurre vita monastica e lo conduce nel deserto, non gli mostra subito né le sue passioni né le tentazioni fino a quando non diviene monaco e allora il Cristo lo vincola col suo timore. E così comincia la prova, la lotta e il combattimento. Se dall’inizio colui che è messo alla prova si fa violenza[7] e fa in tempo ad accendere la lucerna dell’ascesi con le sue lotte, essa non si spegne quando, all’arrivo delle tentazioni, la grazia si ritira. Diversamente, quando la grazia si ritira, ritornerà al suo primo stato. E, analogamente alle passioni che aveva nel mondo, insorgeranno le tentazioni e metteranno in moto le abitudini di prima, alle quali serviva e di cui era schiavo.

Prima di tutto sappi, figlio mio, che c’è molta differenza tra uomo e uomo e tra monaco e monaco. Ci sono anime di carattere tenero che facilmente obbediscono. Ma ci sono anche anime di carattere duro che non si sottomettono facilmente. C’è tanta differenza quanta dal bambagio al ferro. Il bambagio richiede solo l’unzione della parola. Ma il ferro richiede fuoco e la fornace delle tentazioni per essere lavorato. Questo tale deve avere molta pazienza nelle tentazioni perché avvenga la purificazione. Quando non ha pazienza, è una lampada senza olio; si spegne in breve e si perde. Quando dunque uno di siffatta natura più dura del ferro viene a farsi monaco, appena entra nello stadio, subito rinnega l’obbedienza. Subito rifiuta le promesse e rinuncia alla lotta. E lo vedi: appena la grazia si ritira un poco per mettere alla prova la sua disposizione e la sua pazienza, lui subito getta via le armi e comincia a pentirsi di essere venuto per farsi monaco. Trascorre i giorni pieno di disobbedienza e di amarezza, tutto contraddizione e arroganza.

In forza delle preghiere dello ieronda, la grazia allontana un po’ le nubi delle tentazioni perché ritorni in parte in sé e si risvegli; ma lui, dopo poco, di nuovo la sua volontà e di nuovo disobbedienza, di nuovo agitazione e turbamento. Mi scrivi del fratello che vedi lì (nel tuo monastero) e ti meravigli come mai pur faticando tanto nel compiere il suo servizio, domini ancora dentro di lui l’egoismo. Ma cosa credi? Che sia facile per l’uomo vincere una passione? Gli atti di bontà e di misericordia e tutte le altre azioni buone che si compiono all’esterno non addolciscono l’alterigia del cuore; ma solo la meditazione della mente, la fatica della conversione, la contrizione e l’umiltà, queste umiliano il pensiero altero. Un uomo non sottomesso è una grande e penosa fatica. Solo con molta pazienza costui può venire integrato (nella comunità). Solo con una grande pazienza degli ieronda e la tolleranza e l’amore dei fratelli è possibile che ritornino in sé monaci[8] di dura cervice. Ma ecco che costoro sono spesso utili come la mano destra. Quasi sempre questi tali, quando hanno un carisma visibile agli altri, difficilmente si umiliano. Loro solo credono di essere, gli altri non sono. C’è dunque bisogno di molta fatica e di molta pazienza, fino a che non sia sradicato il vecchio fondamento della superbia e sia posto come altro fondamento l’umiltà e l’obbedienza del Cristo. Tuttavia vedendo il Signore le fatiche e la disposizione sia di questi soggetti stessi che degli altri (ieronda e fratelli), permette che abbiano un’altra tentazione che contraddice la loro passione, e, per la sua misericordia, salva pure loro, “Lui che vuole che tutti siano salvi” (1 Tm 2,2). Tu guarda bene a chi vuoi somigliare. Sarebbe bello che tutti fossero di carattere buono, umili e obbedienti. Ma, se capita a qualcuno (di essere) di natura dura, non disperi. Ci vuole lotta, ma per la grazia di Dio si può vincere. E Dio non è ingiusto da chiedere una cosa invece di un’altra. Secondo il carisma che ha dato, così ne richiede la resa. Poiché dall’inizio della creazione ha separato gli uomini in tre ordini. Ad uno ha dato cinque talenti, ad un altro due ed a un altro ancora uno (Mt 25,14ss). Il primo ha carismi superiori; è più capace nella mente e viene chiamato “ammaestrato da Dio” (Gv 6,45), perché riceve da Dio senza essere istruito. Come erano nell’epoca antica Antonio il grande, sant’ Onofrio, santa Maria (egiziaca), Cirillo Fileoti, Luca da Stirìo e migliaia di altri, i quali senza guida divennero perfetti. | L’altro (ordine) deve essere ammaestrato nel bene per compierlo. Il terzo invece, anche se ascolta, anche se impara, lo nasconde nella terra; non combina nulla.

