Anziano Iosif l’Esicasta: Lettere
1.
AD UN GIOVANE CHE CHIEDE DELLA “PREGHIERA”
Mio caro fratello in Cristo, mi auguro che tu stia bene. Oggi ho ricevuto la tua lettera e ti do risposta su quanto mi scrivi. Le informazioni che chiedi non richiedono tempa e fatica per pensare a risponderti.
La preghiera del cuore per me è come il mestiere per ciascuno, dal momento che la pratico da trentasei anni a questa parte.
Quando giunsi all’Aghion Oros cercai subito gli eremiti che praticavano la preghiera. Allora – quarant’anni fa – ce n’erano molti che avevano vita dentro di loro. Uomini di virtù. Vecchi monaci. Di questi, alcuni ne facemmo ieronda e li avevamo come guide.
Dunque, la prassi della preghiera del cuore consiste nel fare violenza al tuo io, nel dire continuamente la preghiera con la bocca, senza cessare. All’inizio velocemente, perché nella mente non faccia tempo a formarsi un pensiero di distrazione. Fa’ attenzione solo alle parole: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”. Così facendo per molto tempo, viene il momento in cui la mente si abitua nel dire questa preghiera. Sei riempito di dolcezza come se avessi miele nella tua bocca e vuoi sempre dirla. Se la interrompi ti angusti molto.
Quando la mente si abitua ad essa, si sazia e la impara bene, allora la invia nel cuore. Poiché la mente è la dispensatrice di alimento all’anima e il suo lavoro consiste nell’inviare ciò che di buono o di cattivo vede o ascolta al cuore, che è il centro della forza spirituale e corporale dell’uomo, il trono della mente. Dunque, quando l’orante tiene in suo potere la mente, si che non abbia alcuna fantasia, ma volga la sua attenzione solo alle parole della preghiera, allora, respirando leggermente con una certa violenza e volontà, la Fa scendere nel cuore e la tiene dentro come se fosse condannata alla reclusione e dice la preghiera con ritmo:
“Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”.
All’inizio dice quattro-cinque volte la preghiera e prende un respiro. Poi, quando la mente si abitua a rimanere ferma nel cuore, dice ad ogni respiro una preghiera. “Signore Gesù Cristo”: entra il respiro; “abbi pietà di me”: esce. Questo succede fino a quando la grazia comincia ad adombrare e ad operare nell’anima; dopo, ormai è contemplazione.
La preghiera si dice dovunque: sia seduto che a letto, sia camminando che in piedi. “Incessantemente pregate, in ogni cosa rendete grazie” (1Ts 5,17s.), dice l’Apostolo. Ma non devi pregare solo quando vai a riposare. Ci vuole lotta: in piedi-seduto. Quando ti stanchi, siediti. Poi di nuovo in piedi, perché non ti prenda il sonno. Queste cose vengono chiamate “prassi”. In esse mostri la tua disposizione verso Dio; ma il tutto dipende da Lui, se te lo dona. Dio è il principio e la fine. È la sua grazia che opera tutto. Essa è la forza movente.
Come poi giunge l’amore e come opera, questo sta nell’osservare i comandamenti. Quando ti alzi di notte e preghi, quando vedi il malato e patisci con lui, la vedova, gli orfani e i vecchi e hai misericordia di loro, allora Dio ti ama. E allora anche tu lo ami. Lui per primo ama ed effonde la sua grazia. E noi gli restituiamo le stesse cose da Lui ricevute, “i tuoi (doni provenienti) dai tuoi (doni)”[1].
Se dunque cerchi di trovarla solamente tramite la “preghiera”, non emettere respiro[2] senza la preghiera. Fa’ solo attenzione a non accogliere Fantasie. Perché il divino è senza forma, senza immagine, senza colore. Supera ogni perfezione. Non accetta ragionamenti. Opera come brezza leggera nei nostri pensieri.
La compunzione viene allorché pensi quanto hai rattristato Dio. Lui che è tanto buono, tanto dolce, tanto misericordioso; tanto benevolo, tutto pieno di amore. Lui che è stato crocifisso e che tutto ha patito per noi. Queste e altre cose che il Signore ha patito, quando le mediti, ti generano compunzione.
Dunque, se riesci a dire la preghiera con le labbra e incessantemente, in due-tre mesi la rendi abituale. Allora la grazia ti adombra e ti irrora. Solo devi pronunciarla con le labbra, senza interruzione.
