San Leone Magno: Secondo discorso tenuto nel Natale del Signore

SECONDO DISCORSO TENUTO NEL NATALE DEL SIGNORE

1. Dilettissimi, esultiamo nel Signore e con spirituale gaudio rallegriamoci, perché è spuntato per noi il giorno luminoso della nuova redenzione, dell’antica preparazione, della felicità eterna. Perché con il ciclo liturgico annuale ci viene reso presente il mistero della nostra salvezza, promesso all’inizio del mondo, attuato nel tempo stabilito per durare senza fine.

In questo giorno è giusto che noi, elevati in alto i cuori, adoriamo il divino mistero, affinché sia celebrato dalla Chiesa con grande letizia quel che si compie per gratuita generosità di Dio.

Infatti, Dio onnipotente e clementissimo, la cui natura è bontà, la cui volontà è potenza, la cui azione è misericordia, allorché la malizia del diavolo con il veleno del suo odio ci sottomise alla morte, tosto indicò all’inizio del mondo la medicina che la sua misericordia metteva a disposizione per risollevare il genere umano. Preannunciò al serpente la futura discendenza della donna che con la propria virtù gli avrebbe schiacciato il capo, sempre altero o pronto a mordere. In tal modo preannunciò Cristo, l’Uomo-Dio, che doveva venire nella carne e che, nascendo dalla Vergine con una nascita immacolata, doveva condannare colui che violò l’integrità del genere umano.

Infatti il diavolo, trovando un sollievo alle proprie pene nel compagno di peccato, si gloriava che l’uomo, da lui ingannato, fosse stato privato dei doni divini e, spogliato della immortalità, fosse stato assoggettato a dura sentenza di morte; in più si gloriava perché Dio, secondo le esigenze della giustizia, era stato costretto a cambiare proposito riguardo all’uomo che egli aveva creato insignito di grande dignità. Per questo è stato necessario che Dio, immutabile, la cui volontà è inseparabile dalla benignità, adempisse con segreta economia e con occulto mistero il suo primo disegno di grazia ai nostri riguardi, affinché l’uomo, caduto in colpa per l’insidia del maligno diavolo, contrariamente al piano di Dio, non perisse.

2. Dilettissimi, appena giunti i tempi prestabiliti per la redenzione degli uomini, Gesù Cristo, Figlio di Dio, fa il suo ingresso nella bassa condizione di questo mondo: discende dalla sede celeste senza, però, allontanarsi dalla gloria del Padre: è generato in un nuovo stato e con una nuova nascita. È nuovo il suo stato, perché, pur rimanendo invisibile nella sua natura è diventato visibile nella natura nostra. Egli che è l’immenso, ha voluto essere racchiuso nello spazio: pur restando nella sua eternità ha voluto incominciare a esistere nel tempo. Il Signore dell’universo, nascosta sotto il velo la gloria della sua maestà, ha assunto la natura di servo. Dio, inviolabile, non ha sdegnato di assoggettarsi al dolore; l’immortale non ha rifiutato di sottomettersi alla legge della morte.

Inoltre è stato generato con novità nella nascita, perché è stato concepito dalla Vergine ed è nato dalla Vergine senza l’intervento di padre terreno e senza la violazione della integrità della madre. A chi doveva essere il Salvatore degli uomini era conveniente una tale nascita, perché avesse in sé la natura umana e non conoscesse la contaminazione della umana carne. Dio stesso, infatti, è l’autore della nascita corporea di Dio e l’arcangelo l’ha attestato alla Santa Vergine Maria: «Lo Spirito santo verrà sopra di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà della sua ombra: per questo il bambino santo che nascerà, sarà chiamato Figlio di Dio».

Dunque la sua origine è diversa dalla nostra, ma la sua natura è uguale alla nostra. Il fatto che la Vergine abbia concepito, che la Vergine abbia partorito e poi sia rimasta ancora vergine, certamente è estraneo alla comune esperienza umana, poiché è fondato sulla divina potenza. In questo caso, difatti, non bisogna considerare la condizione di colei che partorisce, ma il volere di colui che nasce, il quale è nato dall’uomo nel modo che ha voluto e potuto. Se tu osservi la realtà della natura, costati la sostanza umana; ma se scruti la causa dell’origine, vi riconosci la potenza divina. Invero, Gesù Cristo, nostro Signore, è venuto per abolire il contagio del peccato, non per tollerarlo; è venuto per curare ogni malattia di corruzione e tutte le ferite delle anime macchiate. Era dunque opportuno che nascesse in maniera nuova colui che apportava agli uomini una nuova grazia di immacolata integrità. Era necessario che l’integrità di chi nasceva conservasse la nativa verginità della madre e che l’adombramento della virtù dello Spirito santo mantenesse inviolato quel santuario di purezza e dimora della santità di cui si compiaceva. Gesù, difatti, aveva stabilito di rialzare la creatura che era precipitata in basso, di ricomporre ciò che si era infranto e di donare e accrescere la virtù della castità per cui potesse essere vinta la concupiscenza della carne. Dio ha voluto in tal maniera che la verginità, necessariamente violata nella generazione degli altri uomini, fosse imitabile negli altri con la rinascita spirituale.

3. Il fatto stesso, dilettissimi, che Cristo abbia scelto di nascere da una vergine, non mostra forse che era mosso da un motivo altissimo? Egli voleva che il diavolo ignorasse la nascita del Salvatore del genere umano; così ignaro dello spirituale concepimento, il maligno non avrebbe pensato a una nascita diversa da quella degli altri uomini, perché lo vedeva non differente dagli altri. Egli ha osservato la natura di lui, simile alla nostra e ha creduto che egli fosse compreso nella condanna di tutti gli altri. Non comprese che era estraneo ai ceppi, procuratici dalla disobbedienza, colui che non vedeva libero dall’umana debolezza. Infatti Dio, verace e misericordioso, disponeva di molti modi per restaurare il genere umano, ma ha scelto questa via della redenzione per seguire un criterio di giustizia, anziché fare uso della sua potenza nel distruggere il male compiuto dal diavolo. Il superbo e antico nemico rivendicava per sé, non senza qualche ragione, un diritto di tirannia su tutti gli uomini; e opprimeva con dominazione non illegittima quelli che dal comando di Dio aveva trascinato a rendere ossequio spontaneo alle sue voglie. Perciò non avrebbe giustamente perduto la servitù del genere umano, instaurata agli inizi del mondo, se non fosse stato vinto da chi prima aveva assoggettato. Perché questo disegno si attuasse, Cristo, senza intervento di uomo, è stato concepito dalla Vergine, fecondata non dalla unione carnale, ma dallo Spirito santo. Le madri tutte non concepiscono senza la macchia del peccato; al contrario essa fu purificata dal fatto che concepì. Là dove non c’è stata immissione del seme paterno, neppure vi si è mescolata l’origine inquinante del peccato. La verginità inviolata non conobbe la concupiscenza; solo somministrò la sostanza. Dalla madre fu assunta la natura dell’uomo, non la colpa. La natura di servo è stata fatta senza portare con sé la condizione servile, perché l’uomo nuovo è stato misurato sul vecchio in modo da assumere la realtà della natura e da escludere l’antico peccato.

Perché la verace misericordia di Dio, pur avendo a disposizione molti mezzi per redimere il genere umano, prima di ogni altra volle percorrere questa via utile al suo piano: annientare l’opera del diavolo ricorrendo non all’efficacia della potenza, ma alla ragione dell’equità. La superbia dell’antico avversario non a torto rivendicava a sé nei confronti di tutti gli uomini il diritto del tiranno, e non senza ragione teneva oppressi sotto il suo dominio coloro che egli aveva indotto con lusinghe a rifiutare il comandamento di Dio e a servire di loro spontanea volontà al suo volere. Perciò non avrebbe potuto perdere, secondo la norma di giustizia, la schiavitù del genere umano a lui soggetto fin dall’origine, se non fosse stato vinto dallo stesso genere umano che egli aveva asservito.

4. Il misericordioso e onnipotente Salvatore ha regolato fin dall’inizio l’assunzione della natura umana in tal maniera da tenere nascosta la potenza divina, inseparabile dall’umanità assunta, col velo della nostra infermità. Fu, così, ingannata l’astuzia del nemico che credette la nascita del fanciullo, nato per la salvezza del genere umano, sottomessa al suo dominio, come quella di tutti gli uomini che nascono. Lo vide che vagiva e lacrimava; l’osservò avvolto in pochi panni, soggetto alla circoncisione e riscattato con l’offerta del sacrificio legale. In seguito conobbe il normale sviluppo della sua puerizia e non poté mettere in dubbio la sua naturale crescita finché giunse a età virile. Mentre tutto ciò si compiva, egli scagliò oltraggi, moltiplicò le ingiurie, usò maledizioni, obbrobri, bestemmie e calunnie e in ultimo rovesciò contro Cristo tutta la potenza del suo furore passando in rassegna tutte le possibili tentazioni. Ben conscio di avere col suo veleno prostrata la natura umana, non credette neppure lontanamente che fosse libero dal peccato chi da tante prove era riconoscibile per mortale. Perciò il diavolo, scellerato saccheggiatore e avaro esattore, persisté nella lotta contro chi nulla aveva in sé di malizia. Ma mentre lo perseguitava rivendicando l’esecuzione della sentenza di condanna per tutti gli uomini, riposta nell’origine intaccata dal peccato, oltrepassò la misura fissata nel decreto che gli serviva di sostegno, perché reclamò la pena del peccato da colui nel quale non scoprì nessuna colpa.

Così per un consiglio poco accorto fu annullata la perfida scrittura del contratto di morte; per l’ingiustizia commessa nell’esigere di più, venne abolito tutto il debito. Quel forte viene incatenato con i suoi stessi ceppi e ogni astuzia del maligno viene ripiegata nel suo capo. Appena il principe del mondo è così incatenato, gli vennero sottratti i vasi preziosi della schiavitù. La natura purificata dal vecchio contagio, ritorna nel suo onore; la morte è distrutta con la morte, la nascita è restaurata con la nuova natività. Simultanei sono questi effetti: la redenzione abolisce la schiavitù, la rigenerazione trasforma l’origine e la fede rende giusto il peccatore.

5. Dunque, chiunque tu sia che vuoi gloriarti del nome di cristiano, pondera con giusto giudizio la grazia di questa riconciliazione. A te, una volta prostrato ed escluso dal Paradiso, a te, destinato a morire ininterrottamente durante un lungo esilio e disperso alla stregua della polvere e della cenere, a te, senza speranza di vivere, è stata data con l’incarnazione del Verbo la facoltà di tornare, dal lontano luogo ove eri, al tuo Creatore, di riconoscere il tuo padre, di passare dalla servitù alla libertà, di essere innalzato dalla condizione di forestiero alla dignità di figlio. Così a te, nato dalla carne corruttibile, è stata data la facoltà di rinascere dallo Spirito di Dio e di ottenere per grazia ciò che non avevi per natura, in modo che riconoscendoti, mediante lo Spirito di adozione, come figlio di Dio, possa ardire di chiamare Dio tuo Padre. Ora che sei sciolto dal reato della cattiva coscienza, aspira al regno celeste; adempi la volontà di Dio, sostenuto dal divino aiuto; imita gli angeli sopra la terra; nùtriti della virtù di una sostanza immortale; combatti con sicurezza contro le tentazioni ostili in ossequio alla religione di Dio, e se avrai rispettato il giuramento della milizia celeste, sii certo che sarai incoronato per la vittoria nei campi trionfali dell’eterno Re, quando la risurrezione, preparata ai cultori di Dio, ti investirà per innalzarti alla società del regno celeste.

Dilettissimi, fiduciosi in così grande aspettativa, rimanete stabili nella fede in cui siete stati fondati. Non sia mai che il tentatore, privato da Cristo della dominazione sopra di voi, vi abbia a sedurre di nuovo con insidie e riesca a profanare con la sua raffinata arte di inganni le gioie stesse del giorno presente. Non sia mai che riesca a illudere gli uomini più semplici con la nefanda persuasione di certuni, ai quali questo giorno della nostra solennità pare degno di festa non tanto a motivo della nascita di Cristo, quanto per il natale del nuovo sole. Le menti di costoro sono avvolte in dense tenebre e sono ben lontane dal far progressi nella vera luce. Si trascinano dietro i pazzeschi errori dei gentili, e perché sono incapaci di sollevare l’attenzione della mente sopra ciò che si vede con sguardo carnale, rendono culto divino agli astri, i quali non sono altro che i servi del mondo.

Sia lontana dagli uomini cristiani tale sacrilega superstizione e mostruosa menzogna. Le cose temporali distano oltre ogni dire da colui che è eterno, le cose corporee da colui che è incorporeo, le creature suddite da colui che le governa: tutte queste cose hanno bensì bellezza, che suscita ammirazione, ma non hanno in sé stesse la divinità che si possa adorare. Bisogna, dunque, rendere onore a quella potenza, sapienza, maestà che ha creato dal nulla l’universo e che ha generato con onnipotente parola le cose terrene e le cose celesti in quelle forme e misura che a lui è piaciuto. Il sole, la luna, le stelle sono utili a noi, che ce ne serviamo e appaiono leggiadre quando le rimiriamo. Di esse si deve rendere grazie al Creatore: si deve adorare Dio che le ha create, non le creature che lo servono.

Dunque, dilettissimi, lodate Dio in tutte le sue opere e disposizioni. Abbiate una fede perfetta nella verginale integrità e nel parto della Vergine. Onorate il sacro e divino mistero della redenzione umana, prestando a Dio un servizio santo e sincero. Accogliete Cristo che nasce nella nostra carne, affinché meritiate di contemplarlo qual Dio della gloria nel regno della sua maestà: egli che col Padre e lo Spirito santo rimane nella unità della divinità nei secoli dei secoli.

Amen.




San Leone Magno: Primo discorso tenuto nel Natale del Signore

PRIMO DISCORSO TENUTO NEL NATALE DEL SIGNORE

San Leone Magno, Papa di Roma

1. Oggi, dilettissimi, è nato il nostro Salvatore: rallegriamoci! Non è bene che vi sia tristezza nel giorno in cui si celebra il natale della vita, che, avendo distrutto il timore della morte, ci presenta la gioiosa promessa dell’eternità. Nessuno è escluso dal prendere parte a questa gioia, perché il motivo del gaudio è unico e a tutti comune: il nostro Signore, distruttore del peccato e della morte, è venuto per liberare tutti, senza eccezione, non avendo trovato alcuno libero dal peccato.

Esulti il santo, perché si avvicina al premio. Gioisca il peccatore, perché è invitato al perdono. Si rianimi il pagano, perché è chiamato alla vita. Il Figlio di Dio, nella pienezza dei tempi che il disegno divino, profondo e imperscrutabile, aveva prefisso, ha assunto la natura del genere umano per riconciliarla al suo Creatore, affinché il diavolo, autore della morte, fosse sconfitto, mediante la morte con cui prima aveva vinto. In questo duello, combattuto per noi, principio supremo fu la giustizia nella più alta espressione. Il Signore onnipotente, infatti, non nella maestà che gli appartiene, ma nella umiltà nostra ha lottato contro il crudele nemico. Egli ha opposto al nemico la nostra stessa condizione, la nostra stessa natura, che in lui era bensì partecipe della nostra mortalità, ma esente da qualsiasi peccato.

È estraneo da questa nascita quel che vale per tutti gli altri: «Nessuno è mondo da colpa, neppure il fanciullo che ha un sol giorno di vita». Nulla della concupiscenza della carne è stato trasmesso in questa singolare nascita; niente è derivato ad essa dalla legge del peccato. È scelta una vergine regale, appartenente alla famiglia di David, che, destinata a portare in seno tale santa prole, concepisce il figlio, Uomo-Dio, prima con la mente che col corpo. E perché, ignara del consiglio superno, non si spaventi per una inaspettata gravidanza, apprende dal colloquio con l’angelo quel che lo Spirito Santo deve operare in lei. Ella non crede che sia offesa al pudore il diventare quanto prima genitrice di Dio. Colei a cui è promessa la fecondità per opera dell’Altissimo, come potrebbe dubitare del nuovo modo di concepire? La sua fede, già perfetta, è rafforzata con l’attestazione di un precedente miracolo: una insperata fecondità è data a Elisabetta, perché non si dubiti che darà figliolanza alla Vergine chi già ha concesso alla sterile di poter concepire.

2. Dunque il Verbo di Dio, Dio egli stesso e Figlio di Dio, che «era in principio presso Dio, per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza del quale neppure una delle cose create è stata fatta», per liberare l’uomo dalla morte eterna si è fatto uomo. Egli si è abbassato ad assumere la nostra umile condizione senza diminuire la sua maestà. È rimasto quel che era e ha preso ciò che non era, unendo la reale natura di servo a quella natura per la quale è uguale al Padre. Ha congiunto ambedue le nature in modo tate che la glorificazione non ha assorbito la natura inferiore, né l’assunzione ha sminuito la natura superiore. Perciò le proprietà dell’una e dell’altra natura sono rimaste integre, benché convergano in un’unica persona. In questa maniera l’umiltà viene accolta dalla maestà, la debolezza dalla potenza, la mortalità dalla eternità. Per pagare il debito, proprio della nostra condizione, la natura inviolabile si è unita alla natura che è soggetta ai patimenti, il vero Dio si è congiunto in modo armonioso al vero uomo. Or questo era necessario alle nostre infermità, perché avvenisse che l’unico e identico Mediatore di Dio e degli uomini da una parte potesse morire e dall’altra potesse risorgere. Pertanto si deve affermare che a ragione il parto del Salvatore non corruppe in alcun modo la verginale integrità; anzi il dare alla luce la Verità fu la salvaguardia del suo pudore. Tale natività, dilettissimi, si addiceva a Cristo, «virtù di Dio e sapienza di Dio»; con essa egli è uguale a noi quanto all’umanità, è superiore a noi quanto alla divinità. Se non fosse vero Dio non porterebbe la salvezza, se non fosse vero uomo non ci sarebbe di esempio. Perciò dagli angeli esultanti si canta nella nascita del Signore: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli» e viene annunciata «la pace in terra agli uomini di buona volontà». Essi, infatti, comprendono che la celeste Gerusalemme sta per essere formata da tutte le genti del mondo. Or quanto gli umili uomini devono rallegrarsi per quest’opera ineffabile della divina misericordia, se gli angeli eccelsi tanto ne godono?

3. Pertanto, dilettissimi, rendiamo grazie a Dio Padre mediante il suo Figlio nello Spirito Santo, poiché la sua grande misericordia, con cui ci ha amato, ha avuto di noi pietà. «Quando ancora noi eravamo morti a causa dei nostri peccati, ci ha vivificati con Cristo» per essere in lui una nuova creatura e una nuova opera. Dunque spogliamoci del vecchio uomo e dei suoi atti. Ora che abbiamo ottenuto la partecipazione alla generazione di Cristo, rinunciamo alle opere della carne. Riconosci, o cristiano, la tua dignità, e, reso consorte della natura divina, non voler tornare con una vita indegna all’antica bassezza. Ricorda di quale capo e di quale corpo sei membro. Ripensa che, liberato dalla potestà delle tenebre, sei stato trasportato nella luce e nel regno di Dio. Per il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito santo: non scacciare da te con azioni cattive un sì nobile ospite e non ti sottomettere di nuovo alla schiavitù del diavolo; perché il prezzo del tuo riscatto è il sangue di Cristo, e perché ti giudicherà secondo verità colui che ti ha redento nella misericordia, Cristo Signore nostro.

Amen.




NATALE

Piccola filocalia di scritti sull’Incarnazione del nostro Signore Gesù Cristo

in elaborazione

SACRA SCRITTURA

Passi biblici sulla nascita dell’Emmanuele, il ‘Dio con noi’

IL DIGIUNO

San Gregorio Taumaturgo (210 – 270)

Discorso sulla Natività di Cristo

San Gregorio il Teologo (329 – 390)

Orazione 38 – Sulla Teofania o Natività di Cristo

San Cirillo, Patriarca di Alessandria (370–444):

Lettera ai monaci

Seconda Lettera a Nestorio

Terza Lettera a Nestorio e Formula di Unione

San Leone Magno, Papa dell’Antica Roma (390 – 461)

Primo discorso tenuto nel Natale del Signore

Secondo discorso tenuto nel Natale del Signore

Terzo discorso tenuto nel Natale del Signore

Quarto discorso tenuto nel Natale del Signore

OMELIA XCVI – L’eresia eutichiana

San Massimo il Confessore (580 – 662)

Lo scopo dell’incarnazione di Dio

San Giovanni Damasceno (670 – 749)

L’incarnazione del Verbo

P. Justin Popovitch  (1894–1979)

Cristo è nato!

Iosif di Vatopaidi (1921-2009):

Sull’Incarnazione




San Gregorio Taumaturgo: Discorso sulla Natività di Cristo

Discorso sulla Natività di Cristo

San Gregorio Taumaturgo, Vescovo di Neo-Cesarea (210 – 270)

Icona

Fratelli, ora contempliamo un mistero grande e meraviglioso. Pastori con grida di gioia si fanno avanti come messaggeri per i figli dell’umanità, non sui loro pascoli collinari con le loro greggi a conversare e non nei campi con le loro pecore che si divertono, ma piuttosto nella città di Davide, Betlemme, scandendo canti spirituali. Nei cieli cantano gli Angeli, proclamando inni; i celesti Cherubini e Serafini cantano lodi alla gloria di Dio: “Santo, Santo, Santo…”. Tutti insieme celebrano questa festa gioiosa, vedendo Dio sulla terra e l’umanità della terra in mezzo ai cieli.

Per divina provvidenza ciò che era in basso è stato elevato in alto, e l’Altissimo, per l’amore di Dio per gli uomini, si è chinato all’estremo, per cui l’Altissimo, per la sua umiltà, “è esaltato per mezzo dell’umiltà”. In questo giorno di grande festa, Betlemme è diventata simile al cielo, prendendo posto tra le stelle scintillanti ci sono Angeli che cantano il gloria e prendendo il posto del sole visibile – è l’indefinibile e incommensurabile Sole della Verità, che ha fatto esistere tutte le cose. Ma chi oserebbe indagare su un così grande mistero? “Dove Dio lo vuole, lì si capovolge l’ordine della natura”, e le leggi non possono impedirlo. E così, ciò che era impossibile per l’umanità da intraprendere, Dio lo ha fatto ed è sceso, facendolo per la salvezza dell’umanità, poiché nella volontà di Dio questa è la vita per tutta l’umanità.