Per questo dunque esiste tanta differenza fra gli uomini e fra i monaci che vedi. Per questo prima di tutto il “conosci te stesso”[9]. Cioè conoscerti così come sei. Come sei in realtà, non come ritieni di essere. Con questa conoscenza diventi il più sapiente degli uomini. Con questa coscienza giungi all’umiltà[10] e ricevi grazia dal Signore. Ma se non acquisti la conoscenza di te, e conti solo sulla tua fatica, sappi che ti troverai sempre lontano dalla via. Infatti il Profeta non dice: “Vedi Signore, la mia fatica”, ma “Vedi – dice – la mia umiltà e la mia fatica” (Sal 24,18). La fatica è per il corpo, l’umiltà per l’anima. Le due insieme, fatica e umiltà, (sono) per l’uomo nella sua totalità.

Chi ha potuto vincere il diavolo? Chi ha conosciuto la propria debolezza, le passioni e le mancanze che ha. Chi teme di conoscere sé stesso costui è lontano dalla conoscenza; costui non sa nient’altro se non vedere solo difetti negli altri e giudicarli. Negli altri non vede carismi, ma solo mancanze; non vede in sé stesso mancanze ma solo carismi. E questo è veramente il difetto di cui soffriamo noi uomini del ventesimo secolo, che non riconosciamo l’uno il carisma dell’altro. Uno da solo è privo di molte cose, ma la moltitudine le ha tutte. Ciò che uno ha l’altro non lo ha. Se riconosciamo questo si genera molta umiltà. In quanto Dio è onorato e glorificato, Lui che ha adornato gli uomini in modo vario e nel suo disegno ha voluto l’inuguaglianza per tutte le sue creature. Non come vogliono gli empi, che portano l’uguaglianza sovvertendo la creazione. Dio ha fatto tutto con sapienza.

Per cui, figlio mio, ora che sei all’inizio, abbi cura di conoscere bene te stesso, perché possa porre come fondamento stabile l’umiltà. Abbi cura di imparare l’obbedienza (Eb 5,8) e di acquisire la preghiera. Il “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me” sia il tuo respiro. Non lasciare la tua mente disoccupata; per non essere ammaestrato nel male. Non permetterti di osservare i difetti degli altri, perché, senza che te ne accorga, ti troverai ad essere cooperatore del maligno e incapace di progredire nel bene. Non combattere con ignoranza contro il nemico della tua anima. Il diavolo è astuto e si sa nascondere bene dietro alle passioni e alle debolezze. Per cui, per poterlo colpire, devi combattere, mettere a morte il tuo io, le tue passioni. Quando muore l’uomo vecchio, allora viene ridotta a nulla la potenza del nemico e dell’avversario. La nostra lotta non è nei confronti dell’uomo, che puoi, secondo il caso uccidere in mille modi, ma è nei confronti dei principati e delle potenze della tenebra (Ef 6,12). Non si combattono con dolci e lukumi, ma con torrenti di lacrime, con sofferenza dell’anima fino alla morte, con suprema umiltà e grandissima pazienza. Fino a far scorrere sangue per la superfatica della preghiera, ad accasciarti per settimane spossato, gravemente ammalato. E senza abbandonare la battaglia, fino a che non siano stati vinti e non battano in ritirata i demoni. Allora otterrai libertà dalle passioni.