Quando la mente la fa propria, allora ti riposerai dal dirla con la lingua. Poi di nuovo, quando la mente non la custodisce più, ricomincia la lingua. All’inizio bisogna compiere ogni sforzo con la lingua, fino a quando non ti abitui; in seguito, per tutti gli anni della tua vita, la mente la dirà senza fatica. Quando verrai, come dici, all’Aghion Oros, vieni a trovarci. Ma allora parleremo di altre cose. Non ti rimarrà tempo per la preghiera. La preghiera la troverai[3]li dove il tuo cervello sarà quieto. Qui, girando per i monasteri, la tua mente camminerà altrove, in quelle cose che ascolterai e vedrai. Sono certo che troverai la “preghiera”. Non dubitare. ‘Solamente bussa direttamente alla porta della divina misericordia e, in ogni modo, il Cristo ti aprirà; è impossibile (che non ti apra). Amalo molto, per poter ricevere molto. Dal tuo amore, molto o poco, dipende il dono, molto a poco.
2.
ALLO STESSO, RIGUARDO ALLA PREGHIERA,
E RISPOSTA A DOMANDE
Ho molto gioito per lo zelo giovanile che hai per la tua anima. Anch’io ho sete di rendermi utile ad ogni fratello che chiede di essere salvato. Dunque, fratello mio, caro e amato, apri le tue orecchie. Il destino dell’uomo, dal momento in cui è stato generato in questa vita, è di trovare Dio. “In Lui viviamo e ci muoviamo…” (At 17,28), ma le passioni ci hanno chiuso gli occhi naturali e non vediamo. Quando però il nostro Dio buonissimo volge il suo occhio verso di noi, allora ci svegliamo come dal sonno e cominciamo a chiedere la nostra salvezza.
Per cui, riguardo alla tua prima domanda: ora Dio ti ha visto, ti ha illuminato e ti guida. Mettiti al lavoro lì dove sei. Di’ incessantemente la preghiera: con la lingua e con la mente. Quando la lingua si stanca, cominci pure la mente. E di nuovo, quando la mente si appesantisce, la lingua. Solamente non smettere. Fa’ molte prostrazioni. Veglia la notte, per quanto puoi. E se si accende nel tuo cuore una fiamma per Dio, (se) cerchi esichia e non ce la fai a rimanere nel mondo – poiché dentro di te si accende la preghiera – allora scrivimi e io ti dirò che cosa fare. Se ancora la grazia non opera nel modo che abbiamo detto, ma lo zelo permane e tu metti in pratica i comandamenti del Signore verso il prossimo, allora sta tranquillo come sei, va bene così; non cercare niente altro. La diversità del trenta, del sessanta, del cento, la potrai conoscere quando leggerai l’Everghetinòs[4]. Vi troverai scritte anche molte altre simili cose e ne trarrai grande giovamento.
Ecco poi la risposta alle altre tue domande: la preghiera bisogna dirla così, con la parola interiore. Ma siccome all’inizio la mente non ci ha preso l’abitudine, la dimentica. Per questo la dici ora con la bocca ora con la mente. Ciò accade fino a quando la mente se ne riempie e diviene energia.
Energia viene chiamato quello stato in cui, quando dici la preghiera, percepisci dentro di te gioia ed esultanza e desideri dirla incessantemente.
Quando dunque la mente ha fatto sua la preghiera e si manifesta quella gioia di cui ti scrivo, allora viene detta di continuo, senza che tu ti faccia violenza. Questo (stato) si chiama percezione – energia, quando la grazia opera senza la volontà dell’uomo. Mangia, cammina, dorme, si sveglia, e nell’intimo la preghiera grida. Ed ha pace, gioia.
Ora per quanto riguarda le ore della preghiera, poiché sei nel mondo e hai diverse occupazioni, prega quando trovi tempo. Ma fatti violenza per non essere pigro. Per la “contemplazione” di cui chiedi, è difficile, perché necessita assoluta esichia. Lo stato spirituale si divide in tre ordini, e la
grazia opera nell’uomo analogamente. Uno stato viene chiamato purificante, purifica infatti l’uomo. La grazia che tu ora hai si dice purificante, essa guida l’uomo alla conversione. Ogni buona disposizione che hai verso le realtà spirituali proviene dalla grazia. Nulla è propriamente tuo. Essa compie la sua opera in tutto, segretamente. Questa grazia dunque, quando ti fai violenza, rimane con te qualche anno. Se poi quella persona progredisce tramite la preghiera del cuore, riceve un’altra grazia molto diversa.