In questo giorno gioioso, Dio è venuto per nascere; in questo grande giorno dell’avvento, Dio è diventato ciò che non era: essendo Dio, è diventato Uomo, per così dire, come se fosse stato rimosso dalla Divinità (sebbene la Sua Natura Divina non sia stata spogliata); fatto uomo, è rimasto Dio. Perciò, sebbene egli crescesse e fiorisse, tuttavia non fu come per un potere umano raggiungere la Divinità, né per alcuna capacità umana di essere fatto Dio; ma piuttosto come il Verbo, per miracolosa sofferenza, in cui si è incarnato e manifestato non essendo trasformato, non essendo fatto altro, non privato di quella natura divina che possedeva prima. In Giudea nasce il nuovo Re; ma questa nuova e meravigliosa natività che i gentili pagani sono giunti a credere, l’ebreo l’ha evitata. I farisei comprendevano in modo errato la Legge e i profeti. Quello che in esso era contraddittorio per loro, l’hanno spiegato erroneamente. Anche Erode si sforzò di conoscere questa nuova nascita, piena di mistero, eppure Erode lo fece non per riverire il re appena nato, ma per ucciderlo.

Colui che abbandonò gli angeli, gli arcangeli, i troni, i domini e tutti gli spiriti costanti e luminosi, solo lui che ha percorso un nuovo sentiero, esce da un inviolato grembo verginale di seme. Il Creatore di tutto viene per illuminare il mondo, non lasciando orfani i suoi angeli, e si manifesta anche come Uomo, uscito da Dio.

E io, sebbene io non veda nel Nuovo Nato né trombe (né altri strumenti musicali), né spada, né ornamenti corporei, né lampadari né lampade da cammino, e vedendo il coro di Cristo composto da coloro che sono umili di nascita e senza influenza, mi sembra persuadermi a lodarlo. Vedo animali muti e cori di giovani, come una specie di tromba, risonante di canto, come se prendesse il posto delle lampade e come risplendesse sul Signore. Ma cosa dirò di ciò che illuminano le lampade? Egli è la Speranza stessa e la Vita stessa, è la stessa Salvezza, la stessa Beatitudine, il punto focale del Regno dei Cieli. Egli stesso viene portato come offerta, perché traspaia in potenza l’annuncio degli Angeli celesti: “Gloria a Dio nell’Altissimo”, e con i pastori di Betlemme sia pronunciato il canto gioioso: ” La prima nascita è inspiegabile e la seconda è insospettabile; la prima nascita fu senza travaglio e la seconda fu senza impurità … Sappiamo, che ora è nato dalla Vergine, e crediamo, che è Lui, nato dal Padre prima di tutti i tempi. Ma che tipo di nascita fosse non vorremmo sperare di spiegarlo. Né con le parole tenterei di parlarne, né con il pensiero oserei avvicinarlo, poiché la natura divina non è soggetta all’osservazione, né avvicinabile al pensiero, né contenibile dall’infelice ragionamento. L’unico bisogno è credere nella potenza delle Sue opere. Le leggi della natura corporea sono evidenti: una donna sposata concepisce e partorisce un figlio secondo lo scopo del matrimonio; ma quando la Vergine non sposata partorisce miracolosamente il figlio, e dopo la nascita rimane Vergine, — allora è la natura corporea manifesta e superiore. Possiamo comprendere ciò che esiste secondo le leggi della natura corporea, ma di fronte a ciò che è al di là delle leggi della natura, rimaniamo in silenzio, non per paura, ma soprattutto per la fallibilità causata dal peccato. Dobbiamo necessariamente tacere, in silenziosa quiete per venerare la virtù con degna riverenza e, non oltrepassando i limiti (della parola), per ricevere i doni celesti.

Che dire e che cosa proclamare? Per parlare di più della Vergine che genera? Per deliberare di più sulla nascita miracolosa? Non ci si può che stupire, nel contemplare la nascita miracolosa, poiché essa capovolge le leggi ordinarie e l’ordine della natura e delle cose. Delle opere mirabili (di Dio) si potrebbe dire in breve, che sono più mirabili delle opere della natura, poiché nella natura nulla genera se stesso per volontà propria, sebbene vi sia la libertà di essa: meravigliose quindi sono tutte le opere del Signore, che le ha fatte esistere. Oh mistero immacolato e inspiegabile! Colui che prima della stessa creazione del mondo era l’Unigenito, Senza Paragone, Semplice, Incorporeo, si è incarnato e discende (nel mondo), vestito di un corpo corruttibile, affinché sia ​​visibile a tutti. Perché se non fosse visibile, allora in che modo ci insegnerebbe a osservare i suoi precetti e come ci condurrebbe alla realtà invisibile? Fu per questo dunque che si fece apertamente visibile, per condurre quelli del mondo visibile all’invisibile.

Tanto più le persone ritengono che la loro vista sia un testimone più credibile che un semplice sentito dire; si fidano di ciò che vedono e dubitano di ciò che non vedono. Dio ha voluto essere visibile nel corpo, per risolvere e dissipare i dubbi. Volle nascere dalla Vergine, non iniziare da Lei qualcosa di superfluo e in cui la Vergine non conosceva le ragioni della cosa, ma il mistero della Sua nascita è un atto di bontà immacolato, in cui la Vergine stessa chiese a Gabriele: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?» (Lc 1, 34), alla quale domanda Ella riceve in risposta: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra» (Lc 1,35). Ma in che modo il Verbo, che era Dio, uscì dunque dalla Vergine? Questa… è una meraviglia inspiegabile. Proprio come un orafo, ottenuto il metallo, ne fa una cosa adatta all’uso, così fece anche Cristo: trovando la Vergine senza macchia sia nello spirito che nel corpo, assunse da lei un corpo conformato allo spirito, conforme ai suoi intenti, e vi si rivestì, come in un vestito. In questo mirabile giorno della Natività, il Verbo non ebbe né paura né vergogna di uscire dal grembo verginale, né giudicò indegno di sé assumere la carne dalla sua creazione, perché la creazione, fatta la veste del Creatore, dovesse essere stimata degna di gloria, e così che la misericordia dovrebbe essere resa nota quando si è rivelata, nel modo in cui Dio è disceso per la sua bontà. Come sarebbe impossibile che un vaso di creta appaia prima che sia creta nelle mani del vasaio, così parimente sarebbe impossibile che il vaso corruttibile (della natura umana) si rinnovi altrimenti, per farne l’abito del Creatore, che ne è rivestito.

Che altro dire, cosa devo ancora esporre? Le nuove meraviglie mi colpiscono con soggezione. L’Antico dei Giorni si è fatto Bambino, per rendere gli uomini figli di DioSeduto in gloria nei Cieli, a causa del Suo amore per l’umanità, Egli ora giace in una mangiatoia di bestie mute. 

L’Inappassionato, l’Incorporeo, l’Incomprensibile è preso dalle mani dell’uomo, per espiare la violenza dei peccatori e degli iniqui e liberarli dalla loro schiavitù, per essere avvolto in fasce ed essere nutrito sulle ginocchia della Donna, affinché la vergogna sia trasformata in onore, l’empietà essere condotta alla gloria, e al posto delle spine una corona. Egli ha preso il mio corpo, in modo che io sia reso capace di avere in me il Suo SpiritoEgli si è appropriato (la mia natura), vestendosi del mio corpo, e mi dà il Suo Spirito, così che io, dando e ricevendo a sua volta, cosa devo dire e cosa proclamare? “Ecco, una Vergine nel grembo concepirà e partorirà un figlio, e lo chiameranno Emmanuele, che significa: Dio è con noi” (Mt 1,23). Il detto qui non tratta di qualcosa per il futuro di cui potremmo imparare a sperare, ma piuttosto ci parla di qualcosa che è già accaduto e ci riempie di stupore per qualcosa che è già stato realizzato. Ciò che prima era detto agli ebrei e si è adempiuto in mezzo a loro, ora è così realizzato in mezzo a noi come un avvenimento, di cui abbiamo ricevuto (questa profezia), e l’abbiamo adottata, e abbiamo creduto in essa. Il profeta dice agli ebrei: «Ecco, una vergine concepirà» (Is 7,14); per i cristiani, invece, il detto spetta al compimento dell’atto effettivo, l’intero tesoro dell’evento reale. In Giudea una Vergine ha partorito, ma tutte le terre del mondo hanno accolto Suo Figlio. Là era la radice della vite; qui, la vite della verità. I Giudei hanno spremuto il torchio e i Gentili hanno gustato il Sangue sacramentale; quegli altri hanno piantato il chicco di grano, e questi prosperano grazie alla mietitura della fede. I Giudei sono stati trafitti dalle spine, i Gentili sono saziati dalla messe; quegli altri sedevano sotto l’albero della desolazione, e questi – sotto l’albero della vita; quelli esponevano i precetti della Legge, ma i Gentili raccolgono i frutti spirituali. La Vergine ha partorito non Se stessa da Se stessa, ma come ha voluto Lui avendo bisogno di nascere. Dio non ha agito in modo corporeo, Dio non si è subordinato alla legge della carne, ma il Signore della natura corporea si è manifestato per apparire nel mondo con una nascita miracolosa, per rivelare la sua potenza e mostrare che essendosi fatto uomo, è nato non come un semplice uomo, che Dio si è fatto uomo, poiché per la sua volontà nulla è difficile.

Nel presente grande giorno Egli è nato dalla Vergine, avendo superato l’ordine naturale delle cose. È superiore al matrimonio e libero da contaminazione. Bastava che Egli, maestro di purezza, risplendesse gloriosamente, per emergere da un grembo puro e immacolato. Poiché Egli è Quello stesso, che nel principio creò Adamo dal suolo vergine, e da Adamo senza matrimonio gli generò sua moglie Eva. E come Adamo era senza moglie prima di averne una e la prima donna fu allora messa al mondo, così anche oggi la Vergine senza uomo partorisce Colui del quale parlò il profeta: “Egli è Uomo, chi è che lo conosce?” L’Uomo Cristo, chiaramente visto dall’umanità, nato da Dio, è tale che occorreva il genere femminile per perfezionare quello del genere umano, affinché nascesse perfettamente uomo da donna.

Perciò la Vergine, senza convivenza con l’uomo, partorì Dio Verbo, fatto Uomo, sicché in egual misura fu per lo stesso miracolo conferito eguale onore all’una e all’altra metà, uomo e donna. E come da Adamo fu tolta la donna senza che essa diminuisse, così anche dalla Vergine fu tolto il corpo (Nato da lei), nel quale anche la Vergine non subì diminuzioni e la sua verginità non subì danno. Adamo dimorava sano e salvo, quando gli fu tolta la costola: e così senza macchia dimorò la Vergine, quando da Lei fu generato Dio il Verbo. Per questo motivo, in particolare, la parola ha assunto dalla Vergine la sua carne e il suo vestito (corporeo), in modo che non fosse considerato innocente del peccato di Adamo. Poiché l’uomo, colpito dal peccato, era divenuto vaso e strumento del male, Cristo prese su di Sé questo ricettacolo del peccato nella Sua stessa carne affinché, essendo il Creatore unito al corpo, questo fosse così liberato dalla sozzura del nemico e l’uomo fosse così rivestito di un corpo eterno, che non perirà né sarà distrutto per tutta l’eternità. Inoltre, Colui che è diventato il Dio-Uomo nasce, non come ordinariamente nasce l’uomo, nasce come Dio fatto uomo, manifestando ciò per la sua stessa potenza divina, poiché se fosse nato secondo le leggi generali della natura, la Parola sarebbe sembrata come qualcosa di imperfetto. Quindi, nacque dalla Vergine e risplendette; perciò, essendo nato, conservò indenne il grembo verginale, affinché il modo finora inaudito della Natività fosse per noi segno di grande mistero. 

Cristo è Dio? Cristo è Dio per natura, ma non per ordine della natura si è fatto uomo. Così dichiariamo e crediamo in verità, chiamando a testimoniare il sigillo della verginità intatta: come Onnipotente Creatore del grembo e della verginità, scelse una modalità di nascita indecorosa e si fece Uomo, come volle.

In questo grande giorno, ora celebrato, Dio è apparso come Uomo, come Pastore della nazione d’Israele, che ha ravvivato tutto l’universo con la sua bontà. O cari guerrieri, campioni gloriosi dell’umanità, che avete predicato Betlemme come luogo della Teofania e della Natività del Figlio di Dio, che avete fatto conoscere a tutto il mondo il Signore di tutti, giacendo in una mangiatoia, e avete indicato Dio contenuto in una stretta caverna!

E così, ora glorifichiamo con gioia una festa degli anni. Come quindi le leggi delle feste sono nuove, così ora anche le leggi della nascita sono meravigliose. In questo grande giorno ora celebrato, di catene frantumate, di Satana svergognato, di tutti i demoni in fuga, la morte che tutto distrugge è sostituita dalla vita, il paradiso è aperto al ladro, le maledizioni si trasformano in benedizioni, tutti i peccati sono perdonati e il male bandito , la verità è venuta, e hanno proclamato notizie piene di riverenza e amore per Dio, i tratti puri e immacolati sono impiantati, la virtù è esaltata sulla terra, gli angeli sono venuti insieme alle persone e le persone hanno il coraggio di conversare con gli angeli. Da dove e perché è successo tutto questo? Da questo, che Dio è disceso nel mondo ed ha esaltato l’umanità al Cielo.

Si compie una certa trasposizione di tutto: Dio che è perfetto è disceso sulla terra, sebbene per natura rimanga interamente nei cieli, anche nel momento in cui nella sua interezza si trova sulla terra. Egli era Dio e si fece Uomo, non negando la sua Divinità: non si fece Dio, poiché tale fu sempre per sua stessa natura, ma si fece carne, perché fosse visibile a tutto ciò che è corporeo. Colui, che nemmeno gli abitanti del cielo possono guardare, scelse come sua abitazione una mangiatoia, e quando venne, tutto intorno a lui divenne silenzioso. E per nient’altro giaceva nella mangiatoia, se non per questo, che nel dare il nutrimento a tutti, avrebbe dovuto per sé estrarre il nutrimento dei bambini dal seno materno e con questo benedire il matrimonio.

In questo grande giorno le persone, lasciando le loro faccende ardue e serie, si fanno avanti per la gloria del Cielo, e apprendono dal luccichio delle stelle che il Signore è disceso sulla terra per salvare la Sua creazione. Il Signore, seduto sopra una nuvola veloce, entrerà in Egitto in carne e ossa (Is 19,1), visibile fuggendo da Erode, proprio in quel gesto che ispira il detto di Isaia: «In quel giorno Israele sarà terzo tra gli Egiziani” (Is 19,24).

La gente entrava nella Grotta, senza pensarci prima, ed essa divenne per loro un tempio sacro. Dio è entrato in Egitto, nel luogo dell’antica tristezza per portare la gioia, e nel luogo dell’oscurità oscura per diffondere la luce della salvezza. Le acque del Nilo erano diventate contaminate e dannose dopo che i bambini vi erano morti con morte prematura. Apparve in Egitto Colui che un tempo trasformò l’acqua in sangue e che in seguito trasformò queste acque in sorgenti d’acqua di rinascita, mediante la grazia dello Spirito Santo che purificava i peccati e le trasgressioni. Il castigo una volta colpì gli egiziani, poiché nei loro errori sfidarono Dio. Ma ora Gesù è venuto in Egitto e ha seminato in esso il rispetto per Dio, così che, rigettando dall’anima egiziana i suoi errori, si sono resi amici di Dio.

Per non dilungarci troppo nel discorso e per concludere brevemente quanto detto, domandiamo: in che modo il Verbo impassibile si è fatto carne e si è reso visibile, dimorando immutabile nella sua natura divina? Ma cosa devo dire e cosa dichiarare? Vedo il falegname e la mangiatoia, l’Infante e la Vergine partoritrice, abbandonati da tutti, appesantiti dalla fatica e dal bisogno. Ecco a quale grado di umiliazione è disceso il grande Dio. Per noi «povero, che era ricco» (2 Cor 8,9): fu messo in pessime fasce, non su un morbido letto. O povertà, fonte di ogni esaltazione! O miseria, che riveli tutti i tesori! Egli appare ai poveri e arricchisce i poveri; Egli giace in una mangiatoia per animali e con la sua parola mette in moto tutto il mondo.

Cosa dovrei ancora dire e proclamare? Vedo il Bambino, in fasce e adagiato nella mangiatoia; Maria, la Vergine Madre, le sta davanti insieme a Giuseppe, detto Suo Sposo. Egli è chiamato Suo marito, e Lei sua moglie, di nome ma così e apparentemente sposata, anche se in realtà non erano coniugi, era promessa sposa di Giuseppe, ma lo Spirito Santo discese su di lei, così come dice il santo evangelista: “Lo Spirito Santo verrà su di te, e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra: e Colui che nascerà è Santo”. (Lc 1,35) ed è del seme del Cielo. Giuseppe non osò parlare in opposizione, e il giusto non volle rimproverare la Santa Vergine; non volle credere ad alcun sospetto di peccato né pronunciare contro la Santa Vergine parole di calunnia; ma il Figlio che doveva nascere non volle riconoscerlo come suo, poiché sapeva, che Egli non era suo. E sebbene fosse perplesso e avesse dubbi su chi dovesse essere un tale bambino e ci meditasse sopra, ebbe allora una visione celeste, gli apparve un angelo e lo incoraggiò con le parole: “Non temere, Giuseppe, figlio di Davide; Colui che nascerà da Maria è chiamato Santo e Figlio di Dio”; cioè: “lo Spirito Santo scenderà sulla Vergine Immacolata e la potenza dell’Altissimo la coprirà con la sua ombra” (Mt 1,20-21; Lc 1,35).

Veramente doveva nascere dalla Vergine, conservando indenne la sua verginità. Proprio come la prima vergine era caduta, attirata da Satana, così ora Gabriele porta nuove notizie alla Vergine Maria, in modo che una vergine acconsentisse ad essere la Vergine, e alla Natività – per nascita. Sedotta dalle tentazioni, Eva una volta pronunciò parole di rovina; Maria, a sua volta, accogliendo la novella, ha partorito il Verbo incorporeo e vivificante. Per le parole di Eva, Adamo fu scacciato dal paradiso; il Verbo, nato dalla Vergine, rivelò la Croce, mediante la quale il ladrone entrò nel paradiso di Adamo. Sebbene né i gentili pagani, né i giudei, né i sommi sacerdoti credessero che da Dio potesse nascere un Figlio senza travaglio e senza uomo, ora è così ed è nato nel corpo, capace di sopportare le sofferenze, mentre conservava inviolato il corpo della Vergine.

Così ha manifestato la sua onnipotenza, nato dalla Vergine, conservando intatta la verginità della Vergine, ed è nato da Dio senza complicazioni, travagli, male o separazione dall’abbandono dell’immutabile Essenza Divina, nato Dio da Dio. Poiché l’umanità ha abbandonato Dio, in luogo Suo adorava immagini scolpite dagli uomini, il Dio Verbo ha assunto l’immagine dell’uomo, affinché, bandendo l’errore e restaurando la verità, consegnasse all’oblio il culto degli idoli e per esserGli riconosciuto il Divino onore, poiché a lui spetta ogni gloria e onore nei secoli dei secoli.

Amen!




Vladimir Guettée: Il Moderno Papato condannato dal Papa San Gregorio il Grande (1861) – I

PRIMA PARTE

Biografia – Introduzione – LETTERA DI S. GREGORIO MAGNO AL PATRIARCA GIOVANNI DI COSTANTINOPOLILETTERA DI S. GREGORIO MAGNO AL DIACONO SABINIANO

L’Archimandrita Vladimir Guettée

BREVE BIOGRAFIA

Vladimir Guettée, alla nascita René-François Guettée, è nato il 1 dicembre 1816 e morto il 22 marzo 1892. Fu prima un prete cattolico poi convertito all’Ortodossia. Ha scritto molte opere di storia religiosa che, durante la sua vita, hanno suscitato polemiche all’interno della Chiesa cattolica di Francia.

Ordinato sacerdote cattolico romano nel 1839, fu prima assistente parroco in un piccolo paese di campagna, e successivamente ebbe il suo gregge altrove, dove organizzò una scuola per bambini. A 32 anni, uscì con la sua Storia della Chiesa in Francia (1847-1856) in 12 volumi. Nel 1855 fondò l’Observateur Catholique. Venne presto in conflitto con il suo vescovo, così Padre Guettée fondò un nuovo periodico, l’Unione cristiana, che, sotto l’influenza di Alexis Khomiakiov, divenne gradualmente filo-ortodosso; “il primo giornale ortodosso apparso in Occidente”. Dopo la sua consacrazione prese il nome di Vladimir. I suoi successi missionari includono anche la traduzione in francese della Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo, con note esplicative, e la pubblicazione di ‘Una spiegazione della dottrina della Chiesa ortodossa: differenze con altre Chiese cristiane’.

INTRODUZIONE

Se diamo uno sguardo franco e imparziale alla società cattolica, non si può fare a meno di ammettere che il livello intellettuale difficilmente può scendere più in basso. Si comprenda che non vogliamo parlare di intelligenza in generale, ma della comprensione della verità religiosa. Tanti scrittori, per ragioni più o meno onorevoli,

si applicarono alla falsificazione delle credenze cattoliche, alla diffusione di loro sistemi, per sostituire alla pura verità cristiana le loro teorie adattate alle circostanze, che si incontrano appena tra coloro che sono onorati del titolo di cattolici, in quelle persone che abbiano una nozione esatta dei principi della loro fede. La maggior parte non ha che una fede convenzionale, sul divino e sull’umano, su dogmi e opinioni, formano un miscuglio confuso, un caos su cui aleggia l’oscurità più fitta. Fosse almeno che i neo-cattolici siano consapevoli della loro ignoranza! Ma no; si credono forti, solidi nella conoscenza delle verità della religione, e sono tutti pronti ad anatemizzarti se esiti anche solo un po’ a condividere le loro teorie.

Questa intolleranza, insieme all’ignoranza e alla caparbietà, costituisce il carattere distintivo del neocattolico: formato alla scuola ultramontana non ammette alcuna obiezione. Se sollevi qualche difficoltà che tocca i suoi sistemi, egli vi guarderà come un eretico; se hai il coraggio di osservare questo non era insegnato in passato come lo è oggi; che dobbiamo attenerci, nella Chiesa, a ciò che si è sempre creduto fin dagli apostoli, egli ti segnala come un innovatore pericoloso; se voi chiedete la ragione, le prove di questi nuovi dogmi che vediamo schiudersi ogni giorno sotto l’azione della corte di Roma, egli ti stigmatizza come un libero pensatore, abbastanza audace da non fare affidamento sulla parola del Papa. Che questa parola esista o meno, che sia chiara o oscura, il neocattolico si concede sempre. Il Papa è infallibile; io sono con il Papa, quindi sono infallibile io stesso. È più o meno su questo sillogismo che si basa tutta la logica del neocattolico. E guai a te se non sei sopraffatto da un argomento così conclusivo allora sei solo un ribelle, non sei più cattolico, se l’Inquisizione si rianimasse, saresti affidato ai suoi santi rigori per la salvezza della tua anima.