E dunque, figlio mio, fa’ violenza a te stesso dall’inizio, per poter entrare attraverso la porta stretta (Mt 7,13) perché questa sola introduce nella spaziosità del Paradiso. Taglia ogni giorno e ogni ora la tua volontà[11] e non cercare altra via se non questa. È quella che hanno battuto i piedi dei santi Padri. Rivela anche tu al Signore la tua via ed Egli ti guiderà (Sal 36,5). Rivela allo ieronda i tuoi pensieri ed egli ti guarirà. Non nascondere mai un tuo pensiero, poiché dentro di esso si trova nascosta la malizia del diavolo; nel dirlo si dissolve. Non rivelare un difetto di un altro, a tua giustificazione, perché la grazia subito rivela i tuoi, essa che fino adora ti copriva. Quanto tu con amore copri il fratello, tanto la grazia ti nutre e ti protegge dalle calunnie degli uomini.

Riguardo poi all’altro fratello, di cui parli, si vede che ha peccati non confessati, poiché si vergogna di dirli allo ieronda, e per questo prende piede la tentazione. Ma bisogna correggere questa cosa che è fuori posto. Perché senza una pura confessione l’uomo non si purifica. Ed è un peccato lasciarsi giocare dal diavolo. Nel profondo c’è nascosto l’egoismo. Il Signore lo illumini perché ritorni in sé stesso. Tu prega e abbi carità verso di lui e verso tutti, guardandoti però da tutti. Ad ogni modo ora che sei entrato nello stadio proverai molte specie di tentazioni: preparati a portare pazienza. Di’ incessantemente la preghiera e il Signore ti aiuterà con la sua grazia. Le tentazioni non sono mai più forti della grazia.

4.

FIGLIO MIO, SE FAI ATTENZIONE A CIO’ CHE TI SCRIVO.

Figlio mio, se fai attenzione a ciò che ti scrivo e fai violenza a te stesso, ne avrai un grande beneficio. Tutte queste cose ti succedono perché non ti fai violenza nella preghiera. Fatti violenza dunque. Di’ continuamente la preghiera. Non fare riposare per nulla la bocca. Così la renderai abituale in te e poi la mente la farà sua. Non dare licenza ai pensieri, poiché ti infiacchisci e ti contamini. Preghiera, continua violenza alla natura, e vedrai quanta grazia riceverai!

La vita dell’uomo, figlio mio, è tribolazione, perché è in esilio. Non cercare un perfetto riposo. Il Cristo ha preso su di sé la croce, e anche noi la prenderemo. Se sopportiamo tutte le tribolazioni, troveremo grazia dal Signore. Per questo il Signore permette che siamo tentati, per mettere alla prova lo zelo e l’amore che abbiamo verso di Lui. Per cui c’è bisogno di pazienza. Senza la pazienza l’uomo non diventa “pratico”, non apprende le realtà spirituali, non giunge a (grandi) misure di virtù e di perfezione. Ama Gesù e dì incessantemente la preghiera ed essa ti illuminerà nella sua via.