Il primo (stato), come abbiamo detto, si chiama percezione-energia ed è quello purificante, in quanto l’orante percepisce dentro di sé movimento-energia divina.
L’altro si chiama illuminante. In esso riceve luce di conoscenza, viene fatto salire alla contemplazione di Dio. Non luci, non fantasie, non immaginazioni, ma limpidezza di mente, purezza di pensieri, profondità di concetti. Per giungere a questo, l’orante deve avere molta esichia e una guida infallibile.
E il terzo stato – adombramento della grazia – consiste nella grazia perfezionante, che è un grande dono. Di questo ora non ti scrivo, anche perché non c’è necessità. Se però vuoi leggere qualcosa al riguardo, ho scritto col mio analfabetismo un libretto manoscritto “Tromba mossa dallo Spirito”[5] su quando avvengono queste operazioni. Cercalo e lo troverai. Compra pure san Macarie[6] dal (signor) Schinà, e l’abbà Isacco; ne avrai grande profitto. Qualsiasi cambiamento, poi, potrai sperimentare scrivimi e ti risponderò prontissimamente. In tutto questo tempo ho scritto a quanti mi pongono questioni. Quest’anno sono venuti dalla Germania solamente per imparare la preghiera del cuore. Dall’America mi scrivono con tanto ardore. Da Parigi sono così numerosi quelli che chiedono fervidamente. Ma noi qui perché siamo negligenti? È forse un mestiere spregevole gridare continuamente il nome di Cristo perché ci faccia misericordia?
Alla fin fine, domina anche una oscura idea del diavolo, per la quale se uno dice la preghiera teme di ingannarsi, mentre invece è inganno proprio questo timore.
Chi vuole provi e, col perdurare dell’energia della preghiera, si creerà il Paradiso dentro di lui; sarà liberato dalle passioni, diventerà un altro uomo! E se poi è anche nel deserto, oh! oh! non si possono esprimere le bellezze della preghiera!
3.
AD UN MONACO CHE ENTRAVA NELLO STADIO DEL COMBATTIMENTO
Gioisci nel Signore, figlio amato che la grazia del mio Gesù ha illuminato e liberato dal mondo. Sei volato nel deserto e hai preso dimora nel cenobio con una santa sinodia. E ora dai lode e ringrazi con tutta l’anima Dio. La grazia divina, figlio mio, è come un’esca che senza fare violenza attira l’uomo alle realtà alte e superiori. Essa conosce il modo di irretire i pesci razionali e di trarli fuori dal mare del mondo. Ma dopo cosa succede? Quando fa uscire dal mondo colui che si accinge a condurre vita monastica e lo conduce nel deserto, non gli mostra subito né le sue passioni né le tentazioni fino a quando non diviene monaco e allora il Cristo lo vincola col suo timore. E così comincia la prova, la lotta e il combattimento. Se dall’inizio colui che è messo alla prova si fa violenza[7] e fa in tempo ad accendere la lucerna dell’ascesi con le sue lotte, essa non si spegne quando, all’arrivo delle tentazioni, la grazia si ritira. Diversamente, quando la grazia si ritira, ritornerà al suo primo stato. E, analogamente alle passioni che aveva nel mondo, insorgeranno le tentazioni e metteranno in moto le abitudini di prima, alle quali serviva e di cui era schiavo.
Prima di tutto sappi, figlio mio, che c’è molta differenza tra uomo e uomo e tra monaco e monaco. Ci sono anime di carattere tenero che facilmente obbediscono. Ma ci sono anche anime di carattere duro che non si sottomettono facilmente. C’è tanta differenza quanta dal bambagio al ferro. Il bambagio richiede solo l’unzione della parola. Ma il ferro richiede fuoco e la fornace delle tentazioni per essere lavorato. Questo tale deve avere molta pazienza nelle tentazioni perché avvenga la purificazione. Quando non ha pazienza, è una lampada senza olio; si spegne in breve e si perde. Quando dunque uno di siffatta natura più dura del ferro viene a farsi monaco, appena entra nello stadio, subito rinnega l’obbedienza. Subito rifiuta le promesse e rinuncia alla lotta. E lo vedi: appena la grazia si ritira un poco per mettere alla prova la sua disposizione e la sua pazienza, lui subito getta via le armi e comincia a pentirsi di essere venuto per farsi monaco. Trascorre i giorni pieno di disobbedienza e di amarezza, tutto contraddizione e arroganza.