Come far penetrare la verità cattolica anche in quelle menti corazzate dell’ultramontanismo, che ostinatamente rifiutano sistematicamente qualsiasi chiarimento?

Non sappiamo.

Tuttavia, ci sembrava che se ci fosse qualche modo per illuminarli, non potrebbe essere meglio che attraverso l’insegnamento di un Papa riconosciuto come uno dei più grandi e santi che si sono assisi sul seggio di Roma. Abbiamo quindi raccolto nelle opere di san Gregorio Magno, ciò che scrisse sul papato, sui suoi diritti e sulle sue prerogative nella Chiesa. Questo grande Papa, morto solo all’inizio dell’VIII secolo, riassume perfettamente la tradizione cattolica della Chiesa primitiva. La sua parola, in quanto tale, deve godere di una alta autorità: la scienza, la santità del santo dottore, la posizione elevata che occupò, l’influenza che esercitò nella società cristiana, tutto contribuisce a dare alla sua parola eccezionale carattere di accuratezza e verità.

I neocattolici non possono sfidarlo.

San Gregorio Magno fu Papa e se i Papi godono, per diritto divino di assoluta autorità nella Chiesa, egli ne ha goduto; se i Papi sono infallibili, egli lo era; se c’è un dovere rigoroso d’accettare l’insegnamento papale, dobbiamo accettare il suo insegnamento. Egli possiede tutti i diritti di cui Papi moderni possono legittimamente godere, in virtù del loro titolo, poiché era Papa come loro: ed egli ha più di loro, un alone di scienza e di santità che i nostri papi Ultramontani non hanno ancora meritato.

Che i neo-cattolici ci dicano se rifiutano o se accettano la dottrina del Papa san Gregorio il Grande sul Papato. Se dicono che l’abbiamo mal esposto, lascia che lo dimostrino; se la ammettono così come l’abbiamo esposta e continuano ad affermare che le nostre convinzioni non hanno nulla di molto ortodosso, poiché sono conformi a questa dottrina, e rifiutandola, si degnino di dirci perché Papa san Gregorio Magno non meriti tanto credito quanto i Papi ultramontani.

La tesi è abbastanza importante: che i sostenitori dell’ultramontanismo ci dicano cosa ne pensano.

IL MODERNO PAPATO

condannato

dal Papa San Gregorio il Grande

All’inizio del suo episcopato, Gregorio rivolse una lettera di comunione ai patriarchi Giovanni di Costantinopoli, Eulogio di Alessandria, Gregorio di Antiochia, Giovanni di Gerusalemme, e ad Anastasio, dell’antico patriarcato di Antiochia, suo amico.

Se si fosse ritenuto capo e sovrano della Chiesa, se avesse creduto di esserlo per diritto divino, egli si sarebbe certamente rivolto ai patriarchi come a subordinati; si troverebbero, in questa circolare, qualche traccia della sua superiorità. Ma è completamente diverso. Egli di dilunga molto sui doveri dell’episcopato, e non si sogna lontanamente di parlare dei diritti che la sua dignità gli avrebbe conferito. Insiste particolarmente sul dovere, per il vescovo, di non occuparsi affatto della cura delle cose esteriori, e termina la sua circolare facendo la sua professione di fede, per provare che fosse in comunione con gli altri patriarchi, e, attraverso di loro, con tutta la Chiesa[1]. Questo silenzio di san Gregorio sul presunto diritto del papato è già di per sé molto significativo, e gli ultramontani avrebbero difficoltà a spiegarlo. Cosa potrebbero opporre alle lettere che andremo a tradurre, e nelle quali San Gregorio condanna, nel modo più esplicito, l’idea fondamentale che gli ultramontani ci vorrebbero dare del papato, cioè il carattere universale della sua autorità?

L’occasione di queste lettere era l’ambizione del patriarca Giovanni di Costantinopoli, che rivendicò che la sua città episcopale divenuta capitale dell’impero, dovesse essere riconosciuta universalmente come la sede del primo vescovo della Chiesa. A questo fine, egli ha inventato il titolo di patriarca ecumenico o universale e se lo attribuì.

La prima idea di un potere centrale e universale nella Chiesa veniva dunque da Costantinopoli; fu proprio da Roma che sorse la prima opposizione a questa pretesa ambiziosa, e da uno dei più grandi papi che sedettero sulla cattedra apostolica di Roma.

San Gregorio avendo appreso che Giovanni di Costantinopoli rivendicava il titolo di patriarca ecumenico o universale, scrisse diverse lettere che meritano di essere lette e meditate, soprattutto al giorno d’oggi, dove le persone cercano di imporci, come fosse di diritto divino, un dispotismo papale opposto sia alla parola di Dio che alla disciplina generale della Chiesa. Ecco quello che Gregorio scrisse allo stesso Giovanni. Lo traduciamo testualmente:

LETTERA DI S. GREGORIO MAGNO

AL PATRIARCA GIOVANNI DI COSTANTINOPOLI (V, 18) [2]

“Gregorio a Giovanni, vescovo di Costantinopoli.

La Vostra Fraternità si ricorda certamente di quanta pace e concordia ci fosse tra le Chiese quando Ella è stata elevata alla dignità sacerdotale. Ma, ignoro per quale azzardo o per quale superbia, ella ha cercato di impossessarsi di un nuovo titolo, onde potesse causarsi scandalo nei cuori di tutti i fratelli. E della qual cosa assai mi stupisco, poiché ricordo che non volevate giungere all’episcopato, ma volevate fuggirlo. Eppure, una volta ottenutolo, volete esercitarlo così come se lo aveste ricercato con ambizioso desiderio. Voi, infatti, che vi dicevate di essere indegno d’esser chiamato vescovo, siete arrivato ora, disprezzando i vostri fratelli, al punto di voler avere voi solo il titolo di vescovo. E su questo argomento furono trasmessi alla vostra santità dei gravi scritti del mio predecessore Pelagio di santa memoria, nei quali rifiutò, per il titolo nefando di superbia, gli atti del sinodo che presso di voi era stato riunito in favore della causa del nostro allora fratello e co-episcopo Gregorio, e proibì di celebrare messa insieme a voi all’arcidiacono, che, secondo consuetudine, aveva mandato alla corte imperiale. Dopo la sua [di Pelagio] morte, invero, essendo stato condotto io indegno al governo della Chiesa e prima per mezzo dei miei inviati, e ora per il nostro comune figlio il diacono Sabiniano, ho avuto cura di rivolgermi alla vostra fraternità non già per iscritto, ma di persona, affinché rinunciasse a tale presunzione. E qualora rifiutaste di correggervi, gli ho proibito di celebrar messa insieme alla vostra fraternità, per instillare alla Vostra Santità un qualche timore della vergogna, prima che, qualora il nefando e profano orgoglio non potesse correggersi con la vergogna, procedessimo per le vie prescritte e canoniche. E poiché, prima di amputare la ferita essa va palpata dolcemente, vi prego, vi supplico, e v’imploro con quanta dolcezza posso, che la vostra fraternità si opponga a tutti i suoi adulatori e a quanti gli attribuiscono un titolo errato, e non permetta di farsi chiamare con un titolo tanto stolto e superbo. In verità, piangendo lo dico e con profondo dolore del cuore, attribuisco ai miei peccati il fatto che un mio fratello non ha voluto sino ad ora ritornare all’umiltà, lui che non è stato stabilito nella dignità episcopale che per ricondurre all’umiltà le anime degli altri; che colui che insegna agli altri la verità non l’ha voluta insegnare a sé stesso, né ha consentito, nonostante le mie preghiere, a che io mi prendessi questa cura.

Considerate, vi prego, che da questa presunzione temeraria è turbata la pace di tutta la Chiesa, e che voi vi fate nemico della grazia che e stata donata a tutti in comune. Più crescerete in questa grazia, più diventerete umile ai vostri stessi occhi. E tanto più grande potrete divenire, quanto più vi asterrete dall’usurpazione di tanto stravagante e orgoglioso titolo. Allo stesso tempo sarete più ricco se non tenterete di spogliare i vostri fratelli a vostro profitto. Amate dunque, fratello carissimo, l’umiltà con tutto il vostro cuore, per mezzo della quale possa esser custodita la concordia di tutti i fratelli e l’unità della santa Chiesa universale. Certamente l’apostolo Paolo quando udiva alcuni dire: “Io son discepolo di Paolo, io d’Apollo, io invero di Pietro” (I Cor. 1, 13), non poteva assistere senza orrore alla divisione del corpo del Signore per vedere poi riattaccare le membra divise a più teste, e così esclamava dicendo: “Forse che per voi è stato crocifisso Paolo, o siete stati battezzati in nome di Paolo (Ibid., 13)?” Se dunque quegli si sforzava d’evitare che le membra del corpo del Signore fossero attaccate a delle teste che non fossero quella di Cristo, ancorché queste teste fossero di apostoli, tu che dirai a Cristo, ovvero al capo della Chiesa Universale, nell’interrogatorio dell’estremo giudizio, tu che tutte le sue membra vuoi sottomettere a te col titolo di universale? Chi, ditemelo, vi prego, imitate voi attraverso questo perverso titolo, se non colui che, sprezzate le legioni di angeli costituite con sé in società, si proponeva di salire in cima per non essere sottomesso a nessuno ed essere solo al di sopra degli altri; qui disse: “Salirò al cielo, eleverò il mio trono sopra gli astri del cielo; piazzerò il mio seggio sul monte dell’alleanza, sulle rocce dell’Aquilone. Salirò sopra la vetta delle nubi, sarò simile all’Altissimo (Isaia 14, 13).

Cosa sono dunque i tuoi fratelli, tutti i vescovi della Chiesa universale, se non le stelle del cielo, la cui vita e il cui insegnamento risplendono tra i peccati e gli errori degli uomini come tra le tenebre della notte? Quando per titolo ambizioso brami di elevarti al di sopra di loro e svilire il loro titolo a confronto del tuo, che altro dici se non: “Salirò al cielo, eleverò il mio trono sopra gli astri del cielo?”  Forse che non son tutti i vescovi le nubi che stillano le parole della predicazione e splendono della luce delle buone opere? Quando la vostra fraternità, disprezzandoli, tenta di metterli sotto i suoi piedi, che altro dice, se non ciò che fu detto dal nemico antico: “Salirò sopra la vetta delle nubi?” E mentre piangendo vedo tutto ciò, e temo gli occulti giudizi di Dio, crescono le lacrime, i miei gemiti traboccano dal cuore, perché il signor Giovanni, quell’uomo così santo, di sì grande astinenza e umiltà, per la seduzione delle lusinghe dei suoi familiari, è giunto a tal grado di superbia che, per la brama di quel titolo perverso, tenta d’esser simile a quegli che, volendo superbamente esser simile a Dio, perse pure la grazia della somiglianza che gli era stata donata; e perciò perse la vera beatitudine, poiché bramava una falsa gloria. Certamente Pietro, primo degli apostoli, e membro della santa e universale Chiesa; Paolo, Andrea, Giovanni, che altro sono se non capi di certi popoli? E pure tutte le membra son sotto un solo capo. E, per dir tutto in breve, i santi prima della Legge, i santi sotto la Legge, i santi sotto la grazia, non formano tutti insieme il corpo del Signore? Non sono tutti membri della Chiesa? e nessuno volle mai esser chiamato universale. La Vostra Santità, dunque, riconosca quanto sia gonfia, poiché brama d’esser chiamato con quel titolo con cui nessuno ebbe la presunzione di farsi chiamare.

Come sa la vostra Fraternità, forse che il venerando Concilio di Calcedonia ha conferito onorificamente il titolo di universale ai vescovi di quella sede apostolica di cui, per volontà di Dio, io son servitore? Eppure, nessuno mai avrebbe voluto essere chiamato con tale titolo, nessuno si attribuì un tanto temerario titolo, affinché, bramando la gloria della singolarità nella dignità episcopale, sembrasse negarla a tutti i fratelli.

Ma so bene che questo titolo è stato conferito alla Vostra Santità da quei famigli che la lusingano e la ingannano, contro i quali chiedo che la Vostra Fraternità sia solertemente vigile, e che non si lasci ingannare dalle loro lusinghe. Tanto più infatti debbono esser ritenuti pericolosi i nemici, quanto più adulano con finte lodi. Scacci queste persone; e se devono necessariamente ingannare, almeno ingannino i cuori degli uomini terreni e non quelli dei sacerdoti. “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Luca 9, 60). Voi invece col Profeta dite: “Si ritirino subito arrossendo, quanti mi dicono: Bene! Bene!”. E ancora: “Ma l’olio del peccatore non profumerà il mio capo” (Sal 140, 5). Bene ammonisce il Saggio: “Con molti tu sia in pace, ma il tuo consigliere sia uno solo tra mille” (Ql 6,6). “Le cattive parole corrompono infatti i buoni costumi” (I Cor 15, 33). Quando infatti l’antico nemico non può penetrare in un cuore robusto, cerca persone deboli che gli siano vicine e per mezzo loro, come scale appoggiate contro alte mura, vi ascende. Così ingannò Adamo per la donna che le era vicina (Gn 3), così quando uccise i figli al beato Giobbe e gli lasciò la moglie malata (Gb 2, 10), affinché, non essendo da sé in grado di giungere al suo cuore, almeno potesse penetrarvi per le parole della moglie. Quanti dunque presso di voi sono infermi e mondani, siano scacciati nella loro adulazione e lusinga, poiché da lì proviene l’eterna inimicizia di Dio, da dove essi si mostrano come adulatori perversi.

Un tempo l’apostolo Giovanni certo gridava: “Figliuoli, questa è l’ultima ora” (I Gv 2, 18); ora avviene secondo la predizione della Verità. Peste e spada infuriano per tutto il mondo, le nazioni insorgono l’une contro le altre, è scosso l’universo, la terra sta per inghiottire i suoi abitanti. Tutto ciò che è stato previsto, infatti, accadrà. Il re della superbia è vicino, e, cosa orribile a dirsi, egli ha pronto un esercito di sacerdoti, poiché pensano solo a elevarsi, loro che sarebbero stati stabiliti solo per condurre gli altri all’umiltà. Ma in questo, ancorché la nostra lingua non sia minimamente contraria, s’ergerà a vindice della sua virtù contro l’insuperbire colui che è per sé stesso speciale avversario del vizio della superba. Perciò infatti sta scritto: “Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà grazia” (Gc 4, 6). Perciò ancora è detto: “Impuro agli occhi di Dio è colui che si esalta in cuor suo” (Prov 16, 5). Perciò contro l’uomo che s’insuperbisce è scritto: “Perché dovresti esser superbo, tu che sei terra e cenere” (Ql 10, 9)? Perciò la Verità stessa dice: “Chiunque si esalta, sarà umiliato” (Lc 14, 11). E per ricondurci sulla via dell’umiltà, la Verità s’è degnata di mostrarlo nella propria persona, dicendo: “Imparate da me, ché son mite ed umile di cuore” (Mt 11, 29). Per questo infatti l’unigenito Figlio di Dio ha preso la forma della nostra debolezza, per questo l’invisibile è apparso non solo visibile, ma pure disprezzato; per questo ha sopportato oltraggi, insulti, tormenti, perché l’uomo imparasse da un Dio umile a non esser superbo. Quanto grande dunque è la virtù dell’umiltà, dacché per insegnarci questa sola in verità colui che è grande senza comparazione, si è fatto piccolo sino al patir la morte? Poiché infatti la superbia del diavolo fu la fonte della nostra perdizione, fu trovato per istrumento della nostra redenzione l’umiltà di Dio. Il nostro nemico infatti voleva esser esaltato sopra tutte le creature in mezzo alle quali era pur lui; il nostro Redentore invece, pur restando grande sopra ogni creatura, s’è degnato di diventar piccolo fra tutte. 

Perché dunque ci chiamiamo vescovi, noi che abbiam ricevuto la nostra dignità dall’umiltà del nostro Redentore eppure imitiamo la superbia del suo nemico? Ecco, sappiamo che il nostro Creatore è disceso dalla vetta della sua grandezza per dare gloria all’umanità, e noi, infime creature, ci gloriamo dell’aver privato i fratelli. Iddio umiliò sé stesso fino alla nostra polvere e la polvere umana brama di porre la sua bocca sopra il cielo e sfiorare appena la terra, e non se ne vergogna, non teme d’elevarsi l’uomo che non è altro che sporcizia, il figlio dell’uomo che non è che un verme (Gb 25). Rimembriamo, fratello carissimo, ciò che fu detto dal saggissimo Salomone: “Il fulmine precede il tuono, e il cuor s’esalta prima di cader” (Ql 32, 14). E d’altra parte soggiunge: “Prima della gloria ci s’umilia”. Umiliamoci dunque nel cuore, se vogliamo giungere a una solida grandezza. Che gli occhi del nostro cuore mai non siano oscurati dal fumo dell’orgoglio, che più in alto s’eleva, tanto più in fretta svanisce. Riflettiamo sui precetti con cui ci ammonì il nostro Redentore, dicendo: “Beati i poveri in spirito, poiché di questi è il regno dei cieli” (Mt 5, 3). Poiché infatti per mezzo del profeta disse: “Su chi riposerà il mio Spirito, se non sull’uomo umile e mansueto, che riverisce le mie parole?” (Is 56, 2) E volendo certo chiamare all’umiltà i cuori ancor deboli dei suoi discepoli, il Signore disse: “Se qualcuno tra voi brama esser primo, sarà di tutti il più piccolo” (Mt 20, 27). In ciò ci fa apertamente capire che veramente esaltato è colui che nei suoi pensieri s’umilia. Temiamo dunque di esser tra coloro che cercano i primi posti nelle sinagoghe e i saluti nella pubblica piazza e vogliono farsi chiamare maestri dagli uomini. Poiché al contrario il Signore ha detto ai suoi discepoli: “Voi invece non fatevi chiamare maestri. Uno infatti è il vostro maestro; voi tutti, invece, siete fratelli. E non chiamate qualcuno Padre sulla terra, uno infatti è il Padre vostro (Mt 23, 7-8).

Che dirai allora, fratello carissimo, in quel terribile interrogatorio del giudizio venturo, tu che non solo padre, ma pure padre universale brami d’esser chiamato nel mondo? Si faccia dunque attenzione al pravo consiglio dei malvagi, si fugga ogni istigazione allo scanalo. È invero necessario che accadano scandali, ma guai all’uomo per mezzo del quale viene lo scandalo. Ecco, a causa di questo nefando titolo di superbia, la Chiesa è divisa, i cuori di tutti i fratelli son scandalizzati. Avete forse dunque dimenticato ciò che dice la Verità: “Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, convien per lui che gli sia appesa al collo una macina girata da asini, e che sia gettato nel profondo del mare” (Mt 18, 7)? Invero sta scritto: “La carità non cerca ciò che le appartiene” (I Cor 13, 4). Ecco, la Vostra Fraternità brama i beni degli altri. Ancor sta scritto: “Onoratevi gli uni gli altri” (Rm 13, 10). E voi cercate di togliere a tutti quell’onore che illecitamente desiderate usurpare per voi solo. Dov’è, fratello carissimo, ciò che fu scritto: “Abbiate nei riguardi di tutti la pace, e la carità senza la quale nessuno vedrà Iddio” (Ibid.)? E dove ciò che fu scritto: “Beati i pacifici, poiché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9)?

Vi conviene badare che non vi blocchi una radice di amarezza che nuovamente germina nel vostro cuore e dalla quale molti son contaminati. Se infatti trascuriamo di considerarla, i giudizi dall’alto saranno vigilanti sopra il gonfiore di tanta superbia. E noi nei confronti di coloro dai quali una sì grande colpa è stata commessa per un empio azzardo, serbiamo i precetti della Verità, dicendo: “Se il tuo fratello ha peccato contro di te, va’ e riprendilo tra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello. Se invece non ti ascolterà, porta teco uno o due, affinché tutto stia nella bocca di due o tre testimoni. E se questi non li ascolterà, dillo all’assemblea. E se non ascolterà nemmeno l’assemblea, sia per te come un pagano o un pubblicano” (Mt 17, 3). Io dunque per mezzo dei miei legati ho cercato una e due volte di correggere con umili parole il peccato che vien commesso contro tutta la Chiesa e ora da me stesso lo scrivo. Qualunque cosa umilmente dovevo fare, non l’ho tralasciata. Ma se son sprezzato nella mia correzione, mi resta solo d’appellarmi alla Chiesa.

Iddio onnipotente vi renda manifesto da quanto amore son preso nei vostri confronti parlando così e di quanto m’addoloro in questa faccenda non contro di voi, ma per voi. Ma per quanto riguarda i precetti evangelici e le istituzioni canoniche e il vantaggio dei fratelli, non posso preferire una persona, nemmeno quella che molto amo.

Ho ricevuto da vostra santità scritti dolcissimi e sinceri circa la causa dei presbiteri Giovanni e Atanasio, circa la quale, con l’aiuto del Signore, risponderò in altre lettere che seguiranno, poiché sono circondato da tali tribolazioni e premuto dalle spade dei barbari, che non m’è lecito non solo occuparmi di molte cose, ma a malapena respirare.

Dato alle calende di gennaio, indizione decimaterza.

III

Vediamo, per mezzo di questa prima lettera di Papa san Gregorio il Grande:

1° che l’autorità ecclesiastica risiede nell’episcopato e non in un tale vescovo per quanto alto sia il suo rango nella gerarchia ecclesiastica;

2° che non si trattava assolutamente della difesa di una sua causa particolare contro Giovanni di Costantinopoli, ma quella di tutta la Chiesa;

3° che egli non aveva il diritto da sé stesso di giudicare questa causa e che egli dovrà riferire alla Chiesa;

4° che il titolo di vescovo universale è contrario alla parola di Dio, superbo, criminale, stolto e inetto;

5° che nessun vescovo, nonostante l’elevazione del suo rango nella gerarchia ecclesiastica, può ambire ad un’autorità universale senza impegno sui diritti dell’intero episcopato;

6° che nessun vescovo nella Chiesa può pretendere di essere il padre di tutti i cristiani senza attribuirsi un titolo contrario al Vangelo, orgoglioso, stolto e criminale;

Preghiamo i neocattolici a riflettere seriamente su queste verità espresse così chiaramente in questa prima lettera e che apparirà con nuove prove in quelle che seguiranno. San Gregorio aveva risparmiato Giovanni di Costantinopoli dicendogli solo la verità sulle sue ambiziose pretese. Il motivo di questa riserva era stato il rispetto che aveva per lui l’imperatore Maurizio, che Giovanni aveva conquistato alla sua causa. Giovanni persuase Maurizio che alla città di Costantinopoli, avendo sostituito Roma come capitale dell’impero, spettasse il titolo di primo vescovo della Chiesa, poiché i concili l’avevano concessa a quella di Roma solo a causa dell’importanza della sua sede e solo perché questa città fu la prima dell’Impero Romano. Fu in seguito a questa pretesa che si volle usurpare il titolo di ecumenico o universale. Aveva persino esortato Maurizio ad intervenire su Gregorio in modo che quest’ultimo chiudesse gli occhi sulle sue pretese e vivesse con lui in buoni rapporti.