Guardati dal giudicare, perché a causa di ciò Dio si ritira, la grazia fugge e il Signore ti lascia cadere perché tu venga umiliato e possa vedere i tuoi difetti. Quanto scrivi va bene. La prima cosa che percepisci è la grazia di Dio, che, quando giunge, rende l’uomo spirituale. Tutto gli pare bello e buono. Allora ama tutti; ha compunzione, lacrime e fervore nell’anima. Ma quando la grazia si ritira per mettere alla prova l’uomo, allora tutto diviene carnale e l’anima cade in basso. Tuttavia in quell momento non perdere il tuo slancio, ma grida continuamente la preghiera: con Violenza, con forza, con molta sofferenza. Signore Gesù Cristo abbi pietà di me! Di nuovo e molte volte la stessa (invocazione) di continuo. E, come se fissassi il Cristo con la mente, dì: “Ti rendo grazie, mio Signore per i beni che mi hai dato e per i mali che soffro. Gloria a te, Dio mio, gloria a te!”. Se porterai pazienza, di nuovo verrà la grazia, di nuovo la gioia. Ma poi ancora la tentazione e la tristezza, il turbamento e l’irritazione. E di nuovo lotte e vittoria e rendimento di grazie. Questo succede fino a quando a poco a poco sei purificato dalle passioni e diventi spirituale. Invecchiando, poi, col tempo giungi alla impassibilità. Ma lotta! Non volere che i beni vengano da sé stessi. Con le piume non si fa il monaco. Il monaco deve essere ingiuriato, deriso, provato, deve cadere, alzarsi, divenire uomo. Non nelle braccia della sua mamma. È mai possibile? Si è mai sentito dire che uno sia divenuto monaco vicino a sua mamma, la quale appena dici: “Oh!”, (subito aggiunge:) “Mangia, per non indebolirti!”. L’ascesi richiede privazioni. I beni non li trovi nei bagni e nella vita comoda. Ci vuole lotta e molta fatica. Bisogna gridare giorno e notte a Cristo. Ci vuole pazienza in tutte le tentazioni e le tribolazioni. Bisogna soffocare l’ira e il desiderio. Faticherai molto, fino a quando capirai che la preghiera senza attenzione e sobrietà è perdita di tempo, fatica senza salario. Devi costituire su tutti i sensi interiori ed esteriori, come guardia che non prende mai sonno, la vigilanza. Perché senza di essa la mente ele forze dell’anima si disperdono nelle cose vane e abitudinarie, come l’acqua inutile che corre nelle strade. Nessuno ha mai trovato la preghiera, senza vigilanza esobrietà. Nessuno è mai stato trovato degno di salire verso le realtà dell’alto senza che prima avesse disprezzato quelle del basso. Molte volte tu preghi e la tua mente vaga qui e là, dove le piace, verso quelle cose da cui è attratta per abitudine. Occorre violenza per sradicarla di lì, perché possa così prestare attenzione alle parole della preghiera. Spesso nel tuo pensiero, nella tua parola, nel tuo udito, nel tuo sguardo si insinua con inganno il nemico e non te ne accorgi. Te ne rendi conto dopo, e ci vuole lotta per essere purificato. Tuttavia non venir meno nella battaglia contro gli spiriti della malvagità. Per la grazia di Cristo vincerai e ti rallegrerai per quanto ti sei rattristato. Inoltre fa’ attenzione, dillo anche agli altri, fate attenzione a non lodarvi l’un l’altro in faccia. Perché la lode reca danno anche ai perfetti, non solo a voi che ancora siete deboli. Un visitatore disse ad un santo, per tre volte, che intrecciava bene il suo lavoro. E la terza volta gli disse il santo: “Da quando sei entrato qui, o uomo, hai cacciato Dio da me!”[12].

Vedi che esatta conformità (alla virtù) avevano i santi? Per questo in tutte le cose occorre molta attenzione. Solo gli insulti[13] e gli oltraggi sono di giovamento spirituale all’uomo. Perché da essi viene generata l’umiltà. Guadagna corone. Portando pazienza soffoca l’egoismo e la vanagloria.

Per cui quando ti insultano (dicendoti) superbo, ipocrita, impaziente, e cose simili, è il momento della pazienza. Se parli, hai perso. Abbi dunque sempre il timore di Dio, amore verso tutti e guardati dal rattristare e dal nuocere qualcuno in un modo o nell’altro, perché nel momento della preghiera avrai quale impedimento l’afflizione del tuo fratello. Sii per tutti un buon esempio in parole ed in opere e la grazia divina sempre ti coprirà e ti aiuterà. Sta attento, figlio mio, a non dimenticare mai in tutta la tua vita che il monaco deve essere di esempio per coloro che vi vano nel mondo enon di scandalo, come a sua volta lui deve prendere l’esempio dagli angeli. Per cui deve fare molta attenzione, perché il satana non lo derubi. È veramente necessario che il monaco esca per andare nel mondo? Esca pure. Ma deve essere tutto occhio, tutto luce, per vedere bene, perché non gli succeda di essere di vantaggio agli altri e di danno a sé stesso. Uscendo per andare nel mondo corrono pericoli in modo massimo i monaci giovani ele monache che sono ancora nel fiore della loro età; camminano fra le trappole.