In forza delle preghiere dello ieronda, la grazia allontana un po’ le nubi delle tentazioni perché ritorni in parte in sé e si risvegli; ma lui, dopo poco, di nuovo la sua volontà e di nuovo disobbedienza, di nuovo agitazione e turbamento. Mi scrivi del fratello che vedi lì (nel tuo monastero) e ti meravigli come mai pur faticando tanto nel compiere il suo servizio, domini ancora dentro di lui l’egoismo. Ma cosa credi? Che sia facile per l’uomo vincere una passione? Gli atti di bontà e di misericordia e tutte le altre azioni buone che si compiono all’esterno non addolciscono l’alterigia del cuore; ma solo la meditazione della mente, la fatica della conversione, la contrizione e l’umiltà, queste umiliano il pensiero altero. Un uomo non sottomesso è una grande e penosa fatica. Solo con molta pazienza costui può venire integrato (nella comunità). Solo con una grande pazienza degli ieronda e la tolleranza e l’amore dei fratelli è possibile che ritornino in sé monaci[8] di dura cervice. Ma ecco che costoro sono spesso utili come la mano destra. Quasi sempre questi tali, quando hanno un carisma visibile agli altri, difficilmente si umiliano. Loro solo credono di essere, gli altri non sono. C’è dunque bisogno di molta fatica e di molta pazienza, fino a che non sia sradicato il vecchio fondamento della superbia e sia posto come altro fondamento l’umiltà e l’obbedienza del Cristo. Tuttavia vedendo il Signore le fatiche e la disposizione sia di questi soggetti stessi che degli altri (ieronda e fratelli), permette che abbiano un’altra tentazione che contraddice la loro passione, e, per la sua misericordia, salva pure loro, “Lui che vuole che tutti siano salvi” (1 Tm 2,2). Tu guarda bene a chi vuoi somigliare. Sarebbe bello che tutti fossero di carattere buono, umili e obbedienti. Ma, se capita a qualcuno (di essere) di natura dura, non disperi. Ci vuole lotta, ma per la grazia di Dio si può vincere. E Dio non è ingiusto da chiedere una cosa invece di un’altra. Secondo il carisma che ha dato, così ne richiede la resa. Poiché dall’inizio della creazione ha separato gli uomini in tre ordini. Ad uno ha dato cinque talenti, ad un altro due ed a un altro ancora uno (Mt 25,14ss). Il primo ha carismi superiori; è più capace nella mente e viene chiamato “ammaestrato da Dio” (Gv 6,45), perché riceve da Dio senza essere istruito. Come erano nell’epoca antica Antonio il grande, sant’ Onofrio, santa Maria (egiziaca), Cirillo Fileoti, Luca da Stirìo e migliaia di altri, i quali senza guida divennero perfetti. | L’altro (ordine) deve essere ammaestrato nel bene per compierlo. Il terzo invece, anche se ascolta, anche se impara, lo nasconde nella terra; non combina nulla.
Per questo dunque esiste tanta differenza fra gli uomini e fra i monaci che vedi. Per questo prima di tutto il “conosci te stesso”[9]. Cioè conoscerti così come sei. Come sei in realtà, non come ritieni di essere. Con questa conoscenza diventi il più sapiente degli uomini. Con questa coscienza giungi all’umiltà[10] e ricevi grazia dal Signore. Ma se non acquisti la conoscenza di te, e conti solo sulla tua fatica, sappi che ti troverai sempre lontano dalla via. Infatti il Profeta non dice: “Vedi Signore, la mia fatica”, ma “Vedi – dice – la mia umiltà e la mia fatica” (Sal 24,18). La fatica è per il corpo, l’umiltà per l’anima. Le due insieme, fatica e umiltà, (sono) per l’uomo nella sua totalità.
Chi ha potuto vincere il diavolo? Chi ha conosciuto la propria debolezza, le passioni e le mancanze che ha. Chi teme di conoscere sé stesso costui è lontano dalla conoscenza; costui non sa nient’altro se non vedere solo difetti negli altri e giudicarli. Negli altri non vede carismi, ma solo mancanze; non vede in sé stesso mancanze ma solo carismi. E questo è veramente il difetto di cui soffriamo noi uomini del ventesimo secolo, che non riconosciamo l’uno il carisma dell’altro. Uno da solo è privo di molte cose, ma la moltitudine le ha tutte. Ciò che uno ha l’altro non lo ha. Se riconosciamo questo si genera molta umiltà. In quanto Dio è onorato e glorificato, Lui che ha adornato gli uomini in modo vario e nel suo disegno ha voluto l’inuguaglianza per tutte le sue creature. Non come vogliono gli empi, che portano l’uguaglianza sovvertendo la creazione. Dio ha fatto tutto con sapienza.