Troviamo questi dettagli nella lettera di San Gregorio al diacono Sabiniano, allora suo agente presso l’imperatore, e che fu poi suo successore sul seggio di Roma. Ecco questa lettera[3]:

IV

LETTERA DI S. GREGORIO MAGNO

AL DIACONO SABINIANO (V, 19)

“Gregorio al diacono Sabiniano.

 Non volevo scrivere due lettere che toccassero la causa del nostro fratello, reverendissimo uomo, Giovanni, Vescovo di Costantinopoli. Ne ho scritto una abbastanza breve che contiene ciò che sarebbe stato oggetto di due, vale a dire, la verità e la mitezza.

Possa la Vostra Dilezione dargli questa lettera che ho scritto per obbedire all’imperatore. Successivamente, ne invierò un’altra che sarà tale che il suo orgoglio non avrà motivo di rallegrarsi. Egli è infatti giunto al punto di approfittare dell’opportunità che gli si è presentata  per scriverci degli affari del sacerdote Giovanni, al fine di prendere, per così dire, in ogni frase, il titolo di Patriarca ecumenico.

Spero da Dio Onnipotente che sua Maestà Imperiale distrugga la sua ipocrisia. Sono sorpreso che possa imbrogliare La tua dilezione al punto da persuadere l’imperatore che dovrebbe trasmettetemi i suoi scritti riguardo a questa vicenda, scritti in cui afferma che avrei dovuto mantenere la pace con lui. Se l’imperatore vuole essere giusto, dovrà avvertirlo di rinunciare al suo orgoglioso titolo e subito sarà fatta la pace tra di noi. Sono sicuro che non hai visto lo stratagemma a cui ricorse il nostro fratello Giovanni in questa circostanza.

Egli ha agito così al fine che, se avessi obbedito al signor Imperatore, sembrasse che avessi approvato la sua vanità; e che se io non avessi obbedito, l’imperatore si sarebbe arrabbiato con me. Ma noi rimarremo saldi sulla retta via, senza temere nulla, in questa circostanza, se non l’Onnipotente Dio. In tal modo, non si spaventi la Tua Dilezione; disprezzi, per la verità, le cose più alte di questo mondo che sono contrarie alla verità; abbia fiducia nella grazia di Dio Onnipotente e nell’aiuto del beato apostolo Pietro; si ricordi queste parole della Verità: “Colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo”. Agisca dunque in ogni cosa con un’autorità superiore: perché quando non possiamo difenderci contro la spada dei nemici; quando, per amore della repubblica, perdessimo il nostro argento, il nostro oro, i nostri beni, i nostri vestiti, sarebbe troppo ignominioso se, per loro (i Greci), perdessimo anche la fede; poiché aderire a questo titolo colpevole non è altro che perdere la fede. Questo, perché, come gli ho scritto precedentemente, non tiene nessun rapporto con lui”.

Quindi, secondo Papa San Gregorio Magno, è perdere la fede l’aderire a un titolo che gli ultramontani rivendicano come appartenente al Papa per diritto divino, e che è la base di tutte le pretese ambiziose che considerano come altrettanti diritti del papato. Nella sua qualità di primo vescovo della Chiesa, san Gregorio ha dovuto prendere l’iniziativa dell’opposizione a questo titolo ambizioso ma abbiamo già visto, e vedremo ancora che non ha difeso una sua causa attaccando Giovanni di Costantinopoli, ma quella di tutto l’episcopato, quella della Chiesa.

Giovanni di Costantinopoli fece ricorso all’imperatore per far autorizzare il suo titolo di universale, San Gregorio scrisse la successiva lettera a questo principe:

V

LETTERA DI S. GREGORIO MAGNO ALL’AUGUSTO MAURIZIO (V, 20)[4]

Gregorio all’Augusto Maurizio.

Nostro piissimo signore stabilito da Dio, in mezzo alle altre sue auguste funzioni, vegliate con particolare cura per custodire la carità sacerdotale, ritenendo, con pietà e sapienza, che nessuno può governare con giustizia le cose della terra, se non sa trattare con le cose di Dio, e che la pace della repubblica dipende dalla pace della Chiesa universale. Quale forza umana, serenissimo signore, quale forza del tempo oserebbe alzare le mani contro il vostro trono cristianissimo, se i sacerdoti, come è loro dovere, si unissero per rivolgere al Redentore, in comune, le loro preghiere e le loro buone opere? La spada delle nazioni feroci immolerebbe crudelmente tanti fedeli se la nostra vita, noi che siamo sacerdoti di nome, ma che non lo siamo in realtà, non fosse viziata da tante opere malvagie?

Lasciando da parte i nostri doveri per occuparci di cosa non ci si addice, uniamo i nostri peccati con le forze dei barbari le nostre colpe affilano la spada dei nemici, e ostacoliamo le forze della repubblica. Cosa dobbiamo dire, noi che caricano il peso dei nostri peccati sul popolo di Dio che guidiamo indegnamente? Noi che distruggiamo con i nostri esempi quello che insegniamo con la bocca? Noi che insegniamo l’iniquità con le nostre opere e che non predichiamo la giustizia che con la bocca? Le nostre ossa sono rotte dal digiuno, e il nostro spirito è pieno di orgoglio. Il nostro corpo è coperto di abiti poveri e, col suo gonfiore, il nostro cuore sorpassa lo splendore della porpora. Ci sdraiamo sulle ceneri e disprezziamo le cose più alte. Insegniamo umiltà e diamo l’esempio dell’orgoglio; che nascondiamo dei denti di lupo sotto la maschera di una pecora. Cosa ne risulta? C’è che ingannando gli uomini, nondimeno siamo conosciuti da Dio. Il nostro piissimo signore agisce dunque con saggezza, cercando di procurare la pace della Chiesa per arrivare e pacificare il suo impero, degnandosi di impegnare i sacerdoti alla concordia e all’unione. Lo desidero ardentemente e, per quanto è in me, io ubbidisco al suo ordini serenissimamente. Ma dal momento che non si tratta di una mia causa, ma di quella di Dio; in quanto non sono solo io che sono turbato, ma tutta la Chiesa è agitata; perché i canoni, i venerabili concili ed i comandamenti Nostro Signore Gesù Cristo stesso sono attaccati dall’invenzione di una certa parola pomposa e superba; che proprio il piissimo Signore tagli questo male; e se il malato vuole resistere, lo abbracci nei vincoli della sua autorità imperiale. Incatenando queste cose darete la libertà alla repubblica; e con tali incisioni diminuirete il male del vostro impero.

Tutti coloro che hanno letto il Vangelo sanno che la cura di tutta la Chiesa è stata affidata dal Signore stesso al Santo Pietro, primo di tutti gli apostoli. In effetti, gli è stato detto: “Pietro, mi ami tu? Pasci le mie pecore. Gli è stato detto ancora: “Satana desidera setacciarvi come il grano; ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno;  quindi, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli”. Gli è stato anche detto: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa; e ti donerò le chiavi del regno;  e tutto quello che tu legherai sulla terra sarò legato in cielo.

Egli dunque ricevette le chiavi del regno celeste; gli fu dato il potere di legare e di sciogliere; a lui fu consegnata la cura di tutta la Chiesa e il primato, eppure non fu chiamato apostolo universale. Ora, il santissimo uomo Giovanni, mio ​​fratello nel sacerdozio, si sforza di prendere il titolo di vescovo universale. Sono obbligato a gridare per dire: “che tempi, che maniere!”

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Non vogliamo perderci queste parole di san Gregorio senza sottolinearne tutta l’importanza. Questo grande dottore intende, come abbiamo visto, i testi del Vangelo relativi a san Pietro, nel senso più favorevole a questo apostolo. Esalta Pietro perché ha il primato nel collegio apostolico, come incaricato dal Signore stesso dalla cura di tutta la Chiesa. Cosa ne conclude? Poiché i papi hanno abusato dei testi citati per rivendicare un’autorità universale e assoluta sulla Chiesa, secondo il loro ragionamento. Essi danno innanzi tutto alle parole del vangelo il senso più largo, il più assoluto, e se lo applicano successivamente in qualità di successori di San Pietro.

San Gregorio agisce in modo ben diverso: riunisce le prerogative di Pietro, la sua umiltà che lo ha impedito di attribuirsi un’autorità universale. Attacca quindi, con l’esempio di san Pietro, l’autorità che i papi si sono attribuiti in nome di san Pietro e come successori di san Pietro!

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Accontentiamoci di aver fatto questa semplice osservazione, e diamo la parola al santo dottore:

“Ecco, in Europa tutto è consegnato ai barbari; le città sono distrutte; i forti sono rovesciati; le province si spopolano; non c’è più nessuno a coltivare la terra visto che gli adoratori degli idoli dominano sui fedeli, li travolgono con la violenza e li minacciano; e i sacerdoti, che dovrebbero giacere sulle ceneri, innaffiando la terra con le loro lacrime, aspirano a titoli pieni di vanità, a gloriarsi di titoli nuovi e profani! È mio dovere, piissimo signore, che io difenda questa circostanza? È per un particolare insulto che voglio vendicarmi? No, è la causa di Dio Onnipotente, la causa della Chiesa universale.

Chi è colui che, contrariamente ai precetti del Vangelo, ai decreti dei canoni, ha la presunzione di usurpare un nuovo titolo? Volesse il cielo ce non ci fosse che uno solo che, senza voler sminuire gli altri, volesse essere universale!

La Chiesa di Costantinopoli fornì vescovi caduti nell’abisso dell’eresia e che divennero addirittura eresiarchi. È di là che uscì Nestorio, il quale, pensava che vi fossero due persone in Gesù Cristo, Mediatore tra Dio e gli uomini, perché non credeva che Dio potesse farsi uomo, discese così nella perfidia dei Giudei. È da qui che è venuto Macedonio, che ha negato che lo Spirito Santo fosse un Dio consustanziale con il Padre e il Figlio. Se dunque qualcuno usurpa nella Chiesa un titolo che riassume in sé tutti i fedeli; la Chiesa universale – oh blasfemia! – cadrà quindi con esso, poiché si fa chiamare l’universale. Rifiutino dunque tutti i cristiani questo titolo blasfemo, questo titolo che toglie l’onore sacerdotale a tutti i preti non appena viene stoltamente usurpato a favore di uno solo.

È certo che questo titolo fu offerto al romano pontefice dal venerabile concilio di Calcedonia per onorare il beato Pietro, principe degli apostoli. Ma nessuno di loro acconsentì ad usare questo titolo particolare, per timore che se a uno fosse dato qualcosa di particolare, tutti i sacerdoti sarebbero stati privati ​​dell’onore loro dovuto. Come, quando noi non aspiriamo alla gloria di un titolo che ci è stato dato, un altro ha la presunzione di prenderselo quando non gli è stato dato da nessuno?”

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Questo passo di San Gregorio è molto notevole. Afferma prima di tutto che si trattava di un concilio che offriva ai vescovi di Roma l’onore di essere chiamati universali; questo concilio avrebbe agito così, allo scopo di onorare questi vescovi, se avesse creduto che per diritto divino avevano autorità universale?

San Gregorio ci assicura inoltre che il concilio ha voluto onorare i vescovi di Roma, per onore di San Pietro; non credevano quindi che l’autorità universale venisse loro per successione da questo apostolo. La Chiesa di Roma giustamente si gloria di San Pietro, perché l’ha resa illustre col suo martirio. Fu quindi in memoria di questo martirio, e per onorare il primo degli apostoli che fu donato dal concilio generale di Calcedonia ai vescovi di Roma un titolo onorifico. Come riconciliare, con questi fatti annotati da papa San Gregorio, le pretese degli attuali vescovi di Roma che si credono investiti di diritto divino, non solo del titolo di Vescovo Universale, di Padre comune dei fedeli, ma di una sovranità universale?

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Continuiamo la lettera di San Gregorio:

“Costui, dunque, deve piegarsi all’ordine del piissimo Signore, visto che rifiuta l’obbedienza ai precetti canonici.

Oppure si deve reprimere chi fa ingiuria alla santa Chiesa universale, chi si gonfia nel suo cuore, chi vuole godere di un titolo che lo distingua dagli altri, chi, con questo titolo particolare, si eleva anche al di sopra del vostro impero. Questa ambizione ci scandalizza tutti. Torni dunque l’autore di questo scandalo a una vita retta, e cesseranno tutte le liti tra i sacerdoti. Quanto a me, io sono il servitore di tutti i sacerdoti purché conducano una vita degna del loro sacerdozio.

Quanto a colui che, perseguendo la vanagloria, alza la testa contro il Signore Onnipotente e contro i decreti dei Padri, non abbasserò la mia testa davanti a lui, anche se dovesse ricorrere per questo alla spada; io ripongo la mia fiducia nel Signore Onnipotente. Ho fatto conoscere al diacono Sabiniano, mio ​​inviato, i dettagli di quanto è stato fatto a Roma quando abbiamo saputo che il titolo in questione veniva usurpato. Che la pietà dei miei Signori pensi bene di me; io sono con loro, mi hanno sempre ricolmato, più di ogni altro, dei loro favori e desidero conservare la loro obbedienza, e solo temo di essere accusato di negligenza nell’ultimo e terribile giudizio; che il piissimo Signore si degni di giudicare la disputa, secondo la richiesta fattane dal diacono Sabiniano, e per costringere l’uomo di cui vi ho tanto parlato a rinunciare alla sua ambizione. Se, per giustissimo giudizio della vostra pietà, o per i vostri indulgenti ordini, egli vi rinuncerà, ringrazieremo Dio onnipotente e gioiremo della pace che avrete ridato a tutta la Chiesa. Se invece persiste nei suoi disegni, seguiremo su questo argomento il sentimento della Verità che disse: ‘Chiunque si eleva sarà abbassato’. Così, infatti, è scritto: ‘Il cuore si eleva prima di cadere’. Obbediente ai comandi dei miei Signori, ho scritto gentilmente al mio fratello nel sacerdozio e l’ho umilmente ammonito a correggersi da questo desiderio di vanagloria. Se vuole ascoltarmi, ha in me un fratello devoto. Ma se persiste nel suo orgoglio, vedo già il prosieguo della sua via, perché ha come avversario Colui del quale è scritto: ‘Dio resiste ai superbi, ma dona la sua grazia agli umili!’”

continua….in traduzione


[1]Papa San Gregorio Magno, Epistolarium, lib. 1, ep. XXV

[2] S. Gregorio Magno, Epistolarium, lib. V, ep. XVIII

[3] Gregorio Magno, Epistolarium, lib. V, ep. XIX

[4] Gregorio Magno, Epistolarium, lib. V, ep. XX




Primo Concilio di Costantinopoli (381)

Dal 1 maggio al luglio 381.
Convocato dall’imperatore Teodosio I.
Tema: Simbolo Niceno-Costantinopolitano. Divinità dello Spirito Santo.

IL SIMBOLO DEI CENTOCINQUANTA PADRI

Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e di quelle invisibili: e in un solo signore Gesù Cristo, figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli. Luce da luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, prese carne dallo Spirito Santo e da Maria vergine, e divenne uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, fu sepolto e risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture, salì al cielo, si sedette alla destra del Padre: verrà nuovamente nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Crediamo anche nello Spirito Santo, che è signore e dà vita, che procede dal Padre; che col Padre e col Figlio deve essere adorato e glorificato, ed ha parlato per mezzo dei Profeti. Crediamo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Crediamo un solo battesimo per la remissione dei peccati e aspettiamo la resurrezione dei morti, e la vita del secolo futuro. Amen.

Πιστεύω είς ενα Θεόν, Πατέρα, παντοκράτορα, ποιητήν ουρανού καί γής, ορατών τε πάντων καί αοράτων. Καί είς ενα Κύριον, Ίησούν Χριστόν, τόν Υιόν του Θεού τόν μονογενή, τόν εκ του Πατρός γεννηθέντα πρό πάντων τών αιώνων. Φώς εκ φωτός, Θεόν αληθινόν εκ Θεού αληθινού γεννηθέντα, ού ποιηθέντα, ομοούσιον τώ Πατρί, δι’ ού τά πάντα εγένετο. Τόν δι’ ημάς τούς ανθρώπους καί διά τήν ημετέραν σωτηρίαν κατελθόντα εκ τών ουρανών καί σαρκωθέντα εκ Πνεύματος ‘Αγίου καί Μαρίας τής Παρθένου καί ενανθρωπήσαντα. Σταυρωθέντα τε υπέρ ημών επί Ποντίου Πιλάτου καί παθόντα καί ταφέντα. Καί αναστάντα τή τρίτη ημέρα κατά τάς Γραφάς. Καί ανελθόντα είς τούς ουρανούς καί καθεζόμενον εκ δεξιών τού Πατρός. Καί πάλιν ερχόμενον μετά δόξης κρίναι ζώντας καί νεκρούς, ού τής βασιλείας ουκ εσται τέλος. Καί είς τό Πνεύμα τό ¨Αγιον, τό Κύριον, τό ζωοποιόν, τό εκ τού Πατρός εκπορευόμενον, τό σύν Πατρί καί Υιώ συμπροσκυνούμενον καί συνδοξαζόμενον, τό λαλήσαν διά τών Προφητών. Είς μίαν, αγίαν, καθολικήν καί αποστολικήν Έκκλησίαν. ‘Ομολογώ εν βάπτισμα είς άφεσιν αμαρτιών.Προσδοκώ ανάστασιν νεκρών. Καί ζωήν τού μέλλοντος αιώνος. Άμήν.

LETTERA DEI VESCOVI RADUNATI A COSTANTINOPOLI
A PAPA DAMASO E AI VESCOVI OCCIDENTALI (382)

Ai signori illustrissimi e reverendissirni fratelli e colleghi Damaso, Ambrogio, Brittone, Valeriano, Acolio, Anemio, Basilio, e agli altri santi vescovi raccolti nella grande Roma, il santo sinodo dei vescovi che professano la vera fede, riuniti nella grande Costantinopoli, salute nel Signore.

E’ forse superfluo informare la Reverenza vostra, quasi che possa esserne all’oscuro, e narrare le innumerevoli sofferenze inflitteci dalla prepotenza ariana. Non crediamo, infatti, che la santità vostra giudichi così poco importante quanto ci riguarda, da esserne ancora all’oscuro, metterebbe anzi conto che se ne piangesse insieme. D’altra parte, le tempeste che si sono abbattute su di noi sono state tali, che non hanno certo potuto rimanervi nascoste; il tempo delle persecuzioni è recente, ne è ancora vivo il ricordo non solo in coloro che hanno sofferto, ma anche in chi per l’amore che li legava ad essi ha fatto proprie le loro sofferenze. Infatti solo ieri, per così dire, e l’altro ieri, alcuni sciolti dai vincoli dell’esilio, sono tornati alle loro chiese in mezzo a mille tribolazioni; di altri, morti in esilio, sono tornati solo i resti: alcuni, anche dopo il ritorno dall’esilio, fatti segno all’odio acre degli eretici, dovettero sopportare più amarezze nella propria terra che in terra straniera, raggiunti, come il beato Stefano, dalle loro pietre (1); altri lacerati da vari supplizi, portano ancora le stigmate di Cristo (2) e le ferite nel proprio corpo. Le perdite di ricchezze, le multe delle città, le confische dei beni dei singoli, gli intrighi, le prepotenze, le carceri, chi potrebbe contarle? Davvero che tutte le tribolazioni si sono moltiplicate contro di noi oltre ogni dire, forse perché scontassimo la pena dei nostri peccati, o forse perché Dio, clemente, voleva provarci con tante sofferenze.

Di ciò siano rese grazie a Dio, il quale volle istruire i suoi servi attraverso prove così grandi (3), e secondo la sua grande misericordia ci ha condotto nuovamente al refrigerio (4). Certo sarebbe stato necessario per noi una lunga pace, e molto tempo, e molto lavoro per il miglioramento delle chiese, perché, cioè, finalmente potessimo ricondurre all’originario splendore della pietà il corpo della chiesa, oppresso come da lunga malattia, ricreandolo a poco a poco con ogni sorta di cure. In questo modo riteniamo di esserci liberati dalla violenza delle persecuzioni, e di aver ripristinato le chiese così a lungo dominate dagli eretici; dei lupi, tuttavia, ci danno molta molestia: scacciati dai loro recinti, rapiscono le pecore negli stessi pascoli boscosi, e tentano di tenere riunioni, e di suscitare sommosse popolari, senza nulla risparmiare pur di arrecare danno alle chiese. Come dicevamo, sarebbe stato necessario che potessimo occuparci di questi problemi per un tempo più lungo.

In ogni modo, poiché, mostrando la vostra fraterna carità verso di noi, con lettere dell’imperatore, da Dio amato, avete invitato anche noi come veri membri al sinodo che per volontà di Dio avete convocato a Roma perché, essendo stati noi sottoposti allora da soli alle tribolazioni, ora in questa pia concordia degli Imperatori voi non regnaste senza di noi, ma anche noi, secondo la parola dell’apostolo, potessimo regnare insieme con voi (5), sarebbe stato nostro desiderio, se possibile, lasciare tutti insieme le nostre chiese, e venire incontro ai vostri desideri e alla (comune) utilità. Chi ci darà, infatti, le ali come quelle di una colomba per volare e posarci presso di voi (6)? Ma poiché questo avrebbe spogliato le nostre chiese, appena cominciato il rinnovamento, e la cosa sarebbe stata per moltissimi impossibile, ci eravamo radunati insieme a Costantinopoli, secondo l’invito delle lettere, mandate l’anno scorso dalla vostra carità, dopo il sinodo di Aquileia, all’imperatore Teodosio, caro a Dio. Eravamo preparati per questo solo viaggio fino a Costantinopoli, ed avevamo il consenso dei vescovi rimasti nelle diocesi solo per questo sinodo. Di un più lungo viaggio né prevedevamo la necessità, né avevamo avuto alcun indizio prima di venire a Costantinopoli. Inoltre l’imminenza della data fissata non lascia il tempo di prepararsi per una assenza più lunga, né di avvertire i vescovi della nostra stessa comunione rimasti nelle diocesi, e di chiedere il loro benestare. Poiché, dunque, questi ed altri simili motivi impedivano la partenza della maggior parte di noi, abbiamo preso l’unico partito che restava per il miglioramento delle cose e per corrispondere alla carità che ci avete dimostrato: e abbiamo pregato insistentemente i venerabilissimi e onorabilissimi fratelli e colleghi nostri, i vescovi Ciriaco, Eusebio e Prisciano di affrontare la fatica di venir fino a voi; e così, per mezzo loro, vi abbiamo fatto conoscere i nostri propositi di pace e di unità, e vi abbiamo manifestato il nostro zelo per la retta fede. Noi, infatti, abbiamo sopportato da parte degli eretici le persecuzioni, le tribolazioni, le minacce degli imperatori, le crudeltà dei magistrati e ogni altra prova, per la fede evangelica confermata dai trecentodiciotto Padri di Nicea di Bitinia. Questa fede, infatti, dev’essere approvata da voi, da noi e da quanti non distorcono il senso della vera fede essendo essa antichissima e conforme al battesimo; essa ci insegna a credere nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cioè in una sola divinità, potenza, sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in una uguale dignità, e in un potere coeterno, in tre perfettissime ipostasi, cioè in tre perfette persone, ossia tali, che non abbia luogo in esse né la follia di Sabellio con la confusione delle persone, con la soppressione delle proprietà personali, né prevalga la bestemmia degli Eunomiani, degli Ariani, dei Pneumatomachi, per cui, divisa la sostanza, o la natura, o la divinità, si aggiunga all’increata, consostanziale e coeterna Trinità una natura posteriore, creata, o di diversa sostanza. Riteniamo anche, intatta, la dottrina dell’incarnazione del Signore; non accettiamo, cioè l’assunzione di una carne senz’anima, senza intelligenza, imperfetta, ben sapendo che il verbo di Dio, perfetto prima dei secoli, è divenuto perfetto uomo negli ultimi tempi per la nostra salvezza.