Per coloro che sono un po’ avanzati nell’età eche si sono appassiti a causa dell’ascesi, non è tanto il timore. Costoro non ne ricevono danno tanto quanto possono trarne giovamento, se hanno esperienza e sapienza. Ma in genere ogni monaco non trae nessun profitto dal mondo, se non onore elodi, con cui lo lavano per bene e (così) rimane spoglio. Povero lui se la grazia divina non lo coprisse, in rapporto alle necessità e allo scopo per cui esce.


[1] Dalla “Divina Liturgia” di s. Giovanni Crisostomo. Acclamazione che il sacerdote canta alla consacrazione immediatamente prima dell’epiclesi: “I tuoi (doni provenienti) dai tuoi (doni) a te offriamo in tutto e per tutto”.

[2] Nel pensiero dei Padri ricorre frequentemente l’esortazione ad unire la preghiera, il ricordo incessante di Dio e della parola di Dio, al respiro: *Il ricordo di Gesù si unisca al tuo respiro, e allora conoscerai l’utilità dell’isichia” (Climaco, Scala del Paradiso, XXVII B, 26; cfr. anche IV, 113; XIV, 30)

[3] L’espressione “trovare la preghiera” vuole sottolineare la fatica e la lotta per raggiungere lo stato di preghiera continua.

[4]  Paolo Everghetinòs, Raccolta delle parole pronunciate da Dio e degli insegnamenti dei santi Padri portatori di Dio, 4 voll., V ed., Atene 1957-1961.

[5] Questo libretto riprende il contenuto, sviluppandolo, della “Lettera ad un eremita esicasta” (L 82).

[6] Si tratta delle “Omelie spirituali” (PG XXXIV).

[7] “Farsi violenza” è una delle espressioni che ricorre con frequenza martellante in questo epistolario (cfr. Indice Analitico). Lo ieronda Iosìf – come lui stesso attesta nella lettera 81 – la fonda su Mt 11,12: “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora il regno dei cieli patisce violenza e i violenti lo rapiscono”. È la violenza di chi ama appassionatamente il Signore e sa, per esperienza, che solo così può custodire il tesoro divino. Di costui è detto: “Colui che fa violenza a sé stesso per amore di Dio è simile a un confessore” (PJ, Appendice, 38), cioè è testimone della fede allo stesso modo di coloro che la testimoniano fino al sangue, i martiri. I Padri che lo ieronda Iosìf leggeva insistono non poco su questa realtà: “Coloro che, col corpo, hanno intrapreso l’ascensione al cielo hanno bisogno veramente di farsi violenza e di soffrire di continuo”; “Il monaco è una continua violenza fatta alla natura umana…” (Scala del Paradiso  I, 10); “Beato colui che, oltraggiato e disprezzato ogni giorno, si fa violenza per il Signore. Costui si unirà al coro dei martiri e si intratterrà confidenzialmente. con gli angeli” (Scala del Paradiso  IV,37); “Il digiuno è una violenza fatta alla natura” (XIV, 37).

[8] Letteralmente “ipotaktikì” (sottomessi). Il  monaco che vive sotto il giogo soave dell’obbedienza, in una totale consegna al suo padre spirituale, viene chiamato “ipotaktikòs”, sottomesso, con lo stesso termine che Lc 2,51 usa per indicare l’essere di Gesù nei confronti dei suoi genitori a Nazareth.