Per cui, figlio mio, ora che sei all’inizio, abbi cura di conoscere bene te stesso, perché possa porre come fondamento stabile l’umiltà. Abbi cura di imparare l’obbedienza (Eb 5,8) e di acquisire la preghiera. Il “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me” sia il tuo respiro. Non lasciare la tua mente disoccupata; per non essere ammaestrato nel male. Non permetterti di osservare i difetti degli altri, perché, senza che te ne accorga, ti troverai ad essere cooperatore del maligno e incapace di progredire nel bene. Non combattere con ignoranza contro il nemico della tua anima. Il diavolo è astuto e si sa nascondere bene dietro alle passioni e alle debolezze. Per cui, per poterlo colpire, devi combattere, mettere a morte il tuo io, le tue passioni. Quando muore l’uomo vecchio, allora viene ridotta a nulla la potenza del nemico e dell’avversario. La nostra lotta non è nei confronti dell’uomo, che puoi, secondo il caso uccidere in mille modi, ma è nei confronti dei principati e delle potenze della tenebra (Ef 6,12). Non si combattono con dolci e lukumi, ma con torrenti di lacrime, con sofferenza dell’anima fino alla morte, con suprema umiltà e grandissima pazienza. Fino a far scorrere sangue per la superfatica della preghiera, ad accasciarti per settimane spossato, gravemente ammalato. E senza abbandonare la battaglia, fino a che non siano stati vinti e non battano in ritirata i demoni. Allora otterrai libertà dalle passioni.
E dunque, figlio mio, fa’ violenza a te stesso dall’inizio, per poter entrare attraverso la porta stretta (Mt 7,13) perché questa sola introduce nella spaziosità del Paradiso. Taglia ogni giorno e ogni ora la tua volontà[11] e non cercare altra via se non questa. È quella che hanno battuto i piedi dei santi Padri. Rivela anche tu al Signore la tua via ed Egli ti guiderà (Sal 36,5). Rivela allo ieronda i tuoi pensieri ed egli ti guarirà. Non nascondere mai un tuo pensiero, poiché dentro di esso si trova nascosta la malizia del diavolo; nel dirlo si dissolve. Non rivelare un difetto di un altro, a tua giustificazione, perché la grazia subito rivela i tuoi, essa che fino adora ti copriva. Quanto tu con amore copri il fratello, tanto la grazia ti nutre e ti protegge dalle calunnie degli uomini.
Riguardo poi all’altro fratello, di cui parli, si vede che ha peccati non confessati, poiché si vergogna di dirli allo ieronda, e per questo prende piede la tentazione. Ma bisogna correggere questa cosa che è fuori posto. Perché senza una pura confessione l’uomo non si purifica. Ed è un peccato lasciarsi giocare dal diavolo. Nel profondo c’è nascosto l’egoismo. Il Signore lo illumini perché ritorni in sé stesso. Tu prega e abbi carità verso di lui e verso tutti, guardandoti però da tutti. Ad ogni modo ora che sei entrato nello stadio proverai molte specie di tentazioni: preparati a portare pazienza. Di’ incessantemente la preghiera e il Signore ti aiuterà con la sua grazia. Le tentazioni non sono mai più forti della grazia.
4.
FIGLIO MIO, SE FAI ATTENZIONE A CIO’ CHE TI SCRIVO.
Figlio mio, se fai attenzione a ciò che ti scrivo e fai violenza a te stesso, ne avrai un grande beneficio. Tutte queste cose ti succedono perché non ti fai violenza nella preghiera. Fatti violenza dunque. Di’ continuamente la preghiera. Non fare riposare per nulla la bocca. Così la renderai abituale in te e poi la mente la farà sua. Non dare licenza ai pensieri, poiché ti infiacchisci e ti contamini. Preghiera, continua violenza alla natura, e vedrai quanta grazia riceverai!
La vita dell’uomo, figlio mio, è tribolazione, perché è in esilio. Non cercare un perfetto riposo. Il Cristo ha preso su di sé la croce, e anche noi la prenderemo. Se sopportiamo tutte le tribolazioni, troveremo grazia dal Signore. Per questo il Signore permette che siamo tentati, per mettere alla prova lo zelo e l’amore che abbiamo verso di Lui. Per cui c’è bisogno di pazienza. Senza la pazienza l’uomo non diventa “pratico”, non apprende le realtà spirituali, non giunge a (grandi) misure di virtù e di perfezione. Ama Gesù e dì incessantemente la preghiera ed essa ti illuminerà nella sua via.