Queste sono, in sintesi, le principali verità della fede, che senza ambagi predichiamo. Esse vi procureranno anche una maggior soddisfazione, se vi degnerete di leggere il tomo composto dal sinodo di Antiochia, e quello pubblicato dal concilio ecumenico, a Costantinopoli, lo scorso anno. In essi abbiamo esposto la nostra fede assai ampiamente, ed abbiamo sottoscritto i nostri anatemi contro le recenti novità delle eresie.

Quanto all’amministrazione delle singole chiese ha forza di legge l’antica norma, come sapete, e la disposizione dei santi padri di Nicea: che, cioè, in ciascuna provincia, e, se essi vorranno anche i vescovi confinanti con loro, si facciano le ordinazioni come richiede l’utilità delle chiese. Sappiate che, conforme a queste disposizioni, vengono amministrate le nostre chiese, e sono stati nominati i sacerdoti delle chiese più insigni. Della chiesa novella, per cosi dire, di Costantinopoli, che da poco, per misericordia di Dio, abbiamo strappato alle bestemmie degli eretici, come dalla bocca di un leone (7), abbiamo ordinato vescovo il reverendissimo e amabilissimo in Dio Nettario. Ciò è stato fatto al cospetto del concilio universale, col consenso di tutti, sotto gli occhi dell’imperatore Teodosio, carissimo a Dio, di tutto il clero, e con l’approvazione di tutta la città. Dell’antica e veramente apostolica chiesa di Antiochia di Siria, nella quale per prima fu usato il venerando nome di cristiani, i vescovi della provincia e della diocesi dell’oriente, radunatisi, consacrarono vescovo, canonicamente, il reverendissimo e da Dio amatissimo Flaviano, con l’approvazione di tutta la chiesa, che, unanime onorava quest’uomo. L’ordinazione è stata riconosciuta conforme alla legge ecclesiastica anche dalle autorità del concilio. Vi informiamo, inoltre, che il reverendissimo e carissimo a Dio Cirillo è vescovo della madre di tutte le chiese, la chiesa di Gerusalemme. A suo tempo egli è stato consacrato, conforme alle norme ecclesiastiche, dai vescovi della provincia, e spesso, in diverse circostanze, ha lottato strenuamente contro gli Ariani.

Poiché, dunque, queste cose sono state compiute da noi legalmente e canonicamente, preghiamo la reverenza vostra di volersi rallegrare con noi, uniti scambievolmente dal vincolo dell’amore che viene dallo Spirito e dal timore di Dio che vince ogni umana passione, e antepone l’edificazione delle chiese all’amicizia ed alla benevolenza verso i singoli. In tal modo, in pieno accordo nelle verità della fede, e fortificata in noi la carità cristiana, cesseremo di ripetere l’espressione già biasimata dagli apostoli: Io sono di Paolo, io sono di Apollo; e io sono di Cefa (8), ma saremo tutti di Cristo, che non può esser diviso in noi; e, se Dio ce ne farà degni, conserveremo indiviso il corpo della chiesa e compariremo tranquilli dinanzi al tribunale di Dio (9).

CANONI

I. Che le decisioni di Nicea restino immutate; della scomunica degli eretici.

La professione di fede dei trecentodiciotto santi Padri, raccolti a Nicea di Bitinia non deve essere abrogata, ma deve rimanere salda; si deve anatematizzare ogni eresia, specialmente quella degli Eunomiani o Anomei, degli Ariani o Eudossiani, dei Serniariani e Pneumatomachi, dei Sabelliani, dei Marcelliani, dei Fotiniani e degli Apollinaristi.

II. Del buon ordinamento delle diocesi, e dei privilegi dovuti alle grandi città dell’Egitto, di Antiochia, di Costantinopoli; e del non dover un vescovo metter piede nella chiesa di un altro.

I vescovi preposti ad una diocesi non si occupino delle chiese che sono fuori dei confini loro assegnati né le gettino nel disordine; ma, conforme ai canoni, il vescovo di Alessandria amministri solo ciò che riguarda l’Egitto, i vescovi dell’Oriente, solo l’oriente, salvi i privilegi della chiesa di Antiochia, contenuti nei canoni di Nicea; i vescovi della diocesi dell’Asia, amministrino solo l’Asia, quelli del Ponto, solo il Ponto, e quelli della Tracia, la Tracia.

A meno che vengano chiamati, i vescovi non si rechino oltre i confini della propria diocesi, per qualche ordinazione e per qualche altro atto del loro ministero. Secondo le norme relative all’amministrazione delle diocesi, è chiaro che questioni riguardanti una provincia dovrà regolarle il sinodo della stessa provincia, secondo le direttive di Nicea. Quanto poi alle chiese di Dio fondate nelle regioni dei barbari, sarà bene che vengano governate secondo le consuetudini introdotte ai tempi dei nostri padri.

III. Che dopo il vescovo di Roma, sia secondo quello di Costantinopoli.

Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato d’onore dopo il vescovo di Roma, perché tale città è la nuova Roma.

IV. Della illecita ordinazione di Massimo.

Quanto a Massimo il Cinico e ai disordini avvenuti a Costantinopoli per causa sua intorno a lui, questo grande sinodo giudica che Massimo non è mai stato né è vescovo, e non lo sono quelli che egli ha ordinato in qualsiasi grado del clero: tutto quello, infatti, che è stato compiuto a suo riguardo o da lui è da considerarsi nullo.

V. Il tomo degli Occidentali è bene accetto.

Per quanto riguarda il tomo (=documento) degli Occidentali, anche noi riconosciamo quelli di Antiochia che professano la medesima divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

VI. Chi può essere ammesso ad accusare un vescovo o un chierico.

Poiché molti volendo turbare e sconvolgere l’ordine ecclesiastico, da veri nemici e sicofanti, inventano accuse contro i vescovi ortodossi incaricati del governo della Chiesa, nient’altro cercando che di contaminare la buona fama dei sacerdoti e di eccitare tumulti tra i popoli che vivono in pace, è sembrato bene al santo concilio dei vescovi radunati a Costantinopoli di non ammettere gli accusatori senza previo esame, né di permettere a chiunque di poter formulare accuse contro gli amministratori delle diocesi, né, d’altra parte, di respingere tutti. Se, quindi, uno ha dei motivi privati, personali, contro il vescovo, perché sia stato defraudato, o perché abbia dovuto sopportare da parte sua qualche altra ingiustizia, in questo genere di accuse non si guardi né alla persona dell’accusatore, né alla sua religione. E’ necessario, infatti, assolutamente, che la coscienza del vescovo si conservi libera dalla colpa e che quegli che afferma di essere trattato ingiustamente, quali che possano essere i suoi sentimenti religiosi, ottenga giustizia. Se, però, l’accusa che si fa al vescovo ha attinenza con la religione in sé e per sé, allora bisogna tener conto della persona degli accusatori. In questo caso, primo, non si permetta agli eretici di formulare accuse contro i vescovi ortodossi in cose riguardanti la chiesa (per eretici intendiamo sia quelli che già da tempo sono stati pubblicamente banditi dalla Chiesa, sia quelli che poi noi stessi abbiamo condannato; sia quelli che mostrano di professare una fede autentica, ma in realtà sono separati e si riuniscono contro i vescovi legittimi). Inoltre, quelli che sono stati condannati, scacciati o scomunicati per vari motivi dalla Chiesa, sia chierici che laici, non possono accusare un vescovo, prima di essersi lavati della loro colpa. Analogamente non possono accusare un vescovo o altri chierici, coloro che siano sotto una precedente accusa, se prima non abbiano dimostrato di essere innocenti delle colpe loro imputate. Se, però, vi è chi senza essere eretico, né scomunicato, né condannato o accusato di alcun delitto, ha delle accuse in cose di chiesa contro il vescovo, questo santo sinodo comanda che questi presenti la sua accusa ai vescovi della provincia e dimostri davanti a loro la fondatezza delle accuse. Se poi i vescovi della provincia non sono in grado di correggere le mancanze di cui viene accusato il vescovo, allora gli accusatori possono adire anche il più vasto sinodo dei vescovi di quella diocesi (cioè il sinodo patriarcale), che saranno convocati proprio per questo. Non può però, essere ammesso a provare l’accusa, chi non abbia prima accettato per iscritto di subire una pena uguale a quella che toccherebbe al vescovo se nell’esame della causa si constatasse che le accuse contro il vescovo erano calunnie. Se qualcuno, disprezzando ciò che è stato decretato, osasse importunare l’imperatore, o disturbare i tribunali civili, o il concilio ecumenico, con disprezzo di tutti i vescovi della diocesi, la sua accusa non deve essere ammessa, perché egli ha disprezzato i canoni, ed ha tentato di sconvolgere l’ordine ecclesiastico.

VII. Come bisogna accogliere coloro che si avvicinano all’ortodossia.

Coloro che dall’eresia passano alla retta fede nel novero dei salvati, devono essere ammessi come segue: gli Ariani, i Macedoniani, i Sabaziani, i Novaziani, quelli che si definiscono i Puri (Catari), i Sinistri, i Quattuordecimani o Tetraditi e gli Apollinaristi, con l’abiura scritta di ogni eresia, che non s’accorda con la santa chiesa di Dio, cattolica e apostolica. Essi siano segnati, ossia unti, col sacro crisma, sulla fronte, sugli occhi, sulle narici, sulla bocca, sulle orecchie e segnandoli, diciamo: Segno del dono dello Spirito Santo. Gli Eunomiani, battezzati con una sola immersione, i Montanisti, qui detti Frigi, i Sabelliani, che insegnano l’identità del Padre col Figlio e fanno altre cose gravi, e tutti gli altri eretici (qui ve ne sono molti, specie quelli che vengono dalle parti dei Galati); tutti quelli, dunque, che dall’eresia vogliono passare alla ortodossia, li riceviamo come dei gentili. E il primo giorno li facciamo cristiani, il secondo, catecumeni; poi il terzo, li esorcizziamo, soffiando per tre volte ad essi sul volto e nelle orecchie. E così li istruiamo, e facciamo che passino il loro tempo nella chiesa, e che ascoltino le Scritture; e allora li battezziamo.


Note

(1) Cfr. At 7, 53
(2) Cfr. Gal 6, 17
(3) Cfr. Sal 50, 3
(4) Cfr. Sal 66, 12
(5) Cfr. 1 Cor 4, 8
(6) Cfr. Sal 55, 7
(7) Cfr Sal 21, 22
(8) 1 Cor 1, 12
(9) Cfr. Rm 14, 10




Anziano Efraim di Philotheou: L’arte della salvezza. Biografia e Prologo

Biografia

da: https://stanthonysmonastery.org/pages/elder-ephraim

Anziano Efraim di Philotheou

Ioannis Moraitis (il futuro Anziano  Efraim) è nato a Volos, in Grecia, da Demetrios e Victoria Moraitis il 24 giugno 1928, giorno in cui la Chiesa ortodossa celebra la nascita di San Giovanni Battista. Sua madre era una grande asceta, passava spesso le notti pregando con le lacrime e facendo innumerevoli prostrazioni, dando così l’esempio al piccolo Ioannis. Un giorno, mentre era seduta accanto a lui in preghiera, ebbe la visione di una stella che usciva di casa e si dirigeva verso il Monte Santo. Sentì una voce che diceva: “Dei tuoi tre figli, solo questo vivrà”. All’inizio, lo prese alla lettera, pensando che i suoi altri due figli sarebbero morti. Tuttavia, capì presto che questa era una profezia secondo cui Ioannis sarebbe diventato un monaco sulla Montagna Sacra. Da quel momento in poi dedicò particolare attenzione alla sua educazione spirituale, facendo di tutto per offrire al Signore un sacrificio senza macchia.

Con la crescita di Ioannis, crebbe anche il suo desiderio di monachesimo. Iniziò a esortare il suo padre spirituale a permettergli di andare sulla Montagna Sacra, ma il suo padre spirituale, padre Efraim di Volos, sperava di avviare un monastero e voleva tenere Ioannis con lui. Dopo alcuni anni, Ioannis si rese conto che padre Efraim non avrebbe mai fondato un monastero e decise di andare al Monte Santo. Sua madre e padre Efraim lo mandarono da san Giuseppe l’Esicasta, che era stato anche geronda di padre Efraim.

Così, nell’anno 1947, Ioannis si trovò sulla barca per Athos. Mentre guardava i monasteri dalla barca, quelle massicce fortezze gli sembravano delle prigioni. Il suo cuore fu costretto dal dolore, come se stesse affrontando una vita di internamento. Chiese a un monaco seduto accanto a lui sulla barca dove si trovava la capanna dell’anziano Joseph l’Esicasta. Il monaco vide che Ioannis era tutto pelle e ossa, poiché era malaticcio, e gli disse che non era idoneo a unirsi a una confraternita così austera. Ma quando Ioannis insistette, il monaco indicò una piccola capanna bianca, in alto sulla montagna come un nido d’aquila. Non appena Ioannis vide quanto fosse aperto e libero, il suo cuore fu sollevato. Gli sembrava il paradiso.

Quando raggiunse il porto dello Skete di Sant’Anna, fu accolto da padre Arsenios, co-asceta di san Giuseppe. Quando padre Arsenios lo vide, chiese: “Non sei Yiannaki di Volos?” “Sì, padre, ma come mi conosci?” rispose. «Oh, il santo Precursore è apparso ieri sera a Geronda Joseph e gli ha detto: “Ti porto un agnellino. Mettilo nel tuo ovile”. Questo fu il primo incontro di Ioannis con il semplice ma santo padre Arsenios, che poi condusse Ioannis su per i ripidi sentieri fino alla loro capanna.

E così Ioannis iniziò una vita di obbedienza e ascesi accanto a San Giuseppe. La loro vita era molto austera. Mangiavano solo una volta al giorno dopo il tramonto, facevano innumerevoli prostrazioni, praticavano la preghiera noetica per ore e continuavano a rimanere in completo silenzio, parlando solo quando necessario. E per di più san Joseph rimproverava e insultava continuamente Ioannis.

Dopo nove mesi, vedendo che Ioannis era un discepolo modello, umile e obbediente in tutto, san Joseph si convinse che era pronto per la tonsura monastica. Il 13 luglio 1948, in mezzo alla solitudine della loro piccola chiesa rupestre, Ioannis fu tonsurato come monaco del grande schema, ricevendo il nome di Efraim. Il santo continuò ad agire duramente nei confronti di padre Efraim, ma lo fece per estirpare dall’anima del suo giovane discepolo la passione dell’orgoglio e di fatto nutriva per lui un amore sconfinato. E sebbene il santo fosse severo, esigente e spesso aspro con i suoi discepoli durante le loro attività quotidiane, durante la loro confessione serale e rivelazione di pensieri era gentile e amorevole, spiegando le ragioni degli errori che commettevano durante la giornata e insegnando loro l’arte della guerra spirituale.

A quel tempo la loro confraternita non aveva un proprio sacerdote per le loro necessità liturgiche. Sant’Efraim di Katounakia veniva più volte alla settimana per celebrare per loro la liturgia. Tuttavia, la geronda di sant’Efraim a Katounakia non sempre lo lasciava andare, così nel 1952 san Joseph decise che padre Efraim fosse ordinato diacono e padre Haralambos sacerdote. Anche padre Efraim cucinava per la confraternita (un’obbedienza che manterrà anche dopo la morte di sua geronda, cucinando per i suoi stessi discepoli). Non avevano una cucina, un fornello, un forno o qualcosa del genere. Doveva cucinare all’aperto su un fuoco, a volte con un clima molto rigido. A volte il vento era così violento da disperdere tutti i suoi utensili.

A causa del clima rigido alla piccola Sant’Anna, la salute della confraternita iniziò a peggiorare. Così nel 1953 san Giuseppe decise che avrebbero dovuto trasferirsi. Il Santo Monastero di San Paolo offrì loro alcune capanne esicastiche presso la torre della Nuova Skete. Scoprendo che queste capanne erano proprio quello che stavano cercando, decisero di trasferirsi lì. A Nuova Skete, hanno un po’ allentato il loro programma ascetico per quanto riguarda il lavoro fisico e la dieta, ma hanno continuato le loro lotte noetiche e le lunghe veglie come prima. In quel tempo fu ordinato sacerdote anche padre Efraim. Nel loro nuovo eremo avevano due cappelle: una dedicata al Santo Precursore, dove celebrava padre Haralambos, e uno dedicato all’Annunciazione della Theotokos, dove celebrava padre Efraim.

Il 15 agosto 1959, giorno in cui la Chiesa ortodossa celebra la Dormizione della Theotokos, San Giuseppe si riposò nel Signore, lasciando orfani i suoi discepoli. San Joseph aveva incaricato i suoi discepoli di separarsi dopo la sua morte e di creare proprie confraternite. Così, padre Efraim divenne il geronda della capanna dell’Annunciazione della Theotokos.

Non passò molto tempo prima che la vita virtuosa di Geronda Efraim iniziasse ad attirare aspiranti monaci. Poiché la sua confraternita stava crescendo rapidamente, nel 1968 si trasferirono allo skete di Provata, nella cella di Sant’Artemios. A quel tempo, la maggior parte dei monasteri sul Monte Santo erano idioritmici, con solo pochi vecchi monaci che vivevano in ciascuno di loro. Così, nel 1973, i monaci del Santo Monastero di Philotheou chiesero al geronda di portare lì la sua confraternita per aiutarli a ripopolarlo e ristabilirlo come monastero cenobitico.

Inizialmente il geronda non voleva abbandonare la loro vita esicastica a Sant’Artemios e farsi coinvolgere dalle distrazioni di un monastero. Ma, dopo essere stato illuminato da Dio, accettò. Così, il 1 ottobre 1973, Geronda Ephraim fu intronizzato come abate del Santo Monastero di Philotheou, carica che mantenne fino al 1991.

La confraternita continuò a crescere rapidamente, raggiungendo nel 1981 ottanta monaci. A quel tempo, il monastero di Konstamonitou chiese al Geronda Efraim di inviare un gruppo di monaci in loro aiuto. Egli acconsentì e mandò un gruppo di venti monaci. Lo stesso accadde nel 1983 e nel 1986, con altri due monasteri, Xeropotamou e Karakalou. Così rivitalizzò quattro monasteri athoniti.

Nel 1979 si recò in Canada per motivi medici e, mentre era lì, fu invitato a confessare, consigliare e insegnare ai cristiani ortodossi nelle loro chiese e case. Attraverso questi incontri acquisì molti figli spirituali, che lo esortarono a tornare ogni anno per confessarli e guidarli nella loro vita spirituale. Capì che era volontà di Dio che tornasse in Canada e visitasse anche le parrocchie degli Stati Uniti. Su appello dei fedeli ortodossi e con la benedizione dei vescovi dell’arcidiocesi greco-ortodossa d’America, l’anziano Efraim iniziò l’opera di fondazione di comunità monastiche in Nord America, cosa che continuò a fare dopo il suo trasferimento definitivo in Arizona nel 1995. I fedeli ortodossi negli Stati Uniti e in Canada hanno abbracciato, sostenuto e collaborato in questo sforzo. Queste comunità forniscono una guida spirituale e aiutano a preservare le sante tradizioni della Chiesa attraverso una vita cristiana esemplare e la devozione a Dio. Inoltre, selezionando i degni successori (abati e badesse), l’anziano Efraim ha assicurato la continuità del suo lavoro apostolico al servizio della Chiesa e dei suoi bisogni.

Fino al 1989 c’era un solo monastero nelle arcidiocesi greco-ortodosse nordamericane. Da allora, per grazia di Dio, l’anziano Ephraim ha fondato diciassette monasteri in Nord America, dieci per monache e sette per monaci. Il Patriarca ecumenico ha visitato e benedetto quattro di questi monasteri, mentre le preghiere da ogni parte della Chiesa continuano a sostenere questa espansione senza precedenti del monachesimo ortodosso nell’emisfero occidentale.

Nella notte del 7 dicembre 2019, prefestivo del concepimento della Madre di Dio da parte di Sant’Anna, Geronda Efraim si è riposata nel Signore. Possa La sua memoria essere eterna.

PROLOGO

di Sua Eminenza Hierotheos Metropolita di Nafpaktos e San Vlasios

Considero un onore speciale ed eccezionale essere l’autore del prologo de “L’arte della salvezza”, il primo volume di omelie dell’anziano Efraim (l’ex abate del Santo Monastero di Philotheou, Monte Athos), come richiesto da lui e dai padri del Santo Monastero. Questo sentimento di onore deriva dal fatto che l’anziano Efraim è un insegnante esperto dello stile di vita vigile della nostra Chiesa ortodossa.

Ho incontrato l’anziano Efraim per la prima volta sul Monte Athos quando viveva a Nuova Skete. Conservo ancora ben viva nel mio cuore l’immagine di questo fervente asceta, che è dotato della memoria incessante di Dio e dell’intuizione spirituale. Sto parlando di un asceta che ha vissuto concretamente la vita spirituale e che ha acquisito una conoscenza diretta delle passioni e di come possono essere superate, nonché di cosa costituisce la comunione con Dio e di come si può raggiungerla. È un abile padre spirituale provvisto di discernimento, che (come ogni vero esicasta monastico) esprime la sua precisa mentalità ecclesiastica, e allo stesso tempo rispetta il Vescovo al quale chiede con estrema umiltà e con la sua invulnerabile grandezza di scrivere il prologo del suo primo volume di omelie.