[9] La mistica cristiana del ritorno in sé (cfr. Lc 15,17) ha un senso completamente diverso dal ‘conosci te stesso’ socratico. I Padri orientali ne hanno sempre avuto una coscienza chiara. Il Monte Athos, poi, al riguardo ha conservato gelosamente la testimonianza di s. Gregorio Palamas nella sua lotta per difendere la concezione biblica della conoscenza contro la minaccia del pensiero filosofico: “Ecco dunque dove i filosofi conducono quelli che non si accorgono del trabocchetto, con il loro ‘conosci te stesso’; ed essi pensano di parlare conformemente ai nostri Padri!” (PD I, 1, par. 10, p.32). In questa lettera, come in altre (L 9; 63), lo ieronda Iosìf rivela la limpidezza del ‘conosci te stesso’ secondo il pensiero biblico e gli scritti dei Padri.

[10] Anche s. Giovanni Climaco inserisce la conoscenza di sé stessi nel grado “sull’umiltà”: “La conoscenza di sé stessi è una coscienza chiara della propria misura e un ricordo incessante delle minime colpe” (Scala del Paradiso XXV, 37; cfr. anche XXV, 28.45).

[11] Lo ieronda Iosìf è – in questa sequela di Cristo che è disceso dal cielo non per fare la sua volontà ma quella di Colui che l’ha mandato (cfr. Gv 6,38) – un maestro pieno di potenza e di Spirito Santo. Ne ha lasciata una testimonianza viva nei suoi discepoli che al Monte Athos continuano a vivere della sua eredità. Uno di essi, lo ieronda Iosìf j. ci diceva: “Dio non può obbedire perché non può rinunciare alla propria volontà, altri­menti non sarebbe Dio. Invece sono caratteristiche delle creature angeliche e corporee l’obbedienza, la sottomissione, la rinuncia quindi alla propria volontà e il taglio di essa. Adamo è caduto per voler fare la sua volontà. Dovete insegnare ai giovani a tagliare la propria volontà, a perderla; l’obbedienza è perdere la propria volontà, non seguire mai i propri deside­ri… Allora colui che è sottomesso viene liberato dalla schiavitù del peccato, dai pensieri; viene reso capace di ricevere la grazia e lo Spirito Santo lo adombra” (Da Cronache dal Monte Athos, Valleripa 1986, p. 207). Il taglio della volontà propria, la “crocifissio­ne del proprio io” (Lettera 43) è il nucleo centrale della vita del monaco, è il segreto per poter trovare la pace dell’anima ed accogliere la luce increata della grazia divina, è l’opera più grande di ogni altra perché richiede una violenza continua a se stessi, equivalente al martirio. “Spogliati della tua volontà come di una veste di vergogna ed entra nudo nello stadio della lotta” (Scala del Paradiso IV, 31). “Niente giova all’uomo quanto il recidere la propria volontà: con questa cosa si avanza veramente oltre ogni virtù. Come un uomo che percorre una strada e trova una scorciatoia, se la prende, grazie a quella scorciatoia guadagna una gran parte di quella strada, così è di chi percorre questa strada della recisione della propria volontà: se uno recide la sua volontà, acquista la libertà dalle passioni, e dalla libertà dalle passioni giunge, con l’aiuto di Dio, alla perfetta impassibilità” (Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali p. 60). “Beato colui che ha fatto morire completamente la propria volontà e ha abbandonato la cura della sua anima al suo maestro nel Signore: starà alla destra del Crocifisso” (Scala del Paradiso IV, 37). È così pericoloso fare la propria volontà, che i Padri giungono a dire: “Se vedi un giovane che sale al cielo con la propria volontà, prendilo per i piedi e tiralo giù, gli fa bene” (PJ X, 111).

[12] Detti dei Padri del deserto, vol. I, p. 253, n. 32.

[13] “Disse il padre Isaia: ‘Niente giova al novizio più del disprezzo. Il monaco che è disprezzato e che lo sopporta, è come una pianta che viene annaffiata ogni giorno'” (Detti op.cit., vol. I, p. 212, n. 1). L’insulto è una pratica normale che gli uomini veramente spirituali usano per purificare i loro figli. Così faceva lo ieronda Iosìf coi suoi, esortandoli pure ad insultare il proprio io “in tutto, dovunque” e a non cercare mai il proprio diritto e la propria volontà. Così facendo avrebbero potuto gustare in breve il frutto dell’umiltà (Lettera 72).