Guardati dal giudicare, perché a causa di ciò Dio si ritira, la grazia fugge e il Signore ti lascia cadere perché tu venga umiliato e possa vedere i tuoi difetti. Quanto scrivi va bene. La prima cosa che percepisci è la grazia di Dio, che, quando giunge, rende l’uomo spirituale. Tutto gli pare bello e buono. Allora ama tutti; ha compunzione, lacrime e fervore nell’anima. Ma quando la grazia si ritira per mettere alla prova l’uomo, allora tutto diviene carnale e l’anima cade in basso. Tuttavia in quell momento non perdere il tuo slancio, ma grida continuamente la preghiera: con Violenza, con forza, con molta sofferenza. Signore Gesù Cristo abbi pietà di me! Di nuovo e molte volte la stessa (invocazione) di continuo. E, come se fissassi il Cristo con la mente, dì: “Ti rendo grazie, mio Signore per i beni che mi hai dato e per i mali che soffro. Gloria a te, Dio mio, gloria a te!”. Se porterai pazienza, di nuovo verrà la grazia, di nuovo la gioia. Ma poi ancora la tentazione e la tristezza, il turbamento e l’irritazione. E di nuovo lotte e vittoria e rendimento di grazie. Questo succede fino a quando a poco a poco sei purificato dalle passioni e diventi spirituale. Invecchiando, poi, col tempo giungi alla impassibilità. Ma lotta! Non volere che i beni vengano da sé stessi. Con le piume non si fa il monaco. Il monaco deve essere ingiuriato, deriso, provato, deve cadere, alzarsi, divenire uomo. Non nelle braccia della sua mamma. È mai possibile? Si è mai sentito dire che uno sia divenuto monaco vicino a sua mamma, la quale appena dici: “Oh!”, (subito aggiunge:) “Mangia, per non indebolirti!”. L’ascesi richiede privazioni. I beni non li trovi nei bagni e nella vita comoda. Ci vuole lotta e molta fatica. Bisogna gridare giorno e notte a Cristo. Ci vuole pazienza in tutte le tentazioni e le tribolazioni. Bisogna soffocare l’ira e il desiderio. Faticherai molto, fino a quando capirai che la preghiera senza attenzione e sobrietà è perdita di tempo, fatica senza salario. Devi costituire su tutti i sensi interiori ed esteriori, come guardia che non prende mai sonno, la vigilanza. Perché senza di essa la mente ele forze dell’anima si disperdono nelle cose vane e abitudinarie, come l’acqua inutile che corre nelle strade. Nessuno ha mai trovato la preghiera, senza vigilanza esobrietà. Nessuno è mai stato trovato degno di salire verso le realtà dell’alto senza che prima avesse disprezzato quelle del basso. Molte volte tu preghi e la tua mente vaga qui e là, dove le piace, verso quelle cose da cui è attratta per abitudine. Occorre violenza per sradicarla di lì, perché possa così prestare attenzione alle parole della preghiera. Spesso nel tuo pensiero, nella tua parola, nel tuo udito, nel tuo sguardo si insinua con inganno il nemico e non te ne accorgi. Te ne rendi conto dopo, e ci vuole lotta per essere purificato. Tuttavia non venir meno nella battaglia contro gli spiriti della malvagità. Per la grazia di Cristo vincerai e ti rallegrerai per quanto ti sei rattristato. Inoltre fa’ attenzione, dillo anche agli altri, fate attenzione a non lodarvi l’un l’altro in faccia. Perché la lode reca danno anche ai perfetti, non solo a voi che ancora siete deboli. Un visitatore disse ad un santo, per tre volte, che intrecciava bene il suo lavoro. E la terza volta gli disse il santo: “Da quando sei entrato qui, o uomo, hai cacciato Dio da me!”[12].
Vedi che esatta conformità (alla virtù) avevano i santi? Per questo in tutte le cose occorre molta attenzione. Solo gli insulti[13] e gli oltraggi sono di giovamento spirituale all’uomo. Perché da essi viene generata l’umiltà. Guadagna corone. Portando pazienza soffoca l’egoismo e la vanagloria.