Qui assistiamo all’associazione tra due doni che si trovano all’interno della Chiesa: la vita del monaco e il ministero del Vescovo. Questo mi ricorda ulteriormente il rapporto, così come l’umiltà, che esisteva tra san Nicodemo l’Aghiorita e il vescovo Hierotheos di Evripos, che è evidente nella loro corrispondenza all’inizio del libro “A Handbook of Spiritual Counsel”.

I testi contenuti in questo libro “L’arte della salvezza” sono omelie ai monaci del Santo Monastero di Philotheou sul Monte Athos, nonché ai laici, principalmente degli Stati Uniti, che sono suoi figli spirituali e che guida nella vita spirituale.

Il tratto caratteristico di queste omelie è la loro combinazione di teologia e pastorale. Quando parlo di teologia, infatti, non mi riferisco alla conoscenza accademica, che certo è necessaria in certi casi nella vita storica della Chiesa, ma alla teologia che è dono, che si manifesta come esperienza di Dio oltre che come conoscenza delle parole e delle idee increate che sono perennemente trasmesse come insegnamento attraverso parole e significati creati. L’anziano Efraim stesso era obbediente a un anziano santificato: l’anziano Joseph l’Esicasta. Viveva con la preghiera noetica, come era stato istruito da questo anziano ascetico ed esicasta. Ha sperimentato la “prima grazia”, seguendo la “seconda grazia” (come l’ha chiamata molto saggiamente l’anziano Joseph), e in seguito ha acquisito la capacità di discernere gli spiriti, che è il vero dono della teologia.

Questa teologia diventa allora una scienza pastorale che serve a pascere e guidare i figli spirituali. Tale teologo conosce per propria esperienza lo stato di Adamo prima della sua disobbedienza e caduta – poiché in precedenza sussisteva nello stato di illuminazione del nous –  e le orribili conseguenze della caduta – poiché “l’immagine” di Dio si era oscurata, il nous si oscurò, e tutte le potenze dell’anima si deformarono e acquisirono le loro inclinazioni innaturali, risultando nella creazione delle passioni come le riconosciamo oggi. Di conseguenza, un tale teologo conosce la metodologia ascetica, vigile ed esicastica (cioè l’obbedienza, la vigilanza, la preghiera e l’esicasmo noetico), attraverso la quale l’uomo è liberato dal dominio del diavolo, dalla morte e dal peccato, e sviluppa la comunione con Dio “nella persona di Gesù Cristo”.

È dunque evidente la stretta unione tra teologia e pastorale, tra conoscenza spirituale e ministero di pascere le anime umane. Solo coloro che hanno una conoscenza empirica dei misteri di Dio possono aiutare gli altri a essere liberati dalla sottomissione delle passioni, del diavolo e della morte, cosa che costituisce l’autentica pastorale della Chiesa. Se a qualcuno mancano questi prerequisiti, parlerà con grazia invece che teologicamente; esteticamente anziché asceticamente.

Le omelie dell’anziano Efraim si svolgono all’interno di questi confini. Inequivocabilmente, il materiale della sua lezione deriva dalle Sacre Scritture, che sono le parole dei profeti e degli apostoli, testimoni immediati del Verbo incorporeo e incarnato; dagli scritti dei santi Padri della Chiesa, che sono i successori dei Santi Apostoli e i portatori dell’esperienza apocalittica della Pentecoste; da “Le vite dei Padri del deserto” e dal Sinaxarion della Chiesa, in cui sono visibili le vite dei membri veri e santificati della Chiesa, che sono simultaneamente membra non del mistico ma del vero Corpo di Cristo; e da narrazioni tratte e riferite ad asceti santificati del Monte Athos. Soprattutto, però, queste parole spirituali sono plasmate dalle esperienze personali dell’anziano Efraim, ed è per questo che vengono offerte in modo autentico, con semplicità, serenità e mitezza, che sono i frutti dell’esicasmo ortodosso.

Ho letto con attenzione e preghiera le omelie contenute in questo primo volume, la maggior parte nella quiete della Dormizione del Sacro Monastero Theotokos Ampelakiotissa, che si trova all’interno della nostra Santa Metropoli. Mentre leggevo questi scritti, fui edificato spiritualmente e si creò dentro di me uno stato di preghiera. Soprattutto, ho visto chi era l’uomo prima della caduta, dove è finito dopo la caduta e come può essere liberato dal dominio della morte. Queste omelie sono davvero vive, istruttive, stimolanti e portano al pentimento, i segni di un autentico insegnamento ortodosso. Queste omelie, proprio come con le parole di uomini che possiedono lo Spirito Santo e hanno raggiunto la comunione con Cristo attraverso il sacro esicasmo, danno l’impressione che la mente di chi parla si stia muovendo oltre i confini umani.

Quando ebbi finito di leggere queste omelie, mi venne in mente il seguente versetto dell’apostolo Paolo: «Nessuno vi derubi del premio con un pretesto di umiltà e di culto degli angeli, fondandosi su cose che non ha visto, essendo temerariamente gonfio a motivo della sua mente carnale,  e non attenendosi al Capo, da cui tutto il corpo, ben nutrito e tenuto insieme mediante le giunture e le articolazioni, cresce con l’accrescimento che viene da Dio» (Col 2,18-19).

L’apostolo Paolo fa qui riferimento a una situazione esistita durante il suo tempo, che riguardava la fede degli angeli, e a visioni originate dall’uomo caduto e secolare. Ancora oggi possiamo affermare che esistono molte fedi angeliche (cioè demoniache), che si basano sulla mente secolare presuntuosa, fantasie immaginarie, visioni demoniache e costumi sociali, e non sull’insegnamento autentico che emana dall’unione con Cristo, il Capo della Chiesa. Sono dunque appropriate le parole dell’apostolo Paolo: «Se pertanto siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché lasciarvi imporre dei precetti, come se viveste ancora nel mondo» (Col 2,20).

Poiché viviamo in una società secolarizzata che spesso influenza lo stato di cose ecclesiastico, dobbiamo lottare umilmente con tutti i prerequisiti ecclesiastici ortodossi descritti dagli insegnamenti dei santi, che sono i veri membri del Corpo di Cristo. Dobbiamo essere strettamente uniti al Capo della Chiesa che è Cristo e, come membra del Corpo di Cristo, dobbiamo essere nutriti e tenuti insieme dal Capo, e crescere spiritualmente, cioè tutto il nostro essere deve “crescere con l’accrescimento che viene da Dio” (Col 2,19). Il nostro scopo nella vita deve essere quello di crescere in Dio e di avanzare dal nostro attuale stato decaduto al Paradiso, dal nostro attaccamento al diavolo alla deificazione, che è esattamente “l’aumento di Dio”.

Questa crescita spirituale è facilitata dalle omelie dell’anziano Efraim, che mi ricordano non solo un autentico insegnamento monastico, ma anche lo spirito del Monte Athos come lo incontrai negli anni ’60 e ’70, e come è testimoniato oggi dai santi monaci athoniti che conducono una vita ascetica ed esicastica.

Sento il bisogno di ringraziare il venerabile anziano Ephraim per le fatiche che ha intrapreso per acquisire questa conoscenza di Dio, e gli chiedo di pregare anche per me e per tutti noi che siamo impegnati nella pastorale del popolo, per non perdere lo scopo più profondo e fondamentale del ministero pastorale, che è quello di condurre le persone, in primis noi stessi, dall’“immagine” alla “somiglianza” di Dio, dalle tenebre della mente all’illuminazione e alla deificazione. Dobbiamo capire bene che lo scopo del cristianesimo non è semplicemente quello di svolgere un certo lavoro sociale, ma secondo l’accurata affermazione di san Gregorio di Nissa, “il cristianesimo è l’emulazione della natura divina”.




Anziano Aimilianos di Simonopetra: Come leggere le Scritture 

Quando uno si impegna a esaminare la Scrittura in modo ozioso e intellettuale, crea odio e litigi. Come mai? Perché l’approccio intellettuale alla Scrittura non ci aiuta a voltarci e a riflettere sui nostri peccati, ma invece ci fa concentrare su problemi e concetti relativi allo studio della Scrittura, con il risultato che le nostre facoltà logiche e intellettuali sono eccitate senza alcuno scopo reale. “Conoscenza” che di per sé non aggiunge nulla. Al contrario, incoraggia la coltivazione dell’individuo e il suo senso privato delle cose; favorisce l’autosufficienza delle sue opinioni personali, che poi cerca di giustificare e imporre agli altri.

Questo tipo di approccio alla Scrittura ti mette immediatamente in conflitto con gli altri; oppone la tua volontà e la tua opinione alla loro, spingendoti a dissentire e discutere con loro, e a farti dei nemici i tuoi fratelli. Pieno come sono delle mie opinioni sulle cose, sono noto per ricevere qualsiasi cosa da Dio. Il modo corretto è leggere la Scrittura con semplicità e permettere a Dio di dirci ciò che vuole dirci. Una cosa è leggere la Scrittura perché vuoi raccogliere informazioni, un’altra è leggerla perché vuoi acquisirne il vero contenuto, cioè lo Spirito Santo. Questo tipo di conoscenza è la vita di Dio (cfr Gv 17,3), l’ingresso e il prolungamento di Dio nella nostra vita, è la discesa e la dimora di Dio in mezzo a noi. Possiamo giudicare se il nostro studio della Scrittura è autentico o meno in base al numero di lacrime che versiamo quando studiamo. Certo, posso anche leggere la Scrittura senza versare lacrime e senza un forte senso dei miei peccati, ma con la speranza che la grazia di Dio, attraverso la mia lettura della Scrittura, spezzi il mio cuore indurito. Leggi la Scrittura, quindi, ma non dimenticare i tuoi peccati e non ridurre la Scrittura ad un oggetto di indagine intellettuale perché, a quel punto, cessa di essere la parola di Dio e inizi a vederla come qualcosa di umano. Il criterio per il tuo studio dovrebbe essere questo: il modo in cui leggi la Bibbia dovrebbe portare pace al tuo cuore, comunione con Dio, amore per il prossimo e consapevolezza della tua peccaminosità: il riconoscimento di quanto sei indegno e mal preparato per stare davanti a Dio .




ZOLTÁN BARA: I “FURTA GRAECORUM”

CRISTIANESIMO E CULTURA ELLENISTICA NEL II E III SECOLO:
LE VERITÀ PARZIALI ED I “FURTA GRAECORUM”

di ZOLTÁN BARA

1. Introduzione
In una generale espansione e lenta penetrazione del cristianesimo nella società e nelle istituzioni civili, il messaggio cristiano si è dovuto ben presto confrontare con il mondo culturale ellenistico. L’annuncio cristiano aveva preso forma inizialmente in categorie semitiche, perché inizialmente formulato in area semitica, per destinatari di cultura semitica. Dal momento in cui esso, però aspirava a una propagazione universale e cominciava a diffondersi nell’area di cultura greca, ha dovuto essere nuovamente formulato secondo le categorie del pensiero tipiche dell’ellenismo. L’ellenizzazione del messaggio cristiano non è una sua deformazione dovuta all’influsso della cultura greca, bensì il risultato di un processo di adattamento, processo inevitabile e naturale, ancorché molto laborioso e sofferto, al fine di cercare da una parte gli indispensabili agganci con il mondo circostante, e di rivelare dall’altra la novità dei contenuti e perciò l’identità stessa della nuova comunità. (M. SIMONETTI, Cristianesimo antico e cultura greca, Roma 1983, 7–8; E. PRINZIVALLI, Incontro e scontro fra «classico» e «cristiano» nei primi tre secoli: aspetti e problemi, Roma, 1994, 543–556).

È chiaro, che venendo a contatto con il mondo ellenistico il cristianesimo si trova a dover affrontare tutta una serie di problemi.

Da una parte, infatti, gli scrittori cristiani sono d’accordo sul condannare a un tempo il paganesimo popolare e la filosofia greca in quanto false concezioni di Dio e opere del demonio, ma d’altra parte gli apologisti fanno appello alla testimonianza di Platone e di Omero per fondare il carattere ragionevole della loro dottrina. (J. DANIÉLOU, Messaggio evangelico e la cultura ellenistica, Bologna, 1975, 51).
Infatti ci furono due centri d’insegnamento, due scuole, dove il contatto tra ellenismo e cristianesimo, tra filosofia e fede, tra civiltà pagana e civiltà cristiana sono venuti maggiormente a confronto: la scuola di Roma di Giustino, Taziano, Rodone e la scuola di Alessandria, di Clemente e Origene. La scuola romana, fondata da San Giustino, non riservava l’insegnamento ai soli cristiani, ma lo proponeva a tutti, a “chiunque voleva andare per ascoltare la dottrina della verità”. Oggetto di questo insegnamento erano la dimostrazione e la difesa della religione cristiana, l’apologetica che mirava a convertire i pagani e i giudei, la controversia che confutava le tesi degli eretici, in particolare di Marcione.
La scuola di Alessandria, fondata da Panteno e resa celebre soprattutto da Clemente e Origene, non aveva un insegnamento esclusivamente religioso e neppure solo apologetico come quello di Roma. Essa offriva un insegnamento enciclopedico, che esponeva primariamente l’insieme delle scienze profane, per elevarsi poi da queste alla filosofia morale e religiosa e infine alla teologia cristiana, esposta sotto forma di commento ai Libri Sacri. (J. QUASTEN, Patrologia, Torino, 1967, 50–55).
A Giustino, Taziano, Tertulliano, Clemente, Origene e agli altri autori cristiani del II e III secolo si pone il problema: l’ellenismo, principalmente considerato nella sua filosofia, è conciliabile con il cristianesimo? I cristiani lo devono considerare un impedimento, un ostacolo, o un aiuto nel ricercare e definire la verità?
È noto come la risposta di Taziano e Tertulliano è stata decisamente negativa, mentre quella di Giustino, Clemente e Origene più aperta e più possibilista.

2. Patres graeci
2.1. Taziano
Taziano nacque in Siria da una famiglia pagana e fu discepolo, a Roma, di Giustino. Con il suo maestro ebbe in comune la ricerca della vera filosofia e della verità, ma con l’atteggiamento sostanzialmente positivo nei confronti della cultura pagana, nei confronti della quale conservò un rigetto totale e pregiudiziale.

La filosofia, la religione e le opere dei greci sono ingannevoli, immorali e senza alcun valore, eccettuato qualche elemento buono, preso a prestito dalla rivelazione cristiana. I teatri greci sono scuola di vizio. Le arene sono come dei macelli. La danza, la musica e la poesia sono peccaminose e non hanno alcun valore. La filosofia e il diritto greco sono tutta una contraddizione. Basti ricordare il dissenso sui principi costitutivi dell’essere: Anassagora l’identifica con il nous, Parmenido con l’uno; Anassimene con l’aria; Empedocle con l’odio e l’amore, Platone con Dio, Aristotele con l’agire e il patire. Il comportamento pratico di Taziano, come del resto quello di altri apologisti, non è coerente con la sua posizione teorica. Taziano quando espone la sua dottrina sulla divinità, il mondo, l’uomo, fa ricorso ai filosofi che critica. La sua definizione di Dio come spirito è presa da Gv 4,24, ma inserita in una tematica di carattere storico; la sua dottrina dei due spiriti opposti, uno spirituale e l’altro materiale, tra i quali si trova l’anima in posizione intermedia, sembra fondere insieme motivi platonici e stoici. Quando, poi, descrive l’anima che, per causa del peccato, perde le ali, costituite dallo Spirito perfetto, egli riecheggia da vicino il passo platonico delle ali dell’anima.
Non è certamente poco significativo che Giustino, che era aperto al dialogo e alla valorizzazione della cultura pagana, morì martire della fede, mentre Taziano, che era intransigente assertore della malizia intrinseca dei valori pagani, al suo ritorno in Oriente, verso il 173, finì eretico, fondatore della setta degli encratiti e falsificatore della dottrina dell’Apostolo.

EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica, 4, 29, 6: “Ardì cambiare alcune parole dell’Apostolo, come se stesse correggendo il suo stile”. Si veda anche F. BOLGIANI, “Taziano”, in A. Di BERNARDINO (ed.), Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato, 1984, 3354–3357. Si può leggere con profitto anche la prefazione di S. Di Cristina alla traduzione italiana del Discorso ai Greci: Taziano, Discorso ai Greci (a cura di S. Di Cristina), Roma 1991.)

2.2. Tertulliano
Anche Tertulliano, come Giustino, è un convertito dal paganesimo alla fede cristiana. Ciò che portò Tertulliano alla fede non è il confronto con i diversi sistemi filosofici, ma la testimonianza eroica dei primi martiri cristiani: “Chiunque, davanti a una costanza così prodigiosa, si sente come preso da una inquietudine e desidera ardentemente ricercare la causa; quando ha scoperto la verità, l’abbraccia immediatamente.” (Tertulliano; Ad Scapulam, 5)
Tertulliano ha abbracciato questa verità e l’ha elevata alla sua suprema aspirazione. In una sua opera, la parola verità ricorre 162 volte. Il problema dei rapporti della fede cristiana con il paganesimo si riduce, per Tertulliano, alla “vera vel falsa divinitas”. Quando Gesù fondò la nuova religione, lo fece per condurre l’umanità alla conoscenza della verità. (Tertulliano: Apologetico 21,30)
Il Dio cristiano è il Dio vero, e coloro che lo incontrano la pienezza della verità! La verità è ciò che odiano i demoni e respingono i pagani; i cristiani, invece, muoiono e soffrono per essa. Ciò che distingue il cristiano dal pagano è la verità. In un primo atteggiamento di apertura e di dialogo, Tertulliano sostiene che ogni uomo ha la possibilità, grazie ai communes sensus, una sorta di conoscenza innata, di conoscere naturaliter Dio e l’immortalità dell’anima. (Tertulliano: De resurrectione mortuorum 3, 1). Nel proporre ai pagani la catechesi su Cristo, dalla nascita di Dio fino alla risurrezione dalla morte, riprende la dottrina giovannea di Cristo-Logos e, per renderlo familiare ai lettori, ricorda come anche la filosofia stoica conoscesse il Logos creatore del mondo; in tale contesto cita Zenone e Cleante, in modo da presentare la dottrina del Logos cristiano, nella sua originalità, rispetto a quello stoico, come un perfezionamento, un completamento di quella. (Tertulliano: Apologetico 21).
Il De anima, la più antica trattazione cristiana dedicata a questo argomento, è tutta fondata su materiale dedotto dalla tradizione filosofica greca. Nell’Adversus Praxeam riprendendo la dottrina del Logos, Tertulliano l’incentra su una concezione materialistica di Dio, di chiara impronta stoica: “Chi negherà che Dio è corpo, anche se Dio è spirito? Infatti, lo spirito è un corpo di tipo speciale nel suo aspetto. Anche le cose invisibili, quali che siano, sono visibili solo a Dio.” (Tertulliano: Adversus Praxeam 7, 8–9). Ma nei momenti maggiori del suo rifiuto della cultura greca e della difesa del cristianesimo, Tertulliano fa della filosofia la matrice dell’eresia gnostica e di tutte le altre eresie. Colpisce la curiositas dei filosofi, cioè la ricerca cavillosa e sottile, che non conduce alla verità, e la mette in contrasto con la semplicità delle ricerca dei cristiani, illuminati dalla rivelazione di Cristo. Afferma che noi non abbiamo più bisogno della curiosità, dopo Gesù Cristo, né della ricerca, dopo il vangelo. Il suo atteggiamento anti-intellettualista lo porta a dire: “credo quia absurdum!”. È nota, poi, la sua affermazione:

Cos’ha da spartire Atene con Gerusalemme? Che cosa l’Accademia con la Chiesa? La nostra formazione è dal portico di Salomone. Che somiglianza ci può essere tra il filosofo e il cristiano, tra il discepolo della Grecia e quello del cielo, tra chi cerca la fama e chi cerca la salvezza, chi vende parole e chi realizza opere, chi costruisce e chi distrugge, chi altera e chi tutela la verità, chi è ladro e chi è custode del vero? (Apologetico 416, 18 – A. MAGRIS, “La filosofia greca e la formazione dell’identità cristiana”, in Annali di storia dell’esegesi, 21, Bologna, 2004, 59–107).

2.3. Giustino e gli Alessandrini
Idee completamente opposte professano Giustino, Clemente e Origene.
Per essi, la filosofia greca è fondamentalmente un dono salutare di Dio, sia che se ne consideri l’azione di un tempo sui pagani, o l’azione presente sui cristiani. Contro coloro che asserivano che “la filosofia è una funesta invenzione del maligno per avvelenare la vita degli uomini”, Clemente arriva ad affermare invece che la filosofia sarebbe un terzo Testamento, paragonabile alla Legge, dato agli uomini per insegnare loro la giustizia.

CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata I, 1, 18, 1; VI, V, 42, 1, in J.-P. MIGNE (ed.), Patrologia Greca, 161 voll., Paris 1857–1866 (d’ora innanzi PG) 8. Cfr. G. GIRGENTI, Giustino martire. Il primo cristiano platonico, Platonismo e filosofia patristica. Studi e testi 7, Milano, 1995; P. MERLO, Liberi per vivere secondo il Logos. Principi e criteri dell’agire morale in san Giustino filosofo e martire, Biblioteca di Scienze Religiose 111, Roma, 1995; C. CORSATO, Alcune “sfide della storia” nel cristianesimo delle origini: Giustino, Cipriano, Gregorio Magno, Padova, 1995, 231–251: (soprattutto 231–235: Giustino e la cultura nel secondo secolo).

Però è singolare l’argomentazione alla quale questi autori cristiani ricorrono per salvare la cultura pagana ed esercitare su di essa una sorta di protezionismo ecclesiale e teologico. Di fronte alla cultura greca e la sua imponenza in campo soprattutto filosofico, essi cercarono di inglobare questa cultura pagana nella Bibbia. La Bibbia, sostenevano, è anteriore a Platone e non ha quindi attinto niente dalla cultura pagana, mentre Platone e altri filosofi hanno attinto alla Bibbia alcune verità fondamentali su Dio, l’uomo, il cosmo. Hanno “rubato” alla Bibbia le verità sul mondo e sull’uomo. È l’argomento dei cosiddetti ‘furta Graecorum’, con il quale Giustino e Clemente Alessandrino, soprattutto, sostengono che la filosofia greca ha conseguito una conoscenza parziale della verità. Vogliamo vedere un po’ più da vicino questi due argomenti molto usati: le verità parziali e il furto delle verità. Ci si chiede innanzitutto: per quale via sono pervenute ai greci le verità parziali di cui essi dispongono sull’uomo e sul mondo?

Furta Graecorum
3.1. L’origine delle verità parziali
Filone riconosceva tre fonti alla verità presentate dai filosofi della Grecia: o le hanno tratte da Mosè; o le hanno scoperte con la ragione; oppure alcuni filosofi hanno ricevuto una ispirazione da Dio, parallela a quella dei profeti.

H. A. WOLFSON, Philo, Cambridge, 1948, I, 141–147; A. J. DROGE, Homer or Moses? Early Christian Interpretations of the History of Culture, Tübingen, 1989 (qui soprattutto per le 59–72.

Giustino riconosce tali fonti nella teoria dei “prestiti” dalla Bibbia o nel riconoscimento della capacità della ragione umana.

Wolfson sostiene che anche in Giustino si trovano le tre fonti di Filone. H. A. WOLFSON, The philosophy of the Church Fathers, Cambridge 1956, I, 41. Holte sostiene che Giustino non ricorre all’argomento della rivelazione. R. HOLTE, “Logos spermatikós. Christianity and ancient philosophy accordino to St. Justin’s Apologies”, in Studia Theologica Lundensia, 12 (1958), 161.
DANIÉLOU, 52; E. DAL COVOLO, “I Padri preniceni davanti alla cultura del loro tempo”, in Ricerche Teologiche, 9 (1998), 133–138.

Clemente Alessandrino dà due elenchi di possibili fonti di queste verità parziali. Nel primo comprende tre fonti: La filosofia greca, dicono alcuni, tocca in qualche modo la verità per l’approssimazione, ma vagamente e parzialmente; altri vogliono che essa riceva il suo impulso dal diavolo; alcuni hanno espresso l’opinione che ogni filosofia sia stata ispirata da qualche potenza subordinata. (Stromata I, 16)

Un secondo elenco riporta le seguenti fonti: alcuni dicono che i greci hanno avuto una nozione naturale (fusiké énnoia) o ancora un “senso comune” (koinòs noùs). Si dice ancora che si tratta di un dono di predicazione o d’ispirazione. Infine, altri vogliono che i filosofi abbiano detto certe cose in quanto riflesso della verità.

Stromata I, 19; Cfr. G. V. VIAN, “Cristianismo y culturas en la época patrística”, in Cristianismo y culturas. Problemática de inculturación del mensaje cristiano. Actas del VIII Simposio de Teología Histórica, Facultas de Teología San Vicente Ferre, Valencia, 1995, 69.

Questi due elenchi distinguono, dunque, due fonti principali: una è la conoscenza naturale di Dio, assai elementare, accessibile a tutti gli uomini e che può essere raggiunta per approssimazione (perìptosis), per nozione naturale (fusiké énnoia), per senso comune (koinòs noùs), per riflesso (émfasis); un’altra è una conoscenza che suppone un’interpretazione soprannaturale, di cui soltanto alcuni sono l’oggetto, e riguarda verità più alte.

E. MOLLAND, The conception of the Gospel in Alexandrian Theology, Oslo, 1938, 45– 52; E. MOLLAND, “Clement of Alexandria on the origin of Greek philosophy”, in Symbolae Osloenses 15/16, Oslo, 1936, 57–85.

La differenza tra Clemente e Giustino sta nel fatto che mentre Giustino, salvo un’eccezione, attribuiva indistintamente a una stessa azione del Logos ogni verità conosciuta dai pagani prima di Cristo. Clemente distingue due temi diversi. Da una parte vi è una conoscenza comune, dovuta al Logos, alla ragione, che è essa stessa, un dono di Dio; questa conoscenza è naturale e accessibile a tutti. Ma d’altra parte vi è un’azione del Logos presso alcuni greci che ne fa una sorta di profeti del mondo pagano, e che richiede un’assistenza speciale di Dio. Per quanto riguarda l’argomento della capacità della ragione umana, Giustino evidenzia il fatto che ogni uomo è in condizione di conoscere alcune verità per mezzo della ragione.(GIUSTINO, Apologia I, 46; Apologia II, 10 (PG 6))

La differenza tra i pagani e i cristiani sta nel fatto che i primi non hanno avuto che una conoscenza parziale della verità. I pagani partecipano al Logos, ma i cristiani hanno ricevuto nel Cristo il Logos stesso. I cristiani possiedono eminentemente nel Cristo la verità di ogni filosofia, perché questa non è che una partecipazione al Logos: Tutto ciò che essi hanno detto di buono appartiene a noi cristiani. Perché dopo Dio noi adoriamo il Verbo nato dal Dio ingenerato e ineffabile, poiché si è fatto uomo per noi, allo scopo di guarirci dai nostri mali, prendendovi parte. Gli scrittori hanno potuto vedere oscuramente la Verità, grazie al seme del Verbo che è stato posto in loro. Ma allora, una cosa è possedere un seme e una somiglianza proporzionale alle proprie facoltà, altra cosa la realtà stessa, la cui partecipazione e imitazione procedono dalla grazia che viene da lui.(Apologia II, 13)

Giustino spiega questa partecipazione dicendo che in ogni uomo vi è un “germe del Logos” (sperma tou Lógou) e che ciò è dovuto all’azione del Verbo che dà il germe (spermatikós Lógos). Questi semi sono una partecipazione del Logos nello spirito umano; essi derivano dall’azione del Logos, che insemina così le intelligenze. Sono dei semi non nel senso stoico o platonico di una conoscenza incoativa che lo spirito deve condurre alla sua perfezione, ma di una conoscenza infima, cui soltanto il Verbo incarnato darà la perfezione.

3.2. I furta Graecorum
Prendiamo in esame ora in modo particolare l’argomento dei ‘furta graecorum’ in base al quale le verità conosciute dai filosofi sono dei prestiti presi dalla rivelazione. Lo faremo attingendo direttamente ad alcuni testi patristici in cui ricorre questo argomento.

“La predizione: una spada vi consumerà non significa che i disobbedienti moriranno sotto i colpi delle spade; ma la spada di Dio è il fuoco, del quale diviene esca chi proferisce il male. Per questo, la predizione dice: la spada vi consumerà; perché la bocca del Signore lo ha detto. Se invece intendesse dire di una spada che recide e subito dà morte non direbbe vi consumerà. Quindi anche Platone quando asserì che la colpa è di chi sceglie, e Dio non ne è causa, lo asserì derivandolo dal profeta Mosè; perché Mosè è più antico di tutti gli scrittori greci. E tutto ciò che dissero i filosofi e i poeti circa l’immortalità dell’anima o le pene successive alla
morte o alla contemplazione delle cose celesti o circa simili verità, hanno potuto pensarlo e lo hanno espresso derivandone il principio dai profeti. Perciò fra tutti costoro sembra che
si trovino semi di verità; ma dimostriamo che essi non hanno compreso esattamente, dal momento che affermano cose in contrasto tra loro. Quindi, se diciamo che è stato vaticinato il futuro, non intendiamo asserirlo quasi che esso si svolga per necessità del fato; ma, essendo Dio preveggente delle future azioni degli uomini e ha stabilito che ciascuno avrà una degna ricompensa delle
proprie opere, egli, per virtù dello Spirito profetico, preannuncia le mercedi che da parte sua verranno agli uomini secondo il merito dei loro atti. E così induce il genere umano a riflettere e ben considerare; e dimostra anche che egli si dà pensiero di loro e a loro provvede”. (Apologia I, 44.
)
“Ma perché sappiate che dai nostri maestri – intendiamo dire dalle scritture
profetiche – Platone tolse l’affermazione che Dio aveva formato il mondo optando sulla materia informe, porgete ascolto alle precise parole di Mosè, che abbiamo già indicato quale primo fra i profeti e anteriore agli scrittori greci. È servendosi di lui che lo spirito profetico, per significare in quale maniera e da quali elementi in principio Dio fabbricò l’universo, così parlò: ‘In principio Dio fece il cielo e la terra. Ma la terra era invisibile e informe, e la tenebra incombeva sull’ abisso, e lo Spirito di Dio andava al di sopra delle acque. E disse Dio: sia fatta la luce. E la luce fu’.
È di qui che tanto Platone quanto chi professa i suoi principi seppero – e noi stessi sappiamo – che l’universo intero ha avuto origine a opera del Verbo di Dio da sottoposta materia, indicata già da Mosè anteriormente a ogni altro; come potete persuadervene anche voi. D’altronde, anche quello che presso i poeti ha nome di Erebo, sappiamo che prima fu nominato da Mosè”. (Apologia I, 59
)
“Anche l’asserzione del Timeo di Platone circa la natura del Figlio di Dio,
quando egli dice: “Dio lo ordinò a forma di X nell’universo, Platone poté
farla prendendola parimenti da Mosè.” Infatti nei libri di Mosè si trova
scritto che proprio nel tempo in cui gli Israeliti uscirono dall’Egitto e
stettero nel deserto, vennero contro loro animali velenosi e vipere e aspidi
e ogni sorta di serpenti che uccidevano il popolo; e che Mosè, mosso da
efficace efflato divino, prese del bronzo e ne foggiò una figura di croce e
la collocò sul tabernacolo santo e disse al popolo: “se volgerete lo sguardo a questo segno e avrete fede, in esso vi salverete”. E scrisse che, dopo ciò, i serpenti morirono, mentre il popolo poté sottrarsi alla morte. Platone lesse, ma non capì bene e, non riuscendo a intuire che quella era la figura di una croce – interpretandola invece per la forma di un X – asserì che la virtù, la quale viene subito dopo il sommo Dio, è ordinata nell’universo a foggia di X. Egli fa parola anche di una terza virtù; pure questo è un concetto tolto da Mosè nel quale egli lesse – e noi ne abbiamo prima riferito il passo – che lo spirito di Dio avanzava sopra le acque. E così egli assegna il secondo posto al Verbo divino, cui affermò essere ordinato a modo di X nel mondo; il terzo allo Spirito, di cui è detto che avanzava sull’acqua. E ciò, quando asseriva: “terze attribuzioni spettano al terzo”. Quindi non siamo noi che abbiamo le stesse opinioni degli altri, ma sono gli altri che parlano contraffacendo le nostre”. (Apologia I, 60
)
“La nostra dottrina si rivela più nobile di ogni dottrina umana, perché l’intero Verbo – il Cristo manifestatosi per noi – volle essere corpo e Verbo e anima. Infatti tutto ciò che di buono dissero ed escogitarono filosofi e legislatori, lo elaborarono a fatica, con l’indagine e l’osservazione, ma solo parzialmente secondo il Verbo. E perché non ebbero intera la conoscenza delle cose riguardanti il Verbo, cioè Cristo,
furono spesso anche in contraddizione con se medesimi”. (Apologia II, 10
)
“Ora ritengo che sia utile dimostrare che la nostra filosofia è più antica delle discipline che sono presso i Greci. Termini di riferimento sono per noi Mosè e Omero: infatti sia l’uno che l’altro sono antichissimi; uno è il più antico dei poeti e degli storici; l’altro principio di ogni saggezza barbara. Ora da noi saranno messi a confronto, e scopriremo che le nostre dottrine non solo sono precedenti alla cultura greca, ma anche all’invenzione delle lettere; non prenderò come testimoni coloro che sono di casa, piuttosto mi servirò di difensori greci. La prima cosa, infatti, non sarebbe ragionevole e neppure da noi sarebbe accettata; la seconda si
rivelerà straordinaria, perché, resistendo a noi con le stesse nostre armi, ottengo per voi prove senza sospetto […] (TAZIANO, Contro i Greci, 31 – PG 6).
Appare quindi che Mosè è più antico degli eroi menzionati, delle città e dei demoni. E bisogna credere a colui che per età è più antico e non ai Greci che vi hanno attinto le dottrine senza rendersene conto. I loro sapienti infatti facendo uso con eccessiva e soverchia cura di quello che impararono da Mosè e da coloro che furono filosofi al suo stesso modo, tentarono di falsificarlo anzitutto perché si credesse che dicevano qualcosa di particolare, in secondo luogo affinché, nascondendo mediante
una verbosità leziosa le cose che non avevano capito, potessero distorcere la verità come una favola. (Contro i Greci, 40)
Con l’aiuto di Dio voglio dimostrarti con la maggior esattezza possibile ciò che riguarda il tempo affinché tu sappia che la nostra dottrina non è né recente, né simile alle fiabe, ma che è più antica e più veritiera di tutti i poeti e gli scrittori che hanno scritto su questioni incerte… Platone invece, che sembra essere stato il più sapiente fra i Greci, a quante sciocchezze giunse! (TEOFILO DI ANTIOCHIA, Ad Autolico III, 16 – PG 6
)
Da questi antichi scrittori si dimostra che gli scritti degli altri sono più recenti degli scritti che ci sono pervenuti da Mosè e anche più recenti dei profeti vissuti dopo di lui. Infatti, l’ultimo dei profeti, di nome Zaccaria, fiorì al tempo del regno di Dario. Ma anche tutti i legislatori hanno sancito le leggi in tempo posteriore. Se infatti qualcuno parlasse di Solone l’Ateniese, questi visse al tempo dei re Ciro e Dario, al tempo del già nominato profeta Zaccaria, vissuto molti anni dopo […] (Ad Autolico III, 23)
Da qui è possibile dimostrare come le nostre Sacre Scritture sono più antiche e più vere di quelle dei Greci e degli Egiziani e anche di alcuni altri storici. Infatti Erodono, Tucidite, Senofonte e altri storiografi hanno cominciato, per la maggior parte, a narrare del regno di Ciro e di Dario, non essendo capaci di raccontare con esattezza i tempi antichi e primitivi. Che cosa dissero di grande se parlarono di Dario, di Ciro e dei re dei barbari; oppure di Zopiro e di Ippia presso i Greci […]
Non ci siamo proposti la materia per una lunga trattazione, ma per dimostrare la quantità degli anni dalla creazione del mondo e per confutare l’inutile fatica e la stoltezza degli scrittori, poiché non sono trascorsi neppure ventimila anni, come disse Platone insegnando che tanti ne erano trascorsi dal diluvio fino ai suoi tempi […]. Né il mondo fu ingenerato, né esiste un principio casuale per tutte le cose
come Pitagora e altri hanno scioccamente raccontato. Ma il mondo è creato
e retto dalla provvidenza di Dio che ha creato tutte le cose: la totalità del
tempo e gli anni lo dimostrano a quanti vogliono persuadersi della verità. (Ad Autolico III, 26
)
Computati quindi i tempi e tutti i fatti narrati, è possibile vedere
l’antichità degli scritti profetici e la divinità della nostra dottrina; la nostra
dottrina, infatti, non è recente e le nostre non sono, come alcuni pensano,
favole o falsità, ma storie molto antiche e molto vere. (Ad Autolico III, 29
)

Clemente Alessandrino inserisce la tesi del “furto dei Greci” nel contesto più generale dell’origine barbara di tutta la filosofia. I filosofi infatti sono gli antichi saggi barbari ai quali Dio, per il tramite degli angeli, ha comunicato le dottrine che essi dovevano insegnare ai loro popoli. I Greci, venuti dopo, hanno saccheggiato queste dottrine, essi non sono che dei bambini nei confronti dei barbari, che, invece, hanno la verità antica. (Stromata I, 29)

L’opposizione non è più quella tra i barbari e i Greci. Quando Clemente parla della filosofia come preparazione provvidenziale al Cristo, non parla delle scuole della filosofia greca, ma innanzitutto della filosofia barbara antica. Dio non ha lasciato alcun popolo senza inviargli delle guide spirituali, che per i Giudei sono Mosè e i profeti, per i diversi popoli i saggi antichi, che sono i filosofi per eccellenza. Egli si è manifestato a loro tramite gli angeli. Tra questi due gruppi i Giudei sono privilegiati sia per l’antichità, sia per l’eccellenza della loro dottrina. I Greci, venuti dopo, hanno attinto all’ una e all’altra fonte: sono così dei ladri che si attribuiscono ciò che non hanno inventato. I passi in cui Clemente espone le sue tesi sono numerosi. Già dal I libro degli Stromata scrive: “I filosofi greci sono dei briganti e dei ladri, perché prima della venuta del Signore hanno preso dai profeti ebrei delle parti della verità senza piena intelligenza, appropriandosene come dottrine proprie”. (Stromata I, 17)
Citando Aristobulo, scrive: “Platone ha imitato la nostra legislazione ed è evidente che ha studiato ciascuna delle cose che vi sono scritte; pure Pitagora ha trasferito molte cose provenienti da noi nella sua dottrina”. Cita anche Filone e menziona Numenio che dice: “Che cos’è Platone se non un Mosè che parla greco?” (Stromata I, 22, 150, 4)

Con ciò vuol dire che il contenuto della filosofia greca non è originale; è venuto dai barbari e innanzitutto da Mosè, ma i filosofi ellenici “l’hanno adattato con parole greche”. In questo modo, osserva Daniélou, l’impresa di Platone non è tanto diversa da quella di Filone: è già una presentazione della legge di Mosè al mondo greco, ma è una presentazione illegale e mutila. I limiti dell’impresa dei filosofi sono per Clemente, il carattere parziale, la deformazione del pensiero e la volontà di appropriazione. (DANIÉLOU, 81) “La vita intera non sarebbe sufficiente a smascherare integralmente il ladrocinio greco e il modo con cui essi hanno fatto propria la scoperta delle loro dottrine più belle, dopo averle prese da noi”. (Stromata VI, 2)
“Le dottrine più belle sono quelle che anticipano la rivelazione: Tutte le nazioni, di qualunque parte del mondo siano, e tutti gli uomini, a qualunque condizione appartengano, hanno una stessa e unica prenozione (prolepsis) di colui che ha stabilito l’autorità, se è vero che le più universali delle sue operazioni si estendono ugualmente a tutti. Ma i ricercatori della Grecia, partendo dalla filosofia barbara, sono andati molto più lontano: hanno dato la preminenza all’invisibile, all’unico, al
più potente, al più attivo e al principale tra ciò che è più bello. Ora, essi non avrebbero conosciuto la conseguenza di queste cose, se non le avessero intese da noi. (Stromata V, 14.)
Il Daniélou fa notare come il “ladrocinio” dei Greci venga definito da Clemente come un filautón klopén, un plagio ingrato.

A. MUSONI, “La pedagogie du Logos. Esquisse d’une théologie de l’histoire chez Clément d’Alexanrie”, in F.J. MAPWAR, A. KABASELE, M. W. LIBAMBU (eds.), Histoire du Christianisme en Afrique. Evangelisation et recontre des cultures – Mélanges offerts au Professeur Abbé Pierre Mukuna Mutanda, Revue Africane de Théologie 32/63–64 (2010), 19–36, qui 22.

Si noti l’aggettivo filautós. In effetti, la gravità del furto non viene dal plagio stesso, ma dal fatto che esso non è riconosciuto. Di colpo, una verità che in realtà viene da Dio i filosofi la dichiarano venuta da loro stessi. Ora, tale è precisamente l’essenziale della filautía, per la quale l’uomo si appropria di ciò che viene da Dio, e che è il contrario della euxaristía. Questa opposizione occupa un gran posto in Filone; forse è da lui che Clemente la riprende. La “vera filosofia risale a Dio e deve essergli attribuita. Ma l’ingratitudine dei Greci proclama dei maestri umani” (Stromata V, 1, 7, 58, 3). Al di là dell’ingratitudine nei confronti di Dio, dal quale veniva la dottrina dei Giudei. Per questo, il compito di Clemente è di provare ai Greci che essi hanno rubato alcune verità, al fine di spogliarsi della loro ingratitudine. (DANIÉLOU, 87–88)
Origene riprende la dottrina dei ‘furta Graecorum’, facendo derivare le parti della filosofia, dell’etica, della fisica, dai libri dell’Antico Testamento attribuiti a Salomone, Proverbi, Siracide, Cantico dei Cantici, e soprattutto riporta la capacità che ogni uomo ha di conoscere, almeno in parte, la verità alla partecipazione di ognuno, in quanto dotato di ragione, a Cristo Logos, principio universale di razionalità.

ORIGENE, De Principiis I, 3 (PG 11). Cfr. I. SANNA, “L’argomento apologetico Furta Graecorum”, in Problemi attuali di filosofia, teologia, diritto, Studia Lateranensia 1 (1989), 119–143.

Ma la filosofia in parte è d’accordo in parte è in disaccordo con la rivelazione di Dio, così che se non ne usiamo in modo poco prudente si corre il rischio di cadere nell’ eresia. (ORIGENE, Homilia in Genesim 14, 3 – PG 11) Tuttavia è interessante notare che, proprio in questo testo, Origene giustifica l’utilizzazione della filosofia greca da parte dei cristiani, con l’allegoria dell’ episodio dell’ Esodo che racconta come gli Israeliti, abbandonando l’Egitto, avessero portato con sé l’oro e l’argento che avevano sottratto agli Egiziani: come quelli si servivano del materiale sottratto agli Egiziani per preparare gli oggetti per il servizio divino, così i cristiani si
servono della sapienza pagana per approfondire la loro conoscenza di Dio, in
quanto le scienze dei Greci possono introdurre allo studio delle Sacre Scritture:
Io mi augurerei che tu prendessi dalla filosofia dei Greci quelle che possono diventare – per così dire – discipline generali e propedeutiche per il cristianesimo, e anche dalla geometria, come dall’astronomia, le nozioni che potranno essere utili all’interpretazione delle Sacre Scritture. (ORIGENE, Epistola ad Gregorium 1 – PG 11)

3.3. Il principio dell’antichità
Dalla lettura dei testi che sono stati riportati, si ricava facilmente che l’argomentazione di Giustino e degli altri apologisti nel denunciare il “furto dei
Greci”, definito anche prestito o plagio, riposa essenzialmente sulla cronologia.
Anche Clemente Alessandrino fonda la sua tesi sulla dimostrazione cronologica: “Si mostrerà in modo incontestabile che la filosofia degli Ebrei è la più antica di tute le sapienze”; “È dimostrato che Mosè è il più antico non soltanto di coloro che si chiamano sapienti e poeti della Grecia, ma pure della maggior parte degli dèi”. (Stromata I, 21)
Gli autori biblici sono più antichi dei filosofi greci e l’antichità è assunta
come criterio di verità. Ciò è proprio dello spirito di un’epoca di crisi filosofica,
dove si crede più alla rivelazione che alla ragione e si affida il destino della
propria salvezza alle rivelazioni apocalittiche dei saggi antichi, quali Enoch o
Lamech in ambienti giudaici, o Ermes Trismegisto e la Sibilla in ambiente
ellenistico.

Ora, il principio dell’autorità, sul quale si basa la teoria del ‘furto dei Greci’, porta alla conseguenza che ciò che è più antico è più vero. È un principio di autorità, derivato dalla rivelazione e dall’antichità di questa rivelazione. È vero ciò che è rivelato, ciò che è autorevole. Chi lo ha detto prima prevale su chi lo ha detto bene e lo dice sempre. L’autorità degli antichi viene prima della forza della ragione e l’autentica filosofia, quella che oltrepassa le nozioni comuni, riposa essenzialmente sull’ autorità di Dio, mentre le opinioni dei dottori di questo mondo riposano su delle autorità del tutto umane. E si arriva così all’idea di una rivelazione primitiva. Scrisse Clemente Alessandrino: Se vi è insegnamento è necessario che vi sia un maestro. Clemente riconosce Zenone, Teofrasto Aristotele e Platone Socrate. Ma se risalgo a Pitagora, a Ferecide, a Talete e ai primi sapienti io non smetto di cercare
il maestro di costoro. E se tu dici che sono gli Egiziani, gli Indiani, i Babilonesi e i Magi stessi, non smetterò di invocare il maestro di questi: così faccio risalire sino alla creazione dell’uomo. E lì ricomincio a cercare chi è il Maestro: non è uomo, perché non sono ancora stati istruiti; non è neppure un angelo: abbiamo appreso infatti che gli angeli stessi sono stati istruiti sulla verità. Resta essendo noi stati elevati al di sopra di noi stessi, di desiderare il maestro di costoro. (Stromata VI, 7)
Il fatto che Giustino, con il rimprovero ai Greci di aver plagiato la rivelazione cristiana, si metta a difesa della tradizione, dell’antichità, porta un autore come R. Holte a sostenere che non sia affatto documentabile l’opinione comune secondo cui Giustino ha cercato di riconciliare il cristianesimo con la filosofia antica o persino di creare una sintesi di entrambi.

HOLTE, 164: “The view that Justin has tried to reconcile Christianity with ancient philosophy or even to create a synthesis between them is indeed ill-supported by the material. He appears throughout as a theological traditionalist. The Logos spermatikos theory, terminologically an innovation, is nothing but an attempt to translate St. Paul’s doctrine on natural revelation, to the language of contemporary philosophy. This theory does not contradict the loan and demon theories, but all this serves the common purpose of presenting Christianity as the sole bearer of the whole and complete truth.” Diversa è l’opinione di Cantalamessa che scrive: “Giustino ha formulato con parecchio anticipo l’idea di un cristianesimo anonimo, o implicito, di cui si discute tanto animatamente ai nostri giorni. Senza integralismi di sorta, lasciando alla cultura greca il suo carattere profano, e contestandone anzi le insufficienze e le contraddizioni, egli ha trovato il modo di orientarli a Cristo, fondando razionalmente la pretesa di universalità della religione cristiana. Se l’Antico Testamento tende a Cristo come la figura (typos) tende, per dinamismo intrinseco, alla propria realizzazione (aletheia), dal canto suo la verità greca tende anch’essa a Cristo e al Vangelo, come la parte (meros) tende a riunirsi a tutto. Ecco perché essa non può opporsi alla verità evangelica e i cristiani possono attingervi con confidenza, come a un bene proprio.” Quanto fu detto di vero da chiunque appartiene a noi cristiani: questo principio non significa che tale vero è sottratto ai
pagani che ne sono i legittimi e fieri proprietari, ma semplicemente che ai cristiani è lecito attingervi. Non è dunque un tentativo di sequestro indebito di valori laici. Giustino non fa che tradurre sul piano culturale il detto di san Paolo: Tutto è vostro, perché voi siete di Cristo.” Cfr. R. CANTALAMESSA, Cristianesimo e valori terreni, Milano, 1978, 152–153.

Di fatto, Giustino, secondo Holte, sarebbe un teologo tradizionalista. La teoria del Logos spermatikós, una innovazione dal punto di vista terminologico, è nient’altro che un tentativo di tradurre la dottrina di san Paolo sulla rivelazione naturale in un linguaggio della filosofia contemporanea. Questa teoria non contraddice quelle del prestito e del demonio; ma tutte e tre le teorie servono il comune intento di presentare il cristianesimo come la sola depositaria della piena e totale verità.
La teoria del Logos spermatikós, sempre secondo Holte, non mira a dare un carattere di rivelazione ai sistemi religiosi o filosofici nella loro interezza.
Essa, di fatto, è limitata strettamente ad alcune concezioni, come per esempio talune concezioni di Dio, la falsità dell’idolatria, e anche talune concezioni morali di base. Giustino, perciò, non può essere indicato come colui che estese essenzialmente il contenute della concezione di san Paolo sulla rivelazione naturale.
La discussione sulla teoria del prestito è introdotta per spiegare le verità che non rientrano nella categoria delle concezioni poco prima menzionate.
Harnack sostiene che, in base a quanto Giustino scrive nella sua prima Apologia, tutte le verità in filosofia sono assolutamente riferite alla teoria dei prestiti. (A. von HARNACK, Lehrbuch der Dogmengeschichte I, Tübingen, 1909, 511)

Ma, se questo fosse vero, osserva dal suo canto Holte, non si potrebbe più sostenere la teoria del Logos spermatikós. Se d’altra parte si esamina il contesto generale dell’ Apologia di Giustino, si vede che il termine panta non ha questo significato così esaustivo. Giustino infatti specifica molto accuratamente le specie di dottrine alle quali si riferisce, e non menziona la falsità dell’idolatria e le concezioni morali di base: E tutto ciò che dissero i filosofi o i poeti circa l’immortalità dell’anima o le pene successive alla morte o alla contemplazione delle cose celesti o circa simili verità, hanno potuto pensarlo e hanno potuto esprimerlo,
poiché ne hanno derivato il principio della rivelazione. E’ in questo contesto che Giustino parla di “semi di verità”, ma con un’aggiunta molto importante: dokéin éinai, “sembra” che ci siano dei semi della verità in mezzo a tutte quelle. In realtà, i filosofi non hanno capito ciò che hanno letto e perciò anche in questo caso essi si sono contraddetti a vicenda.
La conclusione cui giunge Holte è questa: si può affermare che la concezione di Giustino sia che la teoria dei prestiti spiega l’origine solamente di verità simili o analoghe (analoghe alla dottrina cristiana), anche se la distinzione non può arrivare sino al punto di attribuire queste verità all’influsso del demonio.

HOLTE, 64: “from this it appears to be Justin’s view that the loan theory explains the origin of the seeming truths only (similarities to the Christian doctrines) although the distortion is not here of such a degree that it must be attributed to demons”.

Non si deve dimenticare, d’altra parte, la critica aspra di Giustino, nel Dialogo con Trifone, della versione platonica delle dottrine che sono state prese in considerazione: non accetta affatto la concezione platonica dell’immortalità dell’anima, non ammette che ci sia una punizione dopo la morte nella forma di metempsicosi. Infine, egli non accetta la contemplazione delle idee celesti, quando queste possono essere attinte con la capacità della ragione naturale. Daniélou condivide fondamentalmente questa interpretazione di Holte, secondo la quale, in ultima analisi, la ragione non farebbe conoscere che i principi del bene e del male e la falsità delle idolatrie, mentre i prestiti o i furti farebbero conoscere le dottrine più precise. Fa notare come Giustino, a tale riguardo, nomina Socrate in riferimento alla partecipazione del Logos, e Platone a proposito dei prestiti. Osserva, però, che “le formule sono assai generali e permettono di ammettere pure una duplice fonte per le stesse verità”. Giustino da una parte scrive: “tutti i principi giusti che i filosofi e i legislatori hanno espresso e scoperto, essi li debbono al fatto di aver conosciuto e contemplato parzialmente il Verbo” (Apologia II, X, 2.); e dall’altra: tutto ciò che i filosofi e i poeti hanno detto dell’immortalità dell’anima, dei castighi che seguono la morte, della contemplazione delle cose celesti e altre dottrine simili, essi ne hanno ricevuto i principi dai profeti. Presso tutti si trovano dei semi di verità. (Apologia I, 44). A parziale supporto di una collocazione di Giustino tra i teologi
tradizionalisti, si può portare anche la polemica di Celso contro il cristianesimo.
Gli argomenti della polemica di Celso sono intelligibili solo se considerati
come risposte all’apologetica di Giustino.

J. C. M. van WINDEN, “Le Christianisme et la philosophie. Le commencement du dialogue entre la foi et la raion”, in Kiriakón (Festschrift Johannes Quasten), I., Münster, 1970, 205–213. Per l’opera di Celso cfr. G. LANATA, prefazione a Il discorso vero, Milano, 1987, 27–28: “Celso avverte acutamente nei cristiani quella volontà di penetrazione della società pagana che avrebbe suggerito un paio di decenni dopo a Tertulliano l’affermazione trionfalistica: hesterni sumus et omnia vestra occupavimus, siamo nati ieri e ci siamo appropriati di tutti i vostri beni (Apologetico 37, 4) […] I cristiani pretendevano di sostituirsi a tutta la tradizione, sia a quella giudaica da cui provenivano, sia a quella ellenistica in cui si stavano installando; e al contempo si appropriavano, in modo distorto e contraffatto, di tutto il meglio che il passato poteva offrire, tentavano di rivendicare al cristianesimo l’intero patrimonio della tradizione giudaica e di quella ellenistica. È questo che suscita lo sdegno di Celso … Giustino per costruire la propria teologia della storia non aveva già usato gli identici passi cruciali del Timeo e della Lettera VII di Platone, su cui Celso, con tutto il medioplatonismo fondava la propria concezione della trascendenza di Dio? Essere spossessati dei valori della propria tradizione da un avversario che li snatura e in più ostenta una oltraggiosa superiorità è intollerabile.”

4. Conclusione
L’argomento dei ‘furta Graecorum’ è stato dunque, uno dei primi tentativi di inglobare la cultura pagana nella cultura cristiana, di spogliare d’ogni contenuto di originalità e validità la cultura pagana e di riservare invece esclusivamente alla cultura cristiana ogni originalità e ogni valore. Se qualcosa di valido e di buono e di bello sussiste all’interno delle tradizioni culturali pagane, questo è dovuto non ai valori insiti in quelle tradizioni, ma al fatto che quei valori sono cristiani. E precisamente sono valori cristiani “imprestati” o “rubati”. Il tentativo di risolvere il problema del rapporto cultura cristiana – cultura pagana in una specie di reductio ad unum mediante l’argomento dell’antichità, in base al quale i valori cristiani esistono prima dei valori pagani e perciò sono fondanti nei confronti di questi secondi è infelice. Chi si sforza, ancora oggi, per altre vie e con altre argomentazioni, di ripetere un’impresa analoga a quella degli apologeti, nell’intento di voler giustificare una cultura da cristiani, non può non incorrere nelle stesse aporie. In effetti, Giustino ha iniziato e Clemente ha sviluppato un atteggiamento di dialogo e di grande apertura nei confronti della cultura greca del loro tempo. L’atteggiamento di dialogo non era condiviso unanimemente da tutti i cristiani. C’erano coloro che “avevano paura di essere turbati nella loro fede e preferivano turarsi le orecchie per non udire le sirene.” (Stromata VI, 11)

Altri temevano la filosofia greca come i fanciulli l’orco, avendo paura di essere rapiti da essa. (Stromata V, 10). Altri ancora asserivano che bisogna attenersi alle cose necessarie e che riguardano la fede, e passar sopra alle cose strane e superflue, che ci affaticano inutilmente e trattengono in occupazioni che non riguardano per nulla la fede; la filosofia è stata introdotta nella vita da qualche cattivo inventore per nuocere agli uomini (Stromata I, 1). Altri, infine, “credendosi dotati di tutti i doni, giudicavano buona cosa non toccare la filosofia, o la dialettica, e neppure istruirsi sulla fisica, ma rivendicavano la fede, sola e pura” (Stromata I, 9).
Clemente Alessandrino tiene conto di tutti questi avversari che per “pusillanimità” o “ignoranza” rifiutano la cultura pagana e in modo particolare la filosofia greca. E si adopera a dimostrare che la filosofia è un aiuto a precisare il contenuto della fede e a evitare l’eresia. Il dato della fede ha bisogno di essere interpretato: “La delucidazione coopera con la tradizione della verità e la dialettica aiuta a non cadere nelle eresie che sopravvengono.” (Stromata I, 20)
Indubbiamente l’insegnamento di Gesù è totale e sufficiente, perché è potenza e
sapienza di Dio; la filosofia greca, aggiungendovi, non rende la verità più forte, ma rendendo impossibile l’assalto della sofistica contro di essa e respingendo gli attacchi insidiosi contro la verità, può essere chiamata giustamente una siepe e un muro della vigna. (Stromata I, 20)
La cultura greca e in modo particolare la filosofia sono state viste come propedeutiche alla fede, quasi come una specie di Antico Testamento per i Greci (Stromata I, 5). “I cristiani sono i filosofi di oggi e i filosofi erano i cristiani d’altri
tempi”, arriva a dire Minucio Felice (MINUCIO FELICE, Octavius 20, 1 – PL 3). Ma è indubitabile che in ogni pensatore cristiano di questi tempi convivono come due anime: quella cristiana piena di riserve verso una cultura tutta permeata di ideologia pagana e quella greca che ne è soggiogata e che sente di non poterne fare a meno.

È interessante rilevare l’atteggiamento dialettico del “sì, ma”, che san Basilio applicava già alla semplice lettura degli autori pagani, in Agli adolescenti, sulla lettura dei libri di autori pagani, PG 31, 563–590.

In definitiva un vero caso di coscienza per la Chiesa: un problema insoluto, almeno a livello teorico, fino ad Agostino. Una volta ammesso il valore positivo della paideia greca, incombeva a questi autori l’onere di una giustificazione della cultura. Ora, la giustificazione non consiste nel “funzionalizzare” la cultura alla fede, sia dal punto di vista apologetico che di quello sistematico, né nella “strumentalizzazione” di questa cultura per trasmettere il cristianesimo, “per rafforzare la fede con il ragionamento, partendo dalle nozioni comuni elaborate dalla filosofia greca.” (De Principiis 1, 7. Cfr. W. JAEGER, Cristianesimo primitivo e paideia greca, Firenze, 1966.)

Consiste nel riconoscere e accettare la cultura in quanto tale, come creatura che è buona in se stessa, secondo il giudizio di Dio Creatore: ‘e vide che era buono’. La bontà è nell’essenza delle cose e non nella loro finalizzazione o utilizzazione.
La fede nella creazione è ottimista, perché include nella sua logica la speranza nella consumazione. Se Cristo è il fine unico di tutto il creato, tutto è redimibile e salvabile. Respingendo il dualismo quanto all’origine e quanto alla fine (non vi sono né due principi né due fini), la Scrittura stabilisce virtualmente che l’ordine della grazia e della verità (Gv 1, 14), nella vita in pienezza di Cristo risorto, senza che ciò naturalmente equivalga all’identificazione pura e semplice della natura con la grazia, del profano e del sacro, del progresso e del regno di Dio.




P. John ROMANIDES: DIO E IL MONDO

da: Conoscere nel non conoscere, edizioni Asterios

  1. Relazioni tra Dio e il mondo

Per conoscere  il metodo usato dai padri nell’accostarsi al dogma trinitario e cristologico, dovremo esaminare la relazione esistente fra Dio ed il mondo secondo i profeti, gli apostoli e i santi. Nella concezione platonica, il mondo è una copia delle Idee archetipiche immutabili. Concezione, questa, che sant’Agostino ha fatto propria, come, altresì, tutti i teologi francolatini che su di lui si sono basati. Essa ha avuto ripercussioni sull’intero processo di formazione della teologia romanocattolica, la quale si andava via via distanziando dalla linea di pensiero biblica e patristica. Oggi, con le nuove visioni filosofiche tali teorie vacillano ab imis; in particolare, con la comparsa tanto della teoria darwiniana dell'”evoluzione” quanto dalla fìlosofia esistenzialistica e positivistica, l’occidente si trova innanzi a grandi rivolgimenti.

I padri della chiesa, nel fare teologia ovvero nel fondarsi unicamente sulla sacra Scrittura intesa come tradizione, hanno espresso un insegnamento del tutto differente in ordine alla relazione tra Dio e il mondo. Per capire tale insegnamento bisogna conoscere:

a) la differenza fra “creato” e “increato”;

b) la distinzione fra “essenza” ed “atto” in Dio;

c) l’insegnamento dei padri riguardo al mondo.

2. Distinzione tra “creato” e “increato”. Come la conosciamo? A partire da dove?

Vi è differenza fra “creato” e “increato”1. La qualifica di “creato” è attribuita alle creature, mentre quella di “increato” a Dio. Tale distinzione è stata operata non solo dai padri della chiesa, ma dagli eretici stessi, quali Ario e compagni. Si tratta di una

distinzione basilare, perché, in quanto creatura, l’uomo non può conoscere il creatore, cioè Dio, che è “increato”. Il tentativo dell’uomo di conoscere Dio mediante il proprio intelletto creato sfocia nell’idolatria. Questa distinzione, tuttavia, ingenera la domanda: Come può, quindi, l’uomo conoscere Dio? La risposta, nel nostro caso, verrà data dalla distinzione, in Dio, fra “essenza” ed “atto”‘.

3. Distinzione fra “essenza” ed “atto” in Dio

È noto che l’essenza di Dio è impartecipabile da parte dell’uomo. I padri, seguendo i profeti, conoscono «Ciò che inerisce all’essenza (tò perì tén ousìan)» ma non l’essenza stessa. La distinzione fra essenza ed atto in Dio è una distinzione non della filosofia ma della rivelazione, ed è presente nella sacra Scrittura e nell’intera tradizione patristica greca e latina.

Gregorio Palamas osserva che Barlaam avrebbe dovuto far propria una tale distinzione, perché Ario medesimo la approvava. In oriente, soltanto gli eunomiani non l’accettavano. Nella teologia francolatina questa distinzione non esiste. Sant’Agostino stesso non pare ammetterla”. Parlando della processione dello

Spirito santo, egli fa una confusione evidente fra essenza ed atto in Dio. L’identificazione di essenza e di atto che riscontriamo in occidente ha condotto i teologi di quell’area a esprimere il pensiero che Dio è “atto puro”. L’espressione del suddetto pensiero si deve anche agli altri presupposti filosofici di Agostino: la sua convinzione, ad esempio, circa la conoscibilità dell’essenza divina.

La distinzione, tuttavia, fra essenza ed atto in Dio ci aiuta a comprendere la creazione del mondo dal nulla. I filosofi aristotelici di Antiochia, che si opponevano alla nozione cristiana della “perfezione” di Dio, avanzavano i seguenti argomenti contro il dogma cristiano della creazione dal nulla. Dio, prima della creazione, deve essere stato “in potenza” creatore e, al momento della creazione, deve essere diventato “in atto” creatore. Dio è quindi mutabile e, conseguentemente, “imperfetto”, diventando gli “perfetto” attraverso la creazione. Tale argomentazione viene confutata da alcuni scritti attribuiti a Giustino martire, nei quali si dice che Dio non ha creato il mondo per essenza ma per atto. L’essenza e l’atto non si identificano, ma si distinguono. Ciò significa che Dio crea ciò che vuole, quando vuole, senza intaccare la sua essenza, perché essa rimane intatta e immutabile. La decisione, pertanto, di Dio in ordine

alla creazione del mondo non è riferibile all’essenza di Dio ma alla sua volontà.  E il fatto che avvenga per volontà significa che Dio non ha con il mondo una relazione per necessità. Né egli passa dall’”essere in potenza” all”‘essere in atto”, dato che Dio non crea il mondo per essenza, ma per atto e per volontà. Le relazioni, quindi, di Dio con il mondo sono relazioni non per essenza ma relazioni per atto. Tali atti, poi, di Dio sono increati, in quanto potenze naturali ed eterne di Dio. Di conseguenza, Dio comunica con il creato unicamente mediante gli atti increati e fa lo stesso con l’uomo. Ciò che dunque hanno visto i profeti, Mosè, gli apostoli e i santi della chiesa non è l’essenza di Dio, ma la gloria increata, l’atto naturale increato, la grazia increata e il Suo regno increato. A tale proposito sant’Agostino – già lo abbiamo detto – era di avviso diverso. Come è noto, egli è stato condotto al battesimo dall’idea del credo ut intellegam (“credo per capire”), pensando che, dopo il battesimo, con l’aiuto dell’intelletto, avrebbe potuto comprendere i dogmi della fede, spiegarli con la facoltà razionale e conoscere l’essenza di Dio. L’insegnamento patristico, tuttavia, su questo punto è diverso. Il catecumeno riceve, con il battesimo, la caparra dello Spirito. Al battesimo seguono le nozze, con il cammino di progressiva ascesa verso la perfezione e con la partecipazione alla grazia di Dio, che è increata, come pure agli altri atti che ineriscono a Dio. In tal modo, secondo l’insegnamento della chiesa, l’uomo è deificato e diventa amico di Dio per grazia divina e per atto divino, e non partecipando all’essenza divina, fatto, questo, che porterebbe al panteismo, come ognuno può facilmente intendere. La distinzione, pertanto, fra essenza ed atto in Dio;

la partecipazione dell’uomo agli atti increati di Dio e la sua divinizzazione; la relazione di Dio con le creature mediante gli atti increati: costituiscono dottrine basilari della nostra chiesa.

4. Descrizione generale dell’insegnamento della chiesa sul mondo

Da quanto si è detto fin qui si capisce che il mondo attuale non è una copia di un altro mondo, ma è unico. La sua concezione e la sua creazione hanno a che vedere con l’atto di Dio. Dio, cioè, ha concepito il mondo per atto o per volontà; egli non possiede idee, quali figure o altre forme e specie, nel proprio intelletto. Quest’unico mondo è il mondo in sé stesso perfetto, in un processo di perfezione … L’uomo è stato creato relativamente perfetto, per attingere la perfezione; egli ne attraversa gli stadi: è, cioè, perfetto come un neonato, come un bambino, come un adolescente, ecc. Proviene, inoltre, dal nulla e non da Dio, ma per volontà di Dio. Scopo della creazione del mondo, secondo alcuni padri, è l’incarnazione, che non dipende dalla caduta ma costituisce parte del piano della creazione del mondo. Altri padri vedono nella caduta la causa dell’incarnazione. Movente, poi, della creazione è l’amore di Dio, amore che «non cerca il proprio interesse» (1Cor 13, 5).

L’uomo è creato da Dio, secondo i padri, come un fanciullo, ovvero come perfetto in potenza, con la possibilità di svilupparsi e di perfezionarsi ulteriormente “. La caduta pone nella sua redenzione lo scopo dell’incarnazione. Agostino qui ha una visione differente. L’uomo, dice, è stato creato da Dio perfetto sotto ogni aspetto. Il mondo si distingue in materiale e spirituale. Quello spirituale è costituito dagli angeli, i quali non erano per natura immortali”, ma lo sono diventati attraverso l’ascesa spirituale alla perfezione, come lo diventano gli uomini. Quando parliamo di immortalità, intendiamo la divinizzazione. Il mondo, dunque, è l’effetto degli atti increati di Dio e non della sua essenza; e la relazione di Dio con il mondo è una relazione per atto e non una relazione per essenza.