Per cui quando ti insultano (dicendoti) superbo, ipocrita, impaziente, e cose simili, è il momento della pazienza. Se parli, hai perso. Abbi dunque sempre il timore di Dio, amore verso tutti e guardati dal rattristare e dal nuocere qualcuno in un modo o nell’altro, perché nel momento della preghiera avrai quale impedimento l’afflizione del tuo fratello. Sii per tutti un buon esempio in parole ed in opere e la grazia divina sempre ti coprirà e ti aiuterà. Sta attento, figlio mio, a non dimenticare mai in tutta la tua vita che il monaco deve essere di esempio per coloro che vi vano nel mondo enon di scandalo, come a sua volta lui deve prendere l’esempio dagli angeli. Per cui deve fare molta attenzione, perché il satana non lo derubi. È veramente necessario che il monaco esca per andare nel mondo? Esca pure. Ma deve essere tutto occhio, tutto luce, per vedere bene, perché non gli succeda di essere di vantaggio agli altri e di danno a sé stesso. Uscendo per andare nel mondo corrono pericoli in modo massimo i monaci giovani ele monache che sono ancora nel fiore della loro età; camminano fra le trappole.
Per coloro che sono un po’ avanzati nell’età eche si sono appassiti a causa dell’ascesi, non è tanto il timore. Costoro non ne ricevono danno tanto quanto possono trarne giovamento, se hanno esperienza e sapienza. Ma in genere ogni monaco non trae nessun profitto dal mondo, se non onore elodi, con cui lo lavano per bene e (così) rimane spoglio. Povero lui se la grazia divina non lo coprisse, in rapporto alle necessità e allo scopo per cui esce.
[1] Dalla “Divina Liturgia” di s. Giovanni Crisostomo. Acclamazione che il sacerdote canta alla consacrazione immediatamente prima dell’epiclesi: “I tuoi (doni provenienti) dai tuoi (doni) a te offriamo in tutto e per tutto”.
[2] Nel pensiero dei Padri ricorre frequentemente l’esortazione ad unire la preghiera, il ricordo incessante di Dio e della parola di Dio, al respiro: *Il ricordo di Gesù si unisca al tuo respiro, e allora conoscerai l’utilità dell’isichia” (Climaco, Scala del Paradiso, XXVII B, 26; cfr. anche IV, 113; XIV, 30)
[3] L’espressione “trovare la preghiera” vuole sottolineare la fatica e la lotta per raggiungere lo stato di preghiera continua.
[4] Paolo Everghetinòs, Raccolta delle parole pronunciate da Dio e degli insegnamenti dei santi Padri portatori di Dio, 4 voll., V ed., Atene 1957-1961.
[5] Questo libretto riprende il contenuto, sviluppandolo, della “Lettera ad un eremita esicasta” (L 82).
[6] Si tratta delle “Omelie spirituali” (PG XXXIV).
[7] “Farsi violenza” è una delle espressioni che ricorre con frequenza martellante in questo epistolario (cfr. Indice Analitico). Lo ieronda Iosìf – come lui stesso attesta nella lettera 81 – la fonda su Mt 11,12: “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora il regno dei cieli patisce violenza e i violenti lo rapiscono”. È la violenza di chi ama appassionatamente il Signore e sa, per esperienza, che solo così può custodire il tesoro divino. Di costui è detto: “Colui che fa violenza a sé stesso per amore di Dio è simile a un confessore” (PJ, Appendice, 38), cioè è testimone della fede allo stesso modo di coloro che la testimoniano fino al sangue, i martiri. I Padri che lo ieronda Iosìf leggeva insistono non poco su questa realtà: “Coloro che, col corpo, hanno intrapreso l’ascensione al cielo hanno bisogno veramente di farsi violenza e di soffrire di continuo”; “Il monaco è una continua violenza fatta alla natura umana…” (Scala del Paradiso I, 10); “Beato colui che, oltraggiato e disprezzato ogni giorno, si fa violenza per il Signore. Costui si unirà al coro dei martiri e si intratterrà confidenzialmente. con gli angeli” (Scala del Paradiso IV,37); “Il digiuno è una violenza fatta alla natura” (XIV, 37).
[8] Letteralmente “ipotaktikì” (sottomessi). Il monaco che vive sotto il giogo soave dell’obbedienza, in una totale consegna al suo padre spirituale, viene chiamato “ipotaktikòs”, sottomesso, con lo stesso termine che Lc 2,51 usa per indicare l’essere di Gesù nei confronti dei suoi genitori a Nazareth.
[9] La mistica cristiana del ritorno in sé (cfr. Lc 15,17) ha un senso completamente diverso dal ‘conosci te stesso’ socratico. I Padri orientali ne hanno sempre avuto una coscienza chiara. Il Monte Athos, poi, al riguardo ha conservato gelosamente la testimonianza di s. Gregorio Palamas nella sua lotta per difendere la concezione biblica della conoscenza contro la minaccia del pensiero filosofico: “Ecco dunque dove i filosofi conducono quelli che non si accorgono del trabocchetto, con il loro ‘conosci te stesso’; ed essi pensano di parlare conformemente ai nostri Padri!” (PD I, 1, par. 10, p.32). In questa lettera, come in altre (L 9; 63), lo ieronda Iosìf rivela la limpidezza del ‘conosci te stesso’ secondo il pensiero biblico e gli scritti dei Padri.
[10] Anche s. Giovanni Climaco inserisce la conoscenza di sé stessi nel grado “sull’umiltà”: “La conoscenza di sé stessi è una coscienza chiara della propria misura e un ricordo incessante delle minime colpe” (Scala del Paradiso XXV, 37; cfr. anche XXV, 28.45).
[11] Lo ieronda Iosìf è – in questa sequela di Cristo che è disceso dal cielo non per fare la sua volontà ma quella di Colui che l’ha mandato (cfr. Gv 6,38) – un maestro pieno di potenza e di Spirito Santo. Ne ha lasciata una testimonianza viva nei suoi discepoli che al Monte Athos continuano a vivere della sua eredità. Uno di essi, lo ieronda Iosìf j. ci diceva: “Dio non può obbedire perché non può rinunciare alla propria volontà, altrimenti non sarebbe Dio. Invece sono caratteristiche delle creature angeliche e corporee l’obbedienza, la sottomissione, la rinuncia quindi alla propria volontà e il taglio di essa. Adamo è caduto per voler fare la sua volontà. Dovete insegnare ai giovani a tagliare la propria volontà, a perderla; l’obbedienza è perdere la propria volontà, non seguire mai i propri desideri… Allora colui che è sottomesso viene liberato dalla schiavitù del peccato, dai pensieri; viene reso capace di ricevere la grazia e lo Spirito Santo lo adombra” (Da Cronache dal Monte Athos, Valleripa 1986, p. 207). Il taglio della volontà propria, la “crocifissione del proprio io” (Lettera 43) è il nucleo centrale della vita del monaco, è il segreto per poter trovare la pace dell’anima ed accogliere la luce increata della grazia divina, è l’opera più grande di ogni altra perché richiede una violenza continua a se stessi, equivalente al martirio. “Spogliati della tua volontà come di una veste di vergogna ed entra nudo nello stadio della lotta” (Scala del Paradiso IV, 31). “Niente giova all’uomo quanto il recidere la propria volontà: con questa cosa si avanza veramente oltre ogni virtù. Come un uomo che percorre una strada e trova una scorciatoia, se la prende, grazie a quella scorciatoia guadagna una gran parte di quella strada, così è di chi percorre questa strada della recisione della propria volontà: se uno recide la sua volontà, acquista la libertà dalle passioni, e dalla libertà dalle passioni giunge, con l’aiuto di Dio, alla perfetta impassibilità” (Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali p. 60). “Beato colui che ha fatto morire completamente la propria volontà e ha abbandonato la cura della sua anima al suo maestro nel Signore: starà alla destra del Crocifisso” (Scala del Paradiso IV, 37). È così pericoloso fare la propria volontà, che i Padri giungono a dire: “Se vedi un giovane che sale al cielo con la propria volontà, prendilo per i piedi e tiralo giù, gli fa bene” (PJ X, 111).
[12] Detti dei Padri del deserto, vol. I, p. 253, n. 32.
[13] “Disse il padre Isaia: ‘Niente giova al novizio più del disprezzo. Il monaco che è disprezzato e che lo sopporta, è come una pianta che viene annaffiata ogni giorno'” (Detti op.cit., vol. I, p. 212, n. 1). L’insulto è una pratica normale che gli uomini veramente spirituali usano per purificare i loro figli. Così faceva lo ieronda Iosìf coi suoi, esortandoli pure ad insultare il proprio io “in tutto, dovunque” e a non cercare mai il proprio diritto e la propria volontà. Così facendo avrebbero potuto gustare in breve il frutto dell’umiltà (Lettera 